Il Signore degli Anelli di J.R.R. Tolkien: un inno al Liberalismo

J. R. R. TOLKIEN E IL LIBERALISMO

 

Il Signore degli Anelli, di John Ronald Reuel Tolkien, è considerato l’opera fantasy più acclamata del XX secolo, con circa 150 milioni di lettori in tutto il mondo. Nella prefazione, Tolkien, che sentiva la necessità di spiegare in maniera più dettagliata l’obiettivo della sua opera, scrisse che:

Il motivo primo è stato il desiderio di un narratore di provare a cimentarsi in una storia veramente lunga che potesse attirare l’attenzione dei lettori, divertirli, deliziarli e a tratti anche eccitarli o commuoverli.

Per Tolkien, dunque, l’obiettivo principale dell’opera era dilettare e divertire se stesso e, come ogni autore che si rispetti, desiderava che la sua storia fosse divertente da leggere quanto lo era stato per lui scriverla. Diede vita alla Terra di Mezzo solo perché sentiva la necessità di dare un contesto ai propri piacevoli esercizi linguistici – adorava creare nuove lingue, grammatiche, ortografie, etc. – e successivamente si innamorò di questo nuovo mondo, che continuava a crescere in profondità ed estensione.

La Terra di Mezzo di Tolkien è, in fin dei conti, un prodotto eminentemente individuale, specchio del proprio essere. Ed egli prende la felice decisione di condividere una parte di questa sua visione del mondo con i suoi lettori, ossia, con tutti noi: la sua opera riflette tutto ciò che l’autore considera buono, spregevole, gradevole, sgradevole, morale, immorale. Ed è proprio la particolare visione del mondo di Tolkien, satura di profonde e personali impressioni filosofiche, teologiche e politiche, che ha finito per regalarci una delle opere più meravigliose del suo genere. Un’opera repleta del più puro liberalismo e della più sincera difesa dell’individuo!

È possibile analizzare l’opera di Tolkien attraverso diverse “chiavi di lettura”, ma mi atterrò, per ovvie ragioni, alla chiave di lettura politica.

Nella prima opera pubblicata, Tolkien dà i natali a una razza molto particolare: gli Hobbit. Questi sono un riflesso dell’autore stesso, della sua visione del mondo e dell’importanza che egli dava alle cose: l’Hobbit è un piccolo-borghese, avvezzo alla vita nei campi, attaccato alle piccole comodità domestiche (come i 6 pasti quotidiani), che, improvvisamente, viene chiamato ad essere protagonista dei grandi eventi della propria epoca, e non si nega a tale ruolo.

Tolkien era un umile professore universitario che all’improvviso si vide catapultato nelle trincee della Prima Guerra Mondiale. Bilbo era un Hobbit semplice e mite che inaspettatamente si ritrovò alla ricerca dei tesori nascosti nella Montagna Solitaria, che era stata saccheggiata e conquistata dal terribile drago Smaug, responsabile della sottomissione del più grande regno dei Nani dell’epoca.

La storia di Bilbo Baggins, in tal senso, mostra la fede di Tolkien nella capacità dell’individuo – anche del più semplice e pacato, anzi, talvolta proprio del più semplice e pacato – di realizzare grandi sacrifici, di uscire dalla propria comfort zone, di prendere in mano le redini del proprio destino e di essere capace di grandi atti di coraggio ed eroismo in nome di una giusta causa.

Ma Lo Hobbit – mi perdonino i fan più appassionati dell’opera prima di Tolkien – è un semplice assaggio rispetto alla grandezza che ci aspetta ne Il Signore degli Anelli. Ivi veniamo a contatto, grazie alla genialità di Tolkien, con il liberalismo nella sua forma più pura: la diffidenza nei confronti del Potere.

Lord Acton, il celebre storiografo britannico, affermò una volta, giustamente, che:

Il potere tende a corrompere, il potere assoluto corrompe in modo assoluto. I grandi uomini sono quasi sempre malvagi.

Tale visione del mondo rappresenta l’essenza stessa de Il Signore degli Anelli, com’è possibile percepire in diversi momenti dell’opera. Cercherò di raccontarvi gli episodi che considero più rivelatori, giacché, data la vastità dell’opera, la sua densità e la ricchezza di dettagli, non mi sarebbe possibile esaurire l’argomento in un breve articolo.

L’Unico Anello, l’Anello del Potere, rappresenta il fulcro del libro e si configura come la rappresentazione più esplicita del “Potere”, appunto, che può essere assimilato al concetto di “Stato”. Il dialogo tra Boromir e Aragorn ne La Compagnia dell’Anello è, in tal senso, rivelatore. Quando a Gran Burrone Boromir scopre che Gandalf e Frodo possiedono l’Anello, propone, con molta naturalezza, che venga utilizzato per combattere Sauron, ossia, per combattere il Male[1].

Per Boromir, chi è in possesso del “Potere”, ha davanti a sé un immenso ventaglio di opportunità: è possibile usare il Potere per correggere – magari addirittura sconfiggere – il Male. Il Potere Assoluto, chiaramente, potrebbe addirittura annientare il Male Assoluto: potrebbe concederci “il Paradiso in Terra”. Boromir è un costruttivista, crede che sia possibile la disgregazione dello status quo in favore della costruzione di un futuro migliore, ideale, perfetto, dove il Male non esista. Ritiene che sia possibile costruire, in maniera premeditata, il Paradiso in Terra. Come? È sufficiente usare l’Anello, riunire nelle proprie mani il Potere Assoluto con buone intenzioni e l’obiettivo di fare del bene. Boromir è, purtroppo, la rappresentazione della mentalità maggioritaria dei nostri giorni, della fede puerile nella capacità di riscrivere tutto da zero. La convinzione che, con le persone giuste, si possa raggiungere qualsiasi obiettivo.

