La Cina è ancora comunista?

La Cina è ancora comunista? La risposta a questa domanda è complessa ed è possibile scinderla in due parti distinte, che rispondono alla dimensione sociale e alla dimensione economica. La “Repubblica” Popolare Cinese è tutt’ora guidata da una dittatura comunista a partito unico, nella quale il dissenso viene represso anche violentemente.

Società

La situazione dei diritti umani in Cina continua a subire numerose critiche da parte della maggior parte delle associazioni internazionali che si occupano di diritti umani, le quali riportano numerose testimonianze di abusi ben documentati in violazione delle norme internazionali. Il sistema legale è stato spesso criticato come arbitrario, corrotto e incapace di fornire la salvaguardia delle libertà e dei diritti fondamentali.

La Cina è il Paese al mondo in cui si eseguono più condanne a morte, sebbene le autorità si rifiutino di rendere pubblica alcuna statistica ufficiale. Riguardo le condanne eseguite nel 2007, Amnesty International  ha raccolto notizie su 470 esecuzioni, ma ne stima un totale di almeno 6000 nell’arco dell’anno. Nessuno tocchi Caino stima una cifra simile di almeno 5000 esecuzioni nello stesso periodo, con un’incidenza dell’85,4% sul totale mondiale. Entrambe le associazioni riconoscono però che c’è stata una diminuzione nel numero delle esecuzioni, dopo che è stata reintrodotta la norma per cui tutte le condanne a morte devono essere confermate dalla Corte suprema del popolo: ciò consente di attutire la piaga delle condanne a morte comminate dopo processi sommari e iniqui. Alcune stime, tuttavia, sono ben più pessimistiche: un esponente politico cinese, Chen Zhonglin, delegato della municipalità di Chongqing, giurista e preside della facoltà di legge dell’Università Sudorientale Cinese, in un’intervista al China Youth Daily ha parlato di 10.000 esecuzioni l’anno. In quell’occasione Chen dichiarava la sua intenzione di lavorare per migliorare la situazione dei diritti umani in Cina.

Secondo quanto rivelato dal viceministro della salute Huang Jiefu nel corso del 2005, è dai condannati a morte che proviene la maggioranza degli organi espiantati in Cina, spesso senza che il donatore abbia dato il suo consenso, sebbene la legge lo esiga. L’espianto non consensuale pare che venga praticato sistematicamente ai condannati appartenenti al movimento spirituale del Falun Gong, perseguitato dal regime di Pechino ufficialmente dal 20 Luglio 1999, quando l’allora leader del PCC mobilitò le forze di Stato per sradicare il Falun Gong e i suoi praticanti. Questo fenomeno, che ha determinato di fatto un traffico illegale di organi umani, ha generato il sospetto che le condanne vengano eseguite quando c’è richiesta di organi compatibili con il condannato.

Nel 2006 l’avvocato per i diritti umani David Matas e l’ex segretario di Stato canadese David Kilgour, hanno condotto in un’indagine indipendente dimostrando che il personale militare e sanitario nelle carceri e negli ospedali cinesi rimuove forzatamente gli organi dei praticanti del Falun Gong ancora in vita per scopo di lucro. Secondo il loro rapporto, denominato “Bloody Harvest”, tra il 2000 e il 2005 quasi 41.500 praticanti sono morti per questo motivo, ma il numero reale potrebbe essere molto più alto. Il governo cinese si è frequentemente macchiato di violazioni dei diritti umani nei confronti di minoranze etniche e religiose e dissidenti politici: l’esempio più celebre, per l’opera di sensibilizzazione mondiale in cui si è prodigato il Dalai Lama, è l’occupazione armata del suolo tibetano, oltre che il sopracitato esempio della pratica di qigong del Falun Gong.

Il governo cinese assicura di dispensare la pena capitale solo in caso di gravi reati (omicidio, strage, terrorismo…), escludendo reati politici o di qualsiasi altro genere, e ha pubblicato sul web una copia del proprio codice penale che conferma questa versione. Tuttavia Amnesty International afferma che in Cina sono 68 i crimini punibili con la pena di morte, inclusi reati non violenti come l’evasione fiscale, l’appropriazione indebita, l’incasso di tangenti e alcuni reati connessi al traffico di droga.

In Cina vengono applicate gravi limitazioni alla libertà di informazione, alla libertà religiosa, quella di parola e persino alla libertà di movimento dei cittadini. L’evento più conosciuto in occidente delle azioni di forza perpetrate dalla Cina nei confronti dei dissidenti politici è rappresentato dalla repressione della Protesta di piazza Tiananmen il 4 giugno 1989, in cui perse la vita un numero imprecisato di manifestanti e soldati (200 secondo il governo cinese, tra 2 e 7 mila secondo alcuni dissidenti).

