Milton Friedman sul socialismo

Traduzione e riadattamento dell’estratto di una conferenza

Il socialismo ha fallito perché la sua bontà è stata corrotta da uomini malvagi saliti al potere? È stato perché Stalin ha preso il posto di Lenin? Il capitalismo ha avuto successo nonostante i valori immorali che esso offre? Credo che la risposta a entrambe le domande sia negativa. I risultati sono sorti perché ogni sistema si è affidato ai valori che incoraggia, supporta e sviluppa nelle persone che vivono in quel sistema.

Ciò che ci interessa discutere dei valori morali qui, sono quelli che hanno a che fare con le relazioni tra persone. È importante distinguere due tipi di considerazioni morali: la moralità di ognuno di noi che interessa la nostra vita privata, come conduciamo noi stessi, come ci comportiamo, e ciò che è importante per i sistemi di governo, ovvero le relazioni tra le persone, e nel giudicare le relazioni tra persone non ritengo che il valore fondamentale sia fare del bene agli altri.

Il valore fondamentale non è fare del bene agli altri come tu vedi il loro bene. Non è obbligarli a fare del bene. Per come la vedo io, il valore fondamentale nelle relazioni tra persone è rispettare la dignità e l’individualità dei propri simili.

Trattare i propri simili non come un oggetto da manipolare per i propri scopi, ma come una persona che ha i propri valori e diritti, non da obbligare, non a cui fare il lavaggio del cervello. Questo mi pare essere un valore fondamentale nelle relazioni sociali.

Ogni volta che ci allontaniamo dalla cooperazione volontaria e proviamo a fare del bene usando la forza, i cattivi valori morali della forza trionfano sulle buone intenzioni. E capite bene l’importanza di ciò che sto dicendo perché la nozione fondamentale di una società capitalista è la cooperazione volontaria. La nozione fondamentale di una società socialista è, fondamentalmente, la forza.

Se il governo è il capo, se la società deve essere comandata dal centro, cosa produci? Alla fine dovrai ordinare alle persone cosa devono fare, fino a dove puoi spingerti? Torna indietro, portati ad un livello più mite.
Ogni volta che provate a fare del bene con i soldi degli altri dovete usare la forza. Come potete fare del bene con i soldi di qualcun altro se prima non glieli avete portati via? L’unico modo che avrete per prenderglieli è minacciare l’uso della forza: con un poliziotto o un esattore delle tasse che arriva e se li prende.

Tutto ciò spingerebbe ancora più avanti se davvero si vivesse in una società socialista, se non vi fosse un governo centralizzato, se ci fossero burocrati del governo a comandare cose che possono fondarsi in ultima istanza solo sulla forza, ma ogni volta che ricorrete all’uso della forza, anche per fare del bene, non dovete mettere in discussione i motivi delle persone, qualche volta possono essere dei malvagi, ma guardate i risultati che producono. Dategli il beneficio del dubbio, assumete che le loro intenzioni sia buone.

Sapete, c’è un articolo un antico detto a proposito della strada per l’inferno lastricata di buone intenzioni, dovete guardare al risultato: ogni volta che usate la forza, i cattivi valori morali di essa trionfano sulle buone intenzioni.
Il motivo non sta solo nel celebre aforisma di Lord Acton, lo avrete sentito tutti: “il potere corrompe, il potere assoluto corrompe assolutamente“. Questa è una ragione per cui cercare di fare del bene con metodi che includono la forza porta a cattivi risultati.

Le persone che sembrano avere buone intenzioni sono esse stesse corrotte, e potrei aggiungere, se non sono corrotte, vengono rimpiazzate da persone con cattive intenzioni che sono più efficienti ad ottenere il controllo sull’uso della forza.

Tuttavia, la ragione fondamentale è più profonda, il danno più grande è fatto quando il potere è nelle mani delle persone che sono convinte della purezza dei loro istinti e della purezza delle loro intenzioni.
Thoreau ha detto che la filantropia è una virtù sopravvalutata, la sincerità è anche una virtù molto sopravvalutata. Non ci hanno salvato dal riformatore sincero che sa cosa è bene per te ed intanto, te lo farà fare che ti piaccia o meno. E questo quando va per il meglio.

Non ho motivi di dubitare che Lenin fosse un uomo le cui intenzioni fossero sincere, forse non lo erano, ma lui si è completamente persuaso di avere ragione, ed era disposto ad utilizzare qualsiasi mezzo per il bene finale.
Ancora, è interessante comparare l’esperienza di Hitler e Mussolini, Mussolini è stato di gran lunga una minaccia inferiore per i diritti umani perché era un ipocrita.

Perché egli non credeva davvero in ciò che diceva, stava al gioco. Ha iniziato da socialista, è diventato fascista, era disposta a vendersi a chiunque avrebbe brillato di più. Come conseguenza vi furono almeno un po’ di protezioni dal suo governo autoritario. Ma Hitler era davvero un fanatico, egli credeva in ciò che faceva, e fece decisamente più male.

Un meridionale contro il Parassitismo Sociale

In questo articolo parlerò di Antonio Genovesi (1713-1769), considerato uno dei principali illuministi meridionali del Settecento. Perché parlarne? Partiamo dal presupposto che stiamo parlando di un contesto storico, nel quale il liberalismo, come filosofia politica, era ancora acerbo, soprattutto dal punto di vista economico. Probabilmente era una filosofia maggiormente sviluppata sul piano delle libertà individuali.

Questa premessa era d’obbligo se consideriamo che lo stesso Genovesi, nelle sue opere, alterna idee liberiste con idee mercantiliste. In questo articolo evidenzierò gli elementi liberali più importanti.

Antonio Genovesi è nato nel salernitano ed era una persona piena di speranze, ambizioni e forza di volontà. Viveva in un contesto, come quello del Regno delle Due Sicilie, ostacolato dal connubio tra il feudalesimo radicato sul territorio e la volontà di rinnovamento dello Stato Moderno. Delle sue opere principali, consiglio la lettura dell’opera “Delle lezioni di commercio o sia d’economia civile” (1766-67).

