Giù le mani da Isacco: la religione del privato cittadino

Dio vive, Isacco è morto.

Il libro della Genesi (22, 1-19) ci offre il racconto ben noto del sacrificio di Isacco da parte di Abramo.

“Dio mise alla prova Abramo e gli disse: «Prendi tuo figlio, il tuo unigenito che ami, Isacco, e offrilo in olocausto su di un monte che io ti indicherò»”

Meno nota è l’analisi della figura e del gesto di Abramo, portata avanti anche dal filosofo Søren Kierkegaard nel suo capolavoro Timore e Tremore. Abramo infatti rappresenta perfettamente la Religione (e sia chiaro ogni Religione) prima dell’avvento del secolo dei Lumi e in particolar modo della filosofia di Kant. Il patriarca è l’uomo di fede ciecamente devoto alla chiamata di Dio, che non esita a sacrificare nemmeno il suo unico figlio.

Per chiarezza è opportuno ricordare che Abramo divenne padre in tarda età, quando ormai aveva perduto ogni speranza di vedere continuata la sua stirpe. Sua moglie Sara infatti era vecchia e sterile. Quest’unico figlio, Isacco, fu un autentico dono di Dio, e tuttavia, Abramo è pronto ad ucciderlo.

Certamente non vuole, ma accetta di compiere il gesto orrendo, perché Dio glielo ha chiesto. Sarà poi un angelo del Signore a fermare la mano di Abramo prima che cali il pugnale sul corpo inerme del figlio.

Søren Kierkegaard vide in Abramo l’incarnazione del suo ideale dell’uomo religioso, la terza possibilità di esistenza della filosofia del danese (vita estetica – vita etica – vita religiosa). Abramo infatti è l’uomo che vive la sua Fede come esperienza totalizzante. Non è sfiorato dal dubbio, dalla critica morale o etica. Non si interroga sulla “moralità” del suo atto, e non mette in dubbio la richiesta di Dio.

Abramo vive la Religione come un sistema assoluto fuori dalla possibilità di giudizio del Singolo, o della Società, che si impone con forza su qualsiasi sistema etico umano. In questo racconto dunque la volontà di Dio trionfa sulla Legge degli uomini, sui valori della famiglia, e sulla Morale.

 

Dio svanisce, Isacco vive.

Il progetto di vita religiosa di Kierkegaard si rivelò sostanzialmente fallimentare perché questa mentalità era già stata superata da anni grazie all’avvento della filosofia di Immanuel Kant. Dopo Kant nessuno si sognò più di provare a dimostrare l’esistenza di Dio o di principi metafisici, che proprio in quanto tali sono inconoscibili da parte dell’uomo.

Dio dunque, in quanto ente metafisico per eccellenza, è inconoscibile e la sua stessa esistenza non è dimostrabile. Di conseguenza la morale individuale dell’uomo, che è fondata su principi universali e necessari ed è superiore a Dio, trionfa sul precetto religioso.

 

Dio è morto, Isacco vive.

Mostrandoci il predominio della morale individuale sulla religione, Kant diede inconsapevolmente inizio a quel “processo filosofico” che in un secolo porterà Nietzsche ad affermare: “Dio è morto”. Dio è morto perché l’uomo si è trovato nel nulla del nichilismo passivo. L’età della tecnica ha trionfato e qualsiasi velleità di metafisica è stata definitivamente cancellata. Il Dio di Abramo e di Isacco è morto perché l’umanità, stanca del sacrificio del povero Isacco, lo ha ucciso.

È dunque giunto il momento della filosofia del mezzogiorno, il momento degli spiriti liberi e dei giovani leoni, che si liberano dal giogo millenario della Religione, “il drago d’oro che dice all’uomo: «Tu devi»”. Dopo secoli di teocrazia mascherata, l’uomo riconosce la sua Libertà e riconduce Fede e Religione alla sfera privata, accettando il mistero personale che riguarda il metafisico. Forse l’aveva già detto in modo migliore a suo tempo il filosofo Ludwig Wittgenstein:

“Su ciò di cui non si è in grado di parlare, si deve tacere”

Capitalismo o socialismo? Guardiamo i numeri

Ignoriamo la propaganda da entrambe le parti, non serve.
Siamo nel 2018, dati sulle performance dei vari stati ce ne sono molti e possiamo sapere in che misura pratichino capitalismo o socialismo.
Guardiamo ai fatti.

L’indice che misura la libertà economica

L’Economic Freedom World index (EFW) misura il grado con cui le politiche e le istituzioni dei paesi supportano la libertà economica.
E’ diviso in 5 macro-aree di analisi.