In Cina non esistono sindacati indipendenti, ma solo quello governativo ed è severamente vietato lo sciopero. Lo stato, almeno sulla carta, assicura i diritti dei lavoratori, ma la quantità annua di morti sul lavoro ha destato molte preoccupazioni e parecchie critiche e denunce non solo da organizzazioni umanitarie, ma anche dall’interno degli stessi organi di governo cinesi.

Un’altra accusa di lesione dei diritti umani rivolta al governo cinese è la pianificazione familiare obbligatoria, voluta dallo stesso Mao Zedong e tutt’ora impiegata. La legge che la regola, in vigore dal 1979, è la “Legge eugenetica e protezione della salute”, altrimenti detta ‘’Legge del figlio minore” che si è successivamente evoluta nella cosiddetta “Legge del Figlio Unico“, introdotta nel 2002 e abrogata dalla Corte Suprema cinese nel 2013. Secondo le fonti governative, grazie all’introduzione di questa pratica le nascite evitate nella Repubblica Popolare Cinese sono state 300 milioni. La legge prevedeva che una coppia potesse avere un figlio nelle zone urbane, e due in quelle rurali. I trasgressori potevano portare a termine un’eventuale gravidanza dietro pagamento di un’ingente multa, oppure erano obbligati a rinunciare al figlio.

Le accuse verso questo progetto sono molto pesanti: la lesione della libertà dei genitori; l’uso massiccio e obbligatorio dell’aborto, per di più in modi particolarmente dolorosi; le dure repressioni contro i cittadini che, specialmente in zone rurali o povere, opponevano resistenza al progetto; la violenza verso le donne, visti i casi certificati di sterilizzazioni forzate, operate in molti casi ai danni delle colpevoli; discriminazione verso le donne; in moltissime famiglie (dato anche il divieto di diagnosticare il sesso del nascituro), specialmente nelle zone rurali, le neonate sarebbero uccise, oppure non registrate all’anagrafe (costringendole alla totale assenza di diritti politici e alla rinuncia di istruzione e di qualunque assistenza sanitaria); discriminazioni sociali, perché il sistema fa in modo che i più facoltosi possano “pagarsi” il diritto al secondo (o al terzo) figlio pagando la sanzione corrispondente (in genere di 50.000 yuan, circa 7.700 dollari, 6.400 euro).

Da questi semplici esempi è possibile vedere che il tanto osannato paradiso socialista Cinese esiste solo nella mente dei suoi ignoranti sostenitori.

Economia

Dal punto di vista economico, invece, la situazione è ben diversa. Da circa 40 anni, il PCC ha progressivamente abbandonato il Comunismo Maoista, il quale si rivelò fallimentare e lesivo della società (gli storici stimano che “il Grande Balzo in Avanti”, cioè le riforme economiche volute da Mao per un’industrializzazione forzata della Cina fra il 1958 e il 1961, abbia causato una gravissima carestia nel 1960 che provocò fra i 14 e i 43 milioni di morti, a seconda delle fonti).

Nel 1976, a seguito della morte di Mao Zedong, Deng Xiaoping assurse a leader de facto del PCC. Deng era consapevole che la politica economica attuata dal suo predecessore non avrebbe portato alla crescita, e perciò una volta ottenuto il potere si prodigò per riformare l’economia cinese. Archiviata definitivamente la lotta di classe come elemento fondamentale della società, insieme alla Rivoluzione Culturale voluta da Mao, Deng pose, come obiettivo del governo cinese, lo sviluppo economico del paese.

Nel 1978 Deng presentò al congresso del PCC la riforma delle “Quattro Modernizzazioni”, una riforma destinata cioè a modernizzare quattro settori: agricoltura, scienza e tecnologia, industria e difesa nazionale. Alla base della riforma c’era il cambiamento degli obiettivi strategici dei piani di sviluppo: l’industria pesante, che fino ad allora era stato il settore trainante dell’economia, cedette il posto ad agricoltura ed industria leggera. In particolare il settore agricolo fu profondamente riformato in quanto non più in grado di soddisfare le necessità della popolazione: il problema principale stava nelle tecniche agricole arcaiche utilizzate, rimase immutate per secoli, che il piano economico di Mao non aveva neanche lontanamente pensato di modernizzare.

