Si può essere euroscettici senza essere sovranisti?

Quando pensiamo agli euroscettici, solitamente ci vengono in mente loschi figuri che propongono di uscire dall’Unione per poter tornare ad una valuta sovrana da stampare come i soldi del Monopoli o che parlano di quanto sia cattiva l’Europa a imporci cose brutte come il pareggio di bilancio, il divieto degli aiuti di Stato e la concorrenza.

Qualcuno va delirando e addirittura cita Margaret Thatcher, la stessa Margaret Thatcher che era contraria all’euro per l’Italia perché, parole sue, ha “un’economia inefficiente”.

Verrebbe da dire che un liberale non può che essere europeista, ma non è vero. In questo articolo vedremo come essere euroscettici e sostenere idee liberali non sia affatto in contrasto e ipotizzeremo come e perché un governo liberale possa uscire dall’Unione.

Personalmente, sia chiaro, non ho pregiudizi sull’integrazione europea e difficilmente farei campagna attiva per l’uscita, specie valutando quale sarebbe l’alternativa in Italia. Tuttavia sono fortemente sfiduciato dal progetto europeo formato da Stati. Alla fine l’UE è un club di Stati: loro decidono, loro comandano e danno un contentino democratico col Parlamento europeo.

Se poi certi Stati – *coff* Spagna *coff* – sono disposti ad uccidere pur di non perdere la sovranità, state sicuri che non accetteranno supinamente un progetto che un giorno può svegliarsi e dire “Sai Madrid, domani la Catalogna vota per l’indipendenza e se non lo permetti ti commissariamo”.

L’unica Europa federata che a mio parere potrebbe funzionare veramente come vorrebbero gli europeisti duri e puri è quella dei 1000 Liechtenstein, per citare Hoppe.

Perché uscire?

Torniamo a noi. Per quale motivo un governo liberale potrebbe voler uscire dall’Unione? Le possibili ragioni sono varie.

La prima è commerciare più liberamente. Se è vero che l’Unione europea ha raggiunto grandi obiettivi nel libero commercio, soprattutto quello interno, è anche vero che spesso, grazie all’influenza degli stati centralisti dell’Europa occidentale, tale progresso resta bloccato quando il libero commercio può “danneggiare” l’economia di uno di questi Stati, si pensi a tutte le scuse che la Francia ha inventato per provare a bloccare l’accordo col Mercosur, avverso agli agricoltori francesi.

Grosso modo gli Stati dell’Associazione Europea del Libero Scambio, oggi Svizzera, Liechtenstein, Norvegia e Islanda, commerciano come l’UE oltre che con essa. Ma nulla vieta a questi Paesi di avere più trattati di libero commercio rispetto all’Unione europea. Tant’è che, per esempio, l’equivalente EFTA del CETA è entrato in vigore nel 2009, mentre il CETA nel 2017, e tra l’altro in via provvisoria.

Un’altra possibile motivazione è quella di voler liberalizzare l’agricoltura, come fatto ad esempio in Nuova Zelanda. Nell’Unione europea l’agricoltura è fortemente regolata e uno Stato non può semplicemente dire “da oggi liberalizzo”. I Paesi EFTA invece possono fare quello che vogliono, l’agricoltura è esplicitamente esclusa dai trattati.

Se si vuole una nazione con un modello liberale sulle armi, tra l’altro, uscire dall’Unione è praticamente obbligatorio. Bruxelles odia le armi, c’è poco da fare, e se con gli Stati esterni può fare pressioni come minacciare ripercussioni su Schengen, com’è successo per esempio con la Svizzera, con gli Stati membri può agire molto più incisivamente.

Se un governo liberale volesse un “secondo emendamento” starebbe in pratica dicendo “vogliamo uscire dall’Unione europea”, c’è poco da dire.

Ma si potrebbe voler uscire dall’Unione anche per un mero fatto politico: commerciare e scambiare merci, persone e servizi liberamente con uno Stato non vuol dire per forza volerci stare assieme politicamente. Uno Stato può apprezzare i prodotti ungheresi o i servizi spagnoli e voler fare bonifici a commissioni nazionali verso la Polonia ma non voler aver nulla a che fare con le politiche di dubbia qualità democratica dei due Stati in questione.

Per qualcuno perdere un po’ di rappresentanza potrebbe essere un prezzo accettabile per non essere invischiato nei vari problemi dell’UE.

Come uscire?

Come dovrebbe un governo liberale uscire dall’Unione europea? Oggi abbiamo un solo caso di procedura di uscita dall’Unione, quello inglese, che è stato abbastanza confusionario.

La procedura della Brexit è sicuramente un caso da non imitare. A mio parere la miglior maniera di fare una secessione è quella prevista dalla Costituzione del Liechtenstein: si vota sull’argomento e poi sul trattato.

La legge italiana rende tuttavia difficile votare un referendum del genere perché richiederebbe una legge costituzionale. Farne due potrebbe essere difficoltoso, se quindi un governo avesse un mandato popolare chiaro dovrebbe fare una cosa: andare a Bruxelles e trattare fin da subito.

Le cose da ottenere sarebbero principalmente il poter rimanere nello Spazio Economico Europeo, avere la strada aperta per entrare nell’EFTA, mantenere Schengen e poter rimanere nei progetti europei interessanti e concordati. Se ci sono dei debiti è bene pagarli subito per partire da una posizione migliore.

Una volta concluso il trattato i cittadini voteranno per quel trattato in un referendum. Non voteranno un generico “restare” contro “uscire”, voteranno uno specifico trattato. Se questo trattato vince non è colpa del populismo, di Trump, di Bolsonaro o di chicchessia, semplicemente i cittadini hanno ritenuto quel trattato e le relative implicazioni più vantaggiose dell’appartenenza all’UE.

Poche cose cambierebbero nell’immediato: Gli Stati dell’EFTA – eccetto la Svizzera che non è nello Spazio Economico Europeo – sono praticamente come Stati dell’UE. Ma un governo liberale potrebbe iniziare a cercare nuovi trattati di libero scambio, ridurre l’interventismo in agricoltura, modificare la politica sulle armi o altro che onestamente non mi viene nemmeno in mente.

Se ti fosse venuta voglia, beh, pensaci bene

Magari con questo articolo ti ho convinto che uscire dall’Unione europea è una cosa positiva. Ti invito ad approfondire l’argomento anche consultando altre fonti perché da un articolo divulgativo come questo non è saggio trarre insegnamenti tali da mutare le proprie visioni politiche.

Se sei veramente convinto, beh, valuta bene come schierarti. La posizione liberale euroscettica è profondamente minoritaria.