  1. Dimensione del governo – All’aumentare delle spese, delle tasse e della dimensione delle imprese controllate dal governo, il processo decisionale del governo è sostituito alla scelta individuale e la libertà economica diminuisce.
  2. Sistema giuridico e diritti di proprietà – La protezione delle persone e delle loro proprietà ottenute legalmente è un elemento centrale sia della libertà economica sia della società civile. E’ la funzione più importante del governo.
  3. Denaro stabile – L’inflazione erode il valore di salari e dei risparmi legalmente guadagnati. Per proteggere i diritti di proprietà è essenziale che il denaro sia stabile e affidabile. Quando l’inflazione non è solo alta ma anche volatile, diventa difficile per le persone pianificare il futuro e quindi usufruire efficacemente della libertà economica.
  4. Libertà di commercio internazionale – La libertà di scambiare, comprare, vendere, stipulare contratti, e così via, è essenziale per la libertà economica. Si riduce quando la libertà di scambio non include imprese e individui in altre nazioni .
  5. Regolamentazioni – I Governi non solo utilizzano una serie di strumenti per limitare il diritto di scambio a livello internazionale, ma possono anche sviluppare regolamenti che limitano il diritto di scambiare, ottenere credito, assumere, lavorare per chi desideri o gestire liberamente la propria attività.

Adesso che abbiamo una misura della libertà economica ovvero del grado con cui uno stato attua politiche socialiste o capitaliste, possiamo metterlo in relazione agli indici che misurano il benessere.

 

I numeri

Gli stati sono divisi in quattro gruppi dal meno libero al più libero economicamente.
Il prodotto interno lordo pro capite aggiustato per potere d’acquisto è drasticamente più alto nei paesi economicamente liberi:

 

Anche la crescita del reddito è più alta.

Che dire dell’aspettativa di vita?

 

E dei diritti politici e libertà civili?

 

 

Qualcuno di voi starà pensando “Va bene, va bene, il capitalismo è efficiente, crea ricchezza, aumenta l’aspettativa di vita e assicura diritti politici e libertà civili, ma i ricchi diventano più ricchi e i poveri diventano più poveri, c’è troppa diseguaglianza”.
Legittimo. Andiamo a vedere come se la cavano i poveri.
Questo è il grafico della percentuale di reddito detenuto dal 10% di popolazione più povero:

 

Ci aspetteremmo che nei paesi capitalisti i poveri non abbiano niente perchè “privati della ricchezza dalle fasce di popolazione più alte” mentre nei paesi socialisti, dove c’è una maggiore ridistribuzione della ricchezza, i poveri detengano una percentuale di reddito maggiore.
Come si può osservare dal grafico notiamo che non c’è correlazione tra libertà economica e divario tra ricchi e poveri.
Se andiamo a vedere in che condizioni si trova questo 10% di popolazione il trend è evidente:

 

Nei paesi economicamente liberi i poveri hanno un reddito decisamente maggiore.
Questo grafico rappresenta il tasso di povertà estrema e moderata:

 

 

I poveri se la cavano decisamente meglio nei paesi capitalisti sotto ogni punto di vista e sono anche in numero decisamente minore.
Quante volte si sente dire che le tasse, le regolamentazioni e i gioverni servono per aiutarei poveri?
Quante volte si sente dire che la ridistribuzione della ricchezza è necessaria per diminuire la povertà e aiutare le classi più disagiate?
Quante volte si sente dire che il capitalismo è disumano perchè sfrutta e non aiuta i poveri?
I dati parlano chiaro. Il modo migliore per aiutare i poveri non è togliere ai ricchi ma liberalizzare l’economia.

Visto che non siamo persone superficiali e “i soldi non fanno la felicità” confrontiamo anche un indice non strettamente economico.
Il World Happiness Index delle Nazioni Unite misura la felicità chiedendo alle persone di valutare la loro vita su una scala da 0 a 10 dove 0 è la peggiore vita possano avere e 10 la migliore.
Anche in questo caso il trend è evidente:

 

 

Ma parliamo di ambiente. Quante volte sentiamo dire che il capitalismo distrugge il pianeta.
Mettiamo in relazione l’EFW con l’Enviromental Performance Index (2006):

A quanto pare le economie più liberalizzate sono anche quelle che rispettano maggiormente l’ambiente.
Sia perchè sono più ricche, sia perchè la proprietà pubblica è, per sua natura, più soggetta all’abuso e al danneggiamento rispetto alla proprietà privata.

 

Conclusione

La libertà economica è vincente sotto ogni punto di vista.
E’ incredibile che a più di cent’anni dalla morte di Karl Marx si parli ancora di socialismo e che molti lo considerino un sistema economico e sociale superiore, da attuare e diffondere.