Ma il vero fulcro della riforma che consentì il boom economico negli anni ’80 e ’90, fu la ristrutturazione dell’apparato statale. In particolare, Deng capì l’importanza di creare un sistema economico nel quale l’industria fosse libera dall’ingerenza dell’amministrazione statale. Per consentire un più stabile collegamento tra imprese locali, statali e collettive e per abbattere le barriere amministrative che ostacolavano la fluidità del processo produttivo, si ricorse alla suddivisione e specializzazione del lavoro. Particolare attenzione fu posta nella preparazione del personale tecnico specializzato e molti studenti cinesi furono mandati all’estero per apprendere le più moderne tecniche produttive. L’attenzione fu focalizzata sulle richieste del mercato, che avrebbe guidato le scelte produttive ed impegnato gli imprenditori a incrementare la competitività e la produzione.

Importanti e decisive furono le iniziative intese a incoraggiare gli investimenti esteri. A questo fine furono istituite le “Zone ad economia speciale“, nel sud-est del Paese, nelle province del Guangdong e del Fujian, Zhuhai, Shenzhen, Shantou e Xiamen, seguite poi, nel 1988, dall’intera isola di Hainan elevata a provincia. In queste zone vennero previsti dei trattamenti preferenziali riservati agli stranieri che avevano intenzione di investire in Cina.

L’apertura verso l’estero e l’introduzione del libero mercato rappresentarono così il cardine del disegno politico voluto da Deng Xiaoping. La dottrina “un Paese, due sistemi”, consentì di giungere tra il 1984 e il 1987 agli accordi fra Pechino e Londra e fra Pechino e Lisbona per il ritorno di Hong Kong e Macao alla madrepatria rispettivamente nel 1997 e nel 1999.I due territori avrebbero avuto lo status di “zone economiche speciali” e un alto grado di autonomia e poteri legislativi e giudiziari indipendenti.

Le riforme messe in atto hanno portato a quella che lo stesso Deng Xiaoping definì “economia socialista di mercato” o “socialismo con caratteristiche cinesi”, una nuova struttura economica che combinava il socialismo, che reggeva la struttura amministrativa ed istituzionale, ad un sistema economico che prevedeva il libero mercato e il libero scambio.

Il concetto di Economia Socialista di Mercato fu portata avanti dai successori di Deng, e la Cina è entrata nel nuovo millennio come attore di primo piano nella politica internazionale. Addirittura nel 1997, il quindicesimo congresso del partito riconobbe l’importanza per l’economia cinese dell’impresa privata, fino ad allora considerata una forza secondaria rispetto alle aziende di stato. Infatti, sebbene le più grandi aziende cinesi siano ancora quelle controllate dallo stato, l’economia è stata trainata dalla crescita del settore privato. Per fare un esempio tra i tanti, secondo un recente rapporto di McKinsey la Cina ha dato vita a un terzo del numero globale di start up tecnologiche “unicorno” (aziende private valutate più di un miliardo di dollari).

Lo stesso Xi Jinping, attuale presidente della Repubblica Popolare Cinese, nel suo discorso in occasione del XIX Congresso del Partito Comunista Cinese, ha parlato esplicitamente di continuazione del processo di liberalizzazione dei cambi e dei tassi d’interesse, assicurando che “la porta della Cina è stata aperta e non sarà chiusa, ma si aprirà di più”.

Tuttavia, ombre si allungano sulla Cina: come in qualsiasi altro Paese caratterizzato da un potere centrale dittatoriale, anche lì è possibile vedere la mano dello Stato smorzare e reprimere le libertà dei cittadini, sia in ambito sociale che in ambito economico:

  • l’indipendenza futura del settore privato è fragile. Negli ultimi mesi il governo cinese ha effettuato un giro di vite su quegli imprenditori che sembrerebbero avviati a diventare degli oligarchi in stile russo. Ha inoltre cercato di frenare le acquisizioni all’estero, oltre che le attività delle principali aziende tecnologiche cinesi, come Alibaba e Tencent;
  • nel 1987, il tredicesimo congresso di partito aveva presentato un ambizioso programma di riforme politiche che secondo Zhao Ziyang, all’epoca Segretario Generale, erano finalizzate a rendere la dirigenza cinese più pluralistica, trasparente e responsabile (pur evitando la democrazia multipartitica, come imposto da Deng Xiaoping). Oggi assistiamo a un indebolimento della società civile dopo anni di repressione politica e ad un rafforzamento dell’autoritarismo. L’obiettivo delle riforme politiche all’interno del partito sembra esser stato soffocato dalla campagna anticorruzione di Xi, che ha effettuato purghe contro funzionari corrotti ma anche contro i suoi avversari politici;
  • nel 1997, il quindicesimo Congresso del Partito ha celebrato il passaggio della sovranità su Hong Kong dal Regno Unito alla Cina: il territorio sarebbe stato amministrato secondo la politica di “un Paese, due sistemi”. Nel 2012 e 2014 sono esplose delle proteste, confluite poi nel “movimento degli ombrelli” del 2014, che ha portato le lotte di Hong Kong all’attenzione del mondo. Eppure, in quegli anni il modello dei “due sistemi” sembrava solido. Oggi, invece, l’elemento più preoccupante della questione di Hong Kong è quanto sia diventato fragile questo stesso modello. Joshua Wong, giovane leader degli attivisti di Hong Kong nel periodo precedente al diciottesimo Congresso del Partito del 2012, oggi è un prigioniero politico. Carrie Lam, succeduta a C.Y. Leung nel ruolo di chief executive di Hong Kong dal luglio di quest’anno (scelta tramite una procedura pilotata in modo da fare emergere una figura gradita a Pechino) ha invitato a enfatizzare i temi patriottici nelle scuole locali. Xi ha chiarito che è determinato a fare tutto quel che potrà per minimizzare le differenze tra le modalità di governo di Hong Kong e quelle delle altre città.

In conclusione, è possibile affermare che l’attuazione di politiche liberiste, seppur molto annacquate dalla pervasiva presenza dello Stato nella vita pubblica, sia stata la principale causa del successo e della prosperità economica cinese. Consapevole che solo un’economia di mercato avrebbe portato allo sviluppo economico, Deng Xiaoping e i suoi successori hanno tacitamente sacrificato l’ideologia all’economia, mantenendo inalterati solo i meccanismi tipici dei regimi totalitari che consentirono a pochi uomini il controllo assoluto della Cina. Ma la prosperità economica non basta, e la Cina potrà definirsi veramente grande solo quando affronterà la “Quinta Modernizzazione”, tanto voluta da Wei Jingsheng e altri riformisti, e cioè la transizione del sistema politico cinese da un regime dittatoriale a una democrazia multi-partitica, nella quale i cittadini cinesi non siano semplici numeri asserviti alla macchina statale, ma uomini con diritti e libertà inalienabili.

A dispetto di quanto dicano molti nostalgici maoisti, la Cina non ha bisogno di una nuova Rivoluzione Culturale, volta alla dittatura del proletariato, ma piuttosto di una vera Rivoluzione Liberale.

Cosa è e cosa NON è il Liberalismo

Da quando sono entrato ne “L’Individualista Feroce”, ho letto con estremo interesse i numerosi commenti scritti sotto i nostri post. Tralasciando i commenti caustici e odiosi di certi utenti, che avevano il solo scopo di denigrare non solo le nostre idee, ma anche noi stessi, non ho potuto fare a meno di notare una certa confusione, per non dire ignoranza, su cosa sia effettivamente il liberalismo. Sia chiaro, il termine ignoranza è inteso nel senso letterale del termine, il semplice non-sapere, dunque scevro da qualsiasi accezione dispregiativa.

Tale ignoranza non deve sorprendere, poiché sono anni che dal dibattito pubblico italiano sono scomparsi rappresentanti del liberalismo classico. Parlando per esperienza personale, quando ti definisci liberale la gente tende a fraintendere il tuo pensiero, semplicemente perché non sa cosa significhi effettivamente.

Ebbene questo articolo ha l’ambizione (forse la presunzione) di voler dare una definizione chiara di questa idea che è il liberalismo, ricordando sempre che esso non è un dogma, ma una serie di principi guida.

Prima di tutto ritengo opportuno fare una distinzione semantica di concetti fra loro correlati, ma differenti, che troppo spesso vengono usati come sinonimi.