Aragorn controbatte con fermezza che è da ingenui pensare che l’Anello possa rispondere a qualcuno al di fuori di Sauron – ossia, che il Potere possa rispondere a qualcosa di diverso dal Male. In altre parole, non è possibile fare del bene attraverso il Potere, per quanto buone possano essere le intenzioni di chi lo adopera. Infatti, è evidente come Aragorn non dubiti della purezza e della virtù degli intenti di Boromir, ma semplicemente nutra una profonda diffidenza nella possibilità di usare il Potere per (ri)costruire qualcosa di positivo – e la sua storia familiare, ossia la morte del Dùnedain Isildur ai Campi Iridati, rappresentava per lui il più fulgido ricordo dei risultati di questo tipo di fede.

Tolkien, come il buon liberale che era e in virtù della naturale sfiducia che nutriva nei confronti del Potere, si servì di altri due momenti e di due personaggi totalmente distinti per dimostrare la fallacia e l’ingenuità del raziocinio costruttivista, oltre alla necessità di una fortissima convinzione e di principi ben radicati per resistere alla soluzione più semplice (e catastrofica).

Il primo personaggio è Gandalf.

Quando Frodo, all’inizio de La Compagnia dell’Anello, atterrito dall’immensa responsabilità che rappresentava l’Anello di Bilbo appena ricevuto, decide di offrirlo a Gandalf, il mago, personificazione della prudenza e della saggezza, nonché della coscienza stessa di Tolkien, risponde:

“No!” gridò Gandalf, saltando in piedi […] “Non mi tentare! Non desidero eguagliare l’Oscuro Signore. Se il mio cuore lo desidera, è solo per pietà, pietà per i deboli e bisogno di forza per compiere il bene. Ma non mi tentare! Non oso prenderlo, nemmeno per custodirlo senza adoperarlo”[2].

Per Frodo, Gandalf è un uomo molto più saggio e assennato di quanto egli stesso potrebbe mai sognare di essere, per cui decide, in nome della prudenza, di affidargli l’Anello. E Gandalf, proprio per essere un uomo tanto saggio e assennato, riconosce l’Anello come un oggetto oscuro, degno del più profondo timore, e non osa toccarlo neanche per un solo istante, riconoscendo la tentazione irresistibile che esso rappresenta.

L’Anello (o il Potere) ci si offre come la soluzione più semplice a tutti i nostri intenti, anche ai più puri, lodevoli e irreprensibili, come la pietà verso i deboli, la misericordia e la necessità premente di fare del bene. La risposta dell’Unico Anello ai nostri più profondi desideri è ciò che vi è di più tentatore: “il mondo è una successione infinita di ingiustizie, ma, se mi terrai con te, avrai nelle tue mani tutto il Potere che occorre per correggerle e sanarle. Io ti darò il Potere di aggiustare tutto. Ti basta mettermi al dito”.

La tentazione dell’Anello – o la tentazione del Potere, ai giorni nostri – è in grado di corrompere anche i migliori di noi e nel buio incatenarli. E Gandalf, il liberale, ne era consapevole.

Il secondo personaggio è Faramir, fratello di Boromir.

Frodo e Sam, nel loro viaggio verso il Monte Fato per distruggere l’Anello, lo incontrano insieme ai suoi soldati, di pattuglia nel territorio di Gondor. Il prudente e lungimirante Faramir, prima di eseguire i rigidi ordini del Signore di Gondor (sentenziare a morte qualsiasi individuo si aggirasse per il regno senza autorizzazione), decide di ascoltare ciò che i due piccoli uomini sconosciuti – che successivamente scopre essere “Hobbit” – hanno da dire.

Faramir viene così a sapere che Frodo e Sam fanno parte della Società dell’Anello insieme a suo fratello Boromir e finisce per ricevere la conferma della morte di questi. Frodo e Sam, visibilmente a disagio una volta saputa la parentela di Faramir e Boromir, dal momento che quest’ultimo aveva cercato di convincerli con la forza a consegnargli l’Anello proprio prima di morire in un’imboscata degli Orchi, rimangono sorpresi dalla schiettezza e dalla cautela di Faramir, che sembra “meno ambizioso e orgoglioso, e al tempo stesso più saggio e severo”[3] del fratello:

“Che cosa sia in realtà tale Oggetto, ancora non saprei dire; ma deve trattarsi di qualcosa di assai potente e periglioso. Un’arma crudele forse […] Se questo oggetto poteva procurare vantaggi a un guerriero, comprendo bene come Boromir, fiero e spericolato, sovente avventato, sempre ansioso di vedere la vittoria di Minas Tirith (e con essa la propria gloria), potesse desiderarlo ed esserne attratto. Ahimè, perché partì lui per quella missione? Mio padre e gli anziani avrebbero dovuto scegliere me, ma egli si fece avanti, essendo il maggiore e il più ardito, e non si lasciò distogliere da nessuno”[4].

E, vedendo come gli Hobbit siano ancora molto timorosi e sospettosi, Faramir conclude, in uno dei momenti più profondi e intrisi di significato dell’opera:

Ma non avere più timore! Io non m’impadronirei di codesto oggetto, neppure se lo trovassi lungo la strada, neppure se Minas Tirith stesse cadendo in rovina e io solo potessi salvarla, usando così l’arma dell’Oscuro Signore per il bene della mia città”.

Con queste parole e con questo esempio, Faramir, che ha Sam e Frodo sotto custodia militare e può benissimo impadronirsi dell’Anello (il Potere Massimo e Assoluto) e servirsene (per raggiungere il bene comune) a proprio piacimento, rappresenta per la seconda volta e in una circostanza critica del libro l’atteggiamento di un autentico liberale.

Faramir, come Gandalf, come Aragorn e come lo stesso Tolkien, diffida del Potere. E tale diffidenza lo conduce attraverso un sentiero etico e morale talmente solido da portarlo ad affermare che non si servirebbe del Potere neanche se ne entrasse in possesso per caso (cioè se lo ottenesse senza sforzo e senza coercizione) o se rappresentasse l’unica possibilità di salvezza e di fare del bene per il proprio regno in rovina.