 

Fonte: www.fraserinstitute.org

 

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Privatizzazioni e monopoli: a sbagliare è sempre lo Stato

Nazionalizziamo!1!!111!

Il tragico avvenimento del crollo del ponte Morandi a Genova si è purtroppo trasformato nel pretesto ideale per la boriosa massa degli statalisti feroci per chiedere a gran voce la nazionalizzazione delle autostrade italiane.

Il presunto fallimento del gestore privato è dunque la riprova definitiva del fallimento del liberismo, del regime di concorrenza perfetta, delle privatizzazioni. Il mercato ha fallito e lo Stato deve tornare ad essere proprietario e gestore delle infrastrutture nazionali (cosa che detta dai fautori del NO categorico ad ogni investimento per le grandi opere fa già abbastanza ridere).

Inoltre, è di questi giorni la notizia che il Regno Unito, dopo le privatizzazioni “selvagge” operate dal governo Thatcher, sta riconsiderando la nazionalizzazione del sistema ferroviario britannico. Non è forse questa la prova definitiva del fallimento del privato? Non è forse questo il segno definitivo della necessità dell’intervento dello Stato nella gestione delle infrastrutture (prima) e dell’economia (dopo)?

Beh, no.

Il principale errore dello statalista (o del socialista/comunista) medio è credere questo: gli infami Liberali sono per la privatizzazione indiscriminata a prescindere. Tutto questo nel nome del guadagno indiscriminato, senza alcuna preoccupazione per le conseguenze che il povero cittadino dovrà subire (i.e. il crollo di un ponte). Se potessero infatti privatizzerebbero anche l’aria.

Niente di più sbagliato.

Cosa dice il Liberalismo classico

Ogni Liberale classico crede che lo Stato debba avere un ruolo minimo nell’economia. Deve infatti garantire che le infrastrutture fondamentali per lo sviluppo del tessuto economico nazionale siano costruite. Poi lo Stato deve delegarne la gestione a più privati (come non è stato fatto in Italia). Tutto questo all’interno di un regime di concorrenza perfetta (come non è successo in Italia) per garantire la possibilità di scelta e il miglior servizio possibile al cittadino (certamente non in Italia).

Basta guardare la concessione firmata nel 2007 dal governo Prodi, che ha dato ad Autostrade per l’Italia la gestione delle infrastrutture nazionali, per capire che di tutto si è trattato, tranne che di libero mercato. Il regime creato è stato un monopolio a gestore unico, senza concorrenza. La revisione del contratto è praticamente impossibile. Insomma, è stata l’ennesima porcata all’italiana che ha visto il trionfo di un capitalismo marcio di Stato, cosa che susciterebbe giustamente la più assoluta indignazione di ogni Liberale.

Per spostarci all’estero, andando a guardare all’iter di privatizzazione delle ferrovie britanniche negli anni ’80, si può riscontrare un fenomeno analogo. Si è privatizzato, ma non si è liberalizzato.

Ora, lo sciacallaggio di governo ha approfittato di questa tremenda tragedia per lanciare una proposta dal sapore di IRI 2.0 (tra l’altro proprio l’IRI costruì il ponte Morandi nel ’67). La risposta al fallimento del concordato Stato – industriali (che ripetiamo non ha niente a che vedere con un regime di libero mercato) non sta nel nazionalizzare. Riuscite ad immaginare l’intera rete autostradale nazionale gestita dall’ANAS come la Salerno-Reggio Calabria? Trent’anni di cantieri? Continui ritardi? Disagi inimmaginabili? Miliardi di euro dei contribuenti sacrificati sull’altare dell’inefficienza pubblica? Ma manco per sogno.

Liberalizzare per il bene del cittadino

La soluzione è unica ed evidente, ma questo paese la rifiuta categoricamente sin dall’era giolittiana. Deve finalmente cessare lo sporco connubio tra Stato e industria. Privatizzando un settore dell’economia senza liberalizzarlo si finisce semplicemente per passare dal monopolio statale a quello privato. Solo un regime di perfetta concorrenza, con lo Stato relegato alla giusta dimensione di arbitro, può garantire uno sviluppo efficiente delle infrastrutture nazionali. Vogliamo un sistema efficiente e che funzioni, al servizio del cittadino. Non vogliamo che il contribuente venga sfruttato come finanziatore né dello spreco statale né di accordi secretati e monopolistici.

