Perché non possiamo (e non dobbiamo) essere “liberal”

Già decenni or sono uno dei padri del pensiero liberale, Friedrich Von Hayekdeprecava il furto del termine “liberal” da parte dei movimenti di sinistra americani. Non c’è da sorprendersi, dunque, se oggi a definirsi “liberal” siano figure come Bernie Sanders, Michael Moore e Alexandria Ocasio-Cortez, le quali nulla hanno da spartire con coloro che credono veramente nella libertà. Al di là della somiglianza fonetica, infatti, il liberalismo americano è quanto di più lontano vi sia dal Liberalismo.

Cominciamo quindi dalla base su cui si fonda tutta l’ideologia liberal, la giustizia socialeLa giustizia sociale è la scusa dietro la quale sono pronti a trincerarsi i socialisti per giustificare le loro misure più scellerate. L’idea di base è giusta: tutti gli individui devono essere messi in condizione di poter realizzare pienamente il proprio potenziale.

I liberali rispondono a questa esigenza con la meritocraziail che significa uguaglianza di opportunità: a chi possiede talento e spirito di sacrificio dev’essere offerta l’opportunità di elevarsi, ma solo l’opportunità. Non si possono e non si devono eliminare le disuguaglianze, dal momento che ogni individuo è diverso dall’altro, ma si può e si deve lavorare per “livellare il piano di gioco”.

La risposta dei liberal, invece, è per l’appunto la giustizia socialeuguaglianza di esiti. Non importa che per natura esistano persone più dotate ed altre meno, tutti devono ottenere gli stessi risultati, anche a costo di abbassare gli standard accademici o lavorativi, tutti devono guadagnare lo stesso stipendio, tutta la società dev’essere omologata.

A causa delle peculiarità della storia americana, poi, la giustizia sociale dei liberal si è tinta di razzismo. Da qui il “white privilege”, l’idea assurda che demonizza i bianchi (peggio se maschi, peggio se eterosessuali), e riduce a vittime le minoranze, rendendo di fatto impossibile qualsiasi vera emancipazione.

Se poi un individuo parte di una minoranza decide di non considerarsi una vittima, e di non aderire all’ideologia liberal, diventa oggetto di disprezzo, se non di odio. Lo sanno bene gli afroamericani che votano per il GOP.

A dispetto di quanto auspicato da Martin Luther King, ed in antitesi con qualsiasi principio liberaleil colore della pelle è tornato ad essere il criterio in base al quale assegnare un valore agli individui, tutto ciò con il plauso dei “Social Justice Warrior” affiliati ai liberal. E l’odio razziale fomentato dai SJW è solo l’inizio.

Il conflitto fra i bianchi e le minoranze, infatti, è secondario nella loro visione del mondo rispetto al conflitto storico, quello fra ricchi e poveri. L’idea marxista della lotta di classe si sta imponendo sempre di più negli ambienti liberal, soprattutto grazie al successo dei Socialisti Democratici.

Anche in America, tuttavia, l’amore per i poveri dei socialisti (cioè dei liberal) è superato dal loro odio per i ricchiQuel che è peggio, gran parte dei media è in mano loro, ed essi usano questo potente mezzo per diffondere le loro idee. Basta dare un’occhiata alla cinematografia degli ultimi anni.

Il cattivo per eccellenza, nei film che vediamo, è l’uomo d’affari, l’imprenditoreQuesta figura viene quasi sempre dipinta come un Gordon Gekko, una specie di sociopatico che rovina le vite della gente comune per il proprio tornaconto.

Anni di propaganda hanno dato i loro frutti. Oggi, proprio nel Paese che ha sconfitto l’Impero del Male, una fetta sempre più vasta della popolazione preferisce l’economia pianificata alla libera impresail marxismo al capitalismo. La cosa peggiore è che si tratta soprattutto di giovani, gli stessi che vanno ad ingrossare i ranghi dei Socialisti Democratici.