E, considerando la situazione in cui fa tale affermazione, Faramir non sta solo pronunciando belle parole prive di significato.

In quel momento, mentre le proferisce, ha appena incontrato per caso il Potere Assoluto e, per quanto ne sa, l’Anello rappresenta l’unica possibilità di salvare Gondor dalla rovina causata dalle orde quasi infinite del Signore Oscuro. Ciononostante, non se ne appropria. Pronunciando quelle parole, Faramir le mette in pratica: parla e agisce in accordo con i propri principi di libertà.

Con tale affermazione, Faramir si configura come un gigante liberale. In tale contesto, si dimostra più grande di quanto il più grande guerriero di Gondor, suo fratello Boromir, sia mai stato. Perché la cautela di Faramir è la risposta giusta, non l’ansia di salvare tutto e tutti, costi quel che costi, di Boromir.

Nell’ansia di salvare Gondor, Boromir quasi la distrugge. Mentre, in un momento di cautela liberale – che sembra anticipare i brillanti insegnamenti di Hayek [5] – Faramir la salva.

Dunque, alla fine del libro, tocca al piccolo Frodo Baggins compiere la difficile missione che nessun uomo, per quanto grande e nobile fosse, era stato fino ad allora in grado di portare a termine: lanciare l’Anello tra le fiamme del Monte Fato, spazzando via per sempre il Potere Assoluto dalla Terra di Mezzo. Se neanche il leggendario Dùnedain Isildur ci era riuscito, come può Gandalf affidare una missione così difficile a Frodo? Come può un piccolo uomo riuscire dove anche i più grandi uomini hanno fallito?

Per Tolkien, non vi è di che sorprendersi. Nella sua visione del mondo, la domanda si inverte: come potrebbe l’umile e semplice Frodo non farcela? E, pensandola come Tolkien (o pensandola come un liberale, che è lo stesso), si comprende molto facilmente la scelta di Gandalf.

Mi spiego: mentre Saruman è ossessionato dalle antiche pergamene, dagli affari della Corte di Gondor, dal Regno degli Uomini, dalla grandezza e dalla gloria di Númenor (insomma, dalla storia dei “grandi uomini” di Lord Acton), Gandalf si è sempre interessato agli Hobbit. Interesse estremamente indicativo della visione del mondo del mago.

In uno dei pochi momenti in cui la trilogia The Hobbit di Peter Jackson riesce a captare con profondità la visione del mondo di Tolkien, Gandalf, interrogato da Galadriel sulla ragione per la quale ha scelto proprio un Hobbit per compiere quella missione, afferma:

Saruman ritiene che soltanto un grande potere riesca a tenere il male sotto scacco. Ma non è ciò che ho scoperto io. Ho scoperto che sono le piccole cose… le azioni quotidiane della gente comune che tengono a bada l’oscurità. Semplici atti di gentilezza e amore.

Ed è ciò che Frodo, nella storia, rappresenta per Tolkien. Egli è un medio termine tra l’uomo con common sense di Chesterton e l’introspezione liberale, con un pizzico di rassegnazione stoica. È proprio in virtù del suo essere piccolo, del suo non essere superbo, che riesce a non cedere, per tutto il suo lungo viaggio, alle tentazioni del Potere. È il suo essere piccolo, umile, che lo spinge a distruggerlo, anziché a usarlo. Frodo riconosce i propri limiti umani e, così facendo, riconosce i limiti dell’intera umanità. Pertanto, egli sa che nessuno sarebbe capace di fare un buon uso di un Potere così grande.

Egli non vuole a tutti i costi risolvere tutti i problemi del mondo, è pienamente cosciente del fatto di non conoscere il metodo infallibile per risolvere e correggere tutto – o per cercare di attuare lo stesso piano di sempre, fallendo per la millesima volta (“perché stavolta andrà tutto bene, lo giuro!”). Frodo è Hayek che afferma che il curioso compito dell’economia è insegnarci quanto poco sappiamo riguardo a ciò che crediamo di sapere. Frodo è Tolkien, che sostiene:

My political opinions lean more and more to Anarchy (philosophically understood, meaning abolition of control not whiskered men with bombs) – or to ‘unconstitutional’ Monarchy.  […] Anyway, the proper study of Man is anything but Man; and the most improper job of any man, even saints (who at any rate were at least unwilling to take it on), is bossing other men. Not one in a million is fit for it, and least of all those who seek the opportunity. And at least it is done only to a small group of men who know who their master is. The medievals were only too right in taking “nolo episcopari” as the best reason a man could give to others for making him a bishop. [6].

E, come previsto da Gandalf, questo piccolo uomo riesce laddove tutti prima di lui hanno fallito: porta l’Unico Anello al Monte Fato, a Mordor, e lo distrugge tra le fiamme.

Tutta l’opera letteraria di Tolkien è straordinaria e incredibile, e spero quanto prima di poter scrivere un articolo riguardo a Il Silmarillion. Per il momento, mi piacerebbe reiterare quanto ho affermato all’inizio, con la speranza che questa chiave di lettura politica sia stata utile per tutti i lettori giunti fino alla conclusione di questo articolo.

Il Signore degli Anelli è un’opera grandiosa, dotata di un’intensità e di una ricchezza di dettagli impareggiabili. Ma soprattutto, in diversi momenti, sembra rivolgersi direttamente a noi, sembra dialogare intimamente con noi riguardo a diverse questioni contemporanee. Mi piace pensare che ciò si debba all’essenza profondamente liberale dell’opera, che fa sì che non invecchi mai, conservando sempre la sua innata freschezza e genuinità.

Mi sembra evidente che in Tolkien scorgiamo la soluzione a molti dei nostri problemi. Egli ci insegna a riconoscere i nostri limiti e, in tal modo, a riconoscere i limiti delle altre persone. Egli ci dice che un individuo, anche il più piccolo, è capace di atti di coraggio ed eroismo. E questo individuo non ha bisogno e mai avrà bisogno dell’Anello per salvare se stesso e gli altri dalla rovina – e non deve mai cadere nella tentazione di pensare il contrario. Questa è la lezione che dobbiamo imparare da Tolkien.