 

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Libertà personale e libertà economica

Nella nostra società diamo grande importanza alla nostra libertà personale e ai nostri diritti: dalla libertà di parola a quella di movimento, fino al poter esprimere la nostra sessualità liberamente. Molto più dura è la vita per la libertà economica. Ad ogni angolo, dai talk show alle interviste di politici e intellettuali ai discorsi da bar che si possono fare con i nostri amici, si sente invocare la necessità di difenderci dalla concorrenza straniera, di porre limiti all’avidità degli imprenditori, di combattere il “liberismo selvaggio” o la “finanziarizzazione dell’economia”. In sostanza: di limitare la libertà economica. Quello che non è chiaro a molti, però, è che la libertà personale e quella economica non sono separabili.

Partiamo dai dati: il Cato Institute, un istituto di ricerca americano, pubblica ogni anno un indice sulla libertà umana, che è a sua volta suddiviso nelle dimensioni di libertà personale ed economica (con scala da 1 a 10); anche da un’occhiata veloce si nota facilmente quanto le due dimensioni siano collegate fra loro[1]. Se si prendono ad esempio tutti i Paesi “sufficienti” (quindi con score dal 6 in su) sul piano della libertà economica, solo 16 su 122[2] sono insufficienti sul piano della libertà personale. E risultati analoghi si ottengono facendo la prova inversa[3].

Ovviamente ci sono Paesi riescono a scindere le due dimensioni, ma di solito non per lungo tempo. Nel 2008, ad esempio, vi erano 18 Stati che avevano libertà economica positiva e personale negativa: nel 2015 tutti quei Paesi tranne 4 avevano o incrementato il proprio score sulla libertà personale o diminuito la libertà economica[4].

Abbiamo dunque visto che una correlazione c’è, e molto forte, ma perché è così? Cosa lega il peso della burocrazia su un’attività imprenditoriale a, per esempio, la censura della libertà di parola? La prima ragione, più immediata, è che la libertà economica è il singolo fattore più importante per la crescita economica di una nazione.

Opprimerla significa mandare in crisi l’economia e in nessun posto i cittadini premiano i governanti che peggiorano le loro condizioni di vita. I potenti che vogliono mantenere il controllo su un Paese che si sta impoverendo devono necessariamente farlo con la forza: se si vuole un esempio recente, basti pensare al Venezuela.

Ma la libertà economica ha anche un valore meno astratto, più pratico. Pensiamo a una storia semplice, ma possibile. Un giorno, leggendo un articolo su un blog, un ragazzo si imbatte in una meravigliosa descrizione dell’antica arte della miniatura in legno; subito decide che gli piacerebbe saperne di più impararla e piano piano, a forza di tutorial su YouTube e di ore e ore di esercizi, diventa un maestro in questa difficile disciplina. Ormai ha scoperto che nulla gli darebbe più soddisfazione che fare solo questo lavoro tutto il giorno, e già alcuni suoi amici e conoscenti gli hanno chiesto di poter comprare una sua creazione.

A quel punto, l’idea: aprirà un piccolo negozietto e venderà lì quello che crea; vivrà della mia arte, facendo ciò che ama. Ora poniamo che il nostro povero artista viva in uno Stato in cui la libertà economica è calpestata. Appena comincia a mettere in pratica la sua idea, subito è travolto da mille regole e restrizioni, mentre fisco e burocrati continuano a chiedergli sempre più soldi in tasse e balzelli di vario genere; alla fine, scoraggiato, decide di abbandonare il suo sogno. Lavorerà per il resto della sua vita in un ufficio o fabbrica, dopo aver detto addio alle sue speranze.

Non è questa una privazione della libertà? Non si prova a leggere una storiella come questa una sensazione di ingiustizia fortissima? Certo, questa storiella è inventata, ma ha basi reali, è la realtà quotidiana in molti Paesi dove la libertà economica è repressa e dove chi vuole realizzare i propri sogni è spesso obbligato a corrompere e scendere a compromessi con burocrati e agenti del fisco.

Reprimere la libertà economica significa distruggere le nostre possibilità di realizzare ciò che sogniamo. Certo, non tutti vogliamo aprire un negozietto per vendere miniature di legno; ma tutti sogniamo di migliorare la nostra vita ed è questo che ci tolgono i governi oppressivi: la possibilità di costruirci un futuro migliore.

[1] Per gli amanti della statistica, l’indice di correlazione è 0,64 per gli indici del 2015

[2] Dati del 2015

[3] Per la precisione, 8 su 119

[4] Tutti i dati sono disponibili al sito https://www.cato.org/human-freedom-index

Emancipazione femminile: il perché di un’anomalia storica

Sin da quando ne ho memoria, sono stato abituato a vedere donne in posizioni di potere, di prestigio, di rispetto. Questo dovrebbe essere, in sé per sé, del tutto scontato, quasi insignificante, se non fosse per il fatto che non lo è. In ogni tempo e in ogni luogo, solo in Occidente, e solo negli ultimi tre secoli la condizione della donna si è evoluta in questo modo.