Nell’opera affronta il rapporto opulenza privata rispetto alla società, sostenendo che gli eccessi non erano un bene per la società. Lui era per un lusso moderato, poiché era non solo importante per il singolo cittadino, ma anche utile per la società stessa.

Con questo Genovesi entra sul dibattito dell’eguaglianza affrontato da Rousseau. Per il meridionale, l’idea dell’eguaglianza era una strada utopistica perché l’uguaglianza non è un processo naturale. Infatti Genovesi si poneva due domande: gli uomini ne sono più felici? E la seconda; lo Stato ne diviene più grande e ricco?

Dalle parole di Genovesi emerge l’intenzione di distinguere l’uguaglianza dalla povertà. Quindi se il primo è utopia, il secondo era più facile da percorrere. Pertanto, lo Stato aveva il compito di correggere le situazioni più gravi e vistose.

Altro aspetto interessante, se consideriamo quel contesto storico e quello attuale, era l’intenzione del meridionale di combattere il Parassitismo Sociale. Perché? Perché Genovesi partiva dal presupposto che il compito principale dell’uomo fosse quello di lavorare per sé, per la propria famiglia e per l’utile comune. Proprio perché era favorevole ad un diffuso medio benessere, il lavoro era la strada per raggiungere tale obiettivo. Per questo motivo, i “privilegi irrazionali” presenti nel territorio e gli abusi feudali erano anacronistici e paralizzavano l’economia. Spettava allo Stato preoccuparsi di rimuovere questi ostacoli e di combattere qualsiasi forma di parassitismo per permettere all’agricoltura, all’industria e al commercio di operare nelle migliori condizioni possibili. Il feudalesimo non era il solo ostacolo dell’economia, ma anche il Clero che, con le sue vaste proprietà immobiliari, con gli ordini religiosi che favorivano il parassitismo e il suo potere giurisdizionale, contribuivano a paralizzare l’economia nel suo complesso.

Per concludere, aggiungo che quando si vuole mettere in discussione un sistema “rognoso e tosto” come quello italiano o come quello meridionale, la prima caratteristica fondamentale è l’ottimismo. Chi pensa che non ci sia alcuna speranza convive con un Pessimismo Cronico, ma chi pensa che ci sia un’alternativa alla realtà in cui viviamo, vuol dire essere ottimisti, proprio come Antonio Genovesi.

Concludo con una citazione, di Winston Churchill.

“L’ottimista vede opportunità in ogni pericolo, il pessimista vede pericolo in ogni opportunità.”

 

5 punti contro quelli che “lo Stato deve pensare ai poveri”

Chiarisco fin dalla prima linea che uno Stato Liberale ha il compito di appianare la strada verso l’autorealizzazione a ogni individuo, ricco o povero che sia. Ovviamente, i poveri hanno un occhio di riguardo perché talvolta per loro è più difficile accedere al merito.

Tuttavia, chi dice “lo Stato deve pensare ai poveri” semplicemente non vuole assumersi la responsabilità di aiutare i poveri e chiede che ciò venga fatto con i soldi di qualcun altro; tale persona commette non so quanti errori, ne elencherò cinque che mi sono balenati per la mente:

  1. Il primo è che lo Stato non può pensare, perché non è un ente autocefalico;
  2. Il secondo è che dare a un individuo da mangiare tutti i giorni è diseducativo (al contrario dell’educazione di cui lo Stato Etico si dichiara difensore), rimarrà perennemente nel suo status e tenderà ad impigrirsi poiché non dovrà far nulla per raggiungere il benessere;
  3. Il terzo è la pretesa di redistribuzione della ricchezza, un atto che diventa tanto più dannoso quanto più denaro si preleva dalle tasche dei cittadini, aggiungendo al danno il “consumo” dell’apparato incaricato di gestire tale redistribuzione;
  4. Il quarto è che si punterà sempre il dito su chi sta meglio, tanto che oggi i socialisti sono prevalentemente appartenenti al ceto medio e non hanno alcuna voglia di condividere maggiormente la loro ricchezza, ma preferiscono guardare ai portafogli di quei pochi che – per merito o per il caso- hanno più denaro di loro, ma non solo, talvolta questi borghesi socialisteggianti pensano di non avere abbastanza privilegi economici, il cui carico dovrebbe gravare sulle spalle dei contribuenti più virtuosi di loro;
  5. Il quinto, come già accennato, è che si demanda ad altri il proprio dovere morale di aiutare chi è in difficoltà, secondo le proprie regole da imporre a quegli altri che si vuole paghino. Diranno “lo Stato non fa abbastanza per combattere la povertà”, la verità è che seguendo le loro istruzioni lo Stato non potrà far altro che generare ulteriore povertà.

Quest’ultimo è il più grave sintomo dovuto a una società collettivista di individui deresponsabilizzati.
Ironia del caso, persone che non vogliono prendersi la responsabilità di aiutare dei poveri che loro credono abbiano bisogno di un ben specifico aiuto (davvero sono sicuri che i loro provvedimenti aiuteranno le persone?), chiedono di aiutare tali poveri deresponsabilizzandoli dall’autorealizzazione, dalla ricerca di un lavoro o di un lavoro migliore, dal miglioramento del proprio status e delle proprie competenze.

A riguardo, voglio raccontare un aneddoto: c’è un mio carissimo amico, il quale ha oramai 70 anni, ma lavora ancora con enorme passione, legge libri e giornali, segue corsi per aggiornarsi e molto altro; non ha un lauto stipendio da poter fare lo spendaccione, eppure ogni volta che vede un mendicante gli prende qualcosa al supermercato, quando sa di un padre di famiglia che ha perso il lavoro si fa in quattro per chiedere a chiunque nella sua rete di contatti se ci sia la possibilità di trovargli una mansione.