In conclusione, il rimprovero di Hayek ai liberali americani è oggi più valido che mai. Questi, permettendo ai socialisti di impadronirsi della propria terminologia, hanno dato loro gli strumenti per influenzare la coscienza popolare senza dare troppo nell’occhio. Potremmo dire infatti che solo recentemente i liberal sono usciti allo scoperto, ma ormai il danno è fatto.

Tuttavia, non è detta l’ultima parola. Se non altro, ora che l’inganno è stato svelato è possibile cominciare a combattere questa confusione ideologica, e forse arriverà il giorno in cui gli americani che credono veramente nella libertà potranno tornare a chiamarsi con il loro nome, liberali“liberal”.

Quando l’Ungheria era comunista

Nel 1945, centinaia di migliaia di Ungheresi entrarono in possesso di terreno coltivabile grazie alla redistribuzione delle terre. Dopo aver subito gli orrori del nazismo, i vecchi e nuovi proprietari confidavano che la propria stabilità economica non fosse più in pericolo. Tuttavia una nuova minaccia incombeva sull’Ungheria: il comunismo.

 

Nonostante la guerra fosse terminata,

i contadini dovevano continuare a pagare dei dazi molto ingenti. La popolazione ungherese doveva provvedere alle spese statali, alle provvigioni delle truppe sovietiche occupanti e alla produzione delle derrate alimentari per l’indennità di guerra. Il prodotto era dunque diviso in tre parti inique: una restava nelle mani del contadino e della sua famiglia, una veniva messa da parte per assicurare il raccolto dell’anno successivo, e la terza doveva essere ceduta ai sovietici.

Contemporaneamente alla presa del potere, i comunisti intrapresero una spietata campagna contro la borghesia Ungherese. Fra il 1948 e il 1953 triplicarono i già ingenti dazi che i contadini erano tenuti a versare. Nel 1952 cambiarono anche l’ordine della distribuzione: prima di tutto i contadini dovevano cedere la quota prevista ai sovietici, per poi mantenere una quota da parte per l’anno successivo. Solo il poco rimanente, ammesso che ce ne fosse, sarebbe rimasto a disposizione dei contadini.

Molto spesso alle famiglie non rimaneva abbastanza di che vivere. Quando alcuni coraggiosi si rifiutavano di pagare, iniziavano le intimidazioni: gli ufficiali esattori arrivavano insieme agli uomini dell’ AVH, la polizia segreta comunista ungherese, che terrorizzava l’intero borgo.

 

Qual era il folle disegno dell’Unione Sovietica?

In preparazione di una terza guerra mondiale, l’Unione Sovietica e i suoi stati satellite, compresa l’Ungheria, dovevano provvedere a enormi investimenti per favorire l’industria pesante. Ragion per cui i burocrati sottraevano ingiustamente ai borghesi gran parte dei loro averi. Inoltre iniziava a sorgere il bisogno di manodopera da sfruttare.

Il Partito non risparmiò alcuno sforzo nel distruggere lo stile di vita tradizionale della campagna e a deportare i lavoratori non in grado di provvedere alle spese imposte. In ogni caso, il sistema comunista non poteva sopportare la sopravvivenza di una comunità economica indipendente. Per protrarre il proprio dominio dittatoriale all’intera nazione, lo Stato-Partito organizzò la sistematica eliminazione della classe di proprietari terrieri Ungheresi, ancora legata ai suoi valori conservatori, ai propri costumi e alle proprie tradizioni.

 

Chi era nel mirino dello Stato-Partito?

Il bersaglio degli attacchi era il “Kulako” secondo il modello Sovietico. Il termine Kulako non ha equivalente nella lingua ungherese. Chiunque non vivesse in condizioni di povertà assoluta, in qualsiasi momento, poteva diventare un Kulako: nemico pubblico e preda dei comunisti.

