Come nasce uno stato di polizia: lo Schutzhaft nella Germania nazista

PROLOGO

Nel maggio del 1933, nell’ufficio del responsabile prussiano alla detenzione preventiva Hans Mittelbach si presentò una donna brandendo della biancheria intrisa di sangue che suo marito, Erich Mühsam, le aveva spedito dal campo di concentramento di Sonnenburg. Mittelbach era ben consapevole delle condizioni di Mühsam.

Questi era stato arrestato nella notte del 28 febbraio 1933, qualche ora dopo l’incendio del Reichstag. Quella notte, come tanti altri comunisti, socialisti e liberali, era stato sorpreso nel sonno dalla polizia o dai gruppi paramilitari associati al NSDAP e condotto in vari luoghi di detenzione, legale o extralegale, fino al famigerato campo di concentramento di Sonnenburg. Mühsam era un noto anarchico e al suo arrivo a Sonnenburg le SA gli diedero il benvenuto a bastonate.

Le violenze proseguirono anche nei giorni successivi e furono gravi al punto che Mittelbach, nell’aprile del 1933, si recò in visita al campo per chiedere agli ufficiali di evitare maltrattamenti ai prigionieri. La richiesta fu vana.

Dopo le denunce della moglie di Mühsam, Mittelbach si recò di persona a prendere il prigioniero per condurlo nel carcere di stato a Berlino dove il trattamento sarebbe stato sicuramente migliore poiché gestito da uomini della polizia. Purtroppo per Mühsam, la carriera del suo salvatore finì di lì a poco, si crede proprio a causa della sua “indulgenza”.

Mühsam fu spostato al campo di Oranienburg, dove le SS lo strangolarono con una corda da bucato e gettarono il corpo nelle latrine fingendo un suicidio. Era il 9 luglio 1934. La cosa sorprendente di questa storia è che tutto ciò che accadde era perfettamente legale e persino costituzionale. Vediamo come.

«LE EMERGENZE SONO SEMPRE STATE IL PRETESTO CON CUI SONO STATE EROSE LE LIBERTÀ INDIVIDUALI»

L’incendio del Palazzo del Reichstag, l’edificio che ospitava la camera bassa del parlamento tedesco, avvenne la sera del 27 febbraio 1933, a un mese dall’insediamento del governo presieduto da Adolf Hitler. L’attentato, per il quale fu accusato un comunista, fu il pretesto per ricorrere alla decretazione d’emergenza prevista dalla costituzione di Weimar all’articolo 48, comma 2:

Il presidente [del Reich] può prendere le misure necessarie al ristabilimento dell’ordine e della sicurezza pubblica, quando essi siano turbati o minacciati in modo rilevante, e, se necessario, intervenire con la forza armata. A tale scopo può sospendere in tutto o in parte la efficacia dei diritti fondamentali stabiliti dagli articoli 114, 115, 117, 118, 123, 124 e 153.

I diritti fondamentali menzionati sono l’inviolabilità della libertà personale e del domicilio, la segretezza delle comunicazioni, la libertà di stampa, di riunione, di associazione, e il diritto alla proprietà privata.

Dopo l’incendio, il governo di Hitler si rivolse immediatamente al presidente del Reich Hindenburg, un vecchio generale in pensione, per chiedergli di approvare quello che passò alla storia come “decreto dell’incendio del Reichstag”, con il quale si disponeva che tutti i diritti fondamentali erano sospesi fino a nuove disposizioni.

Il decreto divenne una sorta di carta costituzionale del Terzo Reich, «giustificando ogni sorta di abuso di potere, compresa la negazione della libertà personale senza supervisione dell’autorità giudiziaria né appello»[1].

SCHUTZHAFT

«Dalla prospettiva del campo non si capiva secondo quale sistema (se poi ce n’era uno) fossero eseguiti gli arresti, ancor meno, in base a che cosa si stabiliva la durata della custodia preventiva e la scelta dei rilasci. […] Questa incertezza […] ha giocato un grosso ruolo e ha reso particolarmente difficile la nostra esistenza. […] Solo il fatto che la custodia preventiva era inflitta senza limitazione di tempo fino a un nuovo riesame dell’arresto fa capire che [essere] oggi in Germania detenuto politico in custodia preventiva è molto, molto peggio che essere qualunque criminale condannato ad una precisa limitazione di libertà, perché questo sa la durata del suo arresto»[2].

