Conoscere Adam Smith: La Ricchezza delle Nazioni (Libro Primo-1^ parte)

In questo articolo parleremo della prima parte del Libro Primo dell’Opera La Ricchezza delle Nazioni (1776) scritto da Adam Smith (1723-1790), filosofo ed economista scozzese, padre dell’economia politica ed il fondatore della prima vera “scuola economica”, quella classica.

Il titolo è “Cause che migliorano la capacità produttiva del lavoro e ordine secondo il quale il suo prodotto si distribuisce naturalmente tra le diverse classi sociali“.

Capitolo I – La Divisione del Lavoro

La divisione del lavoro è la grande causa della sua maggiore produttività. Essi è facilmente comprensibile se consideriamo un esempio particolare, come quello della fabbricazione degli spilli.
Come stesso racconta Adam Smith:

“Un operaio non addestrato in questa attività, né abituato all’uso delle sue macchine, potrebbe forse a malapena, impegnandosi al massimo, fare uno spillo al giorno, e certamente non potrebbe farne venti. Ma nel modo in cui ora viene svolta, non soltanto questa attività è un lavoro specializzato, ma è divisa in molti rami, la maggior parte dei quali parimenti specializzati. Un uomo svolge il filo metallico, un altro lo drizza, un terzo lo taglia, un quarto lo appuntisce, un quinto lo arrota nella parte destinata alla capocchia; […] La fabbricazione di uno spillo è così divisa in circa diciotto distinte operazioni, che in talune fabbriche sono eseguite da mani distinte, sebbene in altre lo stesso uomo ne esegua talvolta due o tre.”

L’effetto è analogo in tutte le attività anche nelle divisione delle occupazioni. La divisione del lavoro provoca un grande incremento della quantità. Perché? Per tre circostanze: la maggior destrezza dell’operaio che incrementa necessariamente la quantità di lavoro che esso può eseguire;  il risparmio del tempo che comunemente viene perso nel passare da una specie di lavoro all’altra; l’impiego di macchine inventate da operai, da costruttori di macchine e filosofi.
Da qui deriva l’opulenza generale di una società ben governata, presso la quale anche l’abito del lavorante a giornata è il prodotto di un gran numero di operai.

Capitolo II – Il principio che determina la divisione del lavoro

La divisione del lavoro deriva dalla propensione della natura umana a scambiare. Solo nell’uomo esiste questa propensione, poi ché è incoraggiata dall’egoismo, come testimonia la celebre frase:

“Non è dalla benevolenza del macellaio, del birraio o del fornaio che ci aspettiamo il nostro desinare, ma dalla considerazione del loro interesse personale”

Tutto ciò porta alla divisione del lavoro, determinando così differenze di talento più rilevanti delle differenze naturali, rendendoli utili.

Capitolo III – La divisione del lavoro è limitata all’estensione del mercato

La divisione del lavoro è limitata dalla capacità di scambio. Alcune attività possono essere svolte soltanto nelle città. Il trasporto per via d’acqua espande il mercato, come testimoniano i primi progressi che si sono verificati sulle coste o lungo i fiumi navigabili, come fra gli antichi popoli sulle coste del Mediterraneo.
I progressi si sono verificati in Egitto, Bengala (tra il Bangladesh e India) e Cina; mentre l’Africa, la Tartaria (Russia) e la Siberia come pure la Baviera, l’Austria e l’Ungheria sono arretrate.

Capitolo IV – Origine e uso della moneta

Una volta affermata la divisione del lavoro, ognuno vive di scambio. Le difficoltà del baratto hanno portato alla scelta di una merce come moneta, rispetto al passato in cui venivano adottate come strumento di commercio merci come il bestiame, sale, conchiglie, merluzzo, tabacco, zucchero, cuoio e chiodi. Infine furono preferiti i metalli perché durevoli e divisibili. Ferro, rame, oro e argento, furono dapprima usati in barre non impresse e in  seguito marcati perché portassero impressa la quantità e finezza del metallo; prima fu introdotta la marcatura per certificare la finezza, e in seguito la coniazione per certificare il peso. Inizialmente la denominazione delle moneta ne esprimeva il peso.
Adam smith indagò sulle regole che determinano il valore di scambio. Con valore si può intendere sia l’utilità di qualche particolare oggetto, detto valore d’uso e sia il potere di acquistare altri beni che il possesso di questo oggetto conferisce, detto valore di scambio. Il filosofo scozzese si pose tre quesiti.
In che cosa consiste il prezzo reale delle merci?
Quali sono le diverse parti di questo prezzo?
Perché talvolta il prezzo di mercato differisce da questo prezzo?
Le risposte saranno nei prossimi tre capitoli.