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[1] Il Male, che nel libro viene impersonificato da Sauron, ex-generale di Morgoth, può (e deve) essere inteso, in tale analisi politica, non come qualcosa di astratto, ma come qualcosa di molto concreto. Il Male è tutto ciò che si considera sbagliato, come la miseria, la disuguaglianza, la mancanza di opportunità, l’ingiustizia, le istituzioni imperfette, etc. Il male è tutto ciò che non dovrebbe essere, ma che, purtroppo, è.

[2] TOLKIEN, J. R. R. La Compagnia dell’Anello, Bompiani, p. 135.

[3] TOLKIEN, J. R. R. Le Due Torri, Bompiani, p. 415.

[4] TOLKIEN, J. R. R. Le Due Torri, Bompiani, p. 424/425.

[5] Discorso di Hayek in occasione dell’assegnazione del Premio Nobel per l’Economia del 1974: “Agire nella convinzione di avere la conoscenza e il potere che ci permettono di modellare i processi della società interamente a nostro piacere, conoscenza che in realtà non possediamo, probabilmente ci porterà ad arrecare molti danni. Nelle scienze fisiche ci possono essere poche obiezioni al tentativo di fare l’impossibile; si potrebbe persino pensare che non si debba scoraggiare il presuntuoso o l’arrogante, perché i suoi esperimenti potrebbero, dopotutto, produrre qualche nuova intuizione. Ma nel campo sociale, la convinzione errata secondo cui esercitare un certo potere avrebbe conseguenze favorevoli, è probabile porti all’affidare a una certa autorità un nuovo potere di coercizione sugli uomini. Anche se tale potere non è in sé cattivo, il suo esercizio è probabile impedisca il funzionamento di quelle forze d’ordine spontaneo da cui, senza capirle, l’uomo è, in effetti, è aiutato tantissimo nel perseguimento dei suoi obiettivi. […] Se l’uomo non deve fare più male che bene nei suoi sforzi per migliorare l’ordine sociale, dovrà imparare che in questo, come in tutti gli altri campi in cui la complessità essenziale di un genere organizzato prevale, non può acquisire la conoscenza completa che permette la padronanza degli eventi. Quindi dovrà usare la conoscenza che può ottenere, non per modellare i risultati come l’artigiano modella i suoi oggetti, ma per coltivare una crescita fornendo l’ambiente adatto, così come fa il giardiniere per le sue piante. C’è un pericolo, nell’esuberante sensazione di sempre maggiore potere che il progresso delle scienze fisiche ha generato e che tenta l’uomo, ‘ubriaco di successo’ per usare una frase caratteristica del primo comunismo, a cercare di soggiogare al controllo della volontà umana non solo il nostro ambiente naturale ma anche quello umano. Il riconoscimento dei limiti insormontabili alla sua conoscenza deve, effettivamente, insegnare allo studioso della società una lezione di umiltà, la quale dovrebbe impedirgli di diventare complice nel fatale tentativo di controllare la società – un tentativo tale da renderlo non solo un tiranno dei suoi compagni, ma il distruttore di una civiltà non progettata da nessun cervello, ma nata dagli sforzi liberi di milioni di individui”.

[6] The Letters of J. R. R. Tolkien; Lettera 52.

Istruzione e libertà di scelta

L’argomento della libertà di scelta nell’istruzione è molto importante per i liberali e liberisti all’estero: Ad esempio ne hanno parlato Milton Friedman Margaret Thatcher.

In Italia sul tema istruzione c’è purtroppo molta disinformazione. La maggioranza delle persone ha frequentato la scuola pubblica di Stato, dunque non ha mai dovuto approfondire il sistema di istruzione in Italia. Ci sono quindi molte cose da apprendere e approfondire anche per chi è già a favore della libertà di scelta in materia di istruzione.

I due volti dell’istruzione pubblica

La scuola pubblica di Stato

La scuola pubblica di Stato è quella che viene tipicamente chiamata “scuola pubblica”, quella fondamentalmente gratuita e frequentata dalla gran parte degli italiani.

Ha ovviamente vari difetti, solo che non vedendo l’alternativa per molti è arduo arrivarci da soli.

Il primo è che non esiste alternativa didattica: Il metodo didattico della scuola pubblica statale è solo uno, con limitatissime alternative sperimentali.

Eppure, diceva Margaret Thatcher, esistono studenti che danno il meglio con un modello tradizionale e altri con un modello progressista. La scuola pubblica non offre questa libertà di scelta: si crea dunque un modello mediocre che prova ad accontentare tutti, non riuscendoci.

Seconda cosa: modificarla è impossibile in un sistema statalista, dato che la scuola muove centinaia di migliaia di voti.

Tra docenti e aspiranti tali che con una riforma di mercato rischierebbero di doversi mettere in gioco personalmente invece di contare sulla graduatoria un partito che dice no a questo sistema alienerebbe tutti questi voti. E, in Italia, la coerenza non è di casa nella partitocrazia, che preferisce i voti al bene dei cittadini.

Terza cosa: Non c’è incentivo a migliorare.

Una cattedra è praticamente a vita, una volta ottenuta, nessuno è responsabile dei risultati e non ci sono incentivi per i docenti più meritevoli. Non esiste, in sostanza, un meccanismo virtuoso.

Infatti, si può lavorare anche il minimo indispensabile e per il sistema si è uguali ad un docente che lavora perfettamente. Questa è un’onta per quei docenti che ogni giorno, magari in situazioni difficili, si mettono in gioco per dare il meglio e ottenere il meglio dagli alunni.