Tipicamente gli italiani euroscettici lo sono perché credono che il libero scambio, la concorrenza e la libertà economica abbiano danneggiato l’Italia. Sostenere un partito euroscettico italiano, oggi, vuol dire negare ogni singola parola scritta in questo articolo.

Significherebbe stare con l’Italia che sussidia l’agricoltura alla follia, che si chiude su sé stessa per tutelare qualche azienda decadente (dimenticando che le proprie Regioni ricche vivono di export), con il partito unico dell’inflazione, della svalutazione e del debito.

Perché, alla fine, se condividi quello che ho scritto non sei euroscettico, sei semplicemente liberale. Credi in piccoli Stati che commerciano liberamente tra di loro, che di scambiano idee, persone e servizi senza che da ciò derivi necessariamente un’unione politica forte. Un sistema che Thomas Jefferson ben sintetizzava come “Pace, commercio, e onesta amicizia con tutte le nazioni ingarbugliando le alleanze con nessuna”

Ridurre i parlamentari e non la democrazia

Poco tempo fa vi ho parlato dello Stato nel Terzo Millennio in questo articolo. Rileggendo il libro, per migliorare alcuni punti, mi è capitato sotto mano un paragrafo decisamente utile in questi giorni in cui si discute di taglio dei parlamentari, specie quando pochi giorni fa sono state presentate le firme per indire un referendum in materia, di fatto annullando una legislatura di risparmi a causa dei costi della consultazione.

I contrari al taglio fanno notare che ciò vorrebbe dire aumentare il numero di cittadini che eleggono un deputato, un taglio non giustificato dal leggero risparmio portato dalla misura. Da un punto di vista meramente teorico hanno ragione, ma all’atto pratico bisogna considerare due aspetti.

Il primo è che sono già applicate numerose misure per ridurre la rappresentanza democratica e un sistema tendenzialmente proporzionale non aiuta a creare un’identificazione tra deputato e territorio. Queste misure sono le preferenze bloccate o gli sbarramenti che nei sistemi maggioritari escludono le liste più piccole dal riparto dei seggi. In un sistema del genere, alla fine, poco cambia tra avere 630 o 34 deputati: la rappresentanza è solo marginalmente scalfita dall’avere pochi deputati.

Il secondo aspetto da considerare è che, ahinoi, da tempo il Parlamento è essenzialmente un passacarte del Governo, complici anche le alleanze sbilenche dove se non passa una legge si va tutti a casa determinando, di fatto, un ricatto per parlamentari (un bel direttorio servirebbe anche a questo).

Il Parlamento

Il Principe (nel libro Lo Stato del Terzo Millennio, ndr), in gioventù, lavorò nella segreteria di un senatore americano arrivando a conoscere abbastanza bene i meccanismi interni di un Parlamento. E fa notare principalmente due cose:

  • il Parlamento non può essere troppo piccolo, altrimenti i parlamentari non riescono concretamente ad analizzare le leggi e a fare il proprio lavoro. Proprio per questo motivo nel 1988 il Liechtensteien, che si apprestava ad entrare in varie organizzazioni internazionali, aumentò i propri deputati da 15 a 25;
  • un Parlamento troppo grosso è inefficiente: i deputati comunicano male, i dibattiti durano di più e non si elevano qualitativamente. Inoltre la collaborazione tra differenti parlamentari interessati al medesimo argomento diviene più difficile.

Per questa ragione Giovanni Adamo, pur non dandoci una misura di un parlamento giusto, ci dà un consiglio:

Nel dubbio, meglio scegliere il numero più basso.

Tuttavia viene da chiedersi: come si può risolvere il problema della democraticità, sia quella che manca oggi sia quella causata dalla eventuale riduzione? Basta continuare la lettura per avere un’idea: oggi lo Stato centrale fa molto, ma nello Stato centrale abbiamo poco potere decisionale! Il nostro voto conta poco, circa 1/51.000.000 con gli ultimi dati d’affluenza, ed è per un ente che pesa molto nella nostra vita. A queste condizioni è ovvio che nasca il populismo!

Più democrazia può voler dire democrazia diretta

Un giorno prometto che pubblicherò un bell’articolo sul tema, ma basti sapere che la democrazia diretta riduce il potere e il peso dei partiti. Ma senza correttivi, essa rischia di cadere nei due classici problemi della democrazia: quello dell’elevato costo (votare spesso a livello nazionale avrebbe costi molto alti) e quello della dittatura della maggioranza.

Una soluzione a questi problemi è il decentramento: governo di piccole unità locali, affiancate da altre più in alto secondo una logica di sussidiarietà. Questo almeno in principio e per quegli ambiti per i quali è difficile decentrare o privatizzare subito (come i trasporti, quasi sicuramente questi enti sopravviveranno successivamente come confederazioni). Ambiti dove esista democrazia diretta e che si occupino di cose come il welfare o la gestione di servizi pubblici come scuole. Questi rigorosamente in concorrenza.

Su questi enti i cittadini hanno più controllo ed è possibile usare la democrazia diretta in modo più estensivo. In questo modo si riduce la necessità della ben più costosa democrazia diretta nazionale, potendola accorpare ad esempio alle consultazioni nazionali. Sarebbe quindi possibile ridurre il numero dei parlamentari senza intaccare la democrazia, poiché essa sarebbe principalmente in mano alle comunità locali ed ai cittadini. E, inoltre, sarebbe possibile anche eliminare il Senato.

Formalmente, infatti, il Senato dovrebbe rappresentare le regioni. Ma, in pratica, non lo fa, tant’è che per differenziarlo dalla Camera ha un elettorato differente. E se le autonomie fossero responsabili per loro stesse e si fissasse un metodo di finanziamento unico per tutte come, per esempio, la distribuzione pro capite del surplus statale? L’utilità della Camera alta inizierebbe a scemare fino a scomparire.

Bisognerebbe, infine, superare l’idea per cui il Parlamento può modificare la Costituzione di sua sponte senza referendum: ogni modifica costituzionale deve richiedere un referendum confermativo e, per impedire colpi di mano, la maggioranza deve essere raggiunta non solo su base nazionale ma anche delle comunità locali, come accade in Svizzera con la famosa formula “maggioranza di popolo e cantoni“.

In un sistema del genere potremmo accontentarci di una camera di due o trecento persone e la democrazia, infine, ne uscirebbe rafforzata.

La “War on Drugs” nuoce gravemente alla salute

Qualche settimana fa Matteo Salvini, sul caso Cucchi, dichiarava:

Questo testimonia che la droga fa male sempre e comunque

Ecco, non ci vuole un genio a capire che una frase del genere ha una logica sostanzialmente inesistente.
Sarebbe come fermare uno che ha violato la legge Mancino, sparargli e citare l’esempio come pericolo dell’odio.
Ma evidentemente frasi del genere fanno breccia nei cuori di certe classi conservatrici che temono che qualche parente “usi la morte” e credono che qualcuno debba intervenire.