La domanda da porsi, quindi, è perché solo qui, e perché solo adesso? Forse il socialismo ha eliminato le disuguaglianze fra i sessi, o forse per generosità i governanti hanno concesso il suffragio femminile, il divorzio e l’aborto? Per comprendere questa anomalia storica, è necessario identificare i principali punti di rottura fra l’Occidente moderno e le altre civiltà, passate e contemporanee.

In primo luogo, l’industrializzazione. L’impatto storico di questo fenomeno sul nostro mondo non potrà mai essere sopravvalutato, e questo vale soprattutto per la condizione della donna. Senza elettricità, macchine e la medicina moderna, le donne nei Paesi sviluppati vivrebbero ancora come le loro antenate di secoli prima, quasi tutte analfabete, impegnate esclusivamente a lavorare nei campi, a svolgere le faccende domestiche ed a partorire numerosi figli, spesso a costo della vita.

Tuttavia, il vero contributo dell’industria all’emancipazione femminile consiste nell’aver aperto alle donne il mondo del lavoro. Prima della nascita delle industrie, la manodopera femminile era confinata in una ristretta cerchia di attività economiche, spesso legate in ogni caso alla dimensione domestica (come la tessitura dei vestiti). Con l’avvento dell’industria le donne lavorano insieme agli uomini, imparano a leggere e a scrivere, acquisendo in questo modo i mezzi materiali e la volontà per vivere autonomamente.

L’industrializzazione, a sua volta, è stata resa possibile dallo sviluppo, nel corso di secoli di storia europea, di un sistema economico e produttivo favorevole all’innovazione, il capitalismo. Infatti, senza il sostegno economico di Matthew Boulton, facoltoso imprenditore britannico, James Watt non avrebbe mai avuto i mezzi per sviluppare la sua macchina a vapore, simbolo stesso della prima rivoluzione industriale. Lo stesso Boulton si interessò alle scoperte di Watt per un solo motivo: il profitto. Egli infatti era alla ricerca di soluzioni tecniche per migliorare la produttività delle proprie fabbriche. Come già menzionato, lo sviluppo industriale seguente generò una crescente domanda di manodopera, che ebbe ripercussioni soprattutto sulle donne.

Il capitalismo, a sua volta, si basa su di un singolo punto centrale, dal quale deriva tutto il resto: lo scambio volontario di merci o servizi fra due soggetti, due individui. Non può esservi coercizione, in quanto entrambi gli individui devono essere soddisfatti della transazione. Ciò è possibile solo in un sistema che metta al primo posto l’individuo e la sua libertà. Per questo, in ultima analisi, è sull’individualismo che si basano le conquiste dell’Occidente, compresa l’emancipazione femminile.

Basta pensare ai diritti per cui hanno combattuto le prime femministe: l’individuo ha diritto a prendere parte alla vita pubblica dello Stato, e quindi il voto deve essere esteso anche alle donne; l’individuo ha diritto a decidere in autonomia sulla propria vita affettiva e sessuale, e quindi il divorzio; l’individuo ha diritto sul proprio corpo, e quindi l’aborto (anche se in questo caso, essendo per forza di cose coinvolti più individui, ritengo sia necessario che venga preso in considerazione l’interesse di tutte le parti).

Il movimento femminista delle origini, dunque, aveva un’importante componente individualista, e quindi liberale, e non è un caso che tra i suoi sostenitori ci siano stati grandi nomi liberali come quello di John Stuart Mill. Questa componente si è poi persa nel tempo, e oggi il movimento femminista, dominato dalla sua componente marxista, si batte contro il patriarcato, contro il “gender pay gap” e in generale contro le disuguaglianze (ma solo in Occidente ovviamente, per loro le donne degli altri Paesi non contano niente), proponendo misure collettiviste come le ridicole quote rosa.

L’involuzione subita dal movimento femminista, tuttavia, non ne cancella le vere origini, e sebbene oggi molte femministe siano contro l’industrializzazione, il capitalismo e l’individualismo, è proprio grazie alla combinazione di questi fattori nel corso di secoli se anche loro, così come tutte le altre donne che hanno la fortuna di vivere nei Paesi occidentali, sono libere di cercare la propria felicità, senza influenze esterne che non siano quelle dovute al caso.

Sciopero 3 agosto 1981. I licenziamenti di massa di Reagan

«Non c’è diritto di sciopero contro la sicurezza pubblica per nessuno, in nessun luogo, in nessun momento»

Queste furono le parole dichiarate da Ronald Reagan (frase dell’ex presidente Calvin Coolidge, presidente degli Stati Uniti dal 1923 al 1929) il 3 agosto 1981, in risposta allo sciopero di massa di 13000 controllori di volo e membri della PATCO, sindacato ufficiale dei controllori di volo.

