La concorrenza è sleale o più efficiente? È questione di distruzione creativa

James Taggart, Il presidente di una compagnia ferroviaria discute con uno dei suoi dipendenti, Eddie Wilers, il quale gli fa notare che il loro servizio è pessimo da mesi e che stanno perdendo tutti i loro clienti:

«Jim! Non capisci che la nostra linea, la Rio Norte Line, sta andando in rovina, che qualcuno ci biasimi o no?»

«La gente la userebbe, sarebbe costretta a usarla… se non fosse per la Phoenix–Durango.»

Vide il viso di Eddie irrigidirsi. Continuò: «Nessuno si è mai lamentato della Rio Norte Line, finché non è venuta in campo la Phoenix–Durango!»

«La Phoenix–Durango sta facendo un magnifico lavoro.»

«Immagina, una cosa che si chiama Phoenix–Durango che fa concorrenza alla Taggart Transcontinental! Non era che una linea locale adibita al trasporto del latte, dieci anni fa.»

«Ora, però, ha ottenuto la maggior parte dei trasporti dell’Arizona, del Nuovo Messico e del Colorado.»

Dopo questo breve estratto del discorso fra Eddie e James dal romanzo La Rivolta di Atlante di Ayn Rand, mi viene in mente un solo concetto: la Distruzione Creativa di Schumpeter, ovvero l’innovazione che permette di produrre nuovi beni, offrire migliori servizi, aprire nuovi mercati, il tutto magari a costi ancora più convenienti.

Sì, le aziende che non si innovano vengono “distrutte”. E cosa c’è di male? Abbiamo visto tutti la fine della grandiosa Olivetti, l’impero industriale che ha influito sul mercato mondiale con i suoi prodotti, la stessa Olivetti che è passata da 26’000 dipendenti alla fine degli anni ’90 ad oggi con poco più di 500. La domanda e l’offerta si evolvono nel tempo, non è possibile rimanere ancorati al passato se si vuole guardare al futuro, anche con la propria azienda.

Ma allora perché questa distruzione è creativa? Perché la società si sviluppa, avanza tecnologicamente e nuove aziende con prodotti e servizi più adatti o migliori sostituiscono le aziende precedenti.

La situazione che permette tutto ciò è la concorrenza. Perché?
Un albero che è da solo nel campo cresce storto e spande lontano i suoi rami, mentre un albero che è in mezzo al bosco, con l’opposizione degli alberi vicini cresce dritto e cerca l’aria e il sole sopra di sé” (Immanuel Kant, Lezione sulla Pedagogia)

La concorrenza è il fulcro della sopravvivenza e dell’autodeterminazione, è la capacità di migliorare e migliorarsi per non rimanere indietro; è anche possibile fare una’analogia con l’eros platonico, la forza che permette al mondo di andare avanti e di evolversi. Si potrebbe anche dire che l’Individuo ha la tendenza a competere con la propria persona, per superarsi e migliorarsi, ma andrei in un altro, bellissimo ambito.

In sostanza, è sleale che qualcuno dia il meglio di sé, quando le regole sono le stesse per tutti? No, tutt’altro: è sbagliato fermarsi ed aspettarsi che la situazione diventi statica una volta arrivati al vertice. Bill Gates non sarebbe il primo nella lista di Forbes da lustri se non avesse saputo innovarsi, ma James Taggart -come milioni di persone nel nostro paese- era obnubilato da quella mentalità che non consente di vedere oltre il proprio naso, quella mentalità che preferisce preservare l’ordine anziché sovvertirlo per esaudire i propri sogni e al contempo migliorare la società.

L’ipocrisia dell’Europa verso il Sahara Occidentale

Con la risoluzione dell’ONU n.1542 del 1960 il Sahara Occidentale fu inserito nella lista dei territori “non autonomi” dall’assemblea generale. Il territorio era posto sotto il controllo del comitato di decolonizzazione delle Nazioni Unite, dopo che dal 1885 fu colonia del regno di Spagna.