Una volta mi disse che dovrei considerare uno strano paradosso: se lo Stato abbassasse la tassazione, lui avrebbe più soldi per aiutare il prossimo, ma che se la tassazione dello Stato fosse più bassa e dunque la presenza dello Stato minore, non ci sarebbe alcun bisognoso da aiutare.

Certo, io non so se avrei mai lo spirito per aiutare così tanto il prossimo come fa lui, eppure non è ipocrita come chi chiede di aiutare gli altri con soldi di altri ancora, è un altruista vero e non si sognerebbe mai di imporre la sua idea di solidarietà a nessuno.

Il vero punto a favore dello Stato Liberale è che riesce a fare del bene agli individui educandoli all’autorealizzazione, all’indipendenza, al miglioramento di sé pur senza dare un indirizzo morale o etico, fattore tipico del fallimentare Stato Etico.

Dunque, ricapitoliamo: uno Stato che dimora in un Sistema Liberale non crea cittadini di serie A e di serie B, bensì garantisce il rispetto della legge e favorisce i processi meritocratici. Per tutti.

Scienza e Libertà: un rapporto complesso

Un breve excursus filosofico attraverso Comte, Mill e Bergson

Quando l’anno scorso, durante l’ennesimo scontro con un antivaccinista convinto, Roberto Burioni, per mettere a tacere l’insulso complottista, affermò che “la scienza non è democratica”, provai una certa estasi. Quella semplice frase, concisa ed efficace, rappresentava ai miei occhi il trionfo della Scienza e della Ragione sull’oscurantismo digitale 2.0, che sta cercando di mettere in dubbio uno dei più grandi successi della medicina moderna. Tuttavia, nel corso del tempo, ho avuto modo di ragionare sul significato profondo di quella frase. “La scienza non è democratica”.

Ho dunque realizzato di trovarmi totalmente d’accordo con questa affermazione se con essa si intende che in una discussione di argomento medico-scientifico, la mia opinione non può avere lo stesso valore di quella di un virologo del livello di Burioni. In medicina il mio “voto” non può (e non deve) contare quanto quello di una persona altamente qualificata; quindi in questo senso la Scienza non è assolutamente democratica.

Tuttavia, dietro al fatto che, giustamente, la Scienza non sia democratica si annida un problema che già Kant, quasi tre secoli fa, aveva dibattuto: quale Libertà può restare all’uomo in un sistema rigidamente deterministico? Ci sono infatti soltanto due modi di porsi nei confronti della Scienza:

  • Accettarla come Verità assoluta, incontestabile ed immutabile porta necessariamente alla naturale tendenza della Scienza a voler spiegare, e quindi determinare, ogni singolo aspetto della Vita umana: dalla coscienza, al destino del singolo individuo, che viene così privato di ogni libertà di azione e morale
  • Accettarla come momentanea interpretazione della realtà che ci circonda, sempre aperta al cambiamento, all’evoluzione e a nuove teorie, secondo la tradizione humiana-kantiana per cui le leggi scientifiche hanno valore solo ipotetico e probabile, permette al singolo di riconquistare la sua libertà, e conseguentemente sottopone la Scienza al giudizio morale

Positivismo e Riduzionismo

Nella seconda metà dell’800 Auguste Comte, discepolo di Henri de Saint-Simon, concepì quell’insieme di dottrine filosofiche che passarono alla storia con il nome di Positivismo. Egli era convinto che il progresso della razza umana sarebbe stato possibile solo affidandosi ciecamente alla Scienza, e riponeva in essa così tanta fede che negli ultimi anni della sua vita arrivò a fondare una “Chiesa positivista” con un suo catechismo. Per Comte il ruolo di una persona nella società era determinato biologicamente dal suo DNA, la coscienza e la psiche umana erano riducibili a semplici processi chimici a livello del cervello, le donne erano indiscutibilmente inferiori agli uomini perché un cervello femminile pesa meno di uno maschile, e aveva come massima ambizione scoprire una legge scientifica in grado di ridurre l’uomo, i suoi pensieri, la sua volontà e le sue azioni, a fenomeni fisici riconducibili alla Legge di gravitazione universale. Il Positivismo comtiano, e ancora di più quello tedesco, abbracciò di conseguenza il Riduzionismo materialistico e la sua dottrina:

  • Tutto è materia misurabile quantitativamente
  • Spirito, Morale e Metafisica non hanno più alcun valore
  • Ogni fenomeno può essere quantitativamente spiegato dalla Scienza
  • L’individuo è biologicamente determinato nella sua condizione (sono di questi anni degli studi di Lombroso, Darwin, Dalton e Spencer)

È evidente come dal punto di vista sociale non resti più alcuna Libertà. Se tutto è determinabile e determinato scientificamente, l’individuo non ha alcuna possibilità di scelta. La società teorizzata da Comte, convinto oppositore della democrazia, è uno dei primi esempi di Tecnocrazia capitalista-statalista (pre-keynesiana, giusto per intenderci), alla cui guida ci sarebbe dovuta essere una élite di scienziati.

John Stuart Mill e la libertà individuale

Contemporaneo di Comte e padre del liberalismo inglese moderno, John Stuart Mill ebbe come punti di riferimento la tradizione empiristica inglese di Bacone, Berkeley, Locke, Hume e l’Utilitarismo di Bentham. Mill, che pure riconosceva alle scienze un grandissimo valore, sottolineò, in aperto contrasto con le teorie di Comte, la necessità di arrivare alla Scienza attraverso un processo di induzione che partisse dai fatti. A suo avviso infatti, non possono esistere leggi scientifiche definitive, poiché l’Induzione si basa sull’esperienza, che può sempre essere contraddittoria. Pertanto, la soluzione all’apparente dicotomia tra Scienza e Libertà fu trovata da Mill nella Statistica. Essa infatti permette di postulare assiomi generali validi per gruppi di individui numerosi, senza escludere la possibilità di libertà individuale del singolo. Un esempio. Si consideri la frase: “è statisticamente provato che ogni anno a Londra vengano smarrite dal servizio postale circa 10.000 lettere”. L’asserzione statistica permette di formulare un’affermazione che descrive in modo efficace, probabile, e non deterministico, la realtà dei fatti. Tuttavia, non è detto che le 10.000 lettere perse ogni anno appartengano sempre alle stesse 10.000 persone; in questo modo la libertà individuale è garantita, ma il quadro complessivo della società è efficacemente descritto in termini probabilistici.