Ma, in secondo luogo, ci mostra come avere politici senza alcun tipo di formazione economica sia un male, sempre e comunque.

Piaccia o no, la lotta alla droga è una posizione irrazionale perché parte dall’idea che la legge possa fermare il consumo e la vendita di sostanze stupefacenti.
Ma se c’è domanda e c’è offerta la legge è inutile, tant’è che tutte le tragedie di droga avvengono oggi, con la droga vietata e repressa.

Le leggi di mercato derivano da comportamenti umani innati ed esattamente come le leggi della fisica, che consentono sia di portare la luce in tutte le case sia di uccidere un condannato sulla sedia elettrica, sono impersonali: non smettono di valere se il bene è brutto.

Si deve agire dunque all’interno di queste regole se si vuole portare a casa qualche risultato. I sistemi che non l’hanno capito, che purtroppo per noi costituiscono la maggioranza, solitamente causano più danni della droga come sostanza di per sé.

Non ci vuole un genio a capire il perché. Se ti droghi, e la droga la compri in droghificio, ti metti in una situazione di pericolo (droghe) con alcune precauzioni (personale addestrato del droghificio), se la comperi al boschetto di Rogoredo le situazioni di pericolo aumentano esponenzialmente. Questo non solo per la droga in sé, ma anche per le scelte fatte in quel contesto specifico.

Ecco, in vari paesi, ad esempio in Svizzera, non c’è nulla di male a sostenere la legalizzazione della droga, tant’è che Ignazio Cassis, l’equivalente elvetico del ministro degli esteri, è di quest’opinione.

Ma in Italia no. È considerata una bestemmia e se osi solo proporlo vieni bollato come amico dei drogati nonché sostenitore della morte e attaccato da politici, chiese, comunità di recupero e chi più ne ha più ne metta.

Il punto è il seguente, sarà (anche) perché la nostra classe politica è convinta che basti una legge dello Stato a risolvere ogni problema?

L’Italia e lo Stato nel Terzo Millennio: Quanta spesa pubblica? Esegesi di uno stato snello

Il libro “Lo Stato nel Terzo Millennio” è, a mio parere, uno dei capisaldi del pensiero liberale del nostro secolo. Scritto dal Principe del Liechtenstein, in esso viene descritto uno Stato più leggero, limitato a poche funzioni come il funzionamento delle corti, la difesa e la politica estera, decentrando le restanti funzioni ai privati, alla società e alle comunità locali. Lo Stato, inoltre, sarebbe finanziato solo tramite imposte indirette, lasciando quelle dirette alle comunità locali.

Ma quanto, in effetti, peserebbe lo Stato centrale, a livello economico in un sistema del genere? Proviamo a fare un piccolo calcolo.

Difesa e sicurezza

Quanto spende l’Italia in difesa, ogni anno? Nel 2018 abbiamo speso 21 miliardi di Euro, cifra tra l’altro inferiore al 2% del PIL richiesto dalla NATO. E, in tutto ciò, sono inclusi i Carabinieri.

Bisogna considerare anche la sicurezza: Se lo Stato immaginato da Giovanni Adamo prevede il possibile decentramento anche di questo compito è facile immaginare la necessità, comunque, di avere un corpo di polizia statale, ad esempio per proteggere le frontiere o combattere fenomeni sovralocali quali la criminalità organizzata. Ebbene, lo Stato spende circa 25 miliardi in ciò, contando però anche i già contati Carabinieri e anche altri servizi che sarebbero decentrati o sono computati altrove.

Poniamo di volere un unico corpo statale di polizia che includa gli attuali Carabinieri e metà della Polizia di Stato. Ecco, dovremmo aggiungere 3 miliardi. E se vogliamo anche Pompieri e Protezione Civile statali sono altri 3, aumentando tra l’altro il finanziamento nel mentre. Totale 26 miliardi. (non sono pazzo, sono le approssimazioni a portare a 26)

Politica estera, giustizia e Parlamento

La giustizia, incluso il sistema carcerario, pesa circa 5 miliardi di Euro. Si possono fare passi in avanti, specie nella gestione carceraria, riducendo i costi, ma prendiamo pure il dato intero.

La politica estera, invece, costa circa 3 miliardi, includendo anche gli aiuti internazionali.

E il Parlamento? Il Principe immagina un parlamento monocamerale e ridotto, quindi prendiamo come dato quello del Senato, che costa agli italiani circa 600 milioni di Euro.

Istruzione e welfare

Lo Stato nel Terzo Millennio prevede esplicitamente un sistema scolastico a voucher. Fortunatamente, già sappiamo grosso modo quanto costerà: Con 5000€ l’anno ad alunno fanno 43 miliardi, ai quali vanno aggiunti circa 7 miliardi di finanziamenti alle università, ponendo che vengano mantenuti e non siano adottati sistemi quale l’ISA. In sostanza, il Ministero dell’Istruzione avrà un bilancio di 50 miliardi di Euro, creando tra l’altro una redistribuzione economica verso i comuni che decideranno di aprire scuole e riusciranno ad offrire l’istruzione a meno di quanto ricevano dal voucher.

Il welfare, invece, è tipicamente materia degli enti locali, e lo Stato viene visto come ultima istanza in caso di necessità. In questa ottica, una possibile proposta sarebbe quella di istituire un voucher welfare incondizionato di 1’000€ l’anno: Sarebbero 60 miliardi l’anno, che poi le persone potranno spendere per aderire ad un’assicurazione sociale sanitaria oppure per versarli al proprio ente locale di riferimento ed ottenere dei benefici. Sia chiaro, non sarebbe l’unica fonte di welfare, ma sarebbe l’unico sistema uniforme di welfare. Saranno poi gli enti locali a quantifare la misura rispetto alle esigenze del richiedente.

Il risultato economico

In totale, quindi, avremmo una spesa statale di circa 145 miliardi di Euro l’anno. Poniamo ancora che lo Stato abbia altri 35 miliardi di spesa indifferibile, necessaria e non decentrabile, magari per infrastrutture che debbono essere necessariamente statali. Sarebbe una spesa pubblica di 170 miliardi. Ma dobbiamo anche ridurre il debito pubblico, no? Decidiamo di destinare dunque 20 miliardi di Euro alla riduzione del debito. È poco, perché di questo passo il debito sarebbe estinto in quasi 130 anni.

Un totale, quindi, di 200 miliardi di Euro l’anno. Abbiamo ridotto la spesa statale da quasi il 50% del PIL a poco più del 10%. Abbiamo liberato enormi risorse per le comunità locali e gli individui, ossia le unità base del nuovo sistema.

