In vista delle elezioni parlamentari del paese, esaminiamo il cambio di rotta dell’economia ceca dopo essersi liberata dalla camicia di forza dello statalismo sovietico. Come ha fatto la nazione ceca a generare uno sviluppo economico così sostenuto nel lungo periodo e a diventare uno dei centri più dinamici del mercato unico?
Dopo la dissoluzione del blocco comunista, iniziata con le rivoluzione nei paesi dell’Europa dell’est a cavallo tra gli anni ottanta e gli anni novanta, e il fallimento de facto del socialismo e della pianificazione centralizzata dell’economia, tutti i paesi che precedentemente facevano parte del patto di Varsavia dovettero risollevare un economia completamente disastrata e sempre più atrofizzata dall’incipiente inflazione, ripristinare i diritti di proprietà, sviluppare un mercato interno e cercare di attrarre capitali esteri.
Storicamente parlando, la Cecoslovacchia fu una delle economia più avanzate, visto la sua lunga tradizione industriale, ad adottare un sistema di pianificazione socialista dell’economia: aveva delle grandissime potenzialità di crescita economica nel secondo dopoguerra, ma in poco tempo, dopo una lieve crescita del PIL nell’età dell’oro grazie all’industrializzazione forzosa, seguì le orme del URSS e, intorno agli anni settanta, le contraddizioni insite nel sistema diventarono palesi.
La scarsa efficienza degli investimenti statali deriva dalle difficoltà insite nella pianificazione dei processi produttivi che prevedeva una fase di organizzazione della produzione, una di politica del prezzo e, infine, un’imposizione del prodotto nel mercato; diversamente da quanto accadeva in un sistema capitalistico. Perciò le risorse venivano allocate senza tener conto dei costi opportunità dei fattori di produzione, con un costante aumento del deficit statale.
Ciò era possibile solo con una politica monetaria espansiva e inflazionistica, poiché oltre a mantenere in vita settori industriali obsoleti e in perdita, si doveva acquietare una popolazione sempre più povera, e soprattutto rifornirla di beni di consumo. Tra il 1950 e il 1970, il PIL dell’Europa orientale era pari al 50% di quello dell’Europa occidentale, e nel 1990 sarebbe sceso al 30% del PIL Europeo.
A distanza di quasi 30 anni dal crollo del blocco socialista, le economie dell’est Europa presentano un quadro dell’economia nazionale ben diverso rispetto all’era sovietica e post sovietica e rappresentano ormai uno dei poli con maggiore attrazione di capitali esteri, in particolare la Polonia e la Rep.Ceca.
La recente storia economica della Rep.Ceca è un classico esempio contemporaneo di come l’apertura con l’esterno, il ripristino dei diritti di proprietà, il libero commercio, il capitalismo e la democrazia rappresentativa abbiano avuto effetti costruttivi sulle economia che prima erano socialiste. Ma non solo. È un esempio di come questi prerequisiti, coadiuvati dal vantaggio dell’arretratezza, siano i principi cardine che stanno alla base della crescita economica.
Possiamo individuare tre ragioni alla base di questo fenomeno:
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Il trasferimento tecnologico e l’importazione della maggior parte delle tecnologie industriali dal vicino tedesco, paese leader nel settore, si sono tradotti in un miglioramento della qualità nel settore manifatturiero ceco, in particolare nel comparto automobilistico.
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Il prodotto nazionale lordo è dato dalla somma di tutti i settori e ovviamente fra questi vi sono grandi differenze in termini di produttività: le dimensioni dei settori tradizionali a bassa produttività (commercio al dettaglio, servizi…) sono in genere piccole nei paesi economicamente avanzati e numerosi nei paesi arretrati. Di conseguenza, le economie più povere recupereranno terreno rispetto a quelle più ricche con il semplice spostamento della forza lavoro da settori a bassa produttività, come l’agricoltura, a settori ad alta produttività, come l’industria, rendendo comunque i settori tradizionali più efficienti e dinamici.
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In questa prima fase, partendo da livelli salari molto bassi, i paesi poveri registreranno maggior quantità di investimenti, poiché presentano un rapporto capitale-lavoro molto basso. Ma soprattutto, registreranno tassi di crescita del PIL annuo di gran lunga superiore a quelli delle economie già industrializzate.
Difatti, dall’entrata nell’Unione Europea nel 2004, la Rep.Ceca, così come gli altri paesi dell’Europa dell’est, ha conosciuto un’espansione economica senza precedenti, passando da un tasso di incremento del PIL intorno al 1,9% nel 2003 al 6,9% del 2006, a fronte di quello tedesco passato dallo -0,3% nel 2003 al 3,7% del 2006. Dopo essersi ripresa dalla recessione del 2008, il paese ceco è tornato ad essere dinamico nel mercato europeo (con un modesto calo durante la breve recessione del 2011-13) registrando nel 2015 un tasso di crescita del PIL del 5,3%, a fronte di quello tedesco intorno al 1,7% nello stesso anno. Anche gli scambi commerciali hanno conosciuto un’espansione notevole dal 2011 al 2016 con un tasso di crescita delle esportazioni del 2,61%, passando da $151 miliardi a $160 miliardi, e una diminuzione delle importazioni, passate da $149 miliardi a 138 miliardi. La Repubblica Ceca è la conferma di come il vantaggio dell’arretratezza, la convergenza tecnologica e culturale e l’apertura commerciale siano le fondamenta su cui edificare una crescita economica e sociale sostenuta nel tempo.
Come paradossalmente aveva predetto Karl Marx, i sistemi sociali che creano benessere materiale e progresso sociale si autoconsolidano, mentre quelli che non sono in grado di creare e garantire prosperità falliscono, per poi crollare sotto il peso delle proprie contraddizioni.