De Stefani e le riforme liberiste odiate dai fascisti

Il fascismo, più che giustamente, è ricordato come un regime di tipo socialista e nazionalista: il suo creatore, Benito Mussolini, crebbe nelle fila del Partito Socialista e ruppe con esse principalmente a causa del suo spiccato nazionalismo.

Chi oggi ricorda con favore quel periodo lo fa solitamente in chiave collettivista e statalista: “Quando c’era lui c’erano le case popolari, gli italiani erano aiutati, poi c’era la befana fascista…

Non possiamo non analizzare, tuttavia, il breve periodo liberista del regime fascista, principalmente rappresentato dalle politiche di Alberto De Stefani.

De Stefani, di scuola manchesterista, aderì al PNF poco prima che andasse al governo e venne nominato nel 1922 Ministro del tesoro e delle finanze.

In tale ruolo effettuò riforme come una deregulation delle leggi emanate durante la guerra, una riduzione della spesa pubblica e l’aumento delle imposte indirette in favore della diminuzione di quelle dirette, oltre ad una lotta contro l’inflazione, che lo portò a bruciare cartamoneta personalmente.

Durante tale periodo l’Italia divenne molto più forte: la disoccupazione crollò a picco, la spesa pubblica venne più che dimezzata e le esportazioni crebbero nettamente.

Nel 1925, tuttavia, De Stefani venne silurato: era infatti inviso a gran parte del fascismo. C’era chi lo riteneva troppo vicino ai liberali, c’era chi lo contrastava per interesse, come i proprietari terrieri e i piccoli imprenditori che non gradivano la concorrenza.

In pochi mesi il fascismo passò a un dirigismo spiccato ed entro il 1930 ogni volontà liberista venne abbandonata: La nuova idea del fascismo era di realizzare la dipendenza di imprese e individui dallo Stato.

Tutto ciò rende ovvio l’abbandono del liberismo: se è vero che uno Stato liberista non è garanzia di una politica libera, è anche vero che rendere gli individui economicamente indipendenti dallo Stato impedisce di realizzare il totalitarismo, ossia il dominio totale dello Stato sull’individuo.

E per Mussolini, già compresso tra la Monarchia e la Chiesa, sarebbe stato inaccettabile essere un semplice leader autoritario senza poter dettare vita, morte e miracoli degli italiani. E mettere l’economia in mano allo Stato è stata la maniera migliore per farlo.

E l’Italia ha potuto reggere le sue folli politiche economiche guerrafondaie e di autarchia solo grazie al rafforzamento economico che le politiche di De Stefani hanno creato in pochi anni.

Minatori e pastori: Il male delle aziende protette dallo Stato

Poche settimane fa abbiamo visto la crisi dei pastori sardi, con tutta la politica che invocava l’intervento statale: chi meno, come Antonio Tajani che ha proposto l’uso di fondi UE per progetti in grado di modernizzare e far conoscere il settore, chi più, come il vicepremier Matteo Salvini che ha ribadito la necessità “che lo Stato torni a fare lo Stato” e che metta un prezzo minimo di contrattazione.

I meno giovani di noi si ricorderanno i minatori britannici, il cui licenziamento iniziò già durante il governo laburista precedente ma viene tipicamente imputato a Margaret Thatcher, che attuò politiche di smantellamento più forti.

Entrambi questi casi hanno in comune due cose:

  1. La prima, di essere lavori manuali, faticosi e che in Stati meno ricchi costano di meno pur producendo un prodotto analogo. Il carbone, già da inizio anni ’70, costava meno come prodotto da importazione che come prodotto da estrazione in loco. La stessa cosa vale per il latte sardo che, eccetto che per le produzioni tutelate dov’è obbligatorio utilizzare latte locale, può essere sostituito da latte straniero munto in Paesi dove il lavoro viene pagato meno e un ricavo che per un pastore sardo è perdita per un pastore locale è un buon incasso.
  2. La seconda, di essere stati protetti dallo Stato. Nel Regno Unito le miniere erano così infruttuose che ebbero bisogno di essere nazionalizzate. In sostanza i britannici pagavano parte delle proprie tasse per permettere ai minatori di lavorare e il loro sindacato aveva un vero e proprio potere politico, non eletto da nessuno, di decidere sulle attività parlamentari e governative. Ovviamente alla Lady di ferro tutto ciò non andava bene: era inaccettabile che un’azienda inefficiente dovesse andare avanti a spese dei contribuenti, specie se era ormai una vera lobby.

La sua lotta fu fruttuosa: le miniere vennero chiuse, ottenne ampio consenso elettorale e oggi l’economia del Regno Unito va decisamente meglio di molte altre; oltre ad una bassa disoccupazione si è vista un’evoluzione economica che ha portato il Paese a puntare di più sul settore terziario e sulle industrie specialistiche, come l’aerospaziale, oltre che sul petrolio.

Nel caso sardo l’intervento statale ed europeo non ha fatto altro che prolungare il calvario: qualsiasi attività che ha bisogno di sostegno a lungo prima o poi arriverà al punto in cui questo sostegno sarà così costoso che una comunità, per quanto ben intortata a considerare i sussidi come “aiuto al Made in Italy“, non vorrà più pagarlo. E in tal caso il fallimento sarà ancora più disastroso, perché i soldi e il tempo che lo Stato avrebbe potuto usare per favorire una migrazione ordinata e non traumatica è stato sprecato per mantenere lo status quo.