Così il socialdemocratico Gerhart Seger descriveva la condizione di totale incertezza in cui versavano i circa 200.000[3] prigionieri politici in “custodia preventiva” nel 1933.  La custodia preventiva (schutzhaft) era uno strumento preventivo-repressivo di polizia per arrestare chi fosse considerato un pericolo senza ricorrere agli strumenti giudiziari.

La costituzione di Weimar prevedeva che la libertà personale fosse inviolabile, ma il decreto dell’incendio dei Reichstag aveva sospeso quell’articolo della costituzione: nessun cittadino era al sicuro dagli abusi dei vari corpi di polizia o dei gruppi paramilitari del partito nazionalsocialista; nessuno era garantito contro un arresto arbitrario; la libertà aveva smesso di appartenere al singolo cittadino e apparteneva allo Stato.

Era sufficiente che ci fosse un sospetto, una denuncia anonima, e chiunque poteva essere posto in custodia preventiva. Molti degli arresti avvenuti nella notte tra il 27 e il 28 febbraio 1933 colpirono anche persone che non avevano alcun legame con l’attentato al Reichstag. Mühsam fu arrestato soltanto perché era un noto anarchico.

Altri furono arrestati solo perché comunisti o appartenenti ad altri partiti che potevano avere a che fare con l’incendio. «Alla polizia politica fu data la possibilità di agire in modo preventivo contro ogni minaccia allo Stato: in altre parole, agli organi di polizia fu concesso di arrestare e detenere in custodia preventiva, per un tempo di fatto indeterminato, personalità politiche non ancora processate o di assegnarle al confino per un tempo sì determinato, ma facilmente prorogabile»[4].

Le persone sottoposte a questa misura cautelare «non conoscevano i veri motivi in base ai quali era stato deciso il loro destino»[5] né erano messe al corrente di quando (e se) sarebbe mai terminata la loro detenzione. Era loro impedito anche di ricorrere alla giustizia per chiedere un rilascio.

L’intervento di un avvocato fu ammesso «solo per redigere istanze scritte in rappresentanza del colpito, ma non fu permesso ovviamente che gli avvocati o chiunque altro prendessero visione degli atti e delle pratiche della polizia politica. I permessi di visita degli avvocati e a chi incaricato della tutela degli interessi dello Schutzhäfling non erano concessi “se lo scopo politico-poliziesco della custodia preventiva [era] messo a rischio”»[6].

Il ricorso ai tribunali era invece assolutamente inutile, poiché la polizia poteva porre in custodia preventiva anche chi fosse stato assolto, “correggendo” in questo modo ogni decisione “sbagliata” dei tribunali. Nonostante i tribunali fossero quasi del tutto “nazificati”, lo strumento dello schutzhaft era comunque preferibile: offriva una procedura più snella e veloce; era più “silenzioso” rispetto a un processo penale; non aveva bisogno di prove ma poteva colpire virtualmente chiunque con il solo pretesto della prevenzione e della difesa del popolo e dello Stato.

Lo schutzhaft era lo strumento per eccellenza dello stato onnipotente del primo dopoguerra. «La libertà dell’individuo era prevista solo in funzione dello Stato»[7], che aveva il compito di difendere l’unità e la forza vitale del popolo; in altre parole, aveva il compito di epurare chiunque esprimesse opinioni o compisse atti pericolosi per l’unità nazionale.

La scienza giuridica tedesca andò avvicinandosi lentamente alla necessità, «di natura tutta etico-biologica, di difendere la comunità e la sua purezza razziale»[8]. In questa ottica, lo strumento dello schutzhaft non aveva soltanto la funzione di prevenire i reati isolando gli individui pericolosi, ma uno scopo molto più ampio di escludere per sempre dalla società gli individui che non potevano farne parte poiché la loro stessa esistenza biologica poteva minarne le basi.

Slavi, ebrei, zingari, omosessuali, intellettuali dissidenti, disabili, erano tutte persone che potevano anche non aver compiuto alcun reato e violato alcuna legge, ma dovevano essere allontanate dalla comunità perché portatrici di un patrimonio culturale e genetico nocivo.

Non è affatto strano che, fino alla conferenza di Wannsee del 1942, i nazisti non avessero ancora deciso cosa fare con tutti i prigionieri dei campi di concentramento. Alcuni gerarchi, come Hans Frank, appoggiavano addirittura l’idea di deportare tutti gli ebrei sull’isola di Madagascar, purché lasciassero la comunità tedesca.