Capitolo V – Prezzo reale e nominale delle merci, ossia loro prezzo in termini di lavoro e di moneta

“Ogni uomo è ricco o povero nella misura in cui è in grado di concedersi i mezzi di sussistenza e di comodo e i piaceri della vita. Ma una volta volta affermatasi la divisione del lavoro, con il proprio lavoro si può ottenere soltanto una parte piccolissima di questi. La parte di gran lunga maggiore deve essere tratta dal lavoro degli altri, e quindi uno è ricco o povero secondo la quantità di lavoro di cui può disporre o che è in grado di acquistare”

Il lavoro è da considerare la misura reale del valore di scambio, in quanto è il primo prezzo pagato per ogni cosa. La ricchezza  è il potere di acquistare lavoro. Ma il valore non è generalmente stimato in base al lavoro in se perché il lavoro è difficile da misurare; le merci sono più frequentemente scambiate con altre merci, specialmente con moneta, che è perciò più frequentemente usata nella stima del valore. Ma il valore dell’oro e dell’argento varia; talvolta costano più e talaltra meno lavoro, nonostante il lavoratori lavori ugualmente e si sacrifica ugualmente.
Ma sebbene uguali quantità di lavoro siano sempre uguali per il lavoratore, il datore di lavoro considera il lavoro di valore variabile. Quindi possiamo dire che il lavoro, come le merci, ha un prezzo reale e un prezzo nominale.

“Il suo prezzo reale si riferisce alla quantità di mezzi di sussistenza e di comodo che vengono cedute per esso; il prezzo nominale si riferisce alla quantità di moneta. Il lavoratore è ricco o povero, bene o mal remunerato, in proporzione al prezzo reale non al prezzo nominale del suo lavoro”

La distinzione fra reale e nominale è talvolta utile nella pratica, poiché la quantità di metallo nei conii tende a diminuire, e lo stesso discorso vale per il valore dell’oro e dell’argento.
Dal 1586 le rendite inglesi stipulate in moneta si sono ridotte a un quarto, le rendite in Scozia e in Francia la perdita è spesso maggiore. Le rendite in grano sono più stabili di quelle in moneta, ma sono soggette a variazioni annuali molto maggiori. Per cui il lavoro è l’unica misura universale.
Ma nelle situazioni o transazioni ordinarie la moneta è sufficiente, essendo una misura assolutamente esatta nello stesso tempo e luogo, è da considerare la sola cosa nelle transazioni fra luoghi distanti. Non c’è quindi da meravigliarsi se al prezzo nominale è stata data data maggiore attenzione. Sono stati coniati parecchi metalli, ma solo uno viene usato come base e questo è generalmente quello usato per primo in commercio, come i romani usarono il rame, e le nazioni europee moderne l’argento. Originariamente il metallo base era l’unica moneta legale, più tardi il rapporto fra il valore dei due metalli viene dichiarato per legge ed entrambi sono moneta legale e la distinzione fra di essi diventa irrilevante, tranne quando il rapporto stabilito viene cambiato.
Rimanendo un rapporto fisso, il valore del metallo più prezioso regola il valore di tutto il sistema monetario, come in Gran Bretagna, dove la riforma della moneta di oro ha aumentato il valore della moneta di argento. In Inghilterra l’argento è valutato al di sotto del suo valore. L’argento dovrebbe essere valutato di più e non dovrebbe essere moneta legale per più di una ghinea. Se fosse valutato adeguatamente, il prezzo dell’argento in lingotti si ridurrebbe al di sotto di quello di zecca senza bisogno di una riforma monetaria. Un diritto di coniazione impedirebbe la fusione e scoraggerebbe la esportazione.  Le fluttuazioni del prezzo di mercato dell’oro e dell’argento sono dovute a normali cause commerciali, ma una costante differenza dal prezzo di zecca è dovuta allo stato della moneta. Il prezzo delle merci si adegua al contenuto effettivo della moneta.