Motivo Sciopero? Retribuzioni basse, perciò si puntava ad un aumento con riadeguamento al ribasso delle ore lavorative settimanali. Inoltre, si richiedeva la possibilità di pensionamento dopo soli 20 anni di servizio.

Questi controllori di volo erano dipendenti federali, pertanto lo stesso presidente americano si mobilitò per ordinare agli scioperanti di rientrare al lavoro entro 48 ore, altrimenti ne avrebbe disposto il licenziamento. Reagan riteneva di essere dalla parte della ragione, appellandosi a due norme ben precise, che si riferivano non solo al fatto che occorressero almeno 60 giorni di preavviso, ma anche al fatto che lo sciopero era da vietare, qualora comportava gravi rischi per la salute o la sicurezza dei passeggeri o dei cittadini.

Ma se Reagan era convinto di essere dalla parte giusta, i sindacati erano convinti di aver messo “in trappola” il presidente americano. Minacciare il licenziamento di più di diecimila persone poteva essere un pretesto per considerare immorale il gesto del presidente. Pertanto lo stesso Robert Poli, presidente del sindacato PATCO, era abbastanza sicuro che Reagan, alla fine, avrebbe mollato la presa.

Reagan non si fermò e allo scadere dell’ultimatum, decise di proseguire con il licenziamento dei controllori coinvolti nello sciopero. Pertanto, con la collaborazione dei controllori che non scioperarono o che non erano coinvolti in alcun sindacato, si cercò di risolvere l’emergenza, ottenuta successivamente con risultati positivi.

In quel momento gli Stati Uniti, insieme all’Inghilterra ed Europa (Italia compresa), vivevano un momento di forte declino sociale ed economico. Dopo il boom economico del secondo dopoguerra, l’impianto di welfare state dominato dalla figura del sindacato iniziò a rallentare l’economia della superpotenza economica e del continente europeo. Negli Stati Uniti ebbero Ronald Reagan e in Inghilterra ebbero Margaret Thatcher, due figure straordinarie che furono in grado di creare una netta rottura con il passato, per porre le basi di una straordinaria ripresa economica.

Nel caso americano, Reagan dimostrò che era possibile andare controcorrente contro le logiche socialiste, come il sindacato. La PATCO abusò delle sue stesse funzioni, ritrovandosi a “chiudere baracca” qualche anno dopo. Il presidente americano, non solo ottenne l’appoggio popolare, ma con questo gesto riuscì a trasmettere un mix di ottimismo e di speranza ad un popolo che ormai si stava abituando alla mediocrità socialista.

L’Italia è oggi nelle stesse condizioni sociali ed economiche di Stati Uniti e Inghilterra degli anni settanta, con la differenza che questi due sono arrivati al 2018 grazie alle politiche, talvolta adottate con decisione e fermezza, da personaggi come Reagan e Thatcher. L’Italia no. Purtroppo siamo rimasti agli anni settanta, abbiamo perso quasi quattro decenni di rilancio economico. Per ripartire, bisogna considerare il fatto che gli avversari da affrontare sono figure come il sindacato, che anziché “proteggere” i lavoratori, riesce soltanto a far scappare l’imprenditore di turno. Proprio come nel caso dei controllori di volo, la PATCO fallì completamente la sua strategia. Invece, in Italia, gli imprenditori sono spesso costretti a ricorrere contratti interinali di scarsa qualità contrattuale o a far emigrare le proprie aziende all’estero. Reagan sapeva che darla vita al sindacato voleva dire, non solo compromettere la sua figura, ma compromettere sopratutto la figura della stessa nazione, che si sarebbe presto ritrovata a vivere secondo le logiche del sindacato.

Come disse perfettamente la stessa Maggie Thatcher:

“Ogni richiesta di sicurezza, che riguardi il posto di lavoro o il reddito, implicherebbe l’esclusione di tali vantaggi di quelli che non appartengono allo specifico gruppo privilegiato e provocherebbe richieste di privilegio compensativi da parte dei gruppi esclusi. Alla fine, tutti verrebbero a perdere”.

8 principi liberali per condurre politiche sul lavoro in maniera ottimale

Dato che i liberisti sono sempre additati come quelli contro i poveri, i lavoratori e al soldo del gran capitale e dei poteri forti, esporrò brevemente quali sono solitamente i principi sul quale si dovrebbe basare una politica liberista per il mercato del lavoro:

1) Una persona accetta un lavoro perchè lo trova utile, conveniente e/o più piacevole che non accettarlo. Questo regola la Domanda di lavoro.