I luoghi di detenzione degli schutzhäftling erano notoriamente i campi di concentramento, anche se agli inizi del 1933 i nazisti non avevano ancora pianificato la costruzione di un arcipelago di campi. La necessità nacque quando gli arresti divennero così tanti da non poter essere più gestiti dalle carceri di stato, e si dovette ricorrere a stipare i detenuti in altre strutture.

Inizialmente si preferirono strutture preesistenti come ex carceri, ex fabbriche, edifici abbandonati, persino scantinati. Questi luoghi potevano essere gestiti indifferentemente sia da personale carcerario facente capo ai vari ministeri, sia da personale extralegale come le SS o le SA, i due gruppi paramilitari del partito nazionalsocialista.

Il trattamento dei detenuti poteva variare in base al luogo in cui venivano assegnati. Le prigioni statali, almeno nel 1933, erano ritenute i luoghi più sicuri e tollerabili.

«Nonostante le molte difficoltà, la maggioranza dei prigionieri in detenzione preventiva trovava sopportabile la vita all’interno delle prigioni e delle Case di lavoro. Generalmente venivano tenuti separati dal resto della popolazione carceraria, a volte in grandi stanzoni comuni. Le celle singole erano semplici ma non spartane, di solito dotate di letto, tavolo, sedia, scaffale, lavello e un secchio che fungeva da latrina. Il cibo e la sistemazione erano perlopiù adeguati, nonostante il sovraffollamento, e siccome di norma ai prigionieri non veniva chiesto di lavorare, i detenuti trascorrevano il tempo chiacchierando, leggendo, facendo esercizio fisico, lavorando a maglia e giocando a scacchi»[9].

La relativa pace di questi luoghi durò poco, poiché già nel 1934 molte prigioni statali passarono sotto la gestione delle SS, trasformandosi nello stesso inferno che si viveva nei campi. D’altronde, come si è sottolineato, nessuno dei detenuti aveva diritti: anche il magro pasto giornaliero e il secchio da usare come latrina erano su gentile concessione delle autorità

La popolazione locale era consapevole delle violenze che si consumavano nei campi fin dalla loro nascita nel 1933. Non era raro che i prigionieri riuscissero a fuggire e raccontare ciò che avevano subìto, ma l’atteggiamento generale era per lo più di indifferenza o, al massimo, di insofferenza verso la convivenza con gli uomini delle SS e delle SA che raggiungevano le città vicine ai luoghi di detenzione per divertirsi.

Ad esempio, nell’Emsland «I dettagli sugli eccessi delle SS si diffusero fra la popolazione locale e presto raggiunsero il ministero dell’Interno prussiano, che alla fine intervenne. Il 17 ottobre 1933 ordinò che tutti i prigionieri politici di spicco e gli ebrei fossero immediatamente portati fuori dai campi dell’Emsland»[10].

In altri casi, come l’episodio descritto in apertura, i parenti delle vittime apprendevano tramite la corrispondenza degli abusi all’interno dei luoghi di detenzione e protestavano infruttuosamente con le autorità, ma diffondevano anche le storie fra conoscenti e amici. Era raro trovare qualcuno che non avesse udito almeno una storia del genere già nel 1933.

UNA CURIOSA FUGA

Hans Beimler era un attivista del KPD, il Partito Comunista Tedesco, e aveva preso parte a numerosi scontri con i gruppi paramilitari di destra durante i turbolenti anni della repubblica di Weimar.

Era ben noto agli uomini delle SA e delle SS, quindi quando fu condotto nel campo di concentramento di Dachau il 25 aprile 1933, le guardie lo accolsero con bastonate e scudisciate. Poi lo condussero nella sala delle torture, dove per giorni subì violenti pestaggi da parte delle guardie del campo.

Lo scopo era indurre Beimler al suicidio, così da non far ricadere la colpa della sua morte sulle autorità del campo. Ma Beimler era un osso duro, così l’8 maggio 1933 le SS gli insegnarono a fare un cappio con le lenzuola e gli diedero un ultimatum: se non si fosse impiccato da solo, il giorno dopo ci avrebbero pensato loro, e sarebbe stato molto peggio.

Il mattino successivo, le guardie entrarono nella cella di Beimler e trovarono un’amara sorpresa: il prigioniero era scomparso. Non è chiaro come fuggì dal campo, ma riuscì a raggiungere la Cecoslovacchia «da dove mandò una cartolina alle SS di Dachau: “Baciatemi il culo”»[11].