Capitolo VI – Le parti componenti del prezzo delle merci

La quantità di lavoro è originariamente l’unica norma del valore. Tenendo conto di fatiche particolari, se un tipo di lavoro è più pesante di un altro, si tiene naturalmente conto di questa superiore fatica; e il prodotto di un’ora di lavoro dell’uno può frequentemente scambiarsi per quello di due ore di lavoro dell’altro. O se un tipo di lavoro richiede un grado non comune di destrezza e ingegno, la considerazione che gli uomini hanno di queste capacità darà naturalmente al loro prodotto un valore superiore a quello che sarebbe dovuto al tempo impiegato in esso.
L’intero prodotto del lavoro appartiene al lavoratore, ma quando si parla di capitale, si deve dare qualcosa per i profitti dell’imprenditore e il valore del prodotto si compone di salari e profitti. Quindi, i profitti non sono soltanto salari per il lavoro di ispezione e direzione, poiché il lavoratore divide il prodotto col suo datore e il lavoro non basta più a determinare il valore.
Nel caso in cui la terra diventa completamente proprietà privata, la rendita costituisce una terza componente del prezzo della maggior parte delle merci. Il valore di tutte e tre le parti è misurata dalla quantità di lavoro.
In una società progredita tutte queste tre parti sono generalmente presenti, per esempio nel prezzo del grano, della farina di frumento o di altri cereali. Nelle merci che richiedono molta lavorazione, la rendita è in minor proporzione e il prezzo di alcune merci è costituito soltanto da due una delle tre parti componenti.
Ma il prezzo di tutte le merci è costituito per lo meno da una componente e il prezzo di tutto il prodotto annuale si risolve in salari, profitti e rendita, che sono le sole specie originarie di reddito. Quando queste tre differenti specie di reddito appartengono a persone differenti, è facile distinguerle; ma quando esse appartengono alla stessa persona sono talvolta confuse l’una con l’altra, almeno nel linguaggio corrente. Per esempio, la rendita di un coltivatore diretto viene chiamato “profitto”, il salario di un comune agricoltore viene chiamato “profitto” , il salario di un manifatturiere indipendente viene chiamato “profitto”, mentre la rendita e il profitto di un orticoltore che coltiva la sua terra sono considerati guadagni del lavoro.
Una gran parte del prodotto annuale va agli inattivi e la proporzione fra questa parte e il totale regola l’aumento o la diminuzione del prodotto.

Capitolo VII – Prezzo naturale e prezzo di mercato delle merci

In ogni società o luogo vi è un saggio ordinario dei salari, del profitto e della rendita. Questi saggi ordinari possono essere chiamati Saggi Naturali dei salari, del profitto e della rendita nel tempo e luogo. Quando il prezzo di una merce è sufficiente a pagare la rendita della terra, i salari del lavoro e i profitti del capitale, la merce viene venduta al suo prezzo naturale, ossia per ciò che costa realmente. Ma poiché nessuno continuerà a vendere senza profitto, il prezzo effettivo al quale comunemente si vende una merce è detto prezzo di mercato che è regolato dalla quantità portata al mercato e dalla domanda effettiva.
Quando la quantità portata sul mercato è inferiore alla domanda effettiva, il prezzo di mercato supera il prezzo naturale; quando supera la domanda effettiva il prezzo di mercato scende al di sotto del prezzo naturale. La quantità di ogni merce immessa nel mercato si adegua naturalmente alla domanda effettiva; quando essa supera questa domanda, alcune delle parti che compongono il prezzo sono inferiori al loro saggio naturale, quando è inferiore, alcune parti che compongono il prezzo superano il loro saggio naturale.

Il prezzo naturale è il prezzo medio intorno al quale gravitano i prezzi di tutte le merci. Il prezzo naturale è il prezzo medio intorno al quale gravitano i prezzi correnti. In questo modo tutta l’attività annualmente svolta per portare una merce sul mercato si adegua naturalmente alla domanda effettiva. Essa tende naturalmente sempre a portarvi quella esatta quantità che può essere sufficiente a soddisfare, e non più che a soddisfare quella domanda, ma la quantità prodotta da un dato ammontare talvolta fluttua.
Le fluttuazioni incidono più sui salari e sul profitto che sulla rendita, influenzandoli in proporzioni diverse secondo l’offerta di merci e di lavoro. Ma il prezzo di mercato può mantenersi per lungo tempo al di sopra del prezzo naturale perché non sono sufficientemente noti gli elevati profitti, o in conseguenza di servizi di fabbricazione, o in conseguenza della scarsità di particolari tipi di suolo.
Un monopolio ha lo stesso effetto di un segreto commerciale. Infatti il prezzo di monopolio è il massimo che si possa ottenere. Il prezzo naturale, o prezzo di libera concorrenza, è invece il più basso che possa darsi per un certo tempo. I privilegi delle corporazioni, fra i tanti, rientra anche il fatto che sia una sorta di monopolio allargato. Invece, raramente il prezzo di mercato si mantiene a lungo al di sotto del prezzo naturale. Questo almeno in situazione di perfetta libertà, poiché le corporazioni tendono a ridurre per un certo tempo i salari di molto al di sotto del saggio naturale. Il prezzo naturale varia al variare del saggio naturale dei salari, dei profitti e della rendita.