Gli amministratori stilavano le liste dei Kulaki e i contadini più eminenti e di successo nel villaggio apparivano su di esse. Stava ai funzionari di partito, che puntualmente abusavano del proprio potere, decidere chi punire. I burocrati vessavano continuamente i Kulaki con tasse speciali, quote sempre maggiori, sottratte attraverso torture fisiche e psicologiche.

I comunisti assemblarono delle brigate e le addestrarono a tenere la popolazione sottomessa attraverso punizioni pubbliche, violenze e ispezioni continue. Gli agenti controllavano anche la spazzatura dei contadini, per assicurarsi che non nascondessero nulla allo stato.

I sovietici provarono a spezzare lo spirito delle persone attraverso lavoro forzato, evacuazioni improvvise e confische di proprietà ingiustificate, misero in piedi centinaia di migliaia di accuse false, migliaia di processi, che portavano sempre a prigionia prolungata e spesso ad esecuzioni. Processarono e incarcerarono quattrocentomila civili per “crimini contro la produzione comunitaria”, inoltre perseguitarono innumerevoli vittime senza un motivo giuridico. La resistenza era punita con la morte.

 

Il risultato? Disastroso.

Non è sorprendente che nel negli anni 50′ trecentomila lavoratori abbandonarono la propria terra, fuggendo nell’Europa liberale. I contadini rimasti persero la volontà di continuare a lavorare, dato che creando profitto avrebbero rischiato la propria vita. La situazione portò ad una drammatica scarsità di viveri. Il partito reintrodusse il razionamento del cibo e condannò i “sabotatori”.

 

Sabotatori?

Dato che il sistema socialista attribuiva ogni fallimento al sabotaggio di un nemico sconosciuto, era necessario trovare un capro espiatorio. I comunisti attribuirono la carenza di cibo ad alcuni dirigenti ungheresi di spicco. Furono tutti giustiziati. Vennero introdotti nuovi fantasiosi modi per punire i contadini: il reato di “Sabotaggio della trebbiatura” portava alla pena di morte. I comunisti punivano il macello di animali non autorizzato dall’autorità con imprigionamenti prolungati.

Come se non bastasse, il partito applicò il “Sistema d’Avanguardia dell’Agricoltura Sovietica” in tutta Ungheria: un modello terribilmente inefficiente. I comunisti svilupparono in Ungheria un piano di agricoltura direttamente orchestrato dal partito. I privati contadini erano costretti a coltivare secondo le direttive dei gerarchi, spesso controproducenti e inattuabili. Un tentativo notoriamente goffo fu la produzione forzata di cotone e riso, allora virtualmente non coltivabili in Ungheria.

Alla fine ogni resistenza della borghesia fu spezzata, e le ultime fattorie private vennero sottratte e collettivizzate.

 

La giustizia Ungherese, su modello Sovietico,

si liberò della presunzione di innocenza garantita dallo stato liberale, con il risultato che i carnefici potevano utilizzare accuse false contro le vittime. Le confessioni ottenute sotto tortura erano sufficienti. Le testimonianze parlano di pestaggi che spesso portavano alla morte. Era usanza colpire la vittima con un randello, per rompere denti e costole, per poi costringerlo a ingerire fino ad un chilogrammo di sale grosso. Non stava all’accusatore provare la colpevolezza dell’accusato, ma l’imputato doveva provare la propria innocenza, cosa ovviamente resa impossibile dalle circostanze.

La legge non proteggeva il cittadino, era anzi un’arma dello stato per colpirlo. Dieci anni dopo la fine della guerra, i comunisti continuavano ad uccidere e a rendere un inferno la vita di chiunque avesse a che fare con loro.

 

Socialismo significa schiavitù.
-Lord Acton

Serena Williams e l’eguaglianza nel tennis

La finale femminile degli US Open di tennis vedeva contrapposte Serena Williams, americana di 36 anni, contro una ventenne giapponese (ma cresciuta negli States), Naomi Osaka. Per chi non seguisse il tennis, Serena Williams è unanimemente considerata fra le più grandi giocatrici della storia, se non la più grande. Era la ovvia favorita, nonostante fosse tornata a giocare solo da pochi mesi dopo aver portato a termine la sua prima gravidanza.