Ma, soprattutto, lo Stato si finanzierebbe solo con imposte indirette, lasciando quelle dirette solo alle comunità locali. Per la Ragioneria dello Stato nel 2019 lo Stato incasserà circa 250 miliardi di imposte indirette, tolte le quote da destinare all’Unione europea. In sostanza, un avanzo di bilancio di 50 miliardi, includendo anche un bonus “che non si sa mai” da 35 miliardi e un ammortamento del debito da 20 miliardi. Se non lo si volesse usare per il debito si potrebbe, come propone il Principe, distribuirlo alle comunità locali proporzionalmente: 800€ circa per abitante. Milano, per esempio, prenderebbe più di un miliardo ogni anno da questa redistribuzione, il tutto senza contare che la città avrebbe capacità impositiva.

Parliamo, però, di mere ipotesi purtroppo. Cambiando un po’ la Costituzione sarebbe tutto fattibile, per carità, ma ci sarebbe il problema delle pensioni! Infatti quelle in essere devono essere pagate. Se si vuole modernizzare realmente l’Italia il primo passo dev’essere necessariamente fare sacrifici per passare al sistema pensionistico a capitalizzazione, poiché tutto il resto è bene o male decentrabile in breve tempo.

E perché converrebbe

Ma quali sarebbero le conseguenze di un taglio alla spesa così draconiano? Oltre al liberare risorse – cosa che porta quasi sempre a crescita economica – potrebbero non esserci grandi danni per lo stato sociale che, anzi, potrebbe migliorare. Come mai? Perché la gran parte delle risorse oggi stanziate per gli aiuti vanno, in realtà, all’amministrazione che li ottimizzano in maniera inefficiente.

Il welfare vero non sarebbe più appannaggio di un ente magico, che risolve i nostri problemi, ma cooperare per contare l’uno sull’altro. Ciò funziona bene nelle comunità locali, non negli elefantiaci stati nazionali. A fronte di una richiesta di occupazione, perdono di significato i Centri per l’Impiego se gli enti locali dispongono di una lista di chi necessita impiego, o magari attraverso un semplice sistema di rete fra cittadini. Poco burocratico? Sicuramente, ma probabilmente efficace. L’esperienza delle piccole attività e degli artigiani come bar o barbieri insegnano che funziona.

Tutto ciò vale anche per il contrasto alla povertà: Le ricette nazionali devono coniugare troppe esigenze per funzionare bene. Una politica di vicinanza invece funziona meglio. Un comune – o un ente di pari livello – è un’autorità che è in grado di aiutare chi è povero ad un livello più umano che economico. “Toh, tieni 600€ al mese”, chiunque sarebbe capace di farlo a disposizione dei soldi (degli altri) da poter spendere, riuscire a prendere una persona e farla uscire dalla povertà è diverso e richiede una visione umana differente da soggetto a soggetto, una visione che la burocrazia centralizzata non potrà mai avere.

Inoltre, essendo sistema di welfare slegati, ogni comunità può trovare la propria quadra riguardo alla propria situazione specifica: La maniera in cui Venezia contrasta la povertà non creerà un precedente vincolante per Morterone o per Bari, che magari hanno situazioni di povertà completamente diverse.

Non tutte le misure possono essere devolute agli enti locali, che potrebbero creare una situazione troppo dispersive, un esempio è la sanità: avere centinaia di Servizi Sanitari Locali rischia di creare non pochi problemi. Pensate ad un SSL (Sistema Sanitario Locale) composto da pochi comuni che si trova a dover pagare un intervento molto costoso ad un proprio assistito: nonostante in Italia gli interventi chirurgici non abbiano coti esorbitanti, il costo degli interventi a fronte di una bassa quantità di contribuenti nel sistema locale, potrebbe recare qualche grana nel bilancio del Servizio Sanitario Locale.

In questo caso, la soluzione potrebbe essere il modello Bismarck: assicurazioni sociali in leale concorrenza che funzionano a livello nazionale che pagano prestazioni presso strutture che possono essere pubbliche, private o sociali.

Lo Stato sociale prova ad emulare per vie legali il comportamento tradizionale dei piccoli gruppi. Una grande burocrazia è richiesta per gestire e controllare il processo e, al netto degli alti costi, il sistema mette in pericolo la libertà dell’individuo e in una democrazia dà la possibilità ai partiti politici di “comperare” voti con i soldi dei contribuenti.

In questa citazione c’è la spiegazione semplice del perché tale sistema funzionerebbe: Perché è insito nella nostra natura. Siamo propensi ad aiutare il prossimo, ma, come ben è spiegato nel libro, di aiutare una persona a 1000 chilometri di distanza ci importa meno e lo facciamo peggio.

Anche perché è obiettivamente difficile farlo: si immagini come potrebbe un milanese aiutare un disoccupato tarantino con convinzione verso il sistema di contribuzione nazionale? È difficile, ben più difficile che sedersi ad un tavolo e trovare soluzioni per il proprio vicino di casa.

Invece su scala locale tutto ciò diviene più semplice e meno costoso. E, solitamente, quanto più una popolazione ha soldi in tasca tanto più tende a spenderne una parte per aiutarne il prossimo.

Certo, vorrebbe dire togliere lo Stato da settori come le infrastrutture. E se per una qualche ragione un’infrastruttura necessaria non fosse costruita, magari per mancanza di fondi, né dai privati né dalle autonomie? Beh, il sistema è a prova di bomba: Lo Stato destinerebbe, per qualche anno, l’eccedenza che ha dalle imposte indirette alla costruzione dell’infrastruttura. Corrisponderebbe di fatto ad un aumento delle imposte, poiché si ridurrebbero i versamenti alle comunità locali, ma offrirebbe comunque una via per risolvere in via urgente alcune situazioni, che poi si potranno successivamente adattare al decentramento.

In ogni caso, gli enormi vantaggi di un welfare migliore, meno costoso e più vicino al cittadino e di una netta riduzione della spesa pubblica statale supererebbero nettamente i piccoli incidenti di percorso che sono naturali in un sistema decentrato.

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http://www.brunoleoni.it/lo-stato-nel-terzo-millennio

 

Perché la rivolta cilena è antidemocratica (mentre Hong Kong e Catalogna no)

“Eh, voi liberali sostenete la ribellione a Hong Kong solo perché anticomunista ma in Cile state con la repressione cilena, vergogna, krumiri!”

Basterebbe ricordare che moltissimi liberali sostengono la Catalogna, che in quanto a politiche non è di certo l’ancapistan, per quanto riguarda la propria ricerca di libertà dalla Spagna.