Ma, molto più importante, Beimler scrisse «uno dei primi fra i sempre più numerosi racconti di testimoni oculari riguardo ai campi nazisti come Dachau»[12] che fu pubblicato a puntate su un giornale svizzero e fatto circolare segretamente in Germania.


[1] NIKOLAUS WACHSMANN, KL. Storia dei campi di concentramento nazisti. Mondadori. Milano 2016.

[2] CAMILLA POESIO, In balia dell’arbitrio. Il confino fascista e la Schutzhaft nazista, in Paradigma lager. Vecchi e nuovi conflitti del mondo contemporaneo, a cura di S. Casilio, L. Guerrieri, A. Cegna, Clueb, Bologna 2010, p. 137

[3] NIKOLAUS WACHSMANN, KL. Storia dei campi di concentramento nazisti. Mondadori. Milano 2016, p. 33

[4] CAMILLA POESIO, Il confino di polizia, la «Schutzhaft» e la progressione erosione dello Stato di diritto, in Il diritto del duce. Giustizia e repressione nell’Italia fascista, a cura di Luigi Lacchè, Roma 2015, p. 99

[5] CAMILLA POESIO, In balia dell’arbitrio. Il confino fascista e la Schutzhaft nazista, in Paradigma lager. Vecchi e nuovi conflitti del mondo contemporaneo, a cura di S. Casilio, L. Guerrieri, A. Cegna, Clueb, Bologna 2010, p. 142

[6] CAMILLA POESIO, Il confino di polizia, la «Schutzhaft» e la progressione erosione dello Stato di diritto, in Il diritto del duce. Giustizia e repressione nell’Italia fascista, a cura di Luigi Lacchè, Roma 2015, p. 101

[7] Ibidem, p. 103

[8] Ibidem, p. 104

[9] NIKOLAUS WACHSMANN, KL. Storia dei campi di concentramento nazisti. Mondadori. Milano 2016, p. 37

[10] Ibidem, p. 54

[11] Ibidem, p. 27

[12] Ibidem, p. 27

Pianificazione, scienza e libertà [Nature, no. 3759 (November 15, 1941), p. 581–84]

Gli ultimi dieci anni hanno visto in Gran Bretagna la grande rinascita di un movimento che da almeno tre generazioni contribuisce in modo decisivo alla formazione dell’opinione pubblica e all’andamento degli affari pubblici in Europa: il movimento per la “pianificazione economica”. Come in altri Paesi – prima in Francia e poi in particolare in Germania – questo movimento è stato fortemente sostenuto ed anche guidato da uomini di scienza e ingegneri.

Questa visione è riuscita ormai a conquistare l’opinione pubblica a tal punto che il fronte degli oppositori è rappresentato quasi solo da un piccolo gruppo di economisti. Ad essi tale movimento pare non solo proporre mezzi inadeguati per i fini a cui mira, ma appare anche come la causa principale di quella distruzione della libertà individuale e della libertà spirituale che è la più grande minaccia della nostra epoca. Se questi economisti hanno ragione, vi è un gran numero di uomini di scienza che si sforza inconsapevolmente di creare condizioni politiche di cui dovrebbero essere i primi ad avere paura. Lo scopo di queste righe è quello di delineare le argomentazioni su cui si basa questa visione.

Anche una breve dissertazione sulla “pianificazione economica” è incompleta senza una precisa definizione della parola “pianificazione”. Se il termine fosse preso nel suo senso più generale ed inteso come disegno razionale delle istituzioni umane, non ci sarebbe ragione per discutere sulla sua auspicabilità. Ma sebbene la popolarità della “pianificazione” sia almeno in parte dovuta a questa connotazione più ampia della parola, essa viene ora generalmente usata in un senso più ristretto e specifico. Descrive solo uno dei diversi principi che potrebbero essere deliberatamente scelti per l’organizzazione della vita economica: quello della direzione centrale di ogni attività economica, come opposta alla sua direzione da parte della forza della competizione.

Pianificare, in altre parole, significa oggi che non solo il tipo di sistema economico da adottare deve essere scelto razionalmente, ma che è oltremodo auspicabile orientarsi verso un sistema basato sul controllo “consapevole”, o centralizzato, di tutte le attività economiche. Ciò si evince, ad esempio, anche dalle parole che il professor P.M.S. Blackett usa quando spiega che “lo scopo della pianificazione è in gran parte quello di superare i risultati della concorrenza”. Questo uso ristretto del termine intende ovviamente suggerire che solo questo tipo di organizzazione economica è razionale, e solo essa può dunque essere definita pianificazione. È questa una tesi che gli economisti rifiutano.

La spiegazione completa che dimostra l’inefficienza del sistema della pianificazione intesa come direzione centralizzata dell’economia non può essere riassunta in poche frasi. Ma il succo è abbastanza semplice: il sistema della concorrenza e quello dei prezzi rendono possibile l’impiego di una quantità di conoscenza effettiva che non potrebbe mai essere raggiunta o avvicinata senza di essi. È certamente vero che il dirigente di un sistema pianificato centralmente può avere più conoscenze di qualsiasi altro singolo imprenditore sotto il sistema della concorrenza. Ma egli non potrebbe mai concentrare nel suo piano tutte le conoscenze combinate di tutti i singoli imprenditori, che vengono invece utilizzate in un contesto concorrenziale. La conoscenza più significativa non è infatti la comprensione delle leggi generali, ma la conoscenza degli eventi particolari e delle circostanze mutevoli del momento – una conoscenza che solo l’uomo fisicamente inserito in un determinato contesto può possedere.

Solamente un sistema di decentralizzazione delle decisioni favorisce il pieno sfruttamento della conoscenza. Non è possibile scindere lo schema generale del piano e il dettaglio dell’esecuzione – o almeno non è stato ancora mostrato alcun modo per una efficace divisione delle due parti. Questo in virtù del fatto che le caratteristiche generali non sono altro che il risultato di un’infinità di particolari, e non esistono principi che, senza arrecare conseguenze negative, possano essere stabiliti indipendentemente dal particolare. Tuttavia, affinché in un sistema decentralizzato le singole decisioni si adattino reciprocamente l’una all’altra, è naturalmente essenziale che il singolo imprenditore venga a conoscenza il più rapidamente possibile di qualsiasi cambiamento rilevante delle condizioni che influiscono sui fattori di produzione e sulle merci di cui si occupa.

Questo è esattamente ciò che fornisce il sistema di prezzi, se il sistema della competizione funziona correttamente. Si tratta infatti di un sistema in cui ogni cambiamento di condizioni e di opportunità viene registrato in modo tempestivo e automatico, in modo che il singolo imprenditore possa desumere, per così dire, da pochi indicatori e in cifre semplici, gli effetti più importanti di tutto ciò che accade nel sistema per quanto riguarda i fattori e le merci di cui si occupa.

Questo metodo di risoluzione per mezzo di decentramento automatico di problemi che altrimenti sarebbero al di là delle possibilità della mente umana, dovrebbe essere accolto come una straordinaria invenzione – se fosse stato ideato deliberatamente. Paragonato ad esso, il metodo più ovvio di risolvere i problemi per mezzo di una pianificazione centrale risulta incredibilmente goffo, primitivo e di portata limitata.

È davvero curioso il fatto che quegli economisti socialisti che hanno studiato attentamente i problemi pratici di un’economia socialista abbiano più di una volta rivalutato la concorrenza e il sistema dei prezzi come la soluzione più efficiente – solo che sfortunatamente questo sistema non può funzionare senza la proprietà privata. Per quanto riguarda l’atteggiamento generale nei confronti del sistema dei prezzi, è un peccato che non sia stato deliberatamente inventato, ma che si sia sviluppato spontaneamente molto prima della scoperta del suo funzionamento. Ciò che è avvenuto appare in contrasto con il profondo istinto dell’uomo di scienza, e in particolare dell’ingegnere, nel credere che tutto ciò che non è stato deliberatamente costruito, ma che è invece il risultato di una naturale evoluzione più o meno accidentale, non possa essere il metodo migliore per un fine umano. In verità la tesi non è che questo sistema così adatto alla civiltà moderna si sia sviluppato spontaneamente, come per miracolo, ma piuttosto che la divisione del lavoro, che è alla base della civiltà moderna, si è sviluppata su larga scala solo perché l’uomo si è imbattuto nel metodo che l’ha resa possibile.

A volte si sostiene – spesso sono le stesse persone che con la loro propaganda contro la competizione hanno contribuito in larga parte alla sua progressiva soppressione – che, sebbene tutto ciò sia sostanzialmente vero, e sebbene sarebbe auspicabile mantenere la competizione se solo ve ne fosse la possibilità, fattori tecnologici lo impediscono, e che quindi la pianificazione centrale è diventata inevitabile. Questo, però, è solo uno dei tanti miti che, come quello della “potenziale abbondanza”, vengono ripetuti da un’opera di propaganda a un’altra fino ad essere considerati come fatti accertati, anche se hanno poca attinenza con la realtà.

Non c’è spazio qui per dilungarsi a riguardo, ci basti citare la conclusione a cui è giunta la più completa indagine recente in merito alla questione. Questo è ciò che il rapporto finale dell’indagine sulla “Concentrazione del potere economico” dell’American Temporary National Economic Committee ha da dire sul punto:

“A volte si afferma, o si presume, che la produzione su larga scala, nelle condizioni della moderna tecnologia, sia talmente più efficiente della produzione su piccola scala che la concorrenza deve inevitabilmente cedere il passo al monopolio, dato che le grandi imprese escludono i loro rivali più piccoli dal campo. Ma tale generalizzazione trova scarso sostegno in qualsiasi prova che sia a nostra disposizione in questo momento”

In effetti, pochi tra coloro che hanno osservato lo sviluppo economico negli ultimi vent’anni circa possono dubitare del fatto che la progressiva tendenza al monopolio non è il risultato di una forza spontanea o inevitabile, ma l’effetto di una politica volutamente promossa dai governi, ispirata all’ideologia della “pianificazione”. Ciò che sorprende è la vitalità della concorrenza, che nonostante i persistenti tentativi di soppressione, rialza sempre la testa – anche se puntualmente deve scontrarsi con nuove misure volte a soffocarla.

È preoccupante che in questa situazione si trovino così spesso uomini di scienza e ingegneri alla guida di un movimento volto solamente a sostenere la scellerata alleanza tra le organizzazioni monopolistiche del capitale e del lavoro, e che per ogni cento uomini di scienza che attaccano la concorrenza e il “capitalismo” se ne trovi a malapena uno che critica le politiche restrittive e protezionistiche che si mascherano da “pianificazione” e che sono la vera causa della “frustrazione della scienza”. Questo atteggiamento comune ad alcuni scienziati non può essere semplicemente ricondotto ad una particolare propensione per tutto ciò che è stato concepito coscientemente e contro tutto ciò che si è sviluppato in maniera naturale, a cui ho già accennato. Ciò è dovuto in parte all’antagonismo di tanti scienziati naturali nei confronti dell’insegnamento dell’economia, i cui metodi appaiono loro insoliti ed estranei, e di cui ignorano spesso risultati o, come il professor L. Hogben, che attaccano con violenza come “spazzatura medievale insegnata come economia nelle nostre università”.

Questa controversia sui metodi adatti allo studio della società è ormai datato e solleva problemi estremamente complessi e difficili. Ma poiché il prestigio di cui godono gli scienziati naturali presso il pubblico è così spesso sfruttato per screditare i risultati dell’unico sforzo sistematico e continuo per accrescere la nostra comprensione dei fenomeni sociali, questa disputa è una questione di sufficiente importanza da rendere necessarie alcune riflessioni in questo contesto.

Nel caso in cui vi fosse motivo di sospettare che gli economisti persistono nelle loro indagini solo per inerzia e nell’ignoranza dei metodi e delle tecniche che in altri campi si sono dimostrate efficaci, potrebbero sollevarsi seri dubbi sulla validità delle loro argomentazioni. Ma i tentativi di far progredire le scienze sociali con una più o meno stretta imitazione dei metodi delle scienze naturali, lungi dall’essere nuovi, sono stati una caratteristica costante per più di un secolo.

Le stesse obiezioni contro l’economia “deduttiva”, le stesse proposte per renderla finalmente “scientifica”, e, bisogna aggiungere, gli stessi errori caratteristici e primitivi a cui gli scienziati naturali che si avvicinano a questo campo sembrano essere inclini, sono stati ripetuti e discussi più e più volte da generazioni successive di economisti e sociologi e non hanno portato proprio da nessuna parte. Tutti i progressi compiuti nella comprensione dei fenomeni economici sono stati ottenuti grazie a quegli economisti che hanno pazientemente sviluppato tecniche a partire dalle singole problematiche. Ma nei loro sforzi sono stati costantemente messi in discussione da illustri fisici o biologi che si sono pronunciati in nome della scienza a favore di schemi o proposte che non meritano una seria considerazione. Un sociologo americano ha recentemente lamentato che “uno dei peggiori esempi di mentalità non scientifica è spesso un eminente scienziato naturale, cioè un fisico o biologo che parla di questioni sociali” esprimendo un’opinione comune a tutti gli studenti di questioni e problematiche sociali.

Dal momento che la disputa sulla pianificazione centrale è così strettamente legata alla disputa sulla validità scientifica dell’economia, era necessario fare brevemente riferimento a queste questioni. Ma questo non deve distoglierci dal nostro tema principale. L’inferiorità o la superiorità tecnica della pianificazione centrale rispetto alla concorrenza non è l’unico problema, e nemmeno quello principale. Se il grado di efficienza economica fosse l’unico argomento in ballo in questa controversia, i pericoli di un errore risulterebbero modesti rispetto a ciò che sono realmente. Ma così come la presunta maggiore efficienza della pianificazione centrale non è l’unico argomento utilizzato in sua difesa, così le obiezioni vanno ben oltre la sua reale inefficienza.

Bisogna infatti ammettere che se volessimo rendere la distribuzione dei redditi tra individui e gruppi conforme a un qualunque standard assoluto prestabilito, la pianificazione centrale sarebbe l’unico modo per raggiungere questo obiettivo. Si potrebbe sostenere – ed è stato sostenuto – che varrebbe la pena sopportare una minore efficienza se si potesse ottenere così una maggiore giustizia distributiva. Tuttavia gli stessi fattori che rendono possibile in un tale sistema il controllo della distribuzione del reddito necessitano l’imposizione di un ordine gerarchico arbitrario che governi lo status di ogni individuo e il ruolo di quasi tutti i valori umani.

Insomma, come è ormai sempre più generalmente riconosciuto, la pianificazione economica è la diretta causa della soppressione, conosciuta come “totalitarismo”, della libertà individuale e della libertà intellettuale. Come è stato detto recentemente su Nature da due eminenti ingegneri americani, “lo Stato fondato sull’autorità dittatoriale… e l’economia pianificata sono essenzialmente una cosa sola”.

Le ragioni per cui l’adozione di un sistema di pianificazione centrale produce necessariamente un sistema totalitario sono abbastanza semplici. Chi controlla i mezzi deve decidere quali sono i fini da conseguire. Al giorno d’oggi il controllo dell’attività economica significa controllo dei mezzi materiali per quasi tutti i nostri fini, dunque anche controllo su quasi tutte le nostre attività.

La natura della precisa scala di valori che deve guidare la pianificazione rende impossibile l’impiego di metodi democratici. Il dirigente di un sistema pianificato deve imporre la sua scala di valori, la sua priorità di obiettivi, che, per riuscire a portare a compimento il piano, deve includere una gerarchia dove lo status di ogni persona è ben definito.

Per permettere al piano di avere successo, o di sembrare di averlo, è necessario convincere il popolo che gli obiettivi scelti sono quelli giusti. Ogni critica al piano o all’ideologia che lo sottende deve essere trattata come un sabotaggio. Non può esservi alcuna libertà né di pensiero né di stampa, dove è necessario che ogni cosa sia dominata da un unico sistema di pensiero.

Il socialismo può volere, in teoria, accrescere la libertà, ma in pratica ogni forma di collettivismo non fa altro che applicare quei tratti caratteristici che fascismo, nazismo e comunismo hanno in comune. Il totalitarismo non è altro che un collettivismo sistematico, caratterizzato dall’esecuzione spietata del principio che “il bene comune viene prima dell’individuo” e dall’assoggettamento di tutti i membri della società ad una singola volontà che si suppone rappresenti il “bene comune”.

Richiederebbe troppo spazio mostrare nel dettaglio in che modo un tale sistema provoca un controllo dispotico in ogni sfera della vita, e come in particolare in Germania due generazioni di pianificatori hanno preparato il terreno per il nazismo. Ciò è già stato dimostrato altrove. Né è possibile dimostrare qui perché la pianificazione tende a produrre un forte nazionalismo e conflittualità internazionale o perché, come i redattori di uno dei più ambiziosi lavori cooperativi sulla pianificazione ebbero modo di scoprire con profondo rammarico, “la maggior parte dei ‘pianificatori’ sono accesi nazionalisti”.

A questo punto è bene trattare un più immediato pericolo che l’attuale andamento provoca in Gran Bretagna; quello della crescente divergenza fra i sistemi economici britannico e statunitense, che minaccia di rendere impossibile ogni reale collaborazione economica tra i due Paesi, una volta finita la guerra [l’articolo è del 1941, NdT]. Negli Stati Uniti l’attuale evoluzione è ben descritta dal programma per il ripristino della concorrenza presentato dal presidente Roosevelt nel discorso al Congresso dell’aprile 1938, che, nelle parole del presidente, si basa sull’idea “non che il sistema della libera impresa privata a scopo di lucro abbia fallito in questa generazione, ma che non sia stato ancora provato”.

D’altro canto, per quanto riguarda la Gran Bretagna nello stesso periodo si potrebbe giustamente dire che “ci sono molti segnali che i leader britannici si stanno abituando a pensare in termini di sviluppo nazionale per mezzo di monopoli regolamentati”. Ciò significa che stiamo percorrendo la stessa traiettoria avviata dalla Germania e che gli Stati Uniti stanno abbandonando perché, come afferma il rapporto sulla “Concentrazione del potere economico” a cui il discorso del presidente ha dato adito, “l’ascesa del centralismo politico è in gran parte il risultato del centralismo economico”.

L’alternativa non è, ovviamente, il laissez-faire, per come questo termine fuorviante e vago viene solitamente interpretato. Molto deve essere fatto per assicurare l’efficacia della competizione; e molto può essere fatto al di fuori del mercato per completare l’opera. Ma tentando di soppiantarla ci priviamo non solo di uno strumento che non può essere rimpiazzato, ma anche di un organismo senza il quale non ci può essere libertà per l’individuo.

In questo caso nulla può essere più degno di studio e considerazione della storia intellettuale della Germania nelle ultime due generazioni. È bene rendersi conto che le caratteristiche che l’hanno resa ciò che oggi è sono in gran parte le stesse che l’hanno resa così ammirata e che ancora oggi esercitano il loro fascino; e che la corruzione della mentalità tedesco è avvenuta in gran parte dall’alto, dai più influenti intellettuali e scienziati.

Alcuni uomini, indubbiamente notevoli a modo loro, resero la Germania uno Stato costruito in maniera artificiale – “organizzato pezzo per pezzo”, come ripetevano con orgoglio i tedeschi. Questo ha permesso al nazismo di proliferare e di trovare fra i suoi principali sostenitori i rappresentanti della scienza organizzata. Fu proprio l’organizzazione “scientifica” dell’industria che portò alla creazione deliberata di giganteschi monopoli e ne promosse l’inevitabile crescita 50 anni prima che ciò accadesse in Gran Bretagna.

La stessa dottrina sociale che al giorno d’oggi è così popolare tra alcuni uomini di scienza britannici cominciò a essere diffusa dalle loro controparti tedesche negli anni ’70 e ’80 del secolo scorso. La sudditanza degli uomini di scienza nei confronti di tutto ciò che fosse dottrina ufficiale cominciò con il notevole sviluppo della scienza finanziata a livello statale, che è l’oggetto di tanta glorificazione oggi in Gran Bretagna. La causa di cotanto disprezzo nei confronti della libertà e la sua soppressione a cui oggi assistiamo è il risultato di quello Stato in cui tutti aspirano al posto da dipendente statale e in cui tutte le attività a scopo di lucro vengono disdegnate.

Concludo con un’illustrazione di quanto ho detto circa il ruolo di alcuni dei grandi uomini di scienza della Germania imperiale. Il famoso fisiologo Emil du Bois-Reymond fu uno dei leader di un movimento volto a estendere i metodi delle scienze naturali ai fenomeni sociali, oltre che uno dei primi e più grandi sostenitori dell’opinione, ormai estremamente popolare, che “la storia delle scienze naturali è la vera storia dell’umanità”. È Inoltre colui che pronunciò quella che è forse la più vergognosa affermazione mai fatta da un uomo di scienza a nome dei suoi colleghi: “Noi, l’Università di Berlino”, proclamò nel 1870 in un discorso pubblico in qualità di rettore dell’Università, “acquartierati davanti al palazzo del Re, siamo, in dall’atto della nostra fondazione, la guardia del corpo intellettuale della casa degli Hohenzollern”.

La fedeltà degli scienziati-politici tedeschi si è da allora spostata altrove, ma il loro rispetto nei confronti della libertà non è aumentato. Eppure il fenomeno non è confinato solo alla Germania. Il signor J.G. Crowther non ha forse, in un libro dalla visione così simile a quella di du Bois-Reymond, cercato recentemente di difendere l’inquisizione perché, a suo avviso, “è utile alla scienza quando tutela una classe in ascesa”? Da questo punto di vista, chiaramente, tutte le persecuzioni degli uomini di scienza da parte dei nazisti dopo la loro ascesa al potere potrebbero essere giustificate – non erano essi in fondo una “classe in ascesa”?

Fonte: https://mises.org/library/planning-science-and-freedom

Traduzione a cura di Laura Pizzorusso