La partita ed il suo risultato sarebbero rimasti normalmente confinati nel mondo degli appassionati, se non fosse stato per il feroce litigio fra Williams e Carlos Ramos, arbitro della finale.

La campionessa americana ha ricevuto 3 warning durante il match, finendo penalizzata con un intero game[1], l’ultimo dei quali per aver accusato l’arbitro di essere un ladro. Da appassionato, l’episodio mi era sembrato sul momento poco rilevante: è successo molte volte che giocatori abbiano ricevuto warning e conseguenti sanzioni, e spesso i giocatori le ritengono ingiuste e protestano platealmente a riguardo.

La novità è stata l’accusa di sessismo rivolta all’arbitro, dopo il match, da Serena Williams; l’americana ha sostenuto che Ramos non avrebbe mai punito così severamente un uomo e che il trattamento ricevuto è stato ingiusto. L’accusa sembra francamente incredibile a chi segue lo sport: non solo i maschi vengono abitualmente sanzionati di più (solo in questo US Open, 23 warning a 9), ma lo stesso Ramos, noto per la sua rigidità, si era scontrato in passato anche con grandi campioni maschi come Nadal e Djokovic. In maniera interessante, però, Serena ha ricevuto  l’appoggio sia della USTA (federazione tennistica americana) che della WTA (associazione giocatrici) [2]; la sua querelle in campo è ora diventata una battaglia di equità fra i sessi.

Il tennis è sempre stato all’avanguardia nelle battaglie femministe, ma questo non vuol dire che alcune lotte non siano eccessive e fuori bersaglio. Intendiamoci, il sessismo nel tennis esiste: ad esempio, la giocatrice francese Alizé Cornet è stata sanzionata proprio durante gli US Open per essersi cambiata la maglietta in campo, nonostante i suoi colleghi maschi lo facciano tranquillamente (la sanzione è stata poi cancellata, con le scuse dell’organizzazione); ed anni fa il torneo di Montréal utilizzò manifesti parecchio infelici per promuovere il tennis femminile.

Il problema è che la lotta sotto la bandiera dell’eguaglianza copre ormai ogni cosa: dalle polemiche poco credibili di Serena Williams contro l’arbitro a una questione ben più importante come i montepremi dei principali tornei; su quest’ultimo tema vorrei in particolare concentrarmi.

Il tennis è l’unico grande sport al mondo che prevede un montepremi uguale fra uomini e donne nei grandi tornei, che sono quasi tutti “combined”, cioè ospitano sia una competizione maschile che una femminile. La battaglia per la divisione paritaria dei montepremi cominciò negli anni ’70 grazie alla lotta della celebre tennista Billie Jean King; nei decenni seguenti si è sostanzialmente conclusa con l’adeguamento generalizzato dei montepremi femminili a quelli maschili. La lotta di King è diventata nel tempo un simbolo del femminismo, e tuttavia dobbiamo chiederci: è giusta questa battaglia?

Partiamo con una premessa: i compensi che noi percepiamo non dipendono solo dal tipo di lavoro svolto o dall’impegno che vi profondiamo, ma anche e soprattutto da quanto il mercato è disposto a pagare per il nostro lavoro.

Non è facile avere dati precisi sulla popolarità del tennis maschile rispetto a quello femminile (anche per via dei tornei combined), ma quelli di cui disponiamo forniscono risposte chiare: nel 2014, i ricavi del tour[3] maschile erano più alti di quello femminile di quasi il 50%[4], e nel 2016 l’ATP Tour fu seguito da quasi un miliardo (968 milioni) di spettatori in TV[5], mentre un anno dopo, pur con un trend in crescita, la WTA era seguita da circa 500 milioni[6] (non ho trovato dati per il 2016, ma nel 2015 erano 395 milioni[7]). Gli uomini attirano più spettatori e generano dunque maggiori ricavi, e ci si aspetterebbe che i montepremi vengano divisi su questa base; e invece ciò non avviene.