Ma, nei fatti, cosa distingue le proteste in Cile da quelle a Hong Kong o in Catalogna? Molto semplice: l’esistenza di un’alternativa.

A Hong Kong, infatti, il sistema politico è fortemente sbilanciato in favore dei partiti pro-Cina (grazie a un sistema elettorale fortemente corporativo) mentre per quanto riguarda la Catalogna c’è da dire che la Spagna non permette neanche un voto consultivo sull’argomento.

È chiaro come per i cittadini, senza una vera rappresentanza democratica, l’unica arma sia la protesta, che spesso sfocia in violenza.

In Cile, invece, c’è una democrazia funzionante. I Cileni hanno eletto un Presidente, Piñera, ed hanno eletto anche un Parlamento a lui favorevole. Tra l’altro, ad affermare la democraticità di tali elezioni, c’è che queste sono state le prime con un sistema proporzionale puro e non con un particolare sistema binominale inventato durante l’uscita di scena di Pinochet.

La democrazia è sicuramente un sistema con vari difetti, ma è il modello scelto dai cileni, ed è inaccettabile che una minoranza, seppur consistente, di riottosi provi ad imporre la propria visione con la violenza.

In ogni caso, la vera soluzione sarebbe stata il dialogo, sedersi a un tavolo e provare a risolvere i problemi della minoranza senza però danneggiare la maggioranza (che ha tratto benefici da cose come le pensioni a capitalizzazione e il voucher scuola).

Istruzione in Calabria: un caso per la concorrenza

La Calabria potrebbe essere il paradiso di chi vuole eliminare la concorrenza in materia di istruzione: secondo i dati del MIUR sono l’1%, poco più di tremila, gli studenti calabresi che frequentano una scuola non statale e gli istituti paritari sono solo 72, paragonati ai 1537 plessi pubblici. Per paragone, in Lombardia la percentuale di studenti presso le scuole paritarie è circa del 10%.

Senza la “scuola dei preti” a togliere risorse alla “scuola di tutti” dovremmo presumere che la scuola calabrese sia un’eccellenza. E invece no.

L’istruzione in Calabria versa in uno stato che definire pietoso è quasi un complimento.

La conoscenza della lingua italiana declina durante la carriera scolastica: in sostanza paghiamo l’istruzione calabrese perché gli alunni disimparino l’italiano, visto che partono, in terza elementare, al pari con i coetanei lombardi e, perdendo punti, arrivano in quinta superiore come ultimi in classifica.

Matematica? Non ne parliamo: ultimi a partire e ultimi ad arrivare, tant’è che, statisticamente, un perito del Centro-Nord ne sa di più in matematica rispetto a un diplomato scientifico della Calabria.

Magari l’istruzione si rifà sulla lingua inglese, e invece no: la Calabria parte penultima, dietro alla Sardegna, e arriva penultima, questa volta dietro alla Sicilia.

Monopolio, la parola magica

In Calabria, ma anche in altre regioni meridionali, la scuola paritaria rappresenta un limitato attore di mercato, spesso confinato al livello della scuola primaria.

E, al contempo, queste regioni sono spesso piagate da altri problemi sociali come la disoccupazione, cosa che rende obiettivamente difficile, per i più, mandare i figli in una scuola paritaria se ritenessero inadatta l’istruzione pubblica.

Ergo la scuola pubblica è, in pratica, fornitore in esclusiva del servizio istruzione in queste determinate regioni. E, come ogni monopolista, non ha alcuna necessità di curarsi della qualità: gli alunni arriveranno anche se la qualità cala drasticamente, idem i finanziamenti.

In sostanza, non avendo i genitori un’alternativa, l’istruzione resta libera di cadere in picchiata in termini di qualità.

Cosa dovremmo fare?

Immaginate se ogni famiglia calabrese avesse una cifra annuale vincolata per l’istruzione del proprio figlio. Potrebbe certamente spenderla presso una scuola pubblica, ma se fosse insoddisfatta della qualità potrebbe, molto semplicemente, spostare il proprio figlio verso un’altra istituzione scolastica. Se la qualità dell’istruzione pubblica è quella che mostrano i test INVALSI, molto probabilmente vi sarebbero esodi di massa verso scuole più serie e l’istruzione pubblica avrebbe solo due alternative: migliorare o fallire.

Ora smettete di immaginare, infatti questa soluzione esiste ma purtroppo non in Italia e si chiama voucher scuola. Giovanni Adamo II, nel suo saggio “lo Stato nel Terzo Millennio”, definisce questi voucher “una questione di uguaglianza, poiché permettono di frequentare buone scuole senza considerazione per lo stato economico della famiglia”.

E così è: se un sistema del genere chiaramente porterebbe a benefici anche dove la scuola pubblica tendenzialmente funziona, ad esempio riducendo i costi e introducendo nuove metodologie didattiche più vicine alle necessità degli alunni, nei territori più periferici ed economicamente dissestati la libertà di scelta nella scuola è una questione di sopravvivenza perché solo una buona istruzione (quella monopolistica pubblica non lo è) può permettere di avviare tutti quei meccanismi che consentono alle persone di uscire dalle situazioni di disagio economico, alle quali spesso si legano situazioni di disagio sociale.

Esempi pratici

Nelle periferie di varie città degli Stati Uniti, zone spesso soggette a fenomeni di degrado urbano che portano alla formazione di gang, le scuole pubbliche si erano trasformate, alla fine, in parcheggia-bambini: si stava dentro qualche ora, si imparava poco e basta.

Sono nate poi le charter school. Queste scuole sono privatamente amministrate ma finanziate dall’istruzione pubblica, solitamente meno di quanto si pagherebbe per un alunno nel sistema pubblico. Ma i numeri sono limitati, quindi si organizzano delle vere e proprie crudeli lotterie per decidere chi potrà avere un’istruzione buona e capace di tirarlo fuori dalla povertà e dal degrado e chi, invece, resterà nelle scadenti scuole pubbliche.

A volere ciò sono coloro che, si suppone, dovrebbero proteggere gli alunni: i docenti. Infatti i loro sindacati sono fermamente contrari a ipotesi del genere, perché sanno che non garantirebbero tutti i loro privilegi.
E non è un’americanata: anche in Italia i sindacati dei docenti sono agguerriti contro ogni ipotesi liberale in materia di istruzione, nonostante nel dibattito mainstream esse siano veramente ridotte e prevedano, al massimo, un contributo parziale alla retta delle scuole paritarie.

Un esempio, invece, da un Paese non problematico lo abbiamo in Svezia: nel 1993, al grido di “l’istruzione è troppo importante perché sia gestita come monopolio” vennero introdotte le scuole libere, ossia delle scuole che, finanziate dai comuni al pari delle scuole pubbliche, erano gestite da privati. Risultato?