2) Un datore di lavoro (non padrone, i lavoratori non sono cose che si posseggono) assume un lavoratore se lo trova utile, conveniente e/o piacevole. Questo regola l’offerta di lavoro.

3) Una assunzione avviene solo se è vantaggiosa sia per l’aspirante lavoratore che per il datore di lavoro.

4) Se ad una persona vengono offerti sussidi che si perdono con l’accettazione di un lavoro, si disincentiva il lavoro regolare e si incentiva nullafacenza e lavoro nero.

5) Se ai datori di lavoro vengono imposti degli oneri extra per l’assunzione di carattere salariale (es. salario minimo e 13sima) e/o contrattuale (es. Art. 18) l’offerta di posti di lavoro regolari cala, soprattutto per le categorie che beneficiano di queste tutele a carico del datore di lavoro (lavoratori dipendenti di solito). Questo calo colpirà soprattutto le categorie meno produttive che smetteranno di essere convenienti per il datore di lavoro.

6) Più si limitano le possibilità di lavoro (lavori domenicale, licenze, ordini professionali) e più si irrigidiscono il mercato del lavoro (con la centralizzazione a livello nazionale dei contratti) più aumentano i disoccupati e meno servizi potranno essere offerti ai consumatori.

7) Molta offerta di lavoro non trova corrispondenza nella domanda di lavoro perchè non ci sono le competenze richieste. Questo è dovuto principalmente ad un articolo della nostra Costituzione che impone il “valore legale del titolo di studio” e limita pesantemente l’offerta formativa e che questa si adatti velocemente alle richieste del mondo del lavoro.

8) Per migliorare le condizioni contrattuali e salariali la via del liberismo, come sempre, è quella di una sana (e lecita) concorrenza. La concorrenza, oltre ad essere fondamentale per la meritocrazia, spinge le imprese a contendersi i lavoratori più appetibili che otterranno stipendi più elevati e spingeranno anche altri volenterosi a migliorare per ottenere un simile trattamento, innescando un circolo virtuoso di cui beneficeranno lavoratori, imprenditori e consumatori.

Per ottenere ciò è necessaria una minore centralizzazione dei contratti ( che limita le condizione ad personam a favore del benessere del lavoratore) e zero leggi che favoriscono la concentrazione di settori dell’economia nelle mani di pochi soggetti (pubblici e privati). Un altro fattore fondamentale per la concorrenza è la mobilità del lavoratore, che è l’esatto opposto di voler fissare una persona al proprio lavoro.

La mobilità è essenziale per potergli permettere di vagliare diverse offerte operative, di rendersi conto del suo effettivo valore di mercato e per poterlo sfruttare nei momenti di contrattazione. La mobilità, oltre ad essere una grandissima libertà, è fondamentale anche per incentivare il lavoratore a migliorarsi per sfruttare le possibilità del mercato del lavoro e ad accumulare nuove esperienze e competenze.

Questi sono i principi liberisti (chi vuole ne metta altri o ne tolga alcuni) per un sano mercato del lavoro. Questo è molto diverso da quello di un governo che non accetta i numeri ottimisti forniti dall’INPS, afferma che Confindustria faccia terrorismo psicologico e che le banche abbiano atteggiamenti mafiosi; e che soprattutto si arroga il diritto di definire che tipi di contratti e lavori siano degni e quali no.

Le Olimpiadi? Un successo solo se private

Nell’organizzare le Olimpiadi si pongono due problemi: quello del rapporto costi benefici e quello della provenienza degli investimenti.

Per offrire una panoramica della prima questione, prendiamo a modello l’ultima manifestazione a cinque cerchi svoltasi in Italia, le olimpiadi di Torino 2006. Per anni si è ripetuto, specie nel capoluogo sabaudo, che l’evento fu occasione di rilancio turistico sulla scena nazionale e internazionale per la città. Ed è vero: Torino ha senza dubbio beneficiato dei giochi, in termini di immagine. Il problema risiede nel fatto che per conseguire tali benefici, si è dovuta investire una non indifferente quota di denaro pubblico.

Circa 1.200, i milioni di euro destinati alla gestione dell’evento (si va dalla gestione degli impianti, alla tecnologia necessaria, alle trasmissioni TV e altro ancora). La quota maggioritaria dei costi riguarda però gli investimenti indirizzati al territorio, 2.119 milioni così ripartiti: 376 per gli impianti di gara, 260 per gli impianti di risalita, l’innevamento artificiale, la manutenzione delle piste, 316 per interventi destinati allo sviluppo turistico, 419 per villaggi olimpici, sale conferenza, alloggi per giornalisti, 643 per la costruzione o revisione di strade e parcheggi, 63 per sistemi fognari e acquedotti, 42 destinati infine a mezzi di soccorso e controllo pubblico.