14 anni dopo, nel 1974 con la risoluzione n. 3292 l’Assemblea Generale, in risposta alle rivalse del Marocco e della Mauritania, pose il quesito se il Sahara Occidentale potesse considerarsi “terra nullius” o da annettere al Marocco oppure alla Mauritania. La Corte, effettuate le dovute verifiche, stabilì che avrebbe dovuto proseguire il processo di decolonizzazione e che questo sarebbe dovuto sfociare nel compimento del diritto di autodeterminazione del popolo Sahrawi.

Nel 1975, in seguito alla “marcia verde” condotta da cittadini marocchini (qualche migliaio) che fu di fatto un’invasione, seppur pacifica, gli spagnoli abbandonarono definitivamente il territorio che venne spartito con gli accordi di Madrid, tra Marocco e Mauritania.
In seguito, in ottemperanza al diritto internazionale, i mauritani nel 1979 lasciarono i territori occupati mentre i marocchini non solo continuarono l’occupazione, ma condussero forti attacchi contro il fronte polisario (popolo saharawi) con l’uso, tra le altre, di armi al fosforo.

Dal 1991 l’ONU istituì la missione MINURSO, tutt’ora in corso, il cui end state sarebbe dovuto essere il referendum per l’autodeterminazione del popolo sahrawi. Nello stesso anno il Marocco, costruì un muro di 2000 km, che tutt’ora divide longitudinalmente il sahara occidentale, mantenendo l’occupazione della parte est.

Al momento 82 stati riconosco quella marocchina come occupazione (tutti gli stati africani, l’America latina e in Europa la sola Albania). L’Unione Europea e l’ONU non riconoscono la Repubblica Saharawi ma riconoscono  che la sovranità del Marocco sia indebita. A queste si aggiungono la lega araba e la maggior parte della comunità internazionale, ma solo gli stati che riconoscono il fronte polisario come unico rappresentante legittimo del Sahara Occidentale gli riconoscono lo status di governo in esilio.

 L’autodeterminazione del sahara occidentale è quindi, in base al diritto internazionale, espressamente riconosciuta. L’ultima battaglia, a favore del popolo sahrawi, è stata il 10 dicembre 2015, giorno in cui la Corte di Giustizia dell’Unione Europea, ha annullato l’accordo commerciale di libero scambio tra Marocco e UE, in quanto lo stato nordafricano, scambiava merci frutto del territorio occupato, che di fatto non può essere riconosciuto come Marocco e violava quindi i diritti del popolo autoctono. La Corte ha quindi riconosciuto totale illegittimità alla sovranità marocchina in quelle terre, considerando illegale l’occupazione e lo sfruttamento del territorio.

Come mai in tutto questo tempo nessuno ha imposto realmente al Marocco di abbandonare i territori? Come mai l’UE da una parte riconosce l’occupazione e dall’altra il suo parlamento vota per accordi commerciali con il Marocco in cui non è specificato che le merci non devono provenire dal sahara occidentale? Perché se ci sono dal 1991 forze ONU sul terreno con lo scopo di giungere al referendum per l’autodeterminazione, questo ancora non si è tenuto?

Non entro nei dettagli ma è solo ed esclusivamente una questione economica. Ricordiamo che la Francia è membro permanente del consiglio di sicurezza e ha diritto di veto su tutti i provvedimenti proposti. Quest’ultimo è il problema più grande. La Francia, comunque, non è la sola ad avere interessi economici in quei territori, ne hanno di importanti anche Spagna e Germania. E l’Italia? Beh l’Italia come spesso accade non si schiera, si conforma al resto dell’Unione (a trazione guarda caso franco-tedesca).

Vien amaramente da sorridere, a pensare che non ci si soffermi molto a prendere in mano situazioni molto meno gravi e invece una violazione del diritto internazionale e dei diritti umani che si perverta da decenni come la questione del western sahara, venga lasciata nella totale noncuranza, o meglio, vi si pone un finto interesse ipocrita.

La coscienza del limite: rispettare la libertà del prossimo

La libertà è una caratteristica dell’individuo, non può essere sacrificata in nome di un bene superiore e comune.
La libertà di un uomo finisce dove inizia quella di un altro.

Un individuo ha la propria volontà, il proprio carattere, i propri gusti, le proprie inclinazioni, in base a ciò egli prende coscienza del proprio io e plasma la sua persona. Ognuno ha il diritto e il dovere di autodeterminare la propria vita. Corollario di questo ragionamento è che nessuno può imporre a un altro la propria volontà, sacrificando i desideri del prossimo in nome di un bene comune. L’abuso della libertà altrui condanna il prossimo all’infelicità, nonostante si abbiano buone intenzioni, nonostante lo si faccia “per il suo bene”.

Tutto bello in teoria, ma nella pratica l’applicazione è difficile. Per comprendere a fondo il concetto meglio tenere da parte per un attimo i discorsi filosofici, ci si deve concentrare invece sulle piccole situazioni che accadono nella vita di tutti i giorni.

L’esempio più banale e più profondo è l’amore.

L’innamorato, libero di provare un nobile sentimento per un’altra persona (ovviamente senza distinzione di sesso, razza, religione ecc.), deve farsi avanti e deve affrontare il sacrosanto limite della libertà dell’amato. Quest’ultimo ha di fronte una scelta da compiere, o accettare il sentimento dell’altro o rifiutarlo.
Se accade la prima cosa, ci sono le basi per costruire un tipo di relazione che vada oltre il “libero scambio”, la quale comporta anche dei sacrifici, che per essere tali, cioè “sacri” come da origine latina del termine, devono essere volontari.

La grande sfida è comportarsi da signori di fronte al rifiuto.

Se veramente si ama il prossimo, si accetta il rifiuto, si dà prova di intelligenza e umanità in quanto si dimostra di mettere davanti al proprio egoismo, la volontà, i gusti e la libertà della persona amata. Ciò che succede dopo, è affare personale dei due individui. Così si sceglie di essere felici, accettando la realtà e permettendo alla persona amata di costruire liberamente la propria vita. Si accetta che la libertà umana ha pari dignità, senza alcuna distinzione tra individui.

Se invece prevale la parte egoistica, inizia una vera e propria persecuzione nei confronti del prossimo, che da quel momento non può definirsi “amato”. Si attua una coercizione della libertà altrui, sacrificandola per il “bene superiore”, cioè l’amore che dovrebbe rendere felice il prossimo senza rispettarne la volontà. Un paradosso.

Si badi bene che non si parla di educazione, in cui il genitore ha il dovere di impedire al figlio una scelta avventata o sbagliata o insensata. Qui si parla di qualcosa di più profondo, cioè l’intrecciarsi di due vite, delle rispettive libertà e volontà, tra due individui adulti, consapevoli della propria persona e della propria unicità, entrambi dotati della somma ricchezza che un uomo possa possedere, la propria libertà.

In questo, il Cristianesimo, base della nostra civiltà occidentale, ci lascia due comandamenti, che è bene vengano presi come principi guida e valori fondanti della vita di un liberale:

“Ama il prossimo tuo come te stesso”
“Non fare agli altri ciò che non vuoi venga fatto a te”.

Confrontarsi con la realtà ci mette di fronte a dei limiti: alcuni sono fatti per essere superati, se concernono solo la volontà dell’individuo; altri per essere rispettati, se si mette in gioco la volontà del prossimo.

Il liberalismo può essere considerato un antidoto patriottico?

Il liberalismo può essere considerato un antidoto patriottico? Dipende da cosa intendiamo come patriottismo. Il patriottismo è spesso associato al nazionalismo, nonostante siano in realtà due pensieri politici molto diversi. Se un giorno dovessi spiegare che differenze ci siano tra i due pensieri, direi che il nazionalismo  è un aspetto oggettivo e il patriottismo un aspetto soggettivo.
 
Con il nazionalismo è lo Stato o il Governo che dice cosa dobbiamo fare per rendere forte l’Italia, con il patriottismo siamo noi cittadini che diamo qualcosa per rendere forte l’Italia. Facciamoci caso, i movimenti nazionalisti della storia italiana si sono sempre espressi come partiti socialisti, in quanto i cittadini si devono “sottomettere” al governo per il bene della nazione.
 
Queste politiche finivano sempre con il rafforzare qualcuno, mentre tanti finivano con l’essere indeboliti. Il socialismo rafforza chi rientra nelle grazie del Governo e dello Stato, ma indebolisce e rende poveri tutti gli altri cittadini.
 
Con il patriottismo, la situazione è molto diversa. Con il patriottismo, sono i cittadini che si rendono disponibili per il proprio Paese. Con i propri doveri, ciascun cittadino contribuisce per migliorare il proprio Paese.
 
In tutto ciò che rapporto esiste tra liberalismo e patriottismo? Se con il socialismo, non solo non siamo liberi, ma tendiamo a ricevere ingiustizie e tendiamo a diventare sempre meno civili con il prossimo, con il liberalismo, invece, nessuno è più penalizzato da tasse e tutti sono posti sullo stesso piano formale.
 
Essere costantemente “aggrediti” dalle tasse vuol dire che il reddito che noi produciamo, non solo finisce alle persone che non producono reddito, ma non riceviamo lo stesso equivalente in servizi da parte dello Stato. Questo provoca malumori, inciviltà e cattiva propensione verso la solidarietà.
 
In Italia la solidarietà imposta dallo Stato ha fallito.
 
Dunque è opportuno iniziare a cambiare questo Paese, iniziando a dare più potere ai cittadini e meno allo Stato. La solidarietà e il civismo possono essere stimolati anche senza ricorrere alle tasse. La solidarietà e il civismo non si stimolano rendendoci tutti “poveri” come pretendono di fare i movimenti o partiti socialisti.
 
In sostanza, il pensiero liberale è l’unico a poter sostenere e incoraggiare le virtù dei cittadini, in modo tale che grazie ai nostri comportamenti, altruisti o egoisti che siano, l’Italia possa essere forte, non solo nel proprio quartiere, ma anche nel mondo.
 
Avere una cultura liberale vuol dire sostenere la nazione senza dover penalizzare altre persone. Si tratta di approcci diversi, in quanto secondo le culture non liberali il cittadino deve sacrificarsi per il bene di tutti. Un liberale, invece, ritiene che il successo di una nazione dipenda dall’insieme dei successi dei suoi cittadini, permettendo a loro di poter dare il meglio di sé.

5 motivi per cui dovresti supportare il Libero Mercato

Prima di dire “il neoliberismo dei poteri forti ci renderà tutti schiavi”, è il caso di leggere attentamente i motivi per cui bisogna essere favorevoli al libero mercato.

  1. Il commercio stimola la crescita economica e riduce la povertà

    A partire dalla seconda guerra mondiale, si è assistito all’espansione del commercio internazionale, rafforzatasi quasi trent’anni fa con il crollo del comunismo sovietico. Forse saranno di parte, ma gli economisti ritengono che sia i mercati sia il commercio contribuiscano considerevolmente alla crescita economica e, dunque, alla riduzione della povertà. Gli studi a riguardo sono innumerevoli, basta una veloce ricerca su google per vedere come la povertà sia diminuita negli ultimi decenni grazie al mercato internazionale.

    Oltre ad un’enorme quantità di prove empiriche che supportano queste presunzioni teoriche,  vi sono forti prove che l’economia di libero mercato è economicamente superiore alla pianificazione centrale socialista e che il commercio è importante per la crescita.

    Una meta-analisi del 2013, di 60 studi (Link al pdf con la relazione riguardante gli studi) che hanno esaminato la performance economica delle economie socialiste pianificate  dopo aver subito la liberalizzazione economica (riforme pro-mercato), ha rilevato che la letteratura empirica indica che la liberalizzazione ha ridotto la crescita economica nel breve periodo, ma ha avuto forti effetti positivi sulla crescita economica nel lungo periodo. In particolare, “gli effetti positivi delle riforme superano i costi dopo circa un anno e quindi continuano a contribuire alla crescita economica“.

    La liberalizzazione del commercio, ovvero un processo che comporta la riduzione o la rimozione delle barriere erette dallo Stato di fronte al commercio internazionale, si è rivelato particolarmente vantaggioso. Secondo la suddetta meta-analisi, i costi a breve termine della liberalizzazione degli scambi sono inferiori del 20% rispetto ad una media riforma economica  e i benefici a lungo termine sono circa il 40% maggiori.

  2.   Il commercio riduce la disoccupazione

    Uno degli argomenti più comuni contro il libero mercato è che se i consumatori acquistano merci straniere al posto di beni nazionali, la disoccupazione del proprio paese aumenterà.
    C’è da aspettarsi che la concorrenza delle importazioni in un dato settore porti a perdite interne di occupazione, tuttavia, i soldi risparmiati dai consumatori acquistando beni stranieri possono essere spesi o investiti altrove, creando occupazione in altri settori. Non bisogna dimenticare, cosa ancora più importante, che la concorrenza favorisce il progresso, per poter rimanere sul mercato è necessario essere sempre innovativi, puntando su ricerca e sviluppo. Allora il guadagno è duplice: le aziende saranno stimolate a migliorare per non chiudere e al contempo si abbasseranno i costi, verrà migliorata la qualità e si apriranno nuovi ambiti lavorativi.

    Il pre-requisito fondamentale è la concorrenza leale, ovvero il rispetto di alcuni standard sulla tutela dell’ambiente e dei lavoratori. Qualcosa che nei paesi in via di sviluppo, ancora nessuno ha messo in discussione.

  3. Il commercio migliora gli standard lavorativi

    Gli oppositori del libero commercio hanno spesso sostenuto che questi conduca a una “caduta libera” degli  standard lavorativi. Sostengono che le pressioni concorrenziali indotte dal commercio potrebbero incoraggiare i paesi a competere gli uni contro gli altri riducendo gli standard lavorativi e le condizioni di lavoro al fine di ridurre i costi.

    Ma un’altra ricerca li smonta del tutto ( link a: National Bureau of Economic Research ), rivelando che:

    Gli studi empirici esistenti trovano scarso supporto per gli argomenti della “caduta libera”. Se non altro, ci sono prove che una maggiore apertura commerciale aumenta il livello e la conformità con i salari minimi e riduce il lavoro minorile. Allo stesso modo, ci sono poche prove che le riforme del commercio siano associate ad un peggioramento delle condizioni di lavoro.

  4. Il commercio riduce la probabilità di un conflitto armato

    I fautori del libero mercato hanno spesso sostenuto che l’interdipendenza economica sotto forma di commercio limita l’incentivo alla belligeranza interstatale sotto forma di conflitto militare. Il celeberrimo Frederic Bastiat ha  affermato che “se i beni non attraversano i confini, saranno i soldati a farlo“. In effetti, questa ipotesi potrebbe effettivamente essere vera e non soltanto un bellissimo aforisma: pare che lo confermino gli studi della Asian Development Bank, disponibili cliccando su questo testo.
    In altre parole, è ragionevole credere che le intuizioni di Bastiat fossero effettivamente vere. Il commercio internazionale si è espanso nel tempo e di conseguenza sembra che il mondo sia diventato molto più pacifico.

  5. Il commercio aumenta la speranza di vita e riduce la mortalità infantile

    Abbiamo precedentemente visto come l’apertura al commercio aumenti la crescita economica e quindi riduca la povertà, non dovrebbe sorprenderci che i paesi più aperti agli scambi generalmente abbiano migliori risultati in termini di salute. In questo caso, siccome l’affermazione è piuttosto forte, citeremo’ più ricerche scientifiche:
    – Dierz Erzer ( link alla ricerca )
    – Owen e Wu ( link alla ricerca )
    – Stevens ( link alla ricerca )
    L’apertura commerciale ha un effetto positivo a lungo termine sulla salute, misurato dall’aspettativa di vita e dalla mortalità infantile;  l’aumento degli scambi è sia una conseguenza che una causa di miglioramento della salute. Mi spiego meglio: è venuto a crearsi un circolo virtuoso per cui una salute migliorata porta a più scambi, e un aumento del commercio favorisce ulteriormente la salute della popolazione.

    Conclusioni:

    Vi sono prove piuttosto convincenti del fatto che politiche commerciali più libere conducano a una crescita economica più rapida e a  minori povertà e disoccupazione, contrariamente alle affermazioni avanzate dai protezionisti. Inoltre, l’adozione di politiche di libero mercato nel periodo successivo alla seconda guerra mondiale ha contribuito a ridurre i conflitti militari. I vantaggi del libero scambio sembrano innegabili, e vale la pena tenerli a mente quando i neo-mercantilisti affermano che il miglior modo con cui un paese può diventare ricco è impegnarsi nel protezionismo e nel nazionalismo economico.

I postmodernisti della giustizia sociale vogliono la fine dell’Occidente liberale

Il tribalismo, il marxismo culturale e l’antiliberalismo che permeano la scena politica italiana sono nettamente evidenti a chiunque abbia prestato interesse al fenomeno della crescita metastatica dei movimenti contemporanei di “giustizia sociale”.

Il liberalismo nella sua interezza e nella sua filosofia ha sempre sostenuto valori come libertà di parola e di espressione, la discussione civile e il libero scambio di idee, ha sempre reputato corretto giudicare gli individui in base al loro carattere e alle loro qualità, e non per mezzo di caratteristiche superficiali come il colore della pelle o il genere di appartenenza.

Dati alla mano, i movimenti giustizialisti e illiberali si oppongono a questo complesso di idee e valori, e per capire il motivo è prima necessario approfondire l’ideologia dietro alla “giustizia sociale”.

Nel fulcro del pensiero, la filosofia del movimento per la giustizia sociale è saldamente radicata nel marxismo culturale. Proprio come Karl Marx vide il capitalista come l’oppressore sfruttatore della classe operaia, il collettivismo illiberale adotta una visione del mondo in cui gli uomini bianchi eterosessuali sono la classe degli oppressori e le minoranze, come stranieri e donne, sono gli oppressi.

Oppure, nel caso opposto ma sempre di un altro tipo di collettivismo illiberale, la visione è quella di un mondo in cui i diritti dei bianchi sono messi in discussione dai non bianchi.

Potremmo persino essere d’accordo con chi promuove attualmente le parità, se non fosse per la chiara divergenza nell’affrontare la questione: il collettivismo illiberale ha respinto la tendenza del liberalismo a giudicare gli individui come individui e ha invece adottato l’approccio marxista di giudicare le persone sulla base del gruppo a cui appartengono, interscambiando le identità di etnia e di genere per quelle economiche.

L’ascesa del populismo di destra è in parte una reazione alla politica dell’identità della sinistra socialista che dipinge gli uomini bianchi in una luce negativa.

Qualche tempo fa, in Inghilterra, è passata una notizia che può dare l’esempio più lampante dei classici “giustizieri sociali”; una donna, dopo aver impedito l’accesso ad un evento agli individui di sesso maschile, ha affermato di fronte ai giornalisti:

“I, as an ethnic minority woman, cannot be racist or sexist towards white men, because racism and sexism describe structures of privilege based on race and gender, and therefore women of colour and non-binary genders cannot be racist or sexist as we do not stand to benefit from such a system.”

(Fonte: The Guardian https://www.theguardian.com/world/2015/may/20/goldsmiths-racism-row-divides-students-bahar-mustafa )

La traduzione:

Io, una donna appartenente alle minoranze etniche, non posso essere razzista o sessista nei confronti degli uomini bianchi, perché il razzismo e il sessismo descrivono strutture di privilegio basate sulla razza e sul genere, e quindi le donne di sesso e di genere non binario non possono essere razziste o sessiste, dunque non siamo in grado di beneficiare di un simile sistema.

Come? Pensi sia una supercazzola del Conte Raffaello Mascetti?

Ovviamente, è innegabile la presenza del razzismo sul suolo nazionale ed europeo e non voglio assolutamente difenderlo in alcun modo, poiché è sintomo di una fortissima ignoranza proveniente da una mentalità pregiudizievole.

I primi promotori dell’odio fra classi (che, oltretutto, hanno imposto loro), fra etnie, fra sessi, fra gruppi identitari sono proprio i collettivisti.  Il loro tribalismo illiberale è chiaramente intento a soffocare la libertà di parola, la libertà accademica e il libero scambio di idee, il tutto nel nome della loro visione di giustizia sociale.

Inoltre, sebbene pretendano di ridurre la frammentazione e la segregazione razziale, etnica e sessuale, probabilmente non ha fatto altro che promuoverle. Per il bene della libertà, dell’uguaglianza formale (e non sostanziale!) e della società civile, i liberali occidentali devono fare del loro meglio per convincere i propri concittadini che la cultura regressiva e illiberale non è un’ideologia che merita di essere sostenuta.

Concentriamoci ancora un attimo sul razzismo: per definizione, è la convinzione che alcune razze siano naturalmente superiori alle altre e che la razza sia il fattore determinante principale dei tratti umani. La discriminazione razziale consiste nel trattare le persone in modo diverso esclusivamente sulla base della loro razza e non ha nulla a che fare con “strutture e privilegi”.

I giustizieri sociali come questa donna hanno letteralmente ridefinito il razzismo per giustificare il proprio razzismo. Dal loro punto di vista, le loro azioni sono giustificate in quanto sono una risposta naturale all’oppressione.

Quando a qualcuno viene detto, o è implicito, che ci sono individui cattivi e che lo sono a causa del colore della pelle, dell’orientamento sessuale o quant’altro, è naturale che questi inizino ad associarsi ancora di più con quell’identità di gruppo basata su tali caratteristiche piuttosto che vedere se stessi come individui.

Il metodo utilizzato è il medesimo sia a destra che a sinistra (sia in quel noto movimento giustizialista tanto di moda ultimamente), mentre noi liberali proponiamo l’implicita soluzione adeguatissima al caso.

Invece di promuovere una società unificata in cui le persone si vedono come individui piuttosto che come parte di un particolare gruppo, il movimento per la giustizia sociale è probabilmente responsabile di un’ulteriore divisione delle persone lungo linee tribali. Esistono mezzi molto migliori per sradicare il razzismo e il sessismo dalla società rispetto alla politica dell’identità su cui si basa il movimento per la giustizia sociale.

Perché questi movimenti tribali intolleranti sono anche illiberali?

Il marxismo economico vede i mercati liberi e i diritti di proprietà privata (cioè la libertà economica) come un mezzo per proteggere la classe capitalista dal proletariato che sfruttano per mantenere la loro egemonia socioeconomica.

Il marxismo culturale comprende allo stesso modo le libertà politiche fondamentali, come la libertà di parola e di espressione, come meccanismi con cui coloro che detengono il potere, principalmente uomini eterosessuali bianchi, usano per mantenere la loro egemonia socioeconomica a vantaggio delle minoranze e delle donne.

Perché rispettare i diritti della classe di cui stai cercando di distruggere il potere? E così, secondo il pensiero marxista, i tuoi diritti politici dipendono interamente dalla classe a cui appartieni.

Così, invece di vedere la libertà di parola come un diritto individuale sacrosanto, il tribalismo illiberale la vede come un ostacolo sulla via della giustizia sociale.

Abbiamo sentito parlare della legge sulle fake news, ma il dibattito che si cela dietro è ancor più importante: una buona parte della componente illiberale ritiene sia compito dello Stato la censura delle dichiarazioni offensive alle minoranze.

Questa constatazione è triste, poiché sembra che i giovani siano sempre più inclini a mettere a tacere le persone con cui non sono d’accordo piuttosto che impegnarsi a contrastarli nel dibattito civile. Questa censura sarebbe solo l’inizio di una lunga serie di riforme illiberali.

Quali sono i danni dei sindacati italiani?

 

In principio ci furono le battaglie sindacali degli anni sessanta. Si raggiungessero risultati importanti come lo Statuto dei Lavoratori (1970).
Per i sindacati e gli ambienti del comunismo si trattava di un passaggio storico per l’Italia con l’emancipazione del lavoratore. In realtà, si trattava dell’inizio di una serie di diritti riconosciuti che – con il passare del tempo – iniziavano ad apparire sempre più come dei privilegi.

Molte delle aziende coinvolte erano strategiche per lo Stato (vedasi FIAT) e di medie e grandi dimensioni, perché erano quelle più in grado di mettere in crisi un Paese (con scioperi e manifestazioni) e in difficoltà i governi.
Le lotte sindacali hanno permesso di raggiungere dei risultati, sia dal punto di vista contrattuale, con il contratto a tempo indeterminato sempre più forte e con i contratti collettivi, sia dal punto di vista economico.
Grazie alle lotte sindacali i lavoratori godevano di protezioni statali di ogni genere (malattia, maternità, disoccupazione parziale o temporanea) e di pensioni molto generose. Con le lotte sindacali nasce il famoso “posto fisso” della Prima Repubblica.

Questo modello si manteneva funzionale fino a quando c’era solo il padre di famiglia che lavorava (tranne alcune aziende che assumevano anche donne). Ma con il passare del tempo, con la globalizzazione, le dislocazioni e le diverse esigenze dei cittadini (e non solo dei datori di lavoro), le aziende che rientravano nella categoria dei protetti da Stato e Sindacati iniziarono a vacillare. In parallelo, con l’aumento delle tasse e del costo della vita, non bastava più il lavoro del padre di famiglia, ma serviva anche il lavoro della madre, con tutte le conseguenze che ne determinava, come pagare l’asilo nido.
Ma i sindacati, nonostante si autoproclamavano “difensori dei lavoratori”, si sono concentrarti solo su una parte sempre più minoritaria di lavoratori, ostacolando qualsiasi tentativo di riforma e garantendo proficue pensioni ai lavoratori di queste categorie.

  • Morale della favola è che oggi sono cambiate tante cose, ma dal punto di vista del lavoro:
  • I contratti collettivi a tempo indeterminato e le varie protezioni, nate con le battaglie sindacali, risultano troppo costosi e poco funzionali;
  •  chi è stato assunto fino a metà duemila, oggi risulta un grande costo sia per il datore di lavoro e sia per tutti i cittadini (visto il grande costo tra indennità, pensione e disoccupazione);
  • i datori di lavoro tendono ad assumere con altri contratti che godono di poche protezioni, ma sono meno costosi;
  • Chi viene assunto con contratti non-protetti, è costretto a pagare tante tasse per coloro che hanno avuto o hanno attualmente un contratto protetto.

In sostanza, i sindacati per proteggere una categoria di lavoratori, ha indebolito gravemente il resto dei lavoratori e contribuendo allo sviluppo di lavori irregolari e temporanei. Bisogna, dunque, riformare i contratti di lavoro anche di coloro che sono stati assunti in passato, perché siamo stanchi di vedere delle persone sacrificate per colpa di coloro che sono stati assunti con le condizioni stabilite durante le lotte sindacali. Per quanto riguarda i sindacati, sono per l’abolizione e la sostituzione con mediatori civili che sappiano essere imparziali e propositivi nel far raggiungere un punto d’incontro e per il reciproco rispetto tra datore di lavoro e lavoratori.