La qualità dell’istruzione pubblica è aumentata. In fin dei conti la scuola pubblica, per conservare i propri alunni, ha dovuto competere con le scuole libere. E, come per ogni servizio, la concorrenza fa bene, riduce i prezzi (ma, essendo sussidiata, non è il caso) ma soprattutto aumenta la qualità.

In Italia, soprattutto per le zone più problematiche del Paese, abbiamo bisogno di un sistema che permetta la libertà di scelta. “Il valore della scuola pubblica” non esiste, il futuro di tanti ragazzi oggi oppressi da un sistema scolastico mal funzionante sì. E senza una sostanziale riforma non sarà un futuro roseo.

Ci serve una Repubblica direttoriale?

Abbiamo appena assistito ad una crisi di governo. Una crisi figlia del nostro assetto costituzionale che, pur volendo dare un bel po’ di potere allo Stato, voleva evitare un forte accentramento politico.

Da tempo mi interrogo sulla forma di governo migliore per uno Stato liberale. A mio parere questa forma dovrebbe avere principalmente tre caratteristiche:

  • Rappresentare quanti più cittadini possibile;
  • Avere una visione a lungo termine e un certo potere di implementarla;
  • Non essere schiava delle logiche elettorali.

Ho scartato subito la Repubblica presidenziale: essendo un ruolo elettivo si rischia di perdere una qualsiasi garanzia e di legare anche la più importante carica del Paese a logiche a breve termine per ottenere voti. Se è accettabile in grandi Stati federali in un sistema di controlli e contrappesi, in Stati unitari invece rischia di essere un pericolo per la prosperità.

La Repubblica parlamentare è migliore ma di poco: il Presidente viene eletto dai Partiti ma dipende un po’ meno da essi che in uno Stato presidenziale, tende ad avere una visione di termine leggermente maggiore ma comunque resta il fatto che, avendo pochi poteri, i problemi si spostano al premier e, premierato debole o forte che sia, resta il problema della visione a breve termine e delle logiche elettorali. E anche se decidessimo, come accade in Cechia o in Austria, di eleggere direttamente il Presidente, poco cambierebbe.

Verrebbe naturale pensare alla Monarchia ma, Liechtenstein a parte essendo un’eccezione, le Monarchie europee sono solo leggermente più stabili delle Repubbliche, per il semplice fatto che hanno il medesimo sistema istituzionale sostituendo il Capo di Stato eletto con uno non eletto e vitalizio.

Un Capo di Stato collegiale?

Nel 1160, tuttavia, i Lombardi idearono un particolare sistema per la propria alleanza: un capo di Stato collegiale. La Lega Lombarda, che era una confederazione con compiti commerciali, giudiziari e politici oltre che militari, aveva un consiglio denominato universitas composto da membri dotti della società nominati dai singoli comuni.

Tale impostazione venne ripresa dai rivoluzionari francesi e, in tempi più recenti, dalla Confederazione Svizzera, che ad oggi rappresenta l’unico Stato ad adoperare questo sistema.

Si parla, in questi casi, di repubblica direttoriale: il Capo di Stato è collegiale ed è composto da pari; se c’è una figura unica, come il Presidente della Confederazione, assume esclusivamente un ruolo di rappresentanza poiché è un primo tra pari.

Perché è un sistema stabile?

Perché più o meno tutti sono rappresentati nel consiglio di governo. Nel sistema elvetico c’è un accordo de facto tra le forze politiche, denominato “formula magica”, ma si può anche immaginare una formula proporzionale direttamente prevista per legge.

Il governo, collegialmente, deciderebbe su vari temi rendendo possibile convergenze parallele e non obbligando a creare alleanze fisse: ogni partito sceglierebbe i migliori uomini e costoro, nel governo, deciderebbero.

E qualora non vi sia un accordo può decidere il popolo, nella forma di Parlamento o con voto diretto. Non è un caso che in Svizzera non esistano elezioni anticipate e sia la Patria della democrazia diretta: è una semplice conseguenza del sistema direttoriale.

Un’altra conseguenza potenzialmente piacevole è che il Capo dello Stato collegiale, se decide all’unanimità, rappresenta gran parte della popolazione. Pensate ad un potere di veto forte (ad esempio superabile solo per voto popolare o con un’elevata maggioranza di entrambe le camere): se venisse dato a Mattarella da solo sarebbe un conto, verrebbe sicuramente contestato, mentre se un consiglio che vede a destra Giorgia Meloni e a sinistra Pietro Grasso decidesse unanime che una legge ha qualcosa che non va forse tutti i torti non li avrebbe.

Certo: in Italia collaborare col nemico si chiama “inciucio” se lo fa l’avversario, se invece lo fanno gli alleati si chiama accordo. Ma vediamo bene i risultati: instabilità, riduzione della sovranità popolare, trasformazione del parlamento in un passacarte dell’esecutivo e, in definitiva, uno Stato peggiore.

Dove invece l’inciucio è legge, dove la “governabilità” sarebbe vista come un concetto degno di una dittatura, dove in ogni livello, dallo Stato federale al più piccolo comune montano, bisogna giungere ad accordi e dove, per buona pratica istituzionale, la minoranza del governo sostiene le decisioni prese collegialmente invece di aprire le crisi di governo defollowandosi su Instagram, si ha stabilità politica, economica e una vera partecipazione popolare.

Io, un pensierino, ce lo farei.

Lo sciopero politico è nemico della democrazia e della libertà

Non me la sento di condannare totalmente gli scioperi, se usati come mezzo di contrattazione col datore di lavoro. Se, ad esempio, il datore di lavoro non paga, non fa lavorare in sicurezza o non rinnova i contratti, ritengo comprensibile il protestare astenendosi dal lavoro.

Tuttavia, ultimamente, lo sciopero è fin troppo spesso usato come strumento politico. Basta leggere le ragioni degli ultimi scioperi nella scuola, nelle poste o nel trasporto pubblico per leggere cose come:

  • Sciopero contro la regionalizzazione della scuola
  • Sciopero del TPL contro la liberalizzazione
  • Sciopero del TPL contro l’austerità e per il diritto alla casa
  • Sciopero delle Poste contro le politiche neoliberiste

Sia chiaro, le persone hanno diritto di credere in ciò che vogliono e di manifestare collettivamente. Non hanno tuttavia il diritto di interrompere un servizio pubblico quale la scuola o il trasporto pubblico per le proprie idee.

È infatti assurdo che, se i professori sono contro la volontà della maggioranza dei cittadini in tema d’autonomia, possano tranquillamente bloccare la scuola in tutta Italia quando, se la stessa cosa fosse fatta dagli studenti di una singola scuola anche per ragioni pratiche (si pensi alle scuole in pietose condizioni, grande successo della nostra scuola pubblica), si configurerebbero gli elementi per un’accusa di Interruzione di Pubblico Servizio.