La scuola pubblica paritaria, l’illusione dell’alternativa

Colpo di scena: La scuola privata, quella invisa agli statalisti poiché “non darebbe le stesse opportunità a tutti” (implicita ammissione di superiorità), è pubblica, a norma di legge, infatti emette titoli di studio validi, solo che si paga a parte.

Essendo parificata porta con sé alcuni dei difetti della scuola pubblica statale, come l’unicità del metodo didattico (non sarebbe possibile, ad esempio, avere una scuola paritaria organizzata a modello universitario o aperto).

Migliora invece l’incentivo ai docenti, che non sono assunti vita natural durante e che vengono scelti direttamente dalla scuola, non con una graduatoria, ma debbono comunque sottostare alle limitazioni previste per i docenti della scuola pubblica.

Inoltre, cosa non da poco, nella scuola paritaria l’alunno porta soldi, ergo la scuola ha tutto l’interesse a trattarlo bene, mentre la pubblica statale può tranquillamente permettersi l’abbandono scolastico, non venendone toccata economicamente.

Perché illusione?

In Italia chi parla di libertà di scelta, tipicamente politici di centrodestra ma esistono anche lodevoli eccezioni nel centrosinistra, intende favorire l’accesso alla scuola paritaria.
Per uno Stato come l’Italia sarebbe già un forte passo avanti, ma non toglie la necessità della libera scelta didattica.

Se ad esempio uno studente è particolarmente dotato in alcune materie ma non in altre potrebbe trovarsi bene in un sistema simil-universitario ove il progresso viene certificato non di anno in anno ma materia per materia.

Ad oggi non sarebbe possibile, purtroppo, ma esiste un sistema che lascia libertà didattica e mette lo Stato in un più accettabile ruolo di garante e certificatore, più accettabile rispetto al ruolo enorme della scuola pubblica.

Istruzione parentale: La vera libertà, ma a caro prezzo

Questo sistema è l’educazione parentale, riconosciuta dalla legge italiana come assolvimento dell’obbligo di istruzione.

Nel sistema di educazione parentale i genitori si assumono l’onere di istruire il figlio, le cui competenze vengono testate annualmente (anche se alcune scuole, specialmente quando si parla di elementari, sono lascive e ammettono esami più rarefatti) da una scuola pubblica, statale o paritaria.

Tuttavia spesso i genitori non hanno le competenze, il tempo o le possibilità di istruire i propri figli, in questi casi possono intervenire le vere scuole private, che istruiscono l’alunno per conto dei genitori preparandolo agli esami statali che certificheranno le competenze.

La cosa bella di queste scuole è che, non avendo vincoli statali, esistono in svariate forme.

C’è chi vuole ricordare la scuola pubblica, chi fa corsi interamente online, chi fa corsi in stile universitario, tutto ciò in considerazione del pubblico (ovviamente un corso per le superiori viene considerato diversamente rispetto a un corso per le elementari).

Si tratta dunque di un sistema vicino all’individuo, spesso adoperato da chi ha, ad esempio, impegni sportivi che non permetterebbero una regolare frequenza in una scuola pubblica ma ha ugualmente le capacità per il diploma

Il modello a voucher, la risposta liberale

Il sistema a voucher è la risposta liberale all’istruzione pubblica, ideato da Milton Friedman.

In questo sistema l’istruzione è garantita a tutti tramite un voucher spendibile presso la scuola privata scelta dall’alunno e dalla sua famiglia, che copre la stragrande maggioranza delle scuole.

Tale sistema sarebbe prima di tutto vantaggioso economicamente per lo Stato: Una scuola paritaria o privata costa, in media, dai 3’000 ai 6’000 euro l’anno mentre la scuola pubblica ci costa 8’000 euro l’anno ad alunno.

Lo scarto è dovuto alle inefficienze e agli sprechi del sistema pubblico, ovviamente. Dunque un sistema del genere darebbe libertà di scelta in due modi:

  1. Quello palese, ossia permettendo di scegliere qualsiasi scuola senza limiti economici
  2. Quello implicito: 2’000 euro in meno di spesa per alunno vorrebbe dire meno tasse, ossia più libertà d’acquisto per tutti

In questo sistema, volendo mantenere il valore legale del titolo di studio, il ruolo dello Stato si limiterebbe a svolgere periodici esami per garantire il livello d’avanzamento, lasciando la famiglia e l’alunno libero di scegliere il proprio modello preferito per prepararsi a questi esami.

Tale sistema permetterebbe anche di creare scuole di genitori, cosa utile in zone disagiate o isolate: Se oggi una persona che vive in un paesino senza scuola non ha alternativa, con un sistema del genere i genitori del pase potranno investire il proprio bonus per creare una piattaforma educativa per i propri figli.

Anche le comunità con una lingua diversa da quella dello Stato avrebbero da guadagnarci: Oggi in Italia esistono circa trenta lingue che potrebbero godere della tutela prevista dalla Carta Europea delle Lingue Regionali o Minoritarie, di esse solo undici sono tutelate ufficialmente dallo Stato e solo due godono dell’insegnamento scolastico.

Col voucher scuola i genitori di minoranza o interessati a far studiare i figli nella lingua del territorio, la cosiddetta immersione linguistica, (ricordiamo che frequentare una scuola bilingue dà un vantaggio nell’apprendimento delle terze lingue, non è pertanto una cosa così strana voler far frequentare al proprio figlio una scuola di minoranza se magari già sente la lingua dai nonni) potranno associarsi per finanziare l’istruzione nella loro forma preferita oppure, se c’è un forte interesse, potranno nascere scuole classiche con l’immersione linguistica. Ah, ovviamente, con questo sistema non saranno possibili solo scuole lombardofone o sardofone ma potranno nascere scuole che educano in altre lingue o anche in più lingue contemporaneamente.

Parliamo dunque di un sistema che:

  • Premia docenti e allievi meritevoli
  • Costa meno allo Stato
  • Lascia libertà di scelta su tantissimi fronti

Quali ragioni, a parte voler conservare i propri privilegi, per dire no?