  • Liberalismo: Atteggiamento etico-politico dell’età moderna e contemporanea, tendente a concretarsi in dottrine e prassi opposte all’assolutismo, fondate essenzialmente sul principio che il potere dello Stato debba essere limitato per favorire la libertà d’azione del singolo individuo. Dal rischio assolutistico e totalitaristico di uno Stato, deriva l’opposizione liberale allo Statalismo. Uno dei principali teorici del Liberalismo fu Ludwig Von Mises.
  • Liberismo: Il liberismo è una teoria economica che sostiene e promuove la libera iniziativa e il libero mercato come unica forza motrice del sistema economico, con l’intervento dello Stato limitato al più alla realizzazione di infrastrutture di base (ponti, strade, ferrovie, autostrade, gallerie, edifici pubblici etc.) a sostegno della società e del mercato stesso. La sottolineatura è stata inserita per evidenziare un concetto poco noto ai detrattori del liberismo. Noi consideriamo lo Stato un attore fondamentale per il coordinamento dell’attività economica di un Paese. Lo Stato fa da supporto all’economia, non ne è il motore.
    Per la verità, il termine Liberismo fu coniato da Benedetto Croce per indicare la teoria economica afferente al Liberalismo, ma per questo fu criticato da diversi esponenti del liberalismo classico fra cui Von Hayek, Einaudi e Antonio Martino, i quali sostenevano che i concetti sopra esposti fossero parte integrante e non scindibile del concetto di Liberalismo.
  • Libertarismo: Libertarismo, dal francese libertaire, è un termine che indica un ideale e una filosofia-politica che considera la libertà come valore fondamentale, anteponendo la difesa della stessa ad ogni autorità o legge. Il libertarismo mira, cioè, ad una forte limitazione o ad una eliminazione del potere dello Stato e di tutti quegli enti che limitano o avversano la giustizia sociale e la libertà individuale e politica.
  • Capitalismo: è un concetto molto vago sul quale nessuno è mai riuscito a dare una definizione che fosse in grado di mettere d’accordo tutti. Impropriamente usato come sinonimo di liberismo, il termine capitalismo nasce con un’accezione dispregiativa per indicare un’economia in cui è prevista la proprietà privata dei mezzi di produzione da parte di individui o società e che compra e vende beni capitali e fattori di produzione, senza alcun tipo di controllo statale.
  • Neoliberismo: si indica un orientamento di politica economica favorevole ad un mercato privo di regolamentazione e di autorità pubblica ovvero in balia delle sole forze di mercato. Si differenzia dal liberalismo classico per la quasi totale esclusione dello Stato, in qualità di attore economico.
  • Liberal: Termine anglo-sassone, adottato negli USA negli anni ’50-’60 da coloro che rivendicavano e promuovevano posizioni socialiste. Come ovvio, i Liberal americani e i Liberali Classici sono su posizioni completamente opposte, nonostante i nomi simili. I Socialisti americani adottarono il termine molto più morbido di liberal, a causa della repressione su chiunque si dichiarasse apertamente socialista o ancor peggio comunista in quel periodo, e in special modo durante la campagna “terroristica” del Senatore McCarthy.

Noi de “L’Individualista Feroce” ci definiamo Liberali classici (e dunque anche Liberisti, secondo l’accezione di Einaudi e Hayek). Crediamo nel libero mercato, nella concorrenza leale, nella difesa e protezione dei diritti dei consumatori e affidiamo all’autorità pubblica, e alla legge che da essa scaturisce, il compito di difendere le libertà individuali, anche quelle economiche. In termini più semplici, il pensiero liberale si può riassumere in: “La mia libertà finisce dove comincia quella degli altri. La libertà degli altri finisce dove comincia la mia”.

Ora vorrei spiegare cosa non è il liberalismo, passando per una serie di esempi o luoghi comuni che puntualmente vengono attribuiti a esso:

  • “Voi Liberali volete distruggere il Welfare e lasciare la gente ad arrancare nel Far West”: No, non siamo contrari al Welfare, nel modo più assoluto. Noi siamo critici verso un sistema di Welfare pubblico che, a parole, dice di essere per tutti, ma che in realtà, molto spesso, offre un servizio infimo e costoso, tanto che molte persone sono costrette a usufruire del welfare privato, per avere quel servizio per il quale già pagano il sistema pubblico. Noi liberali vorremmo semplicemente poter intavolare una discussione su un riassetto del sistema, anche considerando la possibilità di demandare al privato l’erogazione di alcuni servizi, smettendo di considerare l’argomento un tabù. L’obiettivo di questa discussione sarebbe trovare il sistema più efficace ed efficiente possibile per il consumatore finale. P.S. Onestamente non ho ancora capito questa storia del Far West, che più volte viene ripresa.
  • “La politica neoliberista ha mandato in rovina il paese”:  Non è vero, ciò che ha rovinato questo paese sono state le politiche dissennate del “tassa e spendi” degli anni ’70 e ’80, e continuate poi successivamente senza discontinuità, basate su un’errata interpretazione, o meglio portando come giustificazione, le teorie economiche keynasiane. È vero che Keynes sostenesse l’intervento dello Stato nei momenti più critici per l’economia (crisi del ’29, dopoguerra ecc.), ma è anche vero che persino lui invitava ad un progressivo abbandono dell’intervento statale, nel momento in cui si fosse innescata la ripresa economica. In Italia invece, nonostante il boom economico già in atto, si è continuato a spendere esponenzialmente senza alcun riguardo per la tenuta dei conti pubblici e senza alcuna parsimonia da “buon padre di famiglia”. Soprattutto non era spesa per investimenti pubblici che nel lungo periodo avrebbero portato grande utilità al paese, ma era solo spesa ingente di breve periodo, con poco o nullo impatto sullo sviluppo economico. L’aumento di debito pubblico in fase di espansione economica ha fatto sì che, quando si è arrivati alla recessione del 2009-2010, i margini di spesa che si potevano sfruttare fossero strettissimi, proprio nel momento in cui ne avremmo avuto più bisogno. La Germania nel 2003 aveva una situazione di conti pubblici molto peggiore a quella che noi abbiamo attualmente, ma con una politica economica rigorosa (effettivamente “lacrime e sangue”) è riuscita a sistemarla, diventando la potenza economica che è adesso. La medicina fu amara, ma il paziente ne aveva bisogno. Affrontando adesso il discorso Austerity, vorrei fare alcune precisazioni: le politiche cosiddette di austerità, hanno il solo scopo di ridurre il deficit e rendere il debito pubblico sostenibile nel tempo. Questo si può fare in due modi, distinguendo così fra quelle che io chiamo Austerity buona e Austerity cattiva: il primo modo prevede la riduzione, riformulazione ed efficientamento della spesa pubblica, che nel lungo periodo può e deve portare alla riduzione delle tasse. Il secondo modo, invece, prevede l’aumento delle tasse e il successivo aumento della spesa pubblica. Entrambi i metodi passano in primis per una politica fiscale restrittiva e poi per una politica fiscale espansiva, successivamente. La differenza è che nel secondo caso i margini di manovra sono molto più stretti, poiché non si possono aumentare troppo le tasse, a meno di non causare sconquassi a livello economico e sociale, e dunque non si può neanche aumentare troppo la spesa, specialmente quando è già molto alta come quella italiana. Inutile ricordare cosa scelse di fare il “mitico” Governo Monti, che non solo scelse il metodo meno efficace, ma riuscì a farlo anche male. Riassumendo, le politiche “tassa e spendi”, portate ancora avanti dal governo attuale, hanno sconquassato i conti pubblici senza avere una proporzionata crescita di PIL, e successivamente, poiché ridimensionare la spesa pubblica in questo paese è un tabù assoluto (basti vedere che fine hanno fatto i commissari alla Spending Review e le loro relazioni), si è optato per delle politiche fiscali folli, in continuità con il passato. I risultati sono sotto gli occhi di tutti.
  • “La Riforma Fornero è una politica liberista che ha creato un sacco di danni”: Dato che so già che arriverà un commento di questo tenore, faccio che rispondere subito. Si stima che circa 2/3 della spesa pubblica italiana sia destinata al sistema pensionistico. Questo è di fatto un problema di non semplice soluzione. La Riforma Fornero fu un tentativo di rimodulare il sistema previdenziale che, come tutti sanno, è uno dei grandi problemi di questo paese. Sebbene tale riforma potesse essere lodevole nell’intento, gli effetti sul lungo periodo sono stati disastrosi e soprattutto fu incapace di scalfire minimamente il problema del sistema previdenziale. Fu una riforma raffazzonata, pasticciata e fatta di fretta. La riforma del sistema previdenziale è un passaggio obbligato per il risanamento dei conti pubblici e per il rilancio dell’economia, ma non riteniamo che questo sia il metodo. Mi permetto anche di aggiungere che, oltre che prendersela con la Fornero, bisognerebbe anche prendersela anche con coloro che hanno creato il problema in primis, e cioè coloro che per anni hanno sostenuto un sistema previdenziale retributivo.