Non si può, tuttavia, pensare di risolvere il tutto limitando il diritto di sciopero. Se Reagan ci insegna che ogni tanto andare di forza può aver senso, è chiaro che se categorie protette e lobbistiche come quelle dei dipendenti pubblici possono avere così tanto potere è per connivenza della politica e, soprattutto, perché c’è troppo Stato nell’economia.

Se iniziamo a mischiare economia e lavoro, esattamente come fin troppo spesso accade in questo Paese dove essere “pubblico” -anche se spesso corrisponde a malagestione- è sinonimo di “bello”, è chiaro che stiamo dando un enorme potere ad una categoria singola a discapito delle scelte democratiche e individuali degli altri, cioè a chi può garantirsi il supporto della politica proprio scioperando. Ed è un circolo vizioso che solo una presa liberale di coscienza potrà evitare.

Perché è semplicemente discriminatorio che il cittadino comune, se ha un problema, debba agire secondo la legge mentre il membro della casta possa semplicemente interrompere il proprio servizio, imponendo la propria idea a tutti. Occorre dunque eliminare la mano dello Stato in settori dove non è essenziale, come l’istruzione o il trasporto pubblico, e fare in modo che diventino delle normali società private, con responsabilità chiare, e dove lo sciopero non è un’arma elusiva della democrazia e delle scelte individuali.

Nelle società necessariamente pubbliche, invece, si può mantenere un’autorità di garanzia che si occupi di impedire gli scioperi meramente politici permettendo, invece, quelli non politici.

Cile: davvero l’istruzione va a rotoli?

In questi giorni di proteste cilene alcuni media di sinistra citano tra le cause l’istruzione cilena, che sarebbe non solo tra le peggiori al mondo, ma anche tra le più costose.

Per chi non lo sapesse il Cile ha introdotto durante la dittatura di Pinochet un modello a voucher universale. Ciò ha causato uno spopolamento delle scuole pubbliche, rese poi quasi tutte municipali, che accolgono solo il 40% degli alunni. Questo è il motivo per cui, se cercate informazioni su Internet, troverete titoli acchiappaclic come “la riforma che ha distrutto l’istruzione cilena”: si riferiscono a quella pubblica e basta. Ma sarebbe come titolare un articolo sul predominio della medicina occidentale in Africa sugli sciamani con “la riforma che ha distrutto la sanità africana”.

Circa 10 anni fa il governo si è reso conto che i risultati non dipendono solo dalla bontà della scuola ma anche da situazioni sociali ed essendo il Cile, come praticamente tutti i paesi del Sud America, un Paese con forti disuguaglianze economiche, ha dunque deciso di introdurre misure economiche e sociali a vantaggio degli studenti più deboli, portando sia vantaggi, come un effettivo aumento della presenza di studenti a rischio nelle scuole migliori, ma anche svantaggi, come l’uscita di alcune scuole dal programma.

Ma davvero questa istruzione è così brutta come viene descritta? Vediamolo con una cosa che tendenzialmente triggera molto chi sostiene le tesi di cui sopra, portandoli a ahah react indiscriminate: i dati. Infatti esistono dati sia sulla qualità che sul costo dell’istruzione. Vediamoli insieme.

L’economia dell’istruzione cilena

Per prima cosa conviene farsi una domanda: a quale economia europea possiamo paragonare il Cile? I nostri lucidissimi esperti di Sud America mi suggeriscono la Croazia.

Parlando di scuole e non di università il Cile spende poco meno del 3,5% del proprio PIL nel settore, un dato di poco inferiore alla media OECD e a quella italiana ma superiore, ad esempio, rispetto alla Spagna.

Annualmente uno studente cileno costa allo Stato circa 4000$ adeguati al potere d’acquisto, meno della media OECD ma circa la metà dell’Italia, che spende circa 9000$ l’anno ad alunno ma, scandalosamente, vede i privati offrire il medesimo servizio al prezzo cileno.

Non è di certo un’istruzione ipercostosa, né per chi la frequenta né per lo Stato, ma nemmeno un’istruzione sottofinanziata, bensì è la meglio pagata del continente sudamericano.

Con questo non si nega che il sistema cileno abbia delle criticità, vi consiglio di leggere il report linkato, e infatti il nostro progetto di sistema a voucher ne tiene conto e corregge queste problematiche. Non è, tuttavia, un sistema decadente come viene descritto, e basta guardare ai dati per capirlo.

I risultati? Apprezzabili e promettenti

Certo, a livello economico regge, ma magari per colpa delle privatizzazioni la scuola fa schifo!

Solitamente per misurare la qualità di un sistema di istruzione si usa un test denominato PISA, sempre dell’OECD. Tiene conto praticamente solo di questioni didattiche e viene effettuato a studenti tra i quindici e i sedici anni. Il minimo è 5’000 studenti, eccetto per gli Stati piccoli, ma spesso gli Stati grandi fanno test su larga scala per fare comparazioni regionali. Gli studenti scelti, comunque, non prendono parte a tutte le prove, che sono di matematica, lettura e scienza.

Gli ultimi dati PISA a disposizione sono del 2015. Da questi dati vediamo una realtà semplice: l’istruzione cilena non è un’eccellenza ma è la migliore dell’America latina. Infatti i cileni non hanno risultati eccellenti e sono, per quanto riguarda la scienza e la lettura, nella parte media della classifica giungendo, però, in quella bassa in matematica.

Vediamo tuttavia un trend positivo sull’istruzione cilena: se il trend mondiale vede un calo di competenze in matematica, una stabilità sulla lettura e un calo nelle scienze il Cile è invece, con diversi indici, sempre cresciuto.

Sia chiaro: l’utilità di test come questi è contestata dal punto di vista educativo. Si tratta, tuttavia, dell’unico sistema che abbiamo per fare paragoni diretti tra istruzioni diverse.

Qualche dato dal Cile

Esattamente come in Italia abbiamo le INVALSI in Cile esiste un complesso sistema di valutazione dell’istruzione che include almeno tre livelli di prova: sulle capacità dell’alunno, sui risultati e sulla qualità dei docenti.

Vi è un corposo studio che ha delle conclusioni interessanti: la stragrande maggioranza delle diversità nell’istruzione cilena è dovuta proprio a differenze socioeconomiche, quindi lo Stato dovrebbe usare il proprio potere per favorire l’ingresso degli studenti più a rischio negli ambienti migliori. In tutto ciò, comunque, il problema della “segregazione scolastica” esiste in tutta l’America Latina ma solo due Stati, Cile e Argentina, sono riusciti a lenire il problema, come mostra questo report di EdChoiche.