Dovremmo rivalutare Marx e Marxismo? (Spoiler: no)

Dicevamo del paese dei due pesi e delle due misure. In quest’orizzonte rientra il nuovo libro di Marcello Musto,Karl Marx. Biografia intellettuale e politica.[1] Lui, come molti altri fanno ogni giorno, si è chiesto se “la dottrina marxista non fosse salvifica e geniale e se non siano stati certi uomini nella storia ad averla mal interpretata se non addirittura usata come scudo dietro cui nascondere i propri progetti perversi e violenti”.

Lenin e Stalin sono stati due attenti discepoli di Marx oppure si è trattato solamente di due criminali che avrebbero potuto utilizzare le idee partorite anche da Tizio o Caio? “È doveroso distinguere la concezione di Marx da quelle dei regimi che, nel XX secolo, dichiarando di agire in suo nome, perpetrarono, invece, crimini ed efferatezze”.

L’operazione, sebbene intrigante, è già vista e rivista, e vuole in ogni modo operare arbitrariamente una scissione tra il marxismo e i circa cento milioni di morti che vengono addebitati ai regimi comunisti più noti. Sebbene il comunismo continui a mietere vittime, prosegua nel generare miseria, perpetui nell’annientamento dell’individuo: sembra essere oggi ancora in voga; non mancando di protoumani che, con le terga a mollo nelle acque occidentali, si sgolino nel tesserne le lodi. 

Nonostante questo, il tentativo di edulcorarne i difetti, risulta del tutto velleitario: per ogni ideologia, l’unico giudizio possibile è quello riguardante la sua concreta applicazione nella realtà e sugli individui in un dato momento storico. Non esiste altra possibilità per giudicare le idee di qualcuno, altrimenti useremmo lo stesso criterio con cui si tende ad ignorare i risultati referendari: inaugurando nuovi referendum, sin quando non uscirà il risultato desiderato, come per la Brexit. Ecco, il marxismo ha generato i regimi comunisti, e questo è per adesso l’unico dato possibile cui dobbiamo attenerci. 

La dottrina marxista è accentratrice, fortemente statalista e interventista nell’economia e, dunque, nelle vite dei cittadini. I prncipi fondamentali del Marxismo, ossia l’accentramento dei mezzi produzione nelle mani dello Stato e l’abolizione della proprietà privata, prevedono il ruolo preponderante dello Stato che sarà chiamato a regolamentare ciò che -nella società capitalistica- sorge spontaneo.

Il marxismo è difatti anti-mercatista, nega la libertà di scambio degli individui, e sopperisce a questa mancanza con l’interventismo dello Stato centrale, che dovrà pianificare la creazione dei beni e il loro successivo movimento nelle mani dei cittadini.

Inoltre, l’assunto “Il lavoro crea valore”, ossia “il mero lavoro conferisce valore ai beni prodotti” è errato, ed è evidente, poiché sono i movimenti insiti nel mercato ad aumentare o diminuire il valore di un bene, ossia la maggiore o la minore domanda da parte dei consumatori, i quali, fuori dalla logica marxista, potranno liberamente chiederne e acquistarne nelle quantità desiderate conferendogli inevitabilmente maggior valore.

In Unione Sovietica difatti è stata creata una quantità enorme di lavoro, ma chissà come mai la miseria rimaneva preponderante e invincibile. Il marxismo, e la sua mania accentratrice, va di pari passo col giacobinismo noto nella Rivoluzione francese, e chiediamoci come mai noi oggi viviamo in un Paese fondato su decentramento dei poteri alle autonomie locali.

Lenin, in Stato e rivoluzione, scrisse che “il socialismo consiste nella distruzione dell’economia di mercato. Se rimane in vigore lo scambio, è persino ridicolo parlare di socialismo”.[2] E poi, da altri testi fondanti, ricordiamo che “la società va concepita come un grande ufficio e una grande fabbrica, dove vi sarà la sostituzione totale e definitiva del commercio con la distribuzione organizzata secondo un piano”, cosicché lo Stato sia in grado di “tutto correggere, designare e costruire in base a un criterio unico”, “giungendo in tal modo alla centralizzazione assoluta”. 

E oggi dovremmo perder tempo nel ritenere che Stalin e i suoi colleghi non facessero riferimento a questa dottrina durante la creazione dei loro piani quinquennali? Si basavano forse sulla dottrina della favola di Cappuccetto rosso? Senza alcun tipo di rispetto per la realtà, e per ciò che quella realtà tragica racconta, Musto afferma che “molti dei partiti e dei regimi politici sorti nel nome di Marx hanno utilizzato il concetto di dittatura del proletariato in modo strumentale, snaturando il suo pensiero e allontanandosi dalla direzione da lui indicata. Ciò non vuol dire che non sia possibile provarci ancora[3]“. Il suo auspicio, dunque, è questo: tocchiamo ferro, sperando che tutto ciò rimanga un mero vaneggiare.

L’aspetto divertente del tutto, riallacciandoci con la premessa iniziale dei due pesi e delle due misure, consiste in un esercizio mentale che tutti noi dovremmo fare: proviamo a immaginare cosa sarebbe accaduto se un autore avesse scritto che il razzismo in sé è un valore da tenere in considerazione, e che la sua applicazione hitleriana fu un banale errore, se non una mistificazione della dottrina in sé. Beh, innanzitutto nessun editore lo avrebbe pubblicato. Se, poi, qualche coraggioso gli avesse concesso spazio avremmo assistito a uno stracciamento di vesti collettivo, con annessa discesa in campo di associazioni e politici in difesa della giustizia sociale.

Alcuni intellettuali, poi, ci avrebbero ammorbato, furoreggiando in diretta nelle tv nazionali, trovando inspiegabili nessi tra l’apologia del nazismo e la criminalità organizzata. Di Hitler sono innominabili anche i quadri (sì, disegnava e non era granché), altrimenti intervengono i guardiani sempre svegli del politicamente corretto, che sanzionano e puniscono; come alcuni insegnanti nelle scuole spesso già fanno, varcando i limiti della propria professione.