  • “Voi liberali vi curate solo degli interessi delle multinazionali”:  Questo è uno dei punti preferiti dei detrattori del liberalismo. Questa frase è palesemente falsa. I liberali si curano degli interessi di TUTTE le imprese, piccole o grandi che siano, poiché riteniamo che siano il vero motore della prosperità economica e sociale di un paese, e allo stesso tempo difendiamo a spada tratta i diritti dei consumatori. Su quest’ultimo punto non transigiamo. Fra queste imprese, difendiamo anche gli interessi delle multinazionali o big corporation, nazionali e non, e riteniamo stupido scagliarsi contro queste aziende, e ora intendo spiegare perché. Qualche dato giusto per orientarsi (fonte ISTAT, periodo di riferimento 2014): In Italia sono attive circa 13569 imprese a controllo estero, contro le 22388 controllate italiane all’estero. Le multinazionali estere contribuiscono per il 27,4% dell’export italiano, un fatturato di circa 524 mld €, valore aggiunto per 97 mld e un contributo all’ R&D del 23,9% e danno lavoro a circa 1,2 mln di persone. A discapito della vulgata comune, in media, i dipendenti delle multinazionali sono trattati molto meglio e hanno stipendi e condizioni di lavoro migliori rispetto ai loro omologhi di imprese nazionali. Per quanto riguarda, invece, quelle multinazionali che si trasferiscono all’estero, in paesi dove la considerazione per i diritti dei lavoratori, civili e umani è scarsa, riteniamo che sfruttare queste condizioni da parte di queste imprese sia un errore, se non un atto criminale. Ogni qual dove si violino i diritti delle persone, tale violazione va perseguita giudiziariamente se possibile, o attraverso azioni di protesta. La violazione dei più elementari diritti umani e civili non può essere tollerata in alcun caso.
  • “Le multinazionali si trasferiscono all’estero per pagare meno tasse”. Verissimo, dato che in Italia abbiamo un Total Tax Rate di circa il 62%, non si capisce perché dovrebbero volontariamente restare in Italia, quando possono legalmente trasferirsi altrove e pagare di meno. Se invece di sbraitare ci rendessimo conto di questo e decidessimo di ridurre e semplificare le tasse sulle imprese, non solo avremmo un effetto benefico per le imprese nazionali e per l’economia tutta, ma diventeremmo anche un paese attrattivo per queste multinazionali che a quel punto si trasferirebbero molto volentieri in Italia.
  • “I liberisti sfruttano e schiavizzano i dipendenti”: Ho in parte già risposto poco sopra, ma intendo approfondire. A tal proposito mi viene in mente un pezzo di cronaca letto tempo fa: la vicenda girava intorno un grande negozio di elettronica di consumo e riguardava una dipendente che, durante il turno di lavoro, chiese al titolare di potersi assentare per poter andare in bagno. Il titolare rispose di no, nonostante le ripetute richieste della dipendente, la quale alla fine non riuscì più a trattenersi e finì per farsela addosso, con sua grande vergogna, davanti ai clienti. Sotto la notizia lessi parecchi commenti dello stesso tenore: “maledetti neo liberisti, capitalisti, sfruttatori dei lavoratori ecc.”. La vicenda è vergognosa e sfortunatamente ricalca numerose situazioni lavorative, ma dare la colpa ai liberali e alle nostre idee è sbagliato. Il titolare, e chiunque si comporti così verso i propri dipendenti, non è un liberale, è semplicemente un coglione. Andando più nello specifico, questo comportamento non attiene al liberalismo poiché il violare i diritti dell’individuo è assolutamente contrario alle nostre idee. Noi aborriamo comportamenti di questo tipo, che sia il titolare del piccolo negozio, l’imprenditore, l’amministratore delegato ecc. ad adottarli. Non solo, un comportamento del genere è classificabile come mobbing e DEVE essere denunciato. Noi siamo a favore delle imprese, degli imprenditori E dei dipendenti, i quali devono essere trattati in modo giusto, equo e rispettoso.
  • “Voi liberisti state dalla parte delle Banche” Altro punto che piace molto ai nostri detrattori. Non è vero, noi riteniamo importantissimo il ruolo delle banche e di tutti gli intermediari finanziari all’interno del quadro legislativo, ma lo interpretiamo come supporto all’economia. Bisogna fare finanza per l’economia e non finanza per la finanza. La finanza deve essere l’olio lubrificante e non il motore dell’economia. Noi liberali rifiutiamo il concetto di “Too Big to Fail”, anche se riconosciamo che a volte, per il bene del paese, costi meno salvare la banca, ma allo stesso tempo pretendiamo che i manager che hanno portato al dissesto della banca vengano processati penalmente, e che vengano tolti loro tutti i requisiti di onorabilità necessari per sedere nuovamente in consigli di amministrazione di banche o imprese. Le banche sono a tutti gli effetti imprese non dissimili dalle altre e, se gestite malamente/criminalmente, fatti salvi i depositi e i conti correnti, bisogna avere il coraggio di far chiudere loro i battenti.