Bergson e il Naturalismo

Filosofo della reazione anti-positivistica di inizio ‘900, il pensiero di Henri-Louis Bergson fu talmente affascinante da meritare il Nobel per la Letteratura nel 1927. Egli rifiutò radicalmente sia il Meccanicismo darwiniano e positivistico, sia il Finalismo delle nuove correnti spiritualistiche del suo tempo, per teorizzare un nuovo approccio al problema della Vita: il Naturalismo bergsoniano. Bergson, proprio per difendere la libertà umana e il valore intrinseco della vita dal martello del Riduzionismo positivistico, sottolineò come la Scienza, in tutta la sua grandezza, fosse completamente incapace di spiegare i due aspetti più importanti dell’essere umano: la Vita, e la Coscienza. Esse sono due Unità, indivisibili, e pertanto non indagabili dalla Scienza, che con il metodo analitico finirebbe per distruggerle, dal momento che la somma di parti distinte non permette di ricostruire né la Vita, né la Coscienza. Bergson non nega a priori il valore della Scienza, ma critica aspramente la tecnica sterile, che senza il controllo dell’uomo risulta potenzialmente distruttiva. Per concludere, ricordiamo come Bergson abbia rigettato del tutto anche ogni Finalismo; nella sua filosofia l’Universo è animato da uno “slancio vitale” che deriva dalla Vita stessa, Unità originaria di cui l’uomo è Coscienza. Questa “evoluzione creatrice” crea costantemente e in modo imprevedibile, tuttavia senza un fine o un progetto definito, in un costante passaggio dal complesso al semplice, dalla Vita alla materia.

Il più grande ostacolo allo sviluppo umano: l’intervento dello Stato (W. von Humboldt)

Il seguente testo viene da “I Limiti dell’Azione Statale” di Humboldt del 1792, quando ancora il Socialismo Marxista non c’era, eppure -sorprendentemente- i liberali già combattevano le forze stataliste che volevano sottomettere il cittadino al volere dei governanti:

Qualsiasi interferenza statale negli affari privati, non implicando necessariamente la violenza a danno dei diritti individuali, dovrebbe essere assolutamente condannata.

Uno Stato, quindi, progetta sia per promuovere la felicità, sia semplicemente per prevenire il male; e in quest’ultimo caso, il male è quello che sorge da cause naturali, o ciò che scaturisce dal disprezzo dell’uomo per i diritti del suo prossimo.

Ad esempio, può adoperarsi per ottenere immediatamente questi risultati, sia con l’aiuto della coercizione sia con gli incentivi dell’esempio e dell’esortazione; oppure può combinare tutte queste fonti di influenza nel tentativo di plasmare la vita esteriore del cittadino in accordo con i suoi fini; o, infine, può tentare di esercitare un’influenza sui suoi pensieri e sentimenti, in modo da portare le sue inclinazioni, anche, in conformità con i desideri dello Stato.

Sotto tale sistema, non abbiamo tanti singoli membri di una nazione che vivono uniti nei vincoli di un contratto sociale; ma soggetti isolati vivono in una relazione con lo Stato, o piuttosto con lo spirito che prevale nel suo governo, una relazione in cui l’indebita preponderanza dell’elemento dello Stato tende già a ostacolare il libero gioco delle energie individuali.

Le cause simili producono effetti simili; e quindi, in proporzione al crescere della misura e della cooperazione statale, una comune rassomiglianza si diffonde, non solo attraverso tutti gli agenti a cui è applicata, ma attraverso tutti i risultati della loro attività. [nota: ecco l’uguaglianza sostanziale!]

E questo è il disegno che gli Stati hanno in mente. Non desiderano nient’altro che conforto, agio, staticità; e queste caratteristiche sono prontamente assicurate nella misura in cui non vi è alcun conflitto di individualità.
Ma quello a cui le energie dell’uomo lo spingono sempre e verso cui deve incessantemente dirigere i suoi sforzi, è l’opposto di questa inerzia e uniformità, – è varietà e attività.

L’uomo che frequentemente sottomette la condotta delle sue azioni a guida e controllo stranieri, diventa gradualmente disposto a un sacrificio volontario della poca spontaneità che rimane in lui. Si immagina liberato da un’ansia che vede trasferita ad altre mani, e sembra a se stesso fare abbastanza quando cerca la loro guida, e segue il corso a cui lo dirige.

Così, le sue nozioni di giusto e sbagliato, di lode e di biasimo, si confondono. L’idea di essere primo non lo ispira più; e la dolorosa coscienza dell’ultimo lo assale meno frequentemente e violentemente, dal momento che può facilmente attribuire i suoi difetti alla sua peculiare posizione, e lasciarli alla responsabilità di coloro che li hanno forgiato per lui.

Se aggiungiamo a questo che non può, forse, considerare i disegni dello Stato come perfettamente puri nei loro oggetti o nell’esecuzione, egli ora si concepisce non solo libero da ogni responsabilità che lo Stato non gli ha imposto espressamente, ma allo stesso tempo scagionato da ogni sforzo personale per migliorare la propria condizione; e si restringe anche da un tale sforzo, come se fosse probabile che possa aprire a nuove opportunità, di cui lo Stato potrebbe trarre vantaggio.