Nessuno nega che vi siano studenti scontenti del sistema d’istruzione, ma quelli esistono in tutto il mondo. Raramente, infatti, gli studenti analizzano le questioni con razionalità e usando i dati a disposizione, limitandosi spesso a ripetere slogan semplicistici e populisti, chiedendo soluzioni che, economicamente parlando, non hanno senso.

Rider, perché con “le tutele” saresti sfruttato di più

I rider sono sfruttati. Questa è la narrazione mediatica derivata dai sindacalisti, eppure anche persone di sinistra che conosco e conoscono a loro volta dei rider concordano con il rider che abbiamo intervistato: fanno una vita dignitosa e non sono sfruttati.

Non sappiamo perché ci sia un movimento sindacale così radicale nonostante, tutto sommato, si stia bene. Sappiamo, però, che deriva dall’antico vizietto statalista italiano, quello per cui “lo Stato siamo noi tutti quindi possiamo imporre a loro, i padroni cattivi, le condizioni”

Personalmente ritengo sensate alcune richieste dei rider. Tutte hanno, in comune, di essere seguite da almeno una compagnia del settore. Per esempio è, a mio parere, giusto che quando si prenota un’ora e ci si presenta vi sia un minimo orario anche in caso di assenza di ordini, così come ogni libero professionista fa pagare l’uscita, al pari, non essendo un rapporto di lavoro dipendente, la possibilità di accettare e rifiutare ordini a sua volontà.

Le rivendicazioni medie, tuttavia, vanno ben oltre e sono completamente folli.

 

Lavori, lavoretti e pretese

Quello del ragazzo delle consegne è uno dei lavoretti tipici per guadagnare qualcosa durante gli studi. Prima dell’arrivo delle piattaforme organizzate era quasi sempre un lavoro in nero, senza tutela alcuna.

Oggi, invece, la situazione è migliore: se si sceglie di lavorare con Partita IVA è un lavoro come un altro, con contributi versati (possiamo discutere sull’INAIL, quella assicurativa è una questione sensata, essendo prevista per i parasubordinati), solo chi lavora come prestazione occasionale, regime limitato a guadagni inferiori a 5000€, non ha accesso a contributi e simili.

Quindi, già oggi, la normativa italiana offre una situazione positiva: chi vede nel rider un lavoretto per arrotondare può sfruttarlo a pieno in tal modo mentre se vuole che diventi un lavoro userà la Partita IVA.

Sta di fatto che il contratto firmato è un contratto a cottimo, e nessuno è stato costretto con una pistola puntata a firmare quel contratto. Se i contrari al cottimo amano chiamare i rider che lavorano veramente che sono favorevoli al cottimo “krumiri” mi permetto di dire che loro, che firmano contratti senza leggerli per poi chiedere allo Stato di cambiare le carte in tavola, sono dei “cretini”.

Le richieste dei sindacalisti-rider sono assolutamente fuori dal mondo: Assunzione, pagamento orario, ferie, malattia, bici pagata e chi più ne ha più ne metta. Visto che com’è ben noto i lavoratori dipendenti non si scelgono gli orari né cosa fare sarebbe la fine del ragazzo delle consegne come lavoretto dove ti scegli l’orario in base alle tue necessità, oltre che un discreto incentivo al dolce far nulla, poiché se il pagamento è orario puoi anche fare la pedalata panoramica a passo d’uomo e consegnare un ordine l’ora (e guai a licenziare!) per prendere il medesimo stipendio di chi fa 6 consegne l’ora.

Ribadisco, alcune questioni – già citate – sono sensate e vanno sollevate nei modi opportuni: chiedere benefici degni di un dirigente di medio livello per un lavoro autonomo, non specializzato e tutto sommato pagato dignitosamente è il miglior modo per farsi prendere per scemi da chiunque abbia visto il mondo del lavoro.

 

Cosa succederebbe con le tutele?

Tutto il discorso delle tutele presuppone che le aziende accettino. Il problema è che così non è: l’Italia è un mercato marginale, tant’è che Foodora l’ha lasciato poco tempo fa, e alcune aziende hanno già ventilato l’opzione di andarsene se passasse l’obbligo di contratto da dipendenti.

Se se ne andassero le imprese straniere resterebbero alcune aziende locali marginali, alcune già con lavoratori dipendenti e simili. Ma per riuscire a soddisfare tutta la domanda lasciata dalle grandi aziende dovrebbero assumere altro personale, aumentando i costi. In sostanza, quasi sicuramente, le app di consegna sarebbero un qualcosa da benestanti, disposti a pagare una consegna 8 o 10 Euro.

La maggioranza dei locali, per non perdere la clientela a domicilio, semplicemente tornerebbe allo “status quo ante bellum”: studente assunto in nero, pagato 7 Euro l’ora (anche meno, per esperienza personale – ndr), scooter-munito e se fai ritardo ti chiamano lamentandosi e minacciandoti di licenziarti.

E considerando che chi si lamenta non è il rider ma gente che spesso parla di “welfare” o di “aiuti a chi non riesce a lavorare”, ricordiamo che per chi non ha particolari doti lavorative quello del rider può essere un modo semplice di portare a casa la pagnotta. Per questa persona sarebbe una clamorosa perdita passare da “non particolarmente fortunato” a “sottopagato a zero tutele”. O peggio, disoccupato.

 

Scioperi? Buffonate, l’unica è cambiare lavoro

Quando ho, provocatoriamente, barrato quel “che lavorano veramente” non l’ho fatto a caso: pochi giorni fa c’è stato uno sciopero nazionale dei rider. È miseramente fallito: nessun disservizio degno di nota. Nonostante solitamente le app per compensare quei pochi scioperanti offrano un incentivo per quelle ore, in questo caso nemmeno è servito e il parlottare ha spinto molti nuovi rider a partire o i più pigri a prenotarsi e lavorare, come confermatomi da un “krumiro” che ha incontrato vari novellini durante la giornata di sciopero.

In ogni caso, trattandosi di lavoro autonomo e non specializzato – ergo facilmente sostituibile – lo sciopero è una buffonata e l’ultimo l’ha dimostrato. Se lo sfruttamento esistesse veramente si combatterebbe lasciando le aziende sfruttatrici senza lavoro, ossia licenziandosi e andando da un’altra azienda – non tutte hanno le medesime condizioni – o cambiando proprio lavoro e non facendo casino un giorno per poi farsi sfruttare gli altri 364.

Se poi l’azienda sfruttatrice trova 50 persone disposte a prendere di buon grado il vostro posto come “sfruttati” forse siete un pelo, ma giusto un pelo eh, troppo esigenti.