Del secondo blocco di costi analizzato, è il contributo del Governo a essere predominante: il 75,7% degli investimenti ha infatti origine nazionale (circa 1.600 milioni). Seguono gli enti locali, contribuenti per il 18,0% (400 milioni), e infine soggetti privati hanno immesso nel circuito il restante 6,3% (cento milioni).

Non altrettanto imponenti i ricavi del comitato organizzatore, che vede gli incassi fermarsi a 974 milioni (420 provenienti da sponsor, 470 da diritti TV, 15 da licenze e 69 dalla vendita di biglietti). Condizione che ha reso necessario un secondo intervento statale per un valore di 200 milioni, denaro che ha permesso di non mandare in negativo il bilancio dei costi di gestione dell’evento.

Per quanto concerne gli investimenti sul territorio, studi della Confesercenti e dell’Osservatorio Turistico della Regione Piemonte stimano in 1.528 milioni di euro i benefici derivati dal riutilizzo dei villaggi olimpici, maggiori flussi turistici e impiego delle nuove infrastrutture pubbliche. Tutto denaro che, tuttavia, è andato a beneficio quasi esclusivamente di Torino e parte della provincia (le due valli interessate dai giochi), con il resto del Piemonte che ha beneficiato ben poco dell’effetto olimpico.

L’analisi costi-benefici ci conduce quindi al secondo problema posto: chi si fa carico dei giochi? Nel caso di Torino 2006, si è visto come la percentuale maggiore di finanziamento sia stata erogata dal governo, che ha provveduto a recuperare il denaro tramite un aumento della pressione fiscale. Ma, pur avendo tutti gli italiani pagato una media di 35 euro a testa per lo svolgimento dei giochi, l’85% dei finanziamenti è stato dirottato nella provincia di Torino (il restante 15% in altre aree del Piemonte, al fine di ammodernare le strutture di ricettività turistica).

È utile ricordare come, trent’anni prima, in occasione dei giochi di Montreal 1976, il Governo del Canada diede l’avallo allo svolgimento dei giochi solo dopo aver firmato con la città e la relativa regione un contratto che impegnava gli enti locali a farsi carico interamente dei costi. Contratto che portò le amministrazioni di Montreal e del Quebec a indebitarsi per una cifra prossima a 2.500 milioni di dollari. Debito ripianato solo trent’anni dopo.

Secondo questo modello, ripartendo i costi della manifestazione torinese ai soli cittadini della provincia sabauda, i 35 euro pro capite diverrebbero 1.000. I costi previsti per i giochi 2026 non sono ancora delineati: ma, se si interpellassero i cittadini delle comunità interessate alla candidatura, chiedendo loro se siano disposti a tollerare un aumento del carico fiscale tanto ingente (senza contributi statali), difficilmente vi sarebbero città pronte a presentarsi di fronte al CIO. Motivo, peraltro, che ha portato ad affossare quest’anno le due candidature austriache, entrambe bocciate da referendum consultivi.

Per trovare l’unico modello di gestione olimpica efficiente bisogna risalire a Los Angeles 1984. Proprio sulla scia di Montreal otto anni prima, la metropoli statunitense approvò una risoluzione in base alla quale nessun contributo pubblico avrebbe potuto essere utilizzato per il finanziamento delle olimpiadi. Si trattò allora di reperire ingenti risorse private.

Finanziatori che ebbero tutto l’interesse a ricavare profitto dall’evento, vincolando così il comitato direttivo a un impiego oculato delle risorse, scartando l’approccio del “valore aggiunto” (tanto caro alle nostre amministrazioni) che avrebbe condotto a stime improbabili riguardo il rapporto costi-benefici. Il bilancio? Profitti per 225 milioni di dollari, ripartiti tra soggetti privati e comitato organizzatore, in larga parte reinvestiti in progetti sul territorio, che ebbe così modo di beneficiare a lungo termine dell’effetto olimpico.

L’assenza di finanziamenti pubblici permette di escludere che vi siano stati soggetti danneggiati coercitivamente per via della tassazione, al contrario l’impiego di capitale privato ha fatto coincidere la ricerca del profitto del singolo con una serie di vantaggi per la collettività.

Un dibattito si potrebbe aprire per definire la candidatura migliore tra Torino, Milano e Cortina, con la prima già in possesso della quasi totalità delle strutture necessarie ai giochi. Ma, qualsiasi sia l’esito delle riunioni del CONI, la storia insegna che l’unico modello vincente è rappresentato dalla gestione privata.