La divisione equa dei montepremi va a svantaggio degli uomini ed è in effetti un unicum nei grandi sport professionistici: nel calcio, nel basket o nel golf non vi è parità, né vi sono lotte per ottenerla. La situazione oltretutto va a danneggiare principalmente i tennisti di medio-bassa classifica; per un grande giocatore intascare 1 milione di dollari per la vittoria di uno Slam invece che 1,5 o 2 non fa molta differenza, tanto più che i veri guadagni arrivano dagli sponsor.

Molto diversa è invece la situazione per i giocatori di livello minore, per i quali un aumento del 50% dei propri guadagni può fare la differenza fra poter continuare a competere o doversi ritirare: il tennis è uno sport molto costoso e si calcola che solo i primi 150 giocatori al mondo riescano a stare in positivo fra entrate e uscite; per tutti gli altri giocare significa perdere soldi, nella speranza di arrivare un giorno a un livello sufficiente da ripagare l’investimento.

Alcuni giocatori di seconda fascia hanno provato a lamentarsene (Gilles Simon e Sergiy Stakhovsky, per citarne due); il risultato è stato aspri rimproveri aspramente da colleghi/colleghe e opinionisti vari, e nessun seguito è stato dato alle loro proteste.

Al momento, non sembra probabile che vi sarà alcun cambiamento nel breve periodo. Perché le regole di suddivisione vengano cambiate, servirebbe una protesta complessiva di tutto il movimento tennistico maschile, che coinvolga anche e soprattutto i grandi nomi; tuttavia, giocatori come Djokovic, Federer o Nadal sono comprensibilmente restii a capitanare un movimento del genere, visti i potenziali danni d’immagine[8].

Eppure il problema resta e aiuta a comprendere meglio un concetto fondamentale: imporre l’uguaglianza sostanziale significa negare la giustizia.

 

Note:

[1] Per chi non conoscesse bene le regole, nel tennis l’arbitro può comminare dei “warning” ai giocatori che infrangono una norma del regolamento; i warning non portano a sanzioni di per sé, ma per effetto cumulativo: al primo warning non succede nulla, al secondo si perde un punto, al terzo un game, al quarto l’intera partita

[2] L’ITF, federazione internazionale di tennis, e gli stessi US Open hanno invece appoggiato l’arbitro

[3] Il tennis, sia maschile che femminile, è organizzato in tour di durata annuale, con una serie di tornei, in diverse città mondiali, da Gennaio a Ottobre-Novembre

[4] https://www.sportsbusinessdaily.com/Journal/Issues/2015/11/23/Leagues-and-Governing-Bodies/ATP-revenue.aspx

[5] https://www.atpworldtour.com/en/news/atp-world-tour-250-media-rights-2017

[6] http://www.wtatennis.com/ABOUT-WTA

[7] http://www.wtatennis.com/content/wta-global-interest-all-time-high-0

[8] Un paio di anni fa il serbo Novak Djokovic, all’epoca n°1 del mondo, aveva provato ad affrontare timidamente l’argomento, ma aveva fatto quasi subito marcia indietro, dopo le forti polemiche suscitate (https://www.gazzetta.it/Tennis/ATP/23-03-2016/tennis-djokovic-si-scusa-facebook-le-polemiche-sessiste-premi-1401125743847.shtml)

Giornalismo: il cane da guardia del potere

Siamo tutti cresciuti con la dicotomia destra e sinistra. L’estrema destra fascista contro l’estrema sinistra comunista. Che tu ti muova verso destra o verso sinistra sulla scala politica il punto di arrivo è lo stesso: uno stato enorme.
Non è un caso che la lotta politica rappresentata dai mainstream media interessi due entità che non mettono in dubbio l’istituzione statale ma bensì la rafforzano.
La lