Il posto pubblico non deve essere un posto “a vita”

Qualche giorno fa in Sicilia si è verificato uno scontro verbale tra politica e vescovi sulle retribuzioni dei funzionari della pubblica amministrazione della Regione Sicilia. A quanto pare, sarebbero molto più alte rispetto a quelle dei dipendenti pubblici degli Stati Uniti d’America. Questo “scontro” mi ha permesso di fare una riflessione sulla situazione dei dipendenti pubblici, non solo siciliani, ma direi di tutta Italia.

La sensazione è che i dipendenti pubblici vivono in una situazione di “paradiso consapevole ma giustificato”. Cosa vuol dire? Mi riferisco al fatto che, non tanto le forze dell’ordine, piuttosto i dipendenti della pubblica amministrazione e delle aziende statali, in quanto godono di generosi privilegi, hanno il posto a vita (il famigerato Posto Fisso), ma proprio perché tanti ex-politici vivono sulle spalle dello Stato (vedi vitalizi o nomine nei consigli d’amministrazione), si giustificano con il fatto che loro ricevono meno di quello che dovrebbero.

In tutta questa storia, buona parte delle colpe è dei sindacati che sono riusciti nel rafforzare la posizione dei dipendenti pubblici, favorendo lo sport nazionale dell’assenteismo. Infatti, licenziare è una pratica molto complessa.
Ma le colpe sono anche della cultura del welfare in Italia. Nel corso dei decenni, i governanti – nazionali o locali – hanno usato il posto da dipendente pubblico per due motivi. Il primo come “mancia elettorale“, quindi per premiare chi ti permetteva di vincere le elezioni. Il secondo come “rimedio alla disoccupazione”. Questo secondo aspetto non è da sottovalutare se consideriamo che lo Stato è il principale datore di lavoro proprio nelle regioni maggiormente in difficoltà.

Riepilogando, il rapporto governanti-dipendenti della pubblica amministrazione si basa su un reciproco “ricatto”, poiché il primo deve coccolare il secondo per evitare ripercussioni elettorali, perciò quest’ultimo si permette il “lusso” di poter fare tutto quello che vuole.

Chi ci rimette? Ci rimettono i cittadini che pagano le (altissime) tasse per ricevere uno scarso servizio da chi lavora nella pubblica amministrazione. Infatti, il dipendente pubblico non ha alcun incentivo a lavorare bene, se in ogni caso non ha il rischio di perdere il lavoro e riceverà un lauto compenso. E ci rimette anche quel dipendente pubblico onesto che si vergogna dei suoi colleghi.

Come rimediare a questa situazione? Partendo dal presupposto che molte aziende statali dovrebbero essere vendute, bisogna riformare la figura del funzionario nella pubblica amministrazione.

La mia proposta sarebbe quella, con il servizio civile nazionale, di dare la possibilità ai neolaureati in ambiti amministrativi di poter iniziare a fare esperienza sul campo per almeno 3 anni. Licenziare le figure lavorative poco utili e, per chi viene confermato, i contratti dovranno essere a tempo determinato di 3 anni con la possibilità di rinnovo automatico, per favorire il turnover. La retribuzione del dipendente pubblico avrà una parte fissa e una parte a provvigione sulla base delle pratiche gestite. Per qualsiasi pratica avviata dal cittadino, sarà designato un funzionario responsabile che dovrà occuparsi della conclusione della pratica, in modo soddisfacente e in tempi brevi.

Questo perché ritengo che la pubblica amministrazione non debba creare problemi per il cittadino e che il dipendente pubblico debba essere a sua completa disposizione. Non sarebbe malvagio dare l’opportunità di integrare la crescita professionale dei giovani con la possibilità di lavorare a servizio dei cittadini.

Breve apologia dell’individualismo

Sentir usare la parola individualismo in senso positivo fa storcere il naso a molti. Essa è una parola che ha assunto un valore negativo per la maggior parte delle persone, basti pensare alla dicotomia individuo-società, dove il polo positivo è rappresentato, nel senso comune, dal secondo termine. Per i più questa è una opposizione binaria perfetta che riesce a descrivere la realtà. Però, dal punto di vista liberale, le cose sono leggermente diverse.

Innanzitutto, partiamo dal presupposto che il termine individualismo può assumere diverse sfumature in base al contesto in cui è usata e da chi ne fa uso.  Queste sfumature sono molto diverse tra loro e parlare di individualismo senza aver ben chiaro di cosa si parla può portare a cadere in luoghi comuni e banalità.

Senza pretese di alcun tipo, questo articolo si propone di illustrare alcuni dei significati del termine individualismo, con l’auspicio di essere un incipit per una riflessione sul tema stesso.

In primo luogo, l’individualismo è un approccio metodologico ben preciso. Esso è il principio di indagine alla base della riflessione sulla società e l’economia di Mises, poi ripreso anche da Rothbard. Utilizzando le parole del pensatore newyorkese, questo approccio metodologico può essere così sintetizzato: «solo gli individui hanno fini e possono agire per perseguirli. Non esistono fini delle azioni imputabili a “gruppi”, “collettività” o “Stati” che non possano essere ricondotti ad azioni di specifici individui».[1] Ciò significa utilizzare un certo filtro nel leggere i fenomeni economico-sociali, nell’analisi del diritto e così discorrendo. In questa maniera è possibile vedere cosa c’è alla base della società: essa non è altro che l’insieme degli individui e delle loro relazioni reciproche.

Questa analisi può sembrare banale, ma essa demistifica una visione della società che ha avuto enorme fortuna, ovvero l’idea di una società organica che viene prima dell’individuo e anzi ne è il fondamento. È sostanzialmente la concezione platonico-aristotelica, ripresa poi da Hegel. La dicotomia individuo-società è importante, ma bisogna capovolgere il rapporto rispetto a come comunemente viene inteso. Inoltre, non si può attribuire un valore morale negativo o positivo ad uno dei due termini. Semmai sono le azioni degli individui a poter essere biasimate o lodate. La società, se intesa alla maniera comune, diviene una sorta di ente metafisico che “tiene all’essere l’individuo” il quale, fuori di essa, non può esistere. In realtà, quest’ultima affermazione non è del tutto sbagliata se si prescinde dall’utilizzo dei vari termini attinenti alla metafisica. L’individuo ha bisogno della società. Non può vivere senza di essa, è veramente animale sociale. Ma non è la società ad essere alla base dell’individuo, semmai è il contrario e questo è un punto fermo da tenere a mente.

Quindi, una volta preso atto di ciò, non si può rimproverare ad un individualista di voler essere contrario alla società, di essere una mina vagante. Un individualista non cerca di recidere i legami che tengono insieme il tessuto sociale, ha soltanto preso atto dell’importanza della sua posizione all’interno di quel reticolo.

Individualismo significa anche autonomia, ovvero la capacità di darsi fini liberamente posti e di perseguirli; significa scegliere liberamente cosa fare e come portare avanti le proprie iniziative; significa cercare di realizzarsi il più possibile. Tutto questo non può avvenire al di fuori della società.

Spesso si cerca di descrivere negativamente gli individualisti ricorrendo al concetto di monade o di atomo. Infatti, si rimprovera agli individualisti di essere chiusi in sé stessi, senza finestre sul mondo esterno, egoisticamente arroccati nel proprio rifugio mettendo a repentaglio la società. Ma, come insegna la chimica, gli atomi hanno delle configurazioni elettroniche che li portano a legarsi con altri atomi in maniera da avere una situazione più favorevole ad entrambi. Così si formano molecole via via sempre più grandi fino ad arrivare agli oggetti della quotidianità. Non è forse così che si forma una società? Sono gli interessi individuali ad essere la linfa della società stessa.

[1] Rothbard (1962), p.2.

Come sarebbe un mondo perfettamente comunista? Ce lo spiega Isaac Asimov

Il comunismo perfetto non esiste, poiché implicherebbe l’esistenza di un ente superiore che sappia governare gli umani assegnando loro i lavori adeguati e distribuendo perfettamente la ricchezza secondo le necessità. Questo è il presupposto comunemente accettato.

Ma cosa accadrebbe se esistesse un mondo con una coscienza collettiva, una connessione mentale fra tutti gli individui di un pianeta?

Ce lo spiega Isaac Asimov nel Ciclo della Fondazione parlando di Gaia, il pianeta con una coscienza collettiva in cui ciascuno contribuisce al Tutto e ne fa parte con una unione mentale simile a quella della serie tv Sense8 (ovvero condivisione di pensieri, sensazioni, emozioni, conoscenze).

Uno dei personaggi protagonisti, Bliss, parla di sé come “io/noi/Gaia” e dichiara la rinuncia agli scopi individuali a favore del bene comune: la sua felicità è la felicità di tutti. E non possiamo metterlo in dubbio: condividono ogni cosa, sono un tutt’uno.

Noi non siamo così, non possediamo questa caratteristica. Già solo per questo il Comunismo (e ogni altra forma di collettivismo) non potrebbe funzionare, ma andiamo avanti.

C’è un personaggio estremamente Individualista che vuole mettere in discussione il proprio appoggio al pianeta Gaia, il pianeta collettivista, ritenendolo troppo differente da ciò che pensa sia più giusto per sé come Individuo e dunque per ogni altro Individuo facente parte dell’umanità.

Forse ti starai chiedendo perché un Individualista avesse appoggiato quel pianeta, te lo spiego subito: doveva scegliere fra una Società Scientista (totalmente dedita alla tecnologia e alla scienza, detta Fondazione, volta a sottomettere la Galassia con la forza), una Società Elitista (dedita allo studio, alla psicologia sociale e alla matematica, detta Seconda Fondazione, anch’essa volta a sottomettere la Galassia con la forza) ed un Pianeta Collettivista (dedito al pacifismo e al bene della Galassia).

Pare ovvio che fra due guerrafondai e un pacifista si scelga il pacifista. Anche se il marxismo prevede la lotta di classe e la dittatura del proletariato, che sono tutto fuorché atti pacifisti. Ipotizziamo allora sia accettabile che il pacifismo si diffonda in maniera automatica e conquisti le persone senza alterare lo status della loro società.

Vediamo però, ed è il fulcro di questo discorso, le critiche del nostro Individualista, chiamato Golan Trevize e le motivazioni date dal personaggio “io/noi/Gaia”, chiamato Bliss. Non commenterò passo per passo, poiché credo non ce ne sia bisogno.

Prima conversazione, sulla natura del pianeta:

Bliss: « Io sono Gaia. E la terra. E quegli alberi. E quel coniglio tra l’erba, laggiù. E l’uomo che si intravede fra gli alberi. L’intero pianeta e tutto quanto c’è sopra è Gaia. Condividiamo tutti una coscienza globale, ognuno contribuisce all’insieme.»
Trevize: « In tal caso, Bliss, chi governa questo mondo?»
Bliss: «Si governa da solo -disse lei. – Quei meli crescono in filari regolari di comune accordo. Si riproducono solo quel tanto che serve a riempire gli spazi vuoti lasciati dagli alberi che muoiono. Gli esseri umani raccolgono la quantità di mele di cui hanno bisogno, altri animali, compresi gli insetti, mangiano la loro parte, e solo quella. Piove quando è necessario. »
Trevize: «Anche la pioggia sa cosa deve fare?»
Bliss: «Sì»

La rinuncia all’individualità per il sovrumano:

«Io rimango un essere umano; al di sopra di noi però c’è questa consapevolezza collettiva che supera di molto la mia comprensione

La distribuzione dei ruoli nella società:

Bliss: «Non so volare come un uccello, ronzare come un insetto o diventare alta come un albero. Faccio ciò che sono più adatta a fare.»
Trevize: «Chi ha deciso di attribuirvi questo preciso incarico?»
Bliss: «Noi tutti.»

Il pensiero di Trevize (e -spero- di noi tutti) descritto da Asimov:

Trevize pensò rassegnato che ognuno dovesse trovare la felicità come meglio credeva. Era questo lo scopo dell’individualità…
« Il pianeta [Gaia], per quanto grande e vario, rappresenta un unico cervello. Uno solo! Ogni nuovo cervello che nasca si fonde con la totalità. Non c’è la possibilità di opporsi, di discordare!
Quando pensiamo alla storia umana, pensiamo al singolo individuo che, nonostante la sua visione minoritaria condannata dalla società, alla fine vince e cambia il mondo.»

Sulla libera associazione:

Bliss: «Se obbediamo solo alle regole che riteniamo giuste e ragionevoli, allora qualsiasi regola cessa di avere valore, perché non esiste una regola giusta e ragionevole per tutti. E se ci interessa solo il nostro tornaconto personale, troveremo sempre una giustificazione per definire ingiusta una regola restrittiva. Si comincia con un trucco astuto e si finisce con l’anarchia e la catastrofe, così, anche per lo scaltro autore del trucco, dal momento che nemmeno lui sopravvivrà al crollo della società.»

Trevize ribatté:  « La società non crolla tanto facilmente. Tu parli come Gaia, e Gaia non può capire un’unione di individui liberi. Le regole, instaurate con ragionevolezza e giustizia, possono facilmente diventare superate e inutili via via che le circostanze cambiano, e restare ugualmente in vigore per inerzia. In tal caso è legittimo ed anche utile infrangere queste regole, se non altro per evidenziare che sono diventate superflue e magari anche dannose. »

Bliss: « Allora ogni ladro, ogni assassino, può giustificarsi dicendo che stia servendo l’umanità. »
Trevize: « Non arrivare agli estremi. Nel superorganismo di Gaia c’è un consenso automatico circa le regole sociali e a nessuno viene in mente di infrangerle. Si potrebbe anche dire che Gaia vegeti e si fossilizzi. Nella libera associazione di individuo c’è senza dubbio un elemento di disordine, ma è il prezzo che bisogna pagare per non perdere la capacità di introdurre novità e cambiamenti… Tutto sommato, è un prezzo ragionevole. »

Sulla libertà individuale:

Trevize: «Può darsi che ai cani non importi di perdere la libertà individuale, ma per gli esseri umani è una questione di grande importanza… E se tutti gli esseri umani cessassero di esistere, ovunque, non solo su un mondo o su alcuni mondi? Se la Galassia restasse senza esseri umani? Ci sarebbe ancora un’intelligenza guida? Tutte le altre forme di vita e la materia inerte riuscirebbero a mettere insieme un’intelligenza comune adatta allo scopo?»

Bliss esitò.  « Una simile situazione non si è mai verificata, e probabilmente anche in futuro non si verificherà mai.»

Trevize:  « Ma non capisci che la mente umana qualitativamente è diversa da qualsiasi altra cosa, e che se venisse a mancare, la somma complessiva di tutte le altre forme coscienti non basterebbe a rimpiazzarla. Gli esseri umani costituiscono un caso speciale, e devono essere trattati in quanto tali, non ti pare? »

Ecco, abbiamo un esempio di cosa sia il perfetto Collettivismo. In tanti, sostengono che se questa utopia fosse possibile allora staremmo certamente bene. Eppure, dovremmo rinunciare a ciò che c’è di più caro nella propria vita: la libertà di scelta sulle azioni della vita stessa.

Non voglio fare spoiler nel caso in cui a qualcuno possa interessare cosa avvenga alla fine del libro, eppure Asimov trova un essere superiore che possa governare gli umani, ma c’è una falla logica: questo ente superiore è stato creato dagli umani per essere aiutati e non concepisce l’Individualità. Questo essere superiore è un robot.

In un altro libro, Asimov asserisce che “i robot sono logici ma non ragionevoli” e che per questo motivo non possano comprendere le azioni umane. E poi, fattore più importante di tutti, davvero vogliamo mettere il nostro destino nelle mani di qualcun altro, che ne sia artefice al posto nostro?

Perché essere contrari al Salario Minimo?

Leggendo le varie proposte per la campagna elettorale, vorrei analizzare quella di Salvini sul Salario Minimo.
Che cos’è il Salario Minimo? Il Salario Minimo sarebbe una soglia di retribuzione sotto la quale l’imprenditore non può scendere. Per esempio se il Salario Minimo fosse di 1000€, allora all’imprenditore non è permesso pagare uno stipendio inferiore ai 1000€.

Sembra una proposta positiva, ma è in realtà pare sia l’ennesima proposta socialista che non fa bene al lavoro e ai lavoratori.

Vi spiego il mio ragionamento. Il mercato del lavoro in Italia è sempre stato penalizzato dai presunti successi ottenuti dalle lotte sindacali che hanno favorito le riforme pro-lavoro, a cavallo  fra la fine degli anni sessanta ed i primi anni settanta. Stiamo parlando di riforme come lo Statuto dei lavoratori e i Contratti Collettivi. Queste riforme rafforzarono la posizione lavorativa – con una serie di “privilegi” – dei lavoratori di aziende di medio grandi dimensioni, ma con il passare del tempo diventarono sempre di più una penalizzazione per chi poi entrava nel mercato del lavoro.

Nel corso di questi decenni, sulle questioni di lavoro, i governanti hanno “insistito” su un approccio difensivista, ossia eterna diffidenza verso il datore di lavoro; perciò hanno preferito adottare delle politiche per difendere il posto di lavoro anziché favorire l’occupazione. Dunque, i datori di lavoro hanno preferito ricorrere ai contratti instabili oppure al nanismo (porsi un limite di dipendenti per non rientrare nei requisiti posti su pressione dei sindacalisti). Non per niente le imprese italiane hanno un tasso di anzianità interna molto alta (cioè da quanti anni lavorano gli stessi dipendenti) e uno scarso turnover (cioè pochi cambiamenti di dipendenti).
Non finisce qui, perché i contratti collettivi sono i principali responsabili della scarsa crescita dei salari.

Quindi, riepilogando, quando si tenta di regolamentare il mercato del lavoro, spesso e volentieri si incentiva il datore di lavoro – già abbastanza stufo di lungaggini burocratiche- a non assumere o a ricorrere a contratti instabili. Se in una nazione manca il turnover vuol dire che nessun dipendente vorrà mai cambiare lavoro in cerca di stipendi migliori e tenderà a proteggere, con le unghie e i denti, il proprio posto di lavoro. Stabilità non vuol dire “fare la muffa” nello stesso posto di lavoro, ma poter vivere il presente e programmare il futuro. Servono poche regole che sappiano disciplinare i rapporti umani, non di certo i salari. Inoltre, è arrivato il momento di abolire i contratti collettivi e di permettere ai datori di lavoro e al dipendente di contrattare su salari e durata del contratto. Non abbiate timore che non funzioni. Ci vuole un pochino di fantasia e immaginazione. Con tutte le tasse e i costi burocratici, probabilmente si rischierebbe di andare verso un basso salario non tanto diverso da quello attuale, ma con meno tasse e meno burocrazia sarà il mercato a determinare il giusto Salario.
Lasciate fare, o come si dice “Laissez-Faire”.

Democrazia è sinonimo di uguaglianza, giustizia e bene comune?

La libera scelta può esistere almeno in una dittatura che può limitarsi, ma non sotto il governo di una democrazia illimitata che non può”, Friedrich Von Hayek.

Partendo da questa  famosa citazione dello studioso austriaco, in questo articolo tratteremo il tema della demarchia, ovvero dello stato minimo in regime di democrazia, il cui potere è quindi limitato.

Per un liberale di stampo evoluzionista l’accento va posto non sul “chi governa” ma sul “quanto potere ha chi governa”, la demarchia mostra proprio questa propensione alla ricerca di porre dei limiti al potere di chi governa, chiunque sia.

Il significato del termine “democrazia” è con il tempo diventato, ingiustificatamente ed in modo prettamente retorico, sinonimo di giustizia ed uguaglianza.

Come tutti sanno invece esso indica il governo del demos, ossia del popolo, non si tratta quindi di una caratteristica del governo ma è proprio la modalità, per citare nuovamente Hayek “indica un metodo per determinare decisioni politiche, non una qualità sostanziale”.

Si è assistito quindi alla degenerazione del concetto di modo di governo, approvando di fatto un sistema che rappresenta l’insieme incoerente di interessi particolari (non del demos quindi), a favore di un gruppo che riesce mantiene lo status quo grazie al proprio limitato consenso popolare.

Nella attuale democrazia, la maggioranza ripudia la limitazione del potere (necessaria per evitare la tirannia) perché qualunque suo desiderio viene ritenuto giusto per il semplice fatto che sia la maggioranza stessa a determinarlo.

Se il potere legislativo e quello esecutivo sono espressione della medesima maggioranza, a questo punto non vengono sottoposti a nessuna limitazione e il loro agire sarà indirizzato al mantenimento del loro consenso per non uscire dallo status quo, redistribuendo ad esempio reddito in nome di una fantomatica giustizia sociale (giustizia determinata dalla maggioranza).

Il governo dovrebbe essere soggetto alla Legge, non avere un potere illimitato, diventando così impossibilitato a rendere conto agli interessi particolari dei gruppi di consenso, non avendo modo di soddisfarli. L’emanazione poi di sole leggi generali ed astratte, valenti erga omnes, renderebbero i cittadini liberi di muoversi nella propria sfera di autonomia delimitata appunto da esse.

L’indiscutibilità del parlamento e del governo derivano da principi collettivisti il cui assunto è che le norme derivino da società preesistenti, quando nella realtà la società si è creata inintenzionalmente con l’interazione tra singoli individui che sulla base di principi comuni si sono uniti e si sono sottomessi a questi principi (estrinsecati nella Costituzione della Nazione) .

E’ necessaria quindi una sottomissione dei poteri legislativo ed esecutivo ai fondamenti della società creatasi in intenzionalmente, pena cadere nella tirannia della maggioranza.

La DEMARCHIA Heyekiana è una democrazia il cui potere non è illimitato giustificato dal fatto di essere espressione della maggioranza, ma limitato perché sottomesso ai principi sui quali si fonda la società.

Questo concetto non è mai stato più attuale di oggi, l’unica speranza di poter superare l’attuale imbarazzante stasi Istituzionale è proprio quella di poter muoversi verso la direzione demarchica, annullando di fatto la “tirannia” dei gruppi di consenso e dell’apparato burocratico, in nome della libertà e del merito.

La Cina è ancora comunista?

La Cina è ancora comunista? La risposta a questa domanda è complessa ed è possibile scinderla in due parti distinte, che rispondono alla dimensione sociale e alla dimensione economica. La “Repubblica” Popolare Cinese è tutt’ora guidata da una dittatura comunista a partito unico, nella quale il dissenso viene represso anche violentemente.

Società

La situazione dei diritti umani in Cina continua a subire numerose critiche da parte della maggior parte delle associazioni internazionali che si occupano di diritti umani, le quali riportano numerose testimonianze di abusi ben documentati in violazione delle norme internazionali. Il sistema legale è stato spesso criticato come arbitrario, corrotto e incapace di fornire la salvaguardia delle libertà e dei diritti fondamentali.

La Cina è il Paese al mondo in cui si eseguono più condanne a morte, sebbene le autorità si rifiutino di rendere pubblica alcuna statistica ufficiale. Riguardo le condanne eseguite nel 2007, Amnesty International  ha raccolto notizie su 470 esecuzioni, ma ne stima un totale di almeno 6000 nell’arco dell’anno. Nessuno tocchi Caino stima una cifra simile di almeno 5000 esecuzioni nello stesso periodo, con un’incidenza dell’85,4% sul totale mondiale. Entrambe le associazioni riconoscono però che c’è stata una diminuzione nel numero delle esecuzioni, dopo che è stata reintrodotta la norma per cui tutte le condanne a morte devono essere confermate dalla Corte suprema del popolo: ciò consente di attutire la piaga delle condanne a morte comminate dopo processi sommari e iniqui. Alcune stime, tuttavia, sono ben più pessimistiche: un esponente politico cinese, Chen Zhonglin, delegato della municipalità di Chongqing, giurista e preside della facoltà di legge dell’Università Sudorientale Cinese, in un’intervista al China Youth Daily ha parlato di 10.000 esecuzioni l’anno. In quell’occasione Chen dichiarava la sua intenzione di lavorare per migliorare la situazione dei diritti umani in Cina.

Secondo quanto rivelato dal viceministro della salute Huang Jiefu nel corso del 2005, è dai condannati a morte che proviene la maggioranza degli organi espiantati in Cina, spesso senza che il donatore abbia dato il suo consenso, sebbene la legge lo esiga. L’espianto non consensuale pare che venga praticato sistematicamente ai condannati appartenenti al movimento spirituale del Falun Gong, perseguitato dal regime di Pechino ufficialmente dal 20 Luglio 1999, quando l’allora leader del PCC mobilitò le forze di Stato per sradicare il Falun Gong e i suoi praticanti. Questo fenomeno, che ha determinato di fatto un traffico illegale di organi umani, ha generato il sospetto che le condanne vengano eseguite quando c’è richiesta di organi compatibili con il condannato.

Nel 2006 l’avvocato per i diritti umani David Matas e l’ex segretario di Stato canadese David Kilgour, hanno condotto in un’indagine indipendente dimostrando che il personale militare e sanitario nelle carceri e negli ospedali cinesi rimuove forzatamente gli organi dei praticanti del Falun Gong ancora in vita per scopo di lucro. Secondo il loro rapporto, denominato “Bloody Harvest”, tra il 2000 e il 2005 quasi 41.500 praticanti sono morti per questo motivo, ma il numero reale potrebbe essere molto più alto. Il governo cinese si è frequentemente macchiato di violazioni dei diritti umani nei confronti di minoranze etniche e religiose e dissidenti politici: l’esempio più celebre, per l’opera di sensibilizzazione mondiale in cui si è prodigato il Dalai Lama, è l’occupazione armata del suolo tibetano, oltre che il sopracitato esempio della pratica di qigong del Falun Gong.

Il governo cinese assicura di dispensare la pena capitale solo in caso di gravi reati (omicidio, strage, terrorismo…), escludendo reati politici o di qualsiasi altro genere, e ha pubblicato sul web una copia del proprio codice penale che conferma questa versione. Tuttavia Amnesty International afferma che in Cina sono 68 i crimini punibili con la pena di morte, inclusi reati non violenti come l’evasione fiscale, l’appropriazione indebita, l’incasso di tangenti e alcuni reati connessi al traffico di droga.

In Cina vengono applicate gravi limitazioni alla libertà di informazione, alla libertà religiosa, quella di parola e persino alla libertà di movimento dei cittadini. L’evento più conosciuto in occidente delle azioni di forza perpetrate dalla Cina nei confronti dei dissidenti politici è rappresentato dalla repressione della Protesta di piazza Tiananmen il 4 giugno 1989, in cui perse la vita un numero imprecisato di manifestanti e soldati (200 secondo il governo cinese, tra 2 e 7 mila secondo alcuni dissidenti).

In Cina non esistono sindacati indipendenti, ma solo quello governativo ed è severamente vietato lo sciopero. Lo stato, almeno sulla carta, assicura i diritti dei lavoratori, ma la quantità annua di morti sul lavoro ha destato molte preoccupazioni e parecchie critiche e denunce non solo da organizzazioni umanitarie, ma anche dall’interno degli stessi organi di governo cinesi.

Un’altra accusa di lesione dei diritti umani rivolta al governo cinese è la pianificazione familiare obbligatoria, voluta dallo stesso Mao Zedong e tutt’ora impiegata. La legge che la regola, in vigore dal 1979, è la “Legge eugenetica e protezione della salute”, altrimenti detta ‘’Legge del figlio minore” che si è successivamente evoluta nella cosiddetta “Legge del Figlio Unico“, introdotta nel 2002 e abrogata dalla Corte Suprema cinese nel 2013. Secondo le fonti governative, grazie all’introduzione di questa pratica le nascite evitate nella Repubblica Popolare Cinese sono state 300 milioni. La legge prevedeva che una coppia potesse avere un figlio nelle zone urbane, e due in quelle rurali. I trasgressori potevano portare a termine un’eventuale gravidanza dietro pagamento di un’ingente multa, oppure erano obbligati a rinunciare al figlio.

Le accuse verso questo progetto sono molto pesanti: la lesione della libertà dei genitori; l’uso massiccio e obbligatorio dell’aborto, per di più in modi particolarmente dolorosi; le dure repressioni contro i cittadini che, specialmente in zone rurali o povere, opponevano resistenza al progetto; la violenza verso le donne, visti i casi certificati di sterilizzazioni forzate, operate in molti casi ai danni delle colpevoli; discriminazione verso le donne; in moltissime famiglie (dato anche il divieto di diagnosticare il sesso del nascituro), specialmente nelle zone rurali, le neonate sarebbero uccise, oppure non registrate all’anagrafe (costringendole alla totale assenza di diritti politici e alla rinuncia di istruzione e di qualunque assistenza sanitaria); discriminazioni sociali, perché il sistema fa in modo che i più facoltosi possano “pagarsi” il diritto al secondo (o al terzo) figlio pagando la sanzione corrispondente (in genere di 50.000 yuan, circa 7.700 dollari, 6.400 euro).

Da questi semplici esempi è possibile vedere che il tanto osannato paradiso socialista Cinese esiste solo nella mente dei suoi ignoranti sostenitori.

Economia

Dal punto di vista economico, invece, la situazione è ben diversa. Da circa 40 anni, il PCC ha progressivamente abbandonato il Comunismo Maoista, il quale si rivelò fallimentare e lesivo della società (gli storici stimano che “il Grande Balzo in Avanti”, cioè le riforme economiche volute da Mao per un’industrializzazione forzata della Cina fra il 1958 e il 1961, abbia causato una gravissima carestia nel 1960 che provocò fra i 14 e i 43 milioni di morti, a seconda delle fonti).

Nel 1976, a seguito della morte di Mao Zedong, Deng Xiaoping assurse a leader de facto del PCC. Deng era consapevole che la politica economica attuata dal suo predecessore non avrebbe portato alla crescita, e perciò una volta ottenuto il potere si prodigò per riformare l’economia cinese. Archiviata definitivamente la lotta di classe come elemento fondamentale della società, insieme alla Rivoluzione Culturale voluta da Mao, Deng pose, come obiettivo del governo cinese, lo sviluppo economico del paese.

Nel 1978 Deng presentò al congresso del PCC la riforma delle “Quattro Modernizzazioni”, una riforma destinata cioè a modernizzare quattro settori: agricoltura, scienza e tecnologia, industria e difesa nazionale. Alla base della riforma c’era il cambiamento degli obiettivi strategici dei piani di sviluppo: l’industria pesante, che fino ad allora era stato il settore trainante dell’economia, cedette il posto ad agricoltura ed industria leggera. In particolare il settore agricolo fu profondamente riformato in quanto non più in grado di soddisfare le necessità della popolazione: il problema principale stava nelle tecniche agricole arcaiche utilizzate, rimase immutate per secoli, che il piano economico di Mao non aveva neanche lontanamente pensato di modernizzare.

Ma il vero fulcro della riforma che consentì il boom economico negli anni ’80 e ’90, fu la ristrutturazione dell’apparato statale. In particolare, Deng capì l’importanza di creare un sistema economico nel quale l’industria fosse libera dall’ingerenza dell’amministrazione statale. Per consentire un più stabile collegamento tra imprese locali, statali e collettive e per abbattere le barriere amministrative che ostacolavano la fluidità del processo produttivo, si ricorse alla suddivisione e specializzazione del lavoro. Particolare attenzione fu posta nella preparazione del personale tecnico specializzato e molti studenti cinesi furono mandati all’estero per apprendere le più moderne tecniche produttive. L’attenzione fu focalizzata sulle richieste del mercato, che avrebbe guidato le scelte produttive ed impegnato gli imprenditori a incrementare la competitività e la produzione.

Importanti e decisive furono le iniziative intese a incoraggiare gli investimenti esteri. A questo fine furono istituite le “Zone ad economia speciale“, nel sud-est del Paese, nelle province del Guangdong e del Fujian, Zhuhai, Shenzhen, Shantou e Xiamen, seguite poi, nel 1988, dall’intera isola di Hainan elevata a provincia. In queste zone vennero previsti dei trattamenti preferenziali riservati agli stranieri che avevano intenzione di investire in Cina.

L’apertura verso l’estero e l’introduzione del libero mercato rappresentarono così il cardine del disegno politico voluto da Deng Xiaoping. La dottrina “un Paese, due sistemi”, consentì di giungere tra il 1984 e il 1987 agli accordi fra Pechino e Londra e fra Pechino e Lisbona per il ritorno di Hong Kong e Macao alla madrepatria rispettivamente nel 1997 e nel 1999.I due territori avrebbero avuto lo status di “zone economiche speciali” e un alto grado di autonomia e poteri legislativi e giudiziari indipendenti.

Le riforme messe in atto hanno portato a quella che lo stesso Deng Xiaoping definì “economia socialista di mercato” o “socialismo con caratteristiche cinesi”, una nuova struttura economica che combinava il socialismo, che reggeva la struttura amministrativa ed istituzionale, ad un sistema economico che prevedeva il libero mercato e il libero scambio.

Il concetto di Economia Socialista di Mercato fu portata avanti dai successori di Deng, e la Cina è entrata nel nuovo millennio come attore di primo piano nella politica internazionale. Addirittura nel 1997, il quindicesimo congresso del partito riconobbe l’importanza per l’economia cinese dell’impresa privata, fino ad allora considerata una forza secondaria rispetto alle aziende di stato. Infatti, sebbene le più grandi aziende cinesi siano ancora quelle controllate dallo stato, l’economia è stata trainata dalla crescita del settore privato. Per fare un esempio tra i tanti, secondo un recente rapporto di McKinsey la Cina ha dato vita a un terzo del numero globale di start up tecnologiche “unicorno” (aziende private valutate più di un miliardo di dollari).

Lo stesso Xi Jinping, attuale presidente della Repubblica Popolare Cinese, nel suo discorso in occasione del XIX Congresso del Partito Comunista Cinese, ha parlato esplicitamente di continuazione del processo di liberalizzazione dei cambi e dei tassi d’interesse, assicurando che “la porta della Cina è stata aperta e non sarà chiusa, ma si aprirà di più”.

Tuttavia, ombre si allungano sulla Cina: come in qualsiasi altro Paese caratterizzato da un potere centrale dittatoriale, anche lì è possibile vedere la mano dello Stato smorzare e reprimere le libertà dei cittadini, sia in ambito sociale che in ambito economico:

  • l’indipendenza futura del settore privato è fragile. Negli ultimi mesi il governo cinese ha effettuato un giro di vite su quegli imprenditori che sembrerebbero avviati a diventare degli oligarchi in stile russo. Ha inoltre cercato di frenare le acquisizioni all’estero, oltre che le attività delle principali aziende tecnologiche cinesi, come Alibaba e Tencent;
  • nel 1987, il tredicesimo congresso di partito aveva presentato un ambizioso programma di riforme politiche che secondo Zhao Ziyang, all’epoca Segretario Generale, erano finalizzate a rendere la dirigenza cinese più pluralistica, trasparente e responsabile (pur evitando la democrazia multipartitica, come imposto da Deng Xiaoping). Oggi assistiamo a un indebolimento della società civile dopo anni di repressione politica e ad un rafforzamento dell’autoritarismo. L’obiettivo delle riforme politiche all’interno del partito sembra esser stato soffocato dalla campagna anticorruzione di Xi, che ha effettuato purghe contro funzionari corrotti ma anche contro i suoi avversari politici;
  • nel 1997, il quindicesimo Congresso del Partito ha celebrato il passaggio della sovranità su Hong Kong dal Regno Unito alla Cina: il territorio sarebbe stato amministrato secondo la politica di “un Paese, due sistemi”. Nel 2012 e 2014 sono esplose delle proteste, confluite poi nel “movimento degli ombrelli” del 2014, che ha portato le lotte di Hong Kong all’attenzione del mondo. Eppure, in quegli anni il modello dei “due sistemi” sembrava solido. Oggi, invece, l’elemento più preoccupante della questione di Hong Kong è quanto sia diventato fragile questo stesso modello. Joshua Wong, giovane leader degli attivisti di Hong Kong nel periodo precedente al diciottesimo Congresso del Partito del 2012, oggi è un prigioniero politico. Carrie Lam, succeduta a C.Y. Leung nel ruolo di chief executive di Hong Kong dal luglio di quest’anno (scelta tramite una procedura pilotata in modo da fare emergere una figura gradita a Pechino) ha invitato a enfatizzare i temi patriottici nelle scuole locali. Xi ha chiarito che è determinato a fare tutto quel che potrà per minimizzare le differenze tra le modalità di governo di Hong Kong e quelle delle altre città.

In conclusione, è possibile affermare che l’attuazione di politiche liberiste, seppur molto annacquate dalla pervasiva presenza dello Stato nella vita pubblica, sia stata la principale causa del successo e della prosperità economica cinese. Consapevole che solo un’economia di mercato avrebbe portato allo sviluppo economico, Deng Xiaoping e i suoi successori hanno tacitamente sacrificato l’ideologia all’economia, mantenendo inalterati solo i meccanismi tipici dei regimi totalitari che consentirono a pochi uomini il controllo assoluto della Cina. Ma la prosperità economica non basta, e la Cina potrà definirsi veramente grande solo quando affronterà la “Quinta Modernizzazione”, tanto voluta da Wei Jingsheng e altri riformisti, e cioè la transizione del sistema politico cinese da un regime dittatoriale a una democrazia multi-partitica, nella quale i cittadini cinesi non siano semplici numeri asserviti alla macchina statale, ma uomini con diritti e libertà inalienabili.

A dispetto di quanto dicano molti nostalgici maoisti, la Cina non ha bisogno di una nuova Rivoluzione Culturale, volta alla dittatura del proletariato, ma piuttosto di una vera Rivoluzione Liberale.