Il mito Scandinavo: il successo economico dell’estremo Nord dell’Europa

Per anni i partiti di ispirazione socialista ci hanno portato a modello il sistema economico di Norvegia, Svezia, Finlandia e Danimarca, sbandierati come emblema del successo del socialismo in Europa, in particolare ponendo l’accento sull’eccellenza del welfare state di questi paesi. Posto che l’efficienza di quest’ultimo non sia messo in dubbio, i dati lo confermano, ho ritenuto necessario andare ad indagare quali siano le ragioni che hanno reso questi paesi così economicamente avanzati.

Analizzando la questione superficialmente si potrebbe pensare che l’equazione “Scandinavia=socialdemocrazia” sia corretta, ma approfondendo maggiormente la questione, la verità risulta immediata e lampante: il successo economico dei paesi scandinavi è semplicemente sinonimo di libertà d’impresa, riforme pro-mercato e mentalità capitalista.

Dato che, a differenza di altri, noi non parliamo per slogan o ideologie ma per fatti, riporto alcuni dati emblematici, cercando anche di spiegarli per i non addetti ai lavori:

  • Index of Economic Freedom: è un indice che misura il grado di libertà economica di un paese, estrapolato analizzando dodici categorie di libertà economica fra cui: diritto di proprietà e sua difesa, incidenza fiscale, facilità e libertà di fare impresa e apertura al libero scambio.Nella graduatoria per il 2017, Danimarca, Svezia, Norvegia e Finlandia sono rispettivamente al 18°, 19°, 24° e 25° posto. Gli Stati Uniti sono a 17°, il Regno Unito al 12°. La Germania, che è considerato il Benchmark economico di riferimento per l’Europa, è al 26°, l’Italia al 79° posto. Dal 1996 (primo anno di rilevazione) a oggi, Svezia e Finlandia hanno visto un miglioramento delle condizioni di libertà economica del 13,5 % e del 10,3%. L’Italia solo dell’1,6%. (fonte: http://www.heritage.org/index/ranking ).
  • Total Tax Rate: è l’aliquota fiscale totale sui profitti commerciali, più semplicemente misura il grado di imposizione fiscale sui profitti delle imprese. Per il 2016, in Danimarca si è registrato un TTR del 25%, in Finlandia del 38,1%, in Norvegia del 39,5%, in Svezia del 49,1%. Per fare un paragone, e rendere più comprensibili i dati, negli Stati Uniti si è registrato un TTR del 44%, nel Regno Unito del 30,9%, in Germania del 48,9%, nell’ultimamente tanto vituperata Irlanda del 26%, in Italia del 62%. (fonte: https://data.worldbank.org/indicator/IC.TAX.TOTL.CP.ZS ).
  • Individual Real Tax Rate: è un indicatore che misura in percentuale il livello di tassazione reale applicato ad ogni singola persona (ovvero i contributi per la previdenza sociale + le tasse sul reddito + l’IVA, diviso il salario lordo reale di una singola persona). Per il 2016, in Danimarca è pari al 41,49%, in Finlandia è pari al 47,33%, in Svezia è del 47,13%. In Germania è pari al 52,36%, in Irlanda del 32,61%, nel Regno Unito è pari al 35,29%, in Italia è pari al 50,13%. (NdA. I dati per la Norvegia non sono disponibili poiché lo studio che si è preso come riferimento riguarda solo i 28 paesi appartenenti all’UE). (fonte: http://www.institutmolinari.org/IMG/pdf/tax-burden-eu-2016.pdf ).
  • Ease of Doing Business: classifica redatta dalla Banca Mondiale, analizzando la facilità di un imprenditore medio nell’aprire una propria attività commerciale, a livello globale. Danimarca, Norvegia, Svezia e Finlandia sono rispettivamente al 3°, 6°, 9° e 13° posto. Gli Stati Uniti sono all’8°, il Regno Unito al 7°, la Germania al 17°, l’Italia al 50° posto. (fonte: http://www.doingbusiness.org/rankings ).

 

Questi fantastici risultati in termini economici sono frutto di riforme economiche strutturali di puro stampo liberista, volte alla globalizzazione ed estremamente connesse al commercio internazionale. Grazie a queste riforme, questi paesi hanno avuto le risorse per mettere in piedi quel sistema di welfare tanto agognato.

In altre parole, il cosiddetto mito del socialismo-democratico Scandinavo è in realtà, ironicamente, finanziato da uno dei più grandi progetti capitalisti al mondo.

Dunque la conclusione è chiara e semplice: il successo economico di un paese dipende dal grado di libertà economica vigente in esso, sia in termini fiscali che burocratici. La libertà d’impresa e, di conseguenza, la maggior capacità di creare ricchezza e una bassa imposizione fiscale sono la chiave della prosperità sociale ed economica di un paese.