Perché, siamo chiari, anche Stalin era solo un incompreso.

Note: [1] Marcello Musto, Karl Marx, biografia intellettuale e politica, Einaudi.

[2] Lenin, Stato e Rivoluzione.

[3] Marcello Musto, Karl Marx, biografia intellettuale e politica, Einaudi.

 

L’intervento statale ci rende poveri

Fascismo, Boom Economico, Primo Governo del CentroSinistra “Organico”, conservatorismo statalista. Quattro parole chiave utili per descrivere il percorso economico dell’Italia, dagli anni venti ai giorni recenti. L’Italia fra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento era paragonabile ad un neonato che cresceva, che iniziava a fare i primi passi, fino a diventare un adolescente, con tutte i suoi errori e debolezze che sono palesi in quella fase di vita.

Ma poi arrivò qualcuno, chiamato Intervento Statale, che decise di prendersene cura senza che qualcuno gli avesse chiesto qualcosa.
L’intervento Statale è
“l’atteggiamento di uno Stato che, oltre a fissare le regole del mercato, mette in pratica attività o interventi che condizionano l’economia con obiettivi diversi, dall’aiuto alla crescita economica e all’occupazione all’aumento dei salari, dall’aumento o riduzione dei prezzi alla promozione dell’uguaglianza e alla riparazione di quelle che il governo considera falle o inefficienze del mercato”.

Tutto iniziò con il Fascismo. Dopo una brevissima iniziale fase di snellimento della macchina statale, la politica fascista intraprese un progetto di Intervento statale totale. L’obiettivo era quello di creare un macro-azionista, neutrale e al disopra delle parti, che si limitava a investire e a fare in modo che i propri investimenti aziendali avessero lo scopo di creare un’organizzazione armonica tra lavoratori e datori di lavoro. Oltre agli aspetti industriali, l’interventismo statale del fascismo era soprattutto assistenzialismo.

Giusto per fare un breve elenco:
Assicurazione invalidità e vecchiaia; Assicurazione contro la disoccupazione; Assistenza ospedaliera ai poveri; Tutela del lavoro di donne e fanciulli; Opera nazionale maternità ed infanzia; Assistenza illegittimi e abbandonati o esposti; Assistenza obbligatoria contro la Tubercolosi; Esenzione tributaria per le famiglie numerose; Assicurazione obbligatoria contro le malattie professionali; Opera nazionale orfani di guerra; Istituto Nazionale della Previdenza Sociale (I.N.P.S.); Settimana lavorativa di 40 ore; Istituto Nazionale per l’Assicurazione contro gli Infortuni sul Lavoro (I.N.A.I.L.).

Prima ho fatto l’esempio di un’Italia simile ad un neonato/adolescente, proprio per far capire che si trattava di un Paese, soprattutto dopo la Prima Guerra Mondiale, che era molto debole economicamente. Doveva crescere economicamente e i fascisti ritenevano che questa ricchezza dovesse essere creata dallo Stato per poi essere diffusa fra la popolazione. Ma l’Italia produceva solo debiti e scarsa ricchezza nazionale. Migliorava il benessere degli italiani, ma non rispettava le aspettative dei fascisti. Anzi, in alcune zone del meridione, la povertà continuava a dominare e le misure assistenzialiste “viziavano” i cittadini meridionali.

Dopo il fascismo, nella fase caotica 1943-1947, le casse statali e i cittadini italiani erano al macello, economicamente parlando. La Lira era in uno stato comatoso e i cittadini italiani vegetavano nella povertà più assoluta. Ma in quella straordinaria fase della storia italiana, l’Italia ebbe la fortuna di ritrovarsi nelle mani di un liberale come Luigi Einaudi. Lui era un liberista ossessionato dal risparmio e dal contenimento della spesa pubblica. In quegli anni riuscì a salvare la moneta italiana e a far ripartire l’Italia. Riuscì a far ripartire l’Italia riducendo drasticamente l’interventismo statale.

Lo stesso Boom Economico fu un processo spontaneo favorito dalle politiche pro-risparmio e antistataliste di Luigi Einaudi. Il Boom Economico fu favorito dal fatto che, contenendo le tasse, i cittadini potevano sfruttare al meglio i risparmi del presente per il futuro. Il periodo dal 1947 al 1958 ritengo sia stata l’unica fase antistatalista in Italia. Non sorprende che l’unica politica di interventismo statale di questo periodo, la Cassa del Mezzogiorno, si sia rivelata disastrosa e fallimentare.

Quel Boom Economico portò benessere, tantissimo benessere per gli italiani. L’Italia diventò un paese industriale proprio in quello straordinario periodo. Ma secondo i favorevoli all’interventismo statale, quella ricchezza era caotica e maldistribuita. A detta loro, non andava bene che alcuni  si fossero arricchiti, mentre altri erano ancora poveri. Pertanto, occorreva ridistribuire la ricchezza.

Ed ecco che si giunge al primo governo di centro-sinistra d’inizio anni sessanta, che riportò con forza il culto dell’interventismo statale. La classe dirigente di quella fase politica esprimeva frasi come “Se il popolo ha un problema, lo Stato deve intervenire”, frasi come “se un’azienda privata non può sopravvivere senza profitti, l’azienda pubblica si”. E così si decise di adottare misure come lo “statuto dei lavoratori”, il monopolio ENEL e numerose assunzioni in posti pubblici per garantire un reddito a chi non ha alcuna speranza di essere assunto altrove.

Governando la ricchezza, l’interventismo statale iniziò a diminuire il benessere degli italiani. Dagli anni sessanta, proprio grazie all’interventismo statale, l’Italia iniziò un lento percorso di declino. Governare la ricchezza voleva dire tassarla, ossia gestire i soldi di uno per il bene degli altri. Ma quest’ultimi, all’aumentare del costo della vita, pretendevano sempre di più dallo Stato. Pertanto, più alto il costo della vita, più assistenzialismo, più tasse, più povertà e addio ricchezza.

Questa fase si concluse negli anni ottanta. I favorevoli all’interventismo statale si resero conto di aver esagerato, ma pur di non ammettere i propri errori inaugurarono la politica del conservatorismo statalista. Questa politica consisteva nel tenere ben saldi quei diritti acquisiti che ormai avevano il sapore del privilegio.

L’obiettivo era mantenere i privilegi, anche fino a sfiorare il ridicolo. Mentre le casse statali andavano in tilt, il conservatorismo statalista cercava di fare manovre di salvataggio con tasse di eccezione o tagli “a indovinare”. Ma senza toccare le principali voci della spesa pubblica, i taglietti o le tasse speciali non solo non risolvevano i problemi, ma tendevano anzi ad amplificarli.

Fino a giungere ad oggi, dove la povertà è dominante. Se i redditi stagnano da vent’anni, il costo della vita è cresciuto tantissimo. Come ho già scritto sopra, più alto è il costo della vita, più alto è il desiderio di essere assistiti dallo Stato. Ma questo vuol dire avere più intervento statale, più tasse e più povertà. Il circolo vizioso continua, purtroppo.

NO all’assistenzialismo

Italiani o stranieri. Solo italiani o solo stranieri? Questo è l’attuale dibattito sull’assistenzialismo in Italia. Ormai non ci sono più dubbi, in Italia è tornato il culto per l’assistenzialismo statale nei confronti delle persone. Non si respirava quest’aria, nel nostro Paese, almeno dai tempi dei governi anni sessanta. In quel tempo, stavamo vivendo la fase di post-boom economico, periodo in cui i governanti ritenevano che l’Italia fosse diventato un paese più ricco, ma con un problema. Secondo loro, questa ricchezza era mal distribuita e pertanto occorreva una mano, la mano dello Stato, per ordinare questa ricchezza.

Dagli anni sessanta ad oggi, l’Italia è diventata un modello – negativo a mio parere – per gli studiosi di welfare. Un modello che ho già avuto modo di spiegare in un altro articolo (clicca qui per la lettura). Il presupposto di questo modello è che la povertà sia una sorta di sentenza, se nasci povero morirai povero. Pertanto, occorre uno Stato che si prenda cura di queste persone povere, per mantenerle e far raggiungere loro un certo livello di benessere.

Le assunzioni nella Pubblica Amministrazione avevano per l’appunto lo scopo di mettere in una condizione di sicurezza permanente quelle persone nate povere. Modello tuttora presente se penso che nel mio comune di origine, in provincia di Cagliari, ci sono le assunzioni basate sul reddito. Se ho un reddito basso e sono ignorante, ho più speranze di essere assunto di te che hai un reddito leggermente più alto e hai un curriculum migliore.

Ebbene, io ritengo che sia arrivato il momento di dire con forza “NO ASSISTENZIALISMO”. Negli anni sessanta era necessario ordinare la ricchezza. Oggi, i pro-assistenzialisti ritengono che lo Stato debba salvare le persone dai cattivoni o da qualche multinazionale. Negli ultimi anni, siamo stati abituati a misure come “80 euro Renzi”, “Reddito di Inclusione” (che potrebbe tramutarsi nel folle Reddito di Cittadinanza), per poi fare un salto indietro con “Assegno Familiare”, “Cassa di Integrazione” e Vitalizi vari.

L’assistenzialismo, unitamente alle pensioni, è uno dei principali motivi dell’altissimo livello di Spesa Pubblica, uno dei principali motivi dei deficit degli ultimi 40 anni, uno dei principali motivi del livello del debito pubblico. Ma nonostante tutto, i governanti sognano di sforare il 3%, imposto dall’Unione Europea. Questo perché ritengono che sforare il tetto per l’assistenzialismo sia un’operazione che avrà dei risultati  positivi.

Ma andiamo per ordine. Io sono favorevole ad uno Stato Minimo che, oltre al suo compito principale di garantire la sicurezza, la giustizia ed il rispetto delle regole, si impegni per la tutela dei più poveri. Ma tutelare non vuol dire assistenza per l’eternità.

Dobbiamo iniziare a fare una piccola ma decisiva distinzione, io sono favorevole all’investimento sociale e sono contrario all’assistenzialismo. Che differenza possiamo trovare tra i due? Se l’assistenzialismo prevede un atteggiamento negativo e pessimista nei confronti della società, l’investimento sociale prevede un atteggiamento positivo e ottimista.

Io preferisco investire sui migliori talenti con difficoltà economiche, piuttosto che regalare 780€ a vita a delle persone che “forse” nemmeno lo meritano.

Avere un atteggiamento positivo e ottimista nei confronti della società vuol dire considerare uno strumento di assistenzialismo un optional su cui ricorrere in rarissimi casi, poiché sono le regole del mercato che determinano l’incontro tra domanda e offerta di lavoro. Non l’attuale mercato del lavoro, attualmente nel caos per colpa di burocrazia e agevolazioni buttati “qua e là”.

Voglio un mercato del lavoro che sappia mettere al primo punto la produttività, le qualità e il valore nel medio e lungo termine del singolo lavoratore. L’assistenzialismo non può continuare ad essere la soluzione a tutti i nostri problemi. L’assistenzialismo non può essere la soluzione alle frustrazioni delle persone.

Il welfare state dovrebbe essere smantellato, a favore di altri modelli di welfare che sappiano tenere conto di altri valori umani. Valori come la meritocrazia, valori come la competizione, valore come l’investimento.

A tal proposito, sto preparando un articolo che parlerà dei punti chiave che dovrebbe contenere un manifesto di welfare liberista liberale. Un manifesto che sappia dimostrare perché i liberali hanno a cuore le difficoltà, ma vedono una soluzione differente rispetto ai piagnoni socialisti.