 

 

Come si autorealizza un Individuo? La risposta di W. von Humboldt

Nella sua eccelsa opera “I Limiti dell’Azione Statale”, un titolo che già lascia presagire 92 minuti di applausi per ogni paragrafo letto, Wilhelm von Humboldt intraprende la sua analisi partendo da come un Individuo debba autorealizzarsi: “Dell’Individuo e dei più alti confini della sua esistenza“, così il titolo del secondo capitolo. Eccone alcuni estratti, quelli a parer mio più significativi:

Il vero fine dell’Uomo, o ciò che è prescritto dai dettami eterni e immutabili della ragione e non suggerito da desideri vaghi e passeggeri, è lo sviluppo più alto e più armonioso dei suoi poteri verso un’interezza completa e coerente.

La libertà è la prima e indispensabile condizione che presuppone la possibilità di tale sviluppo; ma c’è anche un altro essenziale, – intimamente connesso con la libertà, è vero, – ossia la varietà delle situazioni. Anche il più libero e autosufficiente degli uomini è ostacolato nel suo sviluppo quando si trova in una situazione di staticità.

Quindi deduco,in maniera naturale da quanto sostenuto, che la ragione non può desiderare per l’uomo alcuna condizione diversa da quella in cui ogni individuo non solo gode della più assoluta libertà di svilupparsi con le proprie energie, nella sua perfetta individualità, ma in cui anche la natura esteriore è lasciata fuori moda da qualsiasi agenzia umana, ma riceve solo l’impronta che gli viene data da ciascun individuo di se stesso e dal proprio libero arbitrio, secondo la misura dei suoi desideri e istinti, e limitato solo dai limiti del suo poteri e i suoi diritti.

Humboldt dunque vuole arrivare a spiegare come l’azione statale impedisce all’uomo di realizzarsi correttamente e pienamente, ponendogli i bastoni fra le ruote o facilitandolo eccessivamente rendendogli inutile ogni sforzo, ma pur sempre a scapito di tutti gli altri Individui.

Oltretutto vuole far notare l’ipocrisia degli statalisti, un’ipocrisia “data dal fatto che essi considerino ciò che l’uomo possiede rispetto a ciò che è realmente, e che rispetto a quest’ultimo non coltivano, neppure all’uniformità, le facoltà fisiche, intellettuali e morali” nonostante si ergano a protettori del suo spirito, della sua mente, del suo corpo. Questi statalisti, dunque, vorrebbero decidere la maniera in cui ogni Individuo debba condurre la propria vita, facendosi carico del fardello che non riescono a sorreggere sulle proprie spalle pur di avere il Potere decisionale, di vita e di morte sugli altri , sostenendo come unico valore “l’unità perfetta di tutto l’essere“.

E con un coraggioso confronto asserisce: “Gli antichi cercavano la felicità nelle virtù; i moderni hanno troppo a lungo cercato di sviluppare le virtù a partire dalla felicità“, dunque, critica la scelta di imporre la felicità qualunque cosa si faccia, anziché di lasciare che la si cerchi a partire dai propri valori e dalle proprie virtù, passando per la realizzazione individuale.

Ecologia, conservazione e sviluppo in assenza di Stato (4); M.N. Rothbard (For a New Liberty, analisi 2^ parte)

Conservazione, ecologia e sviluppo:

In questa sezione, Rothbard affronta un cavallo di battaglia dei liberal di sinistra e dei socialisti, ovvero l’ecologia, la tecnologia e il loro rapporto col libero mercato e il capitalismo. A detta di Rothbard, i liberal di sinistra vedono nello Stato la soluzione per ogni problema, tra cui ovviamente il rispetto e la salvaguardia dell’ambiente, lo sviluppo della tecnologia e il progresso della società. Ma, fa notare, nel corso del tempo i vari liberal hanno sostenuto tesi contraddittorie. Eccone un piccolo riassunto che mostra l’attualità di alcune situazioni:

  • Tra gli anni ’30 e ’40 i liberal sostenevano che il capitalismo era in un “ristagno secolare” che avrebbe generato disoccupazione di massa permanente.
  • Negli anni ’50 il capitalismo stava crescendo ma non abbastanza rapidamente, era necessario l’intervento dello Stato per alimentare l’economia.
  • Alle soglie degli anni ’60 la situazione si capovolge, gli americani erano troppo benestanti e stavano perdendo la loro spiritualità tra gli scaffali dei supermercati. Lo Stato doveva ridurre questo esagerato benessere.
  • Poco dopo, il problema non era più l’eccessiva ricchezza ma l’eccessiva povertà: entra in scena la “guerra contro la povertà”.
  • Nel 1964, la “Ad Hoc Committee on The Triple Revolution” pubblica un manifesto in cui dice che, continuando di questo passo, il capitalismo avrebbe automatizzato tutti i mezzi di produzione: la produzione sarebbe stata sovrabbondante ma ne sarebbe conseguita una disoccupazione di massa. Questo è il periodo dell’”isteria dell’automazione.”
  • Successivamente, al centro dell’attenzione entra l’ecologia: il capitalismo non la salvaguarda, c’è bisogno dello Stato e di una società a crescita zero.

Rothbard fa notare che non è raro trovare persone che affermano contemporaneamente che viviamo in un’epoca di post-scarsità, dove non è necessario più della proprietà privata e del capitalismo, e al tempo stesso che viviamo in una società dove l’ingordigia capitalistica divorerà tutte le risorse a livello mondiale. Però, qualunque sia il problema, la risposta liberal è sempre una e solo una: socialismo e pianificazione statale.

Ma il “padre” dei libertari è di un altro avviso. Non è fermando il progresso tecnologico o cercando di frenare il capitalismo i vari problemi che si possono incontrare verranno risolti. Anzi, è solo grazie al progresso e all’aumento del benessere che le condizioni di vita sono migliorate. Se la tecnologia tornasse all’era preindustriale il risultato sarebbero “solo” carestia e morte. Proprio per questo motivo, lo Stato deve levarsi di mezzo e smettere di soffocare l’economia con tasse e regolamentazioni in modo tale permettere che le risorse economiche siano utilizzate appieno dai privati, permettendo così lo sviluppo tecnologico e dell’economia stessa.

Arriviamo ora al nocciolo della questione: come potrebbero il capitalismo e il libero mercato salvaguardare l’ambiente e le risorse? L’ingordigia capitalista non divorerebbe tutto non appena gli lasciamo la strada libera? Per Rothbard non c’è nulla di più assurdo. Il capitalismo vive di risorse e non potrebbe esistere senza. I meccanismi di libero mercato, del vero libero mercato, riuscirebbero a regolare le cose. Come? Con i prezzi. I prezzi ci dicono molte informazioni, non complete, ma importantissime. Se una risorsa scarseggia è ovvio che il prezzo salirà. Questo cosa comporta? Innanzitutto che i proprietari delle risorse, per non vedere crollare i loro prezzi, cercheranno di dosare, ad esempio, l’estrazione di minerali e/o combustibili fossili. Poi, seguendo sempre l’indicazione dei prezzi, nel momento in cui una risorsa è troppo costosa si andrà alla ricerca di nuove tecnologie meno costose ed efficienti o di nuove miniere o giacimenti. Questi sono gli effetti “conservativi” dei prezzi.

Inoltre, cosa importantissima, il capitalismo “crea” risorse. Il petrolio, prima delle lampade a kerosene e delle automobili era un rifiuto indesiderato. Ora è l’oro nero. Questo accade per una infinità di materiali e di fibre naturali e per i nuovi materiali di sintesi o artificiali.

Rothbard non vuole negare l’inquinamento e il rischio di esaurimento delle risorse, ma ritiene che il problema sta nella mancanza di incentivi economici a mantenere le risorse. Infatti, essendo quasi tutte le risorse principali di proprietà dello Stato, ad esempio foreste, laghi e fiumi, coloro che le hanno in concessione non hanno il men che minimo interesse a non sfruttarle fino all’ultima goccia o a farsi scrupoli se scaricano rifiuti inquinanti in acqua. Non essendo di loro proprietà, una volta che hanno la possibilità di sfruttare lo fanno. Invece, se lo Stato non possedesse questi beni ed essi fossero nelle mani di privati, la situazione sarebbe ribaltata. Se una persona possiede una risorsa ma non la valorizza né se ne cura, avrà sicuramente una perdita. Ecco che in questa situazione i privati sono economicamente incentivati a salvaguardare le risorse. Nessuno vorrebbe vedere esaurita o inquinata la sua fonte di ricavi, che sia una foresta o un lago.

Per ciò che riguarda l’inquinamento, il pensatore newyorkese trova un altro punto critico. Le critiche sono in parte simili a quelle precedentemente esposte, ma nello specifico, il problema è individuato nella arroganza dello Stato che lascia inquinare nella mancanza di rispetto dei diritti individuali delle persone. Infatti, lo Stato permette di inquinare i suoi laghi, i suoi fiumi, di consumare e di sfruttare le sue terre e, cosa ancora peggiore, di inquinare l’aria che respiriamo. L’inquinamento dell’aria non può non essere visto come una violazione dei diritti delle persone, è una aggressione. In teoria, lo Stato dovrebbe tutelare i suoi cittadini, dovrebbe verificare ed impedire questo tipo di aggressioni; invece ne è complice e anzi le promuove nel nome del superiore “bene pubblico”. Non importa se un aeroporto fa rumore, non importa se una fabbrica inquina perché c’è una cosa più importante dei diritti individuali, il bene pubblico. Per Rothbard i diritti sono inviolabili il bene pubblico non può essere una buona ragione per passare sopra ad essi. Per questo motivo rifiuta anche la soluzione di Milton Friedman che affronta questi temi con un calcolo costi-benefici.

Chiudo il resoconto con le parole di Schumpeter, citato da Rothbard:

«il capitalismo si presenta davanti ai giudici, e questi hanno già la sentenza di morte nelle loro tasche. Tale sentenza sarà definitiva, a prescindere da ciò che dirà in sua difesa; l’unica vittoria che la difesa può sperare è una diversa formulazione dell’imputazione.»

 

 

 

 

 

 

 

Autarchia: una pericolosa utopia

Il dibattito fra libero mercato e protezionismo non è certo un’invenzione dei nostri tempi. Già nell’Ottocento Cavour,convinto sostenitore del libero scambio,con le sue politiche economiche rese il Regno di Sardegna il più florido fra gli Stati italiani pre-unitari. Al contrario uno dei suoi successori,Francesco Crispi,nel pieno della grande depressione del 1873-1896 si imbarcò in una guerra commerciale contro la Francia,il nostro principale partner economico di allora,che risultò disastrosa per il Paese. Allora come oggi,dunque,una grave crisi economica spinse molti governi ad abbandonare il libero scambio per adottare politiche protezionistiche, che prolungarono ulteriormente la crisi. Il protezionismo, malgrado i danni che esso determina, non è nulla se confrontato all’antitesi stessa del libero mercato, l’autarchia.

Per “autarchia” si  intende l’assoluta autosufficienza del mercato nazionale,in grado di rispondere al fabbisogno interno di qualsiasi merce indipendentemente dagli scambi con i mercati esteri. Ciò era lo scopo ultimo della politica economica dei regimi totalitari europei del secolo scorso, ed è oggi il principio ispiratore delle proposte economiche di molti movimenti populisti,no global e della nuova sinistra.

Viene da chiedersi se l’autarchia possa essere considerata non solo un modello teorico,ma anche una concreta politica economica. A parere di chi scrive la risposta è sì,ma non nel XXI secolo. In passato infatti non sono mancati esempi reali di autarchia: cos’era infatti una corte feudale dell’Alto Medioevo,se non un microcosmo autarchico, in cui produttore e consumatore coincidevano nella medesima persona,il contadino?

Come per molte altre realtà storiche,dalla schiavitù al colera,a rendere obsoleta l’autarchia è stato lo sviluppo tecnico-scientifico. Mentre la civiltà feudale necessitava di risorse presenti ovunque nel mondo,quali terre fertili da coltivare e legname come combustibile,la nostra è una civiltà basata sulla tecnologia moderna,la quale tuttavia richiede materie prime che si trovano solo in aree specifiche del globo,come il petrolio (essenziale per carburanti,materiali sintetici e agricoltura) e le “terre rare”,come il neodimio,essenziali per i nostri dispositivi high-tech,dagli smartphone alle automobili elettriche. Ne consegue che nessuno Stato moderno possa sopravvivere senza scambi commerciali con altri Stati,in quanto non esiste paese al mondo dotato di tutte le risorse necessarie alla tecnologia moderna. Per ovviare a questo problema esistono tre possibili soluzioni: l’abbassamento delle condizioni di vita degli esseri umani,la guerra o il libero mercato.

La prima è la via intrapresa dal regime che governa la Corea del Nord,la cui ideologia prende il nome di “Juche”,generalmente tradotta come “autarchia” per l’appunto. La seconda è la scelta spesso adottata dagli Stati Uniti,che dalla seconda guerra mondiale in poi hanno sostenuto dittature e combattuto guerre al fine di assicurarsi il controllo di mercati esteri con le loro risorse. La terza,il libero mercato,rappresenta un modo per rimediare agli squilibri esistenti fra le nazioni senza ricorrere alla forza militare e senza rinunciare alle conquiste della tecnologia moderna,rendendo quindi possibile la ridistribuzione della ricchezza mondiale, non quella da attuare con la forza,figlia dell’ideologia marxista,bensì quella fra produttore e consumatore figlia della libertà economica,presupposto indispensabile per ogni altra libertà personale.

Ne consegue che l’autarchia è doppiamente pericolosa,in quanto ha come risultato un mercato interno bisognoso di espansione (spesso causa di guerre) e l’impoverimento delle nazioni. Soprattutto,l’autarchia è una grave restrizione alla libertà umana. Sin dalla nascita della civiltà,l’uomo ha condotto scambi economici con i suoi simili,prima con il baratto e poi con la moneta. Questi scambi, che oltre alle merci veicolano la diffusione delle idee, devono essere salvaguardati in una società libera,ed è per questo che l’autarchia è la compagna naturale del totalitarismo.

Le 10 regole per essere un cittadino migliore e libero

Eh sì, ci sono cittadini migliori e cittadini peggiori di altri. Questo perché non siamo tutti uguali, ma spero che se stiate leggendo queste righe abbiate già assimilato l’idea che l’uguaglianza sostanziale non esiste.

Premettendo che non sono un guru, la nostra associazione non è life coaching e quanto elencato sarà perlopiù una lista di doveri categorici kantiani, partiamo con le 10 regole:

  1. Metti sempre in discussione quello che stai dicendo, anche se sei saldo nelle tue convinzioni non ti farà mai male un atto di umiltà, potresti scoprire di dover fare un passo indietro e/o rivedere le premesse da cui eri partito; fossilizzarsi sui concetti, talvolta li rende pregiudizi. E nella comunicazione con gli altri, è sempre un bene non avere pregiudizi, soprattutto in un confronto può servire per far capire all’interlocutore chi è davvero quello “aperto”.
  2. Cerca sempre la competizione, prima che con gli altri, con te stesso. Se vuoi essere migliore, anzitutto devi essere migliore di quello che eri ieri e domani dovrai essere migliore di oggi. Vai in palestra, leggi, informati. Soprattutto: non provare odio e invidia. Quelle cose lasciale a chi vuole fare lotte di classe e imbrattare di sangue i muri, a chi vede in chi sta meglio un nemico anziché una persona autorealizzantesi.
  3. Abbi coerenza: riconduci ciò che dici e che fai a ciò che pensi, affondando i tuoi pensieri nei valori fondamentali in cui credi. Molto spesso capita di criticare qualcuno che commette i nostri stessi errori, è lecito? Se lui può, posso anch’io? Se lui non rispetta i miei valori, devo non rispettarli anche io? Ecco, diciamo che questa logica non regge.
  4. Non sprecare il tuo tempo: “Potrò pur perdere una battaglia ma non perderò mai un minuto” disse Napoleone, “Dormi 6 ore e te ne rimangono ancora 18. Sei ore sono poche? Allora dormi più velocemente” disse Schwarzengger ai laureandi della University of Southern California. Il tempo è alla base dell’autorealizzazione dell’Individuo, dunque non sprecarlo e programma le tue giornate per raggiungere i tuoi obiettivi.
  5. Agisci, non nuocere a nessuno, ma fallo: hai un’idea che non comprenda genocidi di massa, oppressione di persone e la sua applicazione non nuocerà a nessuno? Allora, devi necessariamente realizzarla. Fregatene del tempo che non passerai giocando a League of Legends o poltrendo sul divano (ut supra), se questa idea migliorerà te, contribuirà indubbiamente a migliorare la società. Perché è sempre così, la società migliora grazie alle fatiche dei singoli Individui, che lo facciano egoisticamente o meno.
  6. Assumi le tue colpe e responsabilità: l’Individuo è responsabile del suo destino e di tutto ciò che fa, prima di dare le colpe al sistema, agli altri, alla situazione, prima di dire che ce lo chiede l’Europa, fatti un esame di coscienza. Forse, quello che hai fatto, avresti potuto farlo meglio. Anche quella proposta di legge di cui non ti sei assunto la responsabilità. E se supererai l’esame introspettivo e scoprirai di aver dato il massimo, ma di aver fallito lo stesso, sii fiero di te.
  7. Pensa e ragiona: ciò che ci distingue dai comuni animali è l’uso dell’intelletto, della ragione e del pensiero. Sii sempre consapevole delle tue scelte, sii sempre sicuro delle parole che usi. Non avere pregiudizi: cerca le certezze, le evidenze fenomenologiche.
  8. Rispetta gli altri Individui, il solipsismo è passato di moda ed è ovvio che esistano anche altri Individui. Dunque, non tollerare l’intolleranza e i soprusi, non essere omertoso. Questo è il primo passo per la costruzione del capitale civico: avere il coraggio di combattere contro le ingiustizie, contro l’omologazione, contro il pensiero unico e totalitario.
  9. Relazionati con gli altri. Gli uomini come gli alberi «si costringono reciprocamente a cercare l’uno e l’altro al di sopra di sé, e perciò crescono belli dritti, mentre gli altri, che, in libertà e isolati fra loro, mettono rami a piacere, crescono storpi, storti e tortuosi.» Sempre secondo Kant, il diritto consiste nella «limitazione della libertà di ciascuno alla condizione che essa si accordi con la libertà di ogni altro» Ecco perché relazionarsi con gli altri è fondamentale per crescere, per accrescere il proprio bagaglio culturale, emozionale, civico.
  10. Non imporre la tua morale e non accettare che qualcuno la imponga a te. Se combattiamo contro lo Stato Etico non è perché la battaglia è fine a sé stessa, ma è perché non ci sta bene la coercizione. Sempre il buon Kant diceva “Il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me“, benché la frase venga usata nelle descrizioni di Instagram da adolescenti sedicenti adoni alle prese col nozionismo scolastico, esprime un chiaro quanto affascinante messaggio: la morale viene da dentro, non da fuori. Così come non possono costringerti ad amare qualcuno, a essere solidale verso qualcuno, a spenderti per qualcosa in cui non credi, allo stesso modo non imporlo tu a nessun altro.

 

Ecco il decalogo del cittadino liberale. Indubbiamente questi non saranno i nuovi 10 comandamenti del Liberalismo, ma sono 10 punti importanti di cui dovremmo tener sempre conto, a mio avviso.

L’Italia del 2018 come la Giudea del 33 d.C. : analisi dell’elettorato

Il 33 d.C. è l’anno in cui -così si narra da due millenni- Gesù venne crocifisso. Cosa stava accadendo in Giudea in quel periodo? Premetto, come sempre, che sono fermamente convinto del mio agnosticismo e che quanto esporrò non avrà l’intenzione di far redimere nessuno come Paolo sulla via di Damasco.

Fra i giudei c’erano due fazioni opposte fra loro: la fazione per la sottomissione ai romani proponeva di chinare un po’ il capo per vivere nella pace instaurata dal dominio di Roma, dialogando con i dominatori per mantenere qualcuna delle proprie tradizioni; l’altra fazione era quella degli Zeloti, che contestavano l’Impero con la violenza e con rappresaglie partigiane, volevano scacciare i loro governanti reclamando il regno di Dio in terra.

Fra gli italiani dei nostri giorni le fazioni sono più di due, ma molto semplicisticamente possiamo dire che si possano dividere così: la fazione per lo Status Quo, quella parte della popolazione che si è rassegnata (consapevolmente o no) ai grandi cambiamenti e che spera tutto si risolva con piccoli e minimi interventi, facendo sì che tutto cambi per non cambiare; dall’altra parte la fazione che è stufa della stazionarietà, quella che vuole il cambiamento e lo accetta di qualsiasi forma esso sia, basta che qualcosa cambi e che l’establishment attuale perda i suoi privilegi.

Nel primo caso, nelle annate d’intorno al 33 d.C. si stava diffondendo una terza via: quella dell’Amore, propugnata dai seguaci di Cristo; predicavano che la Libertà sarebbe arrivata tramite l’Amore, che la pace fra gli uomini sarebbe stata solamente una delle conseguenze di Amore e Libertà. Ci sono voluti diversi secoli, ma il contagio di quelle idee è stato tale da espandersi in ogni continente e sopravvivere per due millenni. Quel marketing ha funzionato alla grande: a differenza delle altre grandi dottrine utopiche, il richiamo del cristianesimo viene spontaneamente da dentro di sé una volta che si ha innescato la miccia, ha funzionato senza imporlo dall’alto (sarà l’imposizione degli ultimi secoli il motivo per cui ora sta indebolendosi e perdendo seguito?). A differenza del comunismo o delle dittature benevole e costruttivistiche del Grande Leviatano, secondo cui è l’ente centrale a imporre la pace e il bene per gli uomini.

Il secondo caso, quello odierno, è più difficile da trattare. Quello che è certo, è che non possiamo aspettare l’avvento di un altro messia e non dobbiamo più riporre le nostre speranze nell’ascesa di un nuovo uomo forte, carismatico e capace che sappia cosa fare. Nessuno più di un liberale dovrebbe sapere che la salvezza, l’autorealizzazione, la dignità, l’impegno, il merito vengano solo da sé e non dagli altri. Nessuno più di un liberale dovrebbe darsi da fare per la lotta quotidiana contro il collettivismo, contro la massificazione, contro l’omologazione (altro che il Capitalismo che ci vuole tutti uguali, quello è il comunismo!), diffondendo senza paura quell’ideale che nascondiamo in un recondito angolo della nostra mente.

Noi liberali sappiamo cosa c’è da fare: diffondere la Libertà, il progresso, il mercato e darci da fare per cambiare il tessuto culturale del nostro paese; un paese che rischia di rimanere senza futuro a causa di chi ha troppa paura del cambiamento o di chi vuole rivoltare il sistema senza rigor di logica.