Inoltre, come ben fa notare il Principe del Liechtenstein Giovanni Adamo II, che regna su di un Paese con poche risorse che dunque ha necessità di commerciare col mondo, il sostegno statale alle imprese e il protezionismo hanno come conseguenza un rallentamento tecnologico che, se perdurante, rende impossibile salvare quel settore economico.

Vediamo bene come pochi siano i marchi italiani internazionali e in quale  stato tecnologico versi nostra agricoltura, ultraprotetta, che adopera moderni servi della gleba per andare avanti. E più la proteggeremo, più quando non sarà possibile proteggerla il disastro, economico e sociale, sarà duro.

Più armi vuol dire più crimine?

Da quando in Italia si discute di modificare in senso leggermente meno restrittivo le norme sulla legittima difesa qualcuno strilla al far west, alle armi facili e dunque all’aumento delle morti, spesso citando statistiche americane, che includono i suicidi.

Ma è davvero così?

Le armi in America

Negli Stati Uniti d’America il diritto a portare e possedere armi è sancito dal secondo emendamento della Costituzione che stabilisce come sia necessario, per uno Stato, una milizia ben regolamentata.

I Padri Fondatori, ben memori dell’esperienza di guerra necessaria per liberarsi dal colonialismo inglese e dei pericoli presenti nel Continente, preferirono una nazione dove -potenzialmente – ogni cittadino avrebbe potuto avere un’arma, rispetto ad uno Stato dove solo l’Esercito è armato.

Si tratta di una finezza non avuta dai costituenti europei, nonostante vari Stati europei siano nati da esperienze di resistenza armata: In un certo senso i Padri Fondatori hanno avuto l’intuizione che il Popolo avesse la necessità di rescindere, anche tramite forze in armi, dall’adesione al governo; quelli italiani si sono detti “siamo una democrazia e lo saremo per sempre”.

I vari Stati dell’Unione, comunque, possono porre limiti al porto in pubblico e sottoporlo a licenze, che attendono a concessioni somministrate alla richiesta, se si posseggono determinate caratteristiche di legge o discrezionalmente.

Nessuno nega che in USA ci sia un problema di violenza. Tutti gli americani con cui ho parlato, dai sandersiani convinti ai trumpisti, passando per i libertarian: concordano sul fatto che le armi da fuoco siano semplicemente un mezzo di espressione, se non le avessero userebbero altre armi, ma al contempo sono anche un mezzo di difesa, infatti alcune importanti stragi sono avvenute in luoghi “gun-free”.

Le armi in Europa: Svizzera e Cechia

In linea di massima l’Europa ha leggi abbastanza restrittive in materia di armi. Questi due Stati, tuttavia fanno eccezione e hanno normative abbastanza liberali.

La Svizzera, di per se, ha una normativa non troppo speciale: Per comprare un’arma viene richiesto un permesso che si ottiene con relativa semplicità, se si hanno i requisiti, mentre per il porto in pubblico serve un ulteriore permesso, concesso con parsimonia.

Tuttavia in Svizzera esiste il servizio di leva, i cittadini portano a casa il fucile d’assalto e una volta terminata la leva possono acquistarlo.

Ciò porta a un ciclo virtuoso: Se avere un’arma in strada è relativamente raro, è però possibile difendersi nel proprio domicilio e, in caso, difendersi da un invasore armato o da una deriva dittatoriale del governo federale.

Sticker pro-armi ceco che recita “Vorresti davvero non aver nessun portatore di armi legale nelle vicinanze?”

 

In Cechia, invece, c’è un modello più individualista e la permissiva normativa – “diamo a Cesare quel che è di Cesare”, che è stata approvata persino dal socialdemocratico Zeman – permette il possesso e il porto a chi ha i requisiti di legge.

Inoltre, una volta ottenuto il permesso, è abbastanza semplice comprare pistole e fucili ad azionamento singolo, mentre è richiesto un ulteriore permesso per le armi semiautomatiche.

Questa volontà di mantenere le armi libere è stata una delle varie ragioni di contrasto tra il governo e il popolo ceco, inclusi i partiti più europeisti come TOP 09, e l’Europa unita: I Cechi credono che sia meglio avere una nazione armata, anche per combattere il terrorismo.

E, quando sentiamo in TV “le squadre anti-terrorismo posso intervenire in mezz’ora” dovremmo anche chiederci: quante persone disarmate può uccidere un terrorista in quel periodo di tempo?

E l’Italia?

In Italia è relativamente facile ottenere il permesso per tenere un’arma in casa, se si rispettano i requisiti di legge. La stessa cosa vale per le licenze di tiro sportivo e per la caccia.

Non vale per la difesa personale: Infatti è abbastanza difficile ottenere un permesso per difesa personale, che comunque vale solo un anno, e viene rilasciato tipicamente a gente che maneggia denaro o gioielli, o a medici notturni.

Ironico il fatto, comunque, che armi non letali come il Taser o le pistole a proiettili di gomma non possano essere portate, mentre le pistole classiche sì: In Italia, in sostanza, non puoi difenderti in maniera non letale, nemmeno se vuoi farlo.

Nel nostro paese, comunque, questo approccio è dovuto anche ad un problema culturale: raro è infatti trovare un serio fronte in favore delle armi sicure e legali; si passa da chi ritiene necessario disarmare i cittadini, e per il quale è meglio un cittadino onesto morto e un ladro in vita, rispetto all’inverso – colpevolizzando la legittima difesa- e chi invece vuole le armi libere senza alcun criterio di regolamentazione.

Da liberali dovremmo porci contro chi ci vuole sudditi dello Stato, tutti disarmati e in balia del primo che si procura una Glock al mercato nero (perché le leggi non possono nulla contro chi già sta agendo illegalmente), ma anche contro chi pensa di risolvere le dispute a colpi di rivoltella.

Il possesso di un’arma dovrebbe essere un diritto che attiva di conseguenza una serie di un doveri civici. Ed, esattamente come la possibilità di guidare un veicolo, dovrebbero essere contemplate cause che lo limitino o lo impediscono totalmente, da certificarsi tramite un corso ed una visita medica, senza per questo limitare immotivatamente la libertà personale.

Follie anti-nucleari

Non sono un fan a tutti i costi del nucleare: ritengo che, prima di parlarne seriamente, sia necessaria un’attenta analisi sui costi che includa anche le possibilità di sviluppo tecnologico nei prossimi anni.

Tuttavia, da diplomato tecnico e studente nel campo STEM, ogni volta che leggo le ragioni ecologiste contro il nucleare mi viene un piccolo colpo al cuore.

E la ragione è semplice: sono ridicole!

Per prima cosa giova parlare un po’ di energia: per generare sufficiente energia per un Paese come l’Italia esistono essenzialmente due tecniche: la combustione in centrali termoelettriche, che l’Italia fa in loco, e la trasformazione dell’energia nucleare in calore che alimenta una turbina, che l’Italia ha delocalizzato in Svizzera e Francia. Esiste poi una forma di energia, rinnovabile, che può coprire un certo fabbisogno, ossia l’idroelettrico.

Le altre energie rinnovabili, ad oggi, sono favolette capaci di generare solo uno sputo d’energia e che vivono solamente grazie ai sussidi fatti da politici che credono di essere verdi e che, più di aiutare l’ambiente, aiutano le tasche di chi ha un bel tetto.

L’idroelettrico è molto bello, solo che è limitato. Se nel tuo territorio hai un tot di fiumi hai un tot di potenziale energetico, e l’Italia usa bene il suo.

Il termoelettrico è pessimo: ha una scarsa resa energetica e, soprattutto, scarica gran parte delle proprie scorie in aria.

Ciò nonostante gli “ecologisti” preferiscono continuare a inquinare quando l’energia nucleare scarica in aria solo vapore.

Certo, esistono le scorie radioattive, ma a differenza delle polveri sottili possono essere rinchiuse e stipate in modo sicuro e relativamente semplice.

Inoltre, i tanto vituperati Chernobyl e Fukushima hanno causato in totale poco più di 4’000 morti. In Italia, ogni anno, ci sono 22 Chernobyl solo di morti per inquinamento dell’aria, cosa che il nucleare potrebbe evitare in larga parte, sia direttamente, con la dismissione o la riduzione del termoelettrico, sia indirettamente con l’elettrificazione di servizi oggi non elettrificati come il riscaldamento (che in Giappone, paese fortemente nuclearista, è in gran parte elettrico).

Tra l’altro, in Italia, un incidente con le rinnovabili, quello del Vajont, ha fatto quasi la metà dei morti di Chernobyl. Nessuno che parla di dighe assassine o mai più idroelettrico, mentre l’errore umano a Chernobyl dovrebbe gettar fango su tutto il nucleare.

L’odio per il nucleare è figlio della stessa semplificazione del mondo che porta allo statal-collettivismo: se esistono i poveri è colpa dei ricchi e se abbiamo paura dell’atomo basta scrivere per legge che un pannello solare alimenta tutto ciò che vuoi e, nel frattempo, bruciare l’improbabile e inquinare l’aria all’inverosimile in attesa che l’utopia del pannellino diventi realtà.

La verità di José Piñera su Pinochet e Allende

José Piñera è noto per essere stato il tecnico padre, durante il governo dittatoriale di Pinochet, del Miracolo del Cile. Tuttavia ha anche espresso alcune opinioni interessanti sulla salita al governo di Allende e sul golpe, e relativi effetti sul Cile, che meritano di essere analizzate.

Per prima cosa chiariamo che una dittatura, come quella di Pinochet, che ha usato ampiamente la tortura è un male. Anche José Piñera era di tale avviso, infatti governò con i militari solo per tre anni, per poi divenire oppositore del regime.

Per secondo, sono d’accordo con Milton Friedman: Le riforme di mercato hanno reso possibile dare alla dittatura una vita breve. Avere investitori, sia interni che esterni, che hanno potuto fare pressione sul Cile per mettere da parte Pinochet, ma non la sua politica economica che è stata portata avanti da molti altri presidenti cileni, anche nominalmente socialisti, è stata la salvezza del popolo cileno.

Se tutto fosse stato dello Stato, chi avrebbe potuto sovvertire questa dittatura? Nessuno, non senza spargimenti di sangue o un enorme sconvolgimento, come accadde nelle rivoluzioni dell’autunno delle nazioni.

Allende: Un martire?

Allende è spesso dipinto come un martire dei militari e degli USA, ma Piñera fa notare una cosa: Ad aver chiesto l’intervento dei militari fu il Parlamento, che vide nelle azioni compiute da Allende, come gli espropri e il governare per decreto, una violazione della Costituzione e lo depose.

Dunque Piñera ritenne il golpe un male minore e un qualcosa di formalmente legale, condannando poi le successive azioni della junta, come l’aver sciolto il Parlamento.

Piñera fece un contestato paragone con l’ascesa di Hitler, pienamente legale e democratica, e fece notare una certa collusione di Allende con la sinistra armata, alla quale offrì posti di governo.

In sostanza, per il tecnico cileno la vera causa del golpe è da ricercarsi nelle azioni antidemocratiche e illiberali di Allende, che hanno offerto ai militari uno spunto, legale, per fare un colpo di Stato e instaurare una triste dittatura, comunque meno triste di ciò che le collettivizzazioni avrebbero portato.

Le riforme di Piñera

Piñera fu autore di varie riforme, la più nota fu quella delle pensioni, che da statali divennero private e a capitalizzazione. Con tale sistema si è garantito un basso costo del lavoro per le imprese e un’ampia libertà di scelta per i lavoratori, che hanno permesso all’economia di crescere.

Un’altra riforma importante fu quella dell’istruzione, messa in concorrenza con i voucher, un sistema restato in piedi per più di 25 anni e solo di recente modificato, con l’aggiunta di un sussidio maggiore per i più poveri, il cui costo per l’istruzione è risultato maggiore.

Fu sempre grazie a lui che il governo di Pinochet chiamò i Chicago Boys e privatizzò vari settori dell’economia, aprendo la strada al Miracolo del Cile.

Cosa possiamo imparare?

Certe riforme andrebbero fatte perché portano benessere e crescita per tutti. Pur senza arrivare all’estremo di un colpo di Stato, un’opzione sicuramente estrema da adottare solo in caso di attentato alla democrazia, possibilmente senza compierne un altro poco dopo, bisogna considerare come il cambiamento non potrà mai arrivare dalla politica ma dovrà arrivare dalla società civile.

La politica ha come unico scopo, essenzialmente, raccogliere voti, e lo fa bene con misure assistenzialiste. Bisogna far capire alla maggioranza come l’assistenzialismo sia semplicemente parassitismo di minoranza che li danneggia.

Impossibile? In Brasile in una decina d’anni, grazie alla diffusione del liberismo da parte di competenti istituti, sono passati dal Partito dei Lavoratori a Bolsonaro con Guedes all’economia.

Istruzione e libertà di scelta

L’argomento della libertà di scelta nell’istruzione è molto importante per i liberali e liberisti all’estero: Ad esempio ne hanno parlato Milton Friedman Margaret Thatcher.

In Italia sul tema istruzione c’è purtroppo molta disinformazione. La maggioranza delle persone ha frequentato la scuola pubblica di Stato, dunque non ha mai dovuto approfondire il sistema di istruzione in Italia. Ci sono quindi molte cose da apprendere e approfondire anche per chi è già a favore della libertà di scelta in materia di istruzione.

I due volti dell’istruzione pubblica

La scuola pubblica di Stato

La scuola pubblica di Stato è quella che viene tipicamente chiamata “scuola pubblica”, quella fondamentalmente gratuita e frequentata dalla gran parte degli italiani.

Ha ovviamente vari difetti, solo che non vedendo l’alternativa per molti è arduo arrivarci da soli.

Il primo è che non esiste alternativa didattica: Il metodo didattico della scuola pubblica statale è solo uno, con limitatissime alternative sperimentali.

Eppure, diceva Margaret Thatcher, esistono studenti che danno il meglio con un modello tradizionale e altri con un modello progressista. La scuola pubblica non offre questa libertà di scelta: si crea dunque un modello mediocre che prova ad accontentare tutti, non riuscendoci.

Seconda cosa: modificarla è impossibile in un sistema statalista, dato che la scuola muove centinaia di migliaia di voti.

Tra docenti e aspiranti tali che con una riforma di mercato rischierebbero di doversi mettere in gioco personalmente invece di contare sulla graduatoria un partito che dice no a questo sistema alienerebbe tutti questi voti. E, in Italia, la coerenza non è di casa nella partitocrazia, che preferisce i voti al bene dei cittadini.

Terza cosa: Non c’è incentivo a migliorare.

Una cattedra è praticamente a vita, una volta ottenuta, nessuno è responsabile dei risultati e non ci sono incentivi per i docenti più meritevoli. Non esiste, in sostanza, un meccanismo virtuoso.

Infatti, si può lavorare anche il minimo indispensabile e per il sistema si è uguali ad un docente che lavora perfettamente. Questa è un’onta per quei docenti che ogni giorno, magari in situazioni difficili, si mettono in gioco per dare il meglio e ottenere il meglio dagli alunni.

La scuola pubblica paritaria, l’illusione dell’alternativa

Colpo di scena: La scuola privata, quella invisa agli statalisti poiché “non darebbe le stesse opportunità a tutti” (implicita ammissione di superiorità), è pubblica, a norma di legge, infatti emette titoli di studio validi, solo che si paga a parte.

Essendo parificata porta con sé alcuni dei difetti della scuola pubblica statale, come l’unicità del metodo didattico (non sarebbe possibile, ad esempio, avere una scuola paritaria organizzata a modello universitario o aperto).

Migliora invece l’incentivo ai docenti, che non sono assunti vita natural durante e che vengono scelti direttamente dalla scuola, non con una graduatoria, ma debbono comunque sottostare alle limitazioni previste per i docenti della scuola pubblica.

Inoltre, cosa non da poco, nella scuola paritaria l’alunno porta soldi, ergo la scuola ha tutto l’interesse a trattarlo bene, mentre la pubblica statale può tranquillamente permettersi l’abbandono scolastico, non venendone toccata economicamente.

Perché illusione?

In Italia chi parla di libertà di scelta, tipicamente politici di centrodestra ma esistono anche lodevoli eccezioni nel centrosinistra, intende favorire l’accesso alla scuola paritaria.
Per uno Stato come l’Italia sarebbe già un forte passo avanti, ma non toglie la necessità della libera scelta didattica.

Se ad esempio uno studente è particolarmente dotato in alcune materie ma non in altre potrebbe trovarsi bene in un sistema simil-universitario ove il progresso viene certificato non di anno in anno ma materia per materia.

Ad oggi non sarebbe possibile, purtroppo, ma esiste un sistema che lascia libertà didattica e mette lo Stato in un più accettabile ruolo di garante e certificatore, più accettabile rispetto al ruolo enorme della scuola pubblica.

Istruzione parentale: La vera libertà, ma a caro prezzo

Questo sistema è l’educazione parentale, riconosciuta dalla legge italiana come assolvimento dell’obbligo di istruzione.

Nel sistema di educazione parentale i genitori si assumono l’onere di istruire il figlio, le cui competenze vengono testate annualmente (anche se alcune scuole, specialmente quando si parla di elementari, sono lascive e ammettono esami più rarefatti) da una scuola pubblica, statale o paritaria.

Tuttavia spesso i genitori non hanno le competenze, il tempo o le possibilità di istruire i propri figli, in questi casi possono intervenire le vere scuole private, che istruiscono l’alunno per conto dei genitori preparandolo agli esami statali che certificheranno le competenze.

La cosa bella di queste scuole è che, non avendo vincoli statali, esistono in svariate forme.

C’è chi vuole ricordare la scuola pubblica, chi fa corsi interamente online, chi fa corsi in stile universitario, tutto ciò in considerazione del pubblico (ovviamente un corso per le superiori viene considerato diversamente rispetto a un corso per le elementari).

Si tratta dunque di un sistema vicino all’individuo, spesso adoperato da chi ha, ad esempio, impegni sportivi che non permetterebbero una regolare frequenza in una scuola pubblica ma ha ugualmente le capacità per il diploma

Il modello a voucher, la risposta liberale

Il sistema a voucher è la risposta liberale all’istruzione pubblica, ideato da Milton Friedman.

In questo sistema l’istruzione è garantita a tutti tramite un voucher spendibile presso la scuola privata scelta dall’alunno e dalla sua famiglia, che copre la stragrande maggioranza delle scuole.

Tale sistema sarebbe prima di tutto vantaggioso economicamente per lo Stato: Una scuola paritaria o privata costa, in media, dai 3’000 ai 6’000 euro l’anno mentre la scuola pubblica ci costa 8’000 euro l’anno ad alunno.

Lo scarto è dovuto alle inefficienze e agli sprechi del sistema pubblico, ovviamente. Dunque un sistema del genere darebbe libertà di scelta in due modi:

  1. Quello palese, ossia permettendo di scegliere qualsiasi scuola senza limiti economici
  2. Quello implicito: 2’000 euro in meno di spesa per alunno vorrebbe dire meno tasse, ossia più libertà d’acquisto per tutti

In questo sistema, volendo mantenere il valore legale del titolo di studio, il ruolo dello Stato si limiterebbe a svolgere periodici esami per garantire il livello d’avanzamento, lasciando la famiglia e l’alunno libero di scegliere il proprio modello preferito per prepararsi a questi esami.

Tale sistema permetterebbe anche di creare scuole di genitori, cosa utile in zone disagiate o isolate: Se oggi una persona che vive in un paesino senza scuola non ha alternativa, con un sistema del genere i genitori del pase potranno investire il proprio bonus per creare una piattaforma educativa per i propri figli.

Anche le comunità con una lingua diversa da quella dello Stato avrebbero da guadagnarci: Oggi in Italia esistono circa trenta lingue che potrebbero godere della tutela prevista dalla Carta Europea delle Lingue Regionali o Minoritarie, di esse solo undici sono tutelate ufficialmente dallo Stato e solo due godono dell’insegnamento scolastico.

Col voucher scuola i genitori di minoranza o interessati a far studiare i figli nella lingua del territorio, la cosiddetta immersione linguistica, (ricordiamo che frequentare una scuola bilingue dà un vantaggio nell’apprendimento delle terze lingue, non è pertanto una cosa così strana voler far frequentare al proprio figlio una scuola di minoranza se magari già sente la lingua dai nonni) potranno associarsi per finanziare l’istruzione nella loro forma preferita oppure, se c’è un forte interesse, potranno nascere scuole classiche con l’immersione linguistica. Ah, ovviamente, con questo sistema non saranno possibili solo scuole lombardofone o sardofone ma potranno nascere scuole che educano in altre lingue o anche in più lingue contemporaneamente.

Parliamo dunque di un sistema che:

  • Premia docenti e allievi meritevoli
  • Costa meno allo Stato
  • Lascia libertà di scelta su tantissimi fronti

Quali ragioni, a parte voler conservare i propri privilegi, per dire no?

Che liberale sei? Cinque liberali per trovare la tua strada

Il liberalismo ha sicuramente dei valori fondanti, ma non esiste un manifesto del partito liberale e potremmo dire che ogni liberale ha la sua personale ideologia, che poi può essere raggruppata in una delle macroaree che compongono il liberalismo.

In questo articolo parleremo di cinque liberali diversi tra loro, anche in modo radicale, per dare alcuni spunti ai lettori.

Margaret Thatcher: Liberismo conservatore

Margaret Hilda Thatcher, primo ministro inglese dal 1979 al 1990 fu protagonista di una vera e propria rinascita economica del Regno Unito, all’epoca lacerato da sindacati che dettavano legge, lavori inutili per l’economia ma intoccabili e, in generale, da una società ancora ancorata all’economia pre guerra mondiale.

La Thatcher si contraddistinse per la sua giusta caparbietà: Nota è la sua frase “The lady’s not for turning“, non si torna indietro. Infatti nei primi anni le sue politiche, eliminando lavori inutili, crearono disoccupazione che solo dopo qualche anno rientrò nella norma, dimostrando come in effetti il mercato sia stato in grado di regolarsi.

Credeva inoltre fortemente nel principio per cui tutti sono capitalisti: Favorì infatti la vendita delle case popolari a chi ci viveva dentro e la vendita delle azioni delle aziende statali, privatizzate, ai lavoratori.

Durante il suo governo si vide un’ampia crescita del PIL, una riduzione del debito ma soprattutto un calo costante dell’inflazione.

A dispetto del nome dell’ideologia per la sua epoca la Thatcher si rivelò abbastanza progressista: Fu tra i pochi deputati tory a votare la depenalizzazione dell’omosessualità maschile e dell’aborto e, mentre in USA si faceva la guerra alla droga senza quartiere, prese misure per tenere i tossicodipendenti al sicuro dall’HIV, ad esempio fornendo aghi puliti per prevenire gli scambi.

Luigi Einaudi: Ordoliberalismo all’italiana

Luigi Einaudi fu il secondo Presidente della Repubblica Italiana, monarchico e membro del Partito Liberale come il suo predecessore Enrico De Nicola.

Nominato Senatore del Regno nel 1919, supportò per le elezioni dello stesso anno una piattaforma che proponeva il decentramento, la fine del protezionismo e l’europeismo ante litteram, supportò la prima politica economica fascista in risposta ai dazi doganali del governo Giolitti per poi distaccarsene e diventare profondamente antifascista.

Dopo il referendum del 1946 divenne ministro nell’area dell’economia, dove pose le basi per il boom economico degli anni ’50 e ’60.

Einaudi era fortemente contrario ai sussidi, che riteneva svantaggiosi e dannosi per il progresso, e supportava una tassazione proporzionale, a patto che ad essa corrispondessero servizi migliori e infrastrutture più efficienti e non fosse un vuoto sistema per raggiungere una presunta giustizia sociale.

Pim Fortuyn: Liberalismo conservatore

Pim Fortuyn fu un politico olandese, dipinto dai giornali di sinistra come paradosso: Gay ma fortemente anti islamico.

Il paradosso, ovviamente, non c’è da nessuna parte: Pim Fortuyn, barbaramente assassinato da un estremista ambientalista che voleva difendere “le minoranze”, credeva semplicemente che una società islamizzata non potesse garantire alcuna delle libertà a cui egli fortemente teneva come i diritti gay, l’uguaglianza tra i sessi e la libertà di parola.

In economia Fortuyn era fortemente liberista: Amante di Margaret Thatcher sosteneva la deregulation, il laissez faire e il governo minimo, oltre che repubblicano.

Fortuyn fu dunque un conservatore nel senso più nobile della parola: Voleva conservare le libertà dal nemico che voleva abbatterle e che, in Olanda, era più l’islamismo che il comunismo. A molti non piace dirlo ma è ovvio: Una società che ha come costituzione il Corano non può aver nulla a che fare col liberalismo.

Inoltre ebbe una forma di comunicazione populista, aprendo una stagione di liberalismo populista ancor oggi esistente: Il motto della sua lista era “at your service” ed è ben noto un video in cui Fortuyn fa il saluto militare agli elettori ponendosi al loro servizio.

Vaclav Havel: Liberalismo verde

Classificare politicamente Vaclav Havel, ultimo presidente della Cecoslovacchia e primo della Cechia è abbastanza difficile perché ricoprì sempre ruoli più onorifici che pratici. Si potrebbe dire che Havel fu un amante della libertà nel senso più ampio del termine, che sviluppò il suo pensiero politico, forse inconsapevolmente, nel solco dell’ordoliberalismo.

Fu grande avversario sul campo di Vaclav Klaus, suo successore alla presidenza e noto liberista hayekiano: Si oppose principalmente alle privatizzazioni a voucher, col timore che portassero a povertà e magheggi, come accadde ad esempio in Russia.

Punti principali dell’idea di Havel furono l’ambientalismo, tanto da portarlo ad aderire ai Verdi Cechi, partito di centro, dal 2004 alla sua morte (prima supportava l’Alleanza Civica Democratica, partito di centrodestra che candidò per la prima volta Karel Schwarzenberg, altro nome del liberalismo ceco nonché consigliere di Havel) e l’esistenza di una società civile, idea invece fortemente avversata da Klaus.

Havel è ritenuto uno dei più importanti avversari del comunismo nell’Europa orientale e ha goduto del plauso di gran parte del mondo libero e, grazie alla sua propensione al dialogo, ha unito gran parte della società ceca: Dalla destra conservatrice al centrosinistra socialdemocratico passando per il centro cattolico o hussita.

Camillo Benso: Liberalismo classico

Camillo Benso, Conte di Cavour, primo ministro italiano e fautore dell’Unità d’Italia. Benso fu uno dei pochi liberali classici della storia: Sostenitore di un modello italiano semi-federale a livello regionale, sosteneva l’integrazione europea su modello confederale e riteneva il libero mercato la base di tutto e le infrastrutture, da costruire con aiuto pubblico ma da parte di privati, il sistema operativo di esso. Ovviamente si oppose con forza ai dazi, da evitare a tutti i costi a suo parere.

Benso propose dunque un’Italia, purtroppo, mai attuata: Decentrata, liberale ed europea, un modello ancor oggi vincente e, soprattutto, possibile

La rivoluzione liberale che sconvolse Praga

Praga, 16 novembre 1989.

Il comunismo europeo stava iniziando a dare segni di cedimento, pochi giorni prima era crollato il Muro di Berlino, ma la leadership comunista cecoslovacca, capitanata da Husák, leader imposto da Mosca dopo i fatti della Primavera di Praga, sembrava salda: Era stato deciso che i cambiamento gorbacioviani del sistema politico sarebbero stati implementati dopo il 1990, possibilmente nel 1992 o 1993.

A differenza di Stati come la Polonia, dove la dissidenza di Solidarnosc esisteva da anni e muoveva decine di migliaia di persone in Cecoslovacchia la dissidenza era piccola e guidata non da un politico ma da un drammaturgo: Václav Havel.

Ma il 17 novembre cambiò tutto: Il 17 novembre 1939, infatti, il governo nazista del Protettorato di Boemia e Moravia uccise molti studenti oppositori del regime e nel 1989 varie sigle studentesche scesero in piazza per ricordarli e, rapidamente, il ricordo divenne protesta contro il totalitarismo comunista.

In tutto il mondo le TV trasmisero le immagini dei manifestanti che armati di bandiera cecoslovacca facevano tintinnare le chiavi e facevano il segno della vittoria, adottato come simbolo dai dissidenti e dallo stesso Havel.

In pochi giorni il governo comunista fu costretto, prima sotto la leadership di  Ladislav Adamec e poi di Marián Čalfa, a lasciare spazio all’opposizione e il 29 dicembre Václav Havel salì al Castello di Praga dopo essere stato eletto Presidente della Cecoslovacchia. Pochi mesi dopo vennero convocate le libere elezioni, vinte dal Forum Civico, all’epoca guidato da un nome caro ai liberisti euroscettici: Václav Klaus.

Come mai la rivoluzione di Velluto è più interessante delle altre rivoluzioni dell’autunno delle nazioni?

La ragione è che fu una “liberální revoluce“, una “rivoluzione liberale“, e lo fu inconsapevolmente.

In molti Stati comunisti il cambiamento fu praticamente un fatto interno al Partito Comunista, alle volte misto a questioni nazionali mai risolte, come in URSS, in Bulgaria e in Ungheria, in Germania Est e Polonia fu il trionfo del cristianesimo democratico mentre in Romania ci fu una rivoluzione violenta che però non eliminò l’infrastruttura comunista.

In Cecoslovacchia la rivoluzione fu quasi inaspettata e il movimento risalente a Charta 77, documento firmato da 200 dissidenti nel 1977 chiedendo il rispetto dei diritti dell’uomo, non era capace di portare avanti il tutto. All’epoca il movimento della dissidenza era principalmente composto da membri della società civile e molti dei dissidenti politici erano socialisti democratici epurati dopo il 1969. Non proprio la patria del liberalismo.

Tuttavia con la politicizzazione la rivoluzione di Velluto assunse connotati fortemente liberali: Il Forum Civico era dominato da forze liberali e liberiste, con la componente socialdemocratica minima.

Nel 1990 il Forum si divise in Parlamento: La maggioranza andò con Klaus nel Partito Civico Democratico, che proponeva un rapido passaggio al libero mercato, la componente più vicina al liberalismo sociale scelse invece il Movimento Civico, che scomparve dalla scena politica in poco tempo, non raggiungendo lo sbarramento del 5%. I pochi socialdemocratici si unirono al Partito Socialdemocratico, rifondato dopo la rivoluzione e perseguitato durante il comunismo. Prendano nota i sedicenti socialdemocratici che gioiscono per le vittorie del comunismo.

La Repubblica Ceca, nel frattempo nata da una secessione, avversata dal Presidente ma non impedita, si avviò al libero mercato ed oggi è una delle principali economie emergenti d’Europa, con una disoccupazione ampiamente sotto il 4% e un debito del 35% del PIL. Anche Havel, inizialmente dubbioso su alcune riforme di Klaus come la mancanza del diritto di prelazione nelle privatizzazioni dei negozi assegnati dai comunisti, ebbe da ammettere che fu il sistema migliore per adeguare il mercato ai cittadini e non viceversa.

Havel supportò dunque la transizione all’economia di mercato ma ebbe dissidi con Klaus, principalmente su temi etici e sociali ma anche sul fatto che la privatizzazione fatta rapidamente potesse favorire corruzione e monopolismo. A vedere altri Stati che hanno seguito un cammino simile a quello ceco non si può negare che fu un timore fondato, tuttavia in Repubblica ceca tale modello ha funzionato abbastanza bene, garantendo benessere e crescita che il comunismo non avrebbe mai garantito.

E tutto ciò fu garantito da una collaborazione, non priva di dissidi, tra le forze liberali ceche: Dal liberalismo verde di Havel al liberismo duro e puro di Klaus all’euroliberalismo del Principe Carlo di Schwarzenberg, che ha lasciato una Cechia venticinquesima al mondo per libertà economica, paradiso europeo dei portatori di armi e, soprattutto, senza leggi corporativiste e di limitazione delle libertà di pensiero d’epoca fascista.

Antifascismo e fascismo sono la stessa cosa?

Spesso, parlando di politica, si dice che “fascisti e antifascisti sono la stessa cosa”. Tra chi abbraccia questo pensiero come fosse verità rivelata e chi lo rifugge è, in realtà, una tesi interessante, ma che alla prova dei fatti dimostra che entrambi gli schieramenti hanno torto.

In teoria sembra una scemata

Ovviamente, verrebbe da dire, se si chiama “antifascismo” è ovvio che sia opposto al fascismo. Ma questo ragionamento aveva valore durante il regime, quando il fascismo era il male al governo e bisognava, uniti, sconfiggerlo.

Oggi le cose sono più complesse. Il fascismo è diviso in varie correnti e vi sono anche numerosi movimenti borderline, non chiaramente attribuibili ad esso.

Da ciò deriva una certa difficoltà a definire obiettivamente cosa sia il fascismo: Ci sono fascismi che hanno accettato di buon grado la democrazia, fascismi dichiaratamente antirazzisti e pro-Islam e addirittura fascismi autonomisti! Ovviamente sussistono alcuni elementi comuni quali la tendenza a volere un’economia socializzata, una proprietà privata che rispetti la funzione sociale e un certo nazionalismo.

Ma alla prova pratica è diverso…

Piccolo problema: L’economia socializzata e la proprietà privata socializzata mica la vogliono solo i fascisti, ma anche gran parte della sinistra. Quello del rossobrunismo, ossia superare le differenze tra rossi e neri per lottare assieme contro capitalismo e simili, non è di certo un fenomeno nuovo: Togliatti nel 1936 lodò la Rivoluzione Fascista e parlò di Mussolini come un traditore di tali ideali, Bombacci, un comunistone che creò la propria edizione della Pravda dedicata a Mussolini, venne fucilato addirittura assieme a lui.

In sostanza definire un fascismo a cui opporsi è spesso difficile. Il modo migliore di farlo è sostenere un’ideologia che si opponga ai fondamenti del fascismo. Se si ritiene il fascismo fondamentalmente antidemocratico – quindi un metodo – è sufficiente sostenere qualsiasi ideologia democratica, mentre se si ritiene possibile un fascismo esistente in democrazia la cosa diviene più complessa.

Confusione tra antifascismo e antifa

Fin qui abbiamo, al massimo, mostrato come sia difficile essere antifascisti oggi, ma qualcosa deve aver originato l’equivoco di cui parliamo nel titolo. E questo qualcosa è il movimento antifa.

Trattasi di un movimento spontaneo composto principalmente da estremisti di sinistra, e questo movimento spesso adotta metodi e idee fasciste. Violenza – spesso associata a quella dei black bloc -, antisemitismo, rifiuto del capitalismo e della globalizzazione, minacce, distruzione di proprietà e anche peggio.

È chiaro che una persona normale e non troppo informata quando sente per la decima volta in TV che gli antifa hanno fatto squadrismo per distruggere qualche negozio random per diffondere la loro idea pensi “sì ma cavolo, fascisti e antifascisti sono la stessa cosa”.

Ma, come abbiamo mostrato nel capitolo precedente, l’antifascismo non è un’ideologia a sé ma l’adesione ad un’ideologia incompatibile col fascismo.

Per concludere

È chiaro come l’opposizione al fascismo non sia rappresentata solo da qualche esagitato che si sarebbe trovato molto bene con le squadracce sansepolcriste. Affermare come l’antifascismo sia equivalente al fascismo, senza specificazione alcuna, è quantomeno ingenuo, se non addirittura in malafede.

Viene tuttavia da chiedersi, a più di settant’anni dalla fine del ventennio, se sia così importante la semplice etichetta di antifascismo. Onestamente credo che ormai sia più importante fare opponendosi con la propria idea ai residuati del fascismo che opporsi a un regime ormai morto e sepolto.

Perché sono tutti buoni a dire di voler togliere qualche fascio littorio in giro, ma quanti rinuncerebbero – o quantomeno modificherebbero radicalmente – alle cose fasciste ancora in vigore? Giusto per citarne alcune:

  • Il TULPS, sviluppato per far funzionare l’apparato di polizia fascista e in larga parte ancora in vigore
  • I vari reati di vilipendio
  • La regolamentazione della professione giornalistica
  • Varie altre leggi, decreti, ordini, enti.e simili che servono solo a limitare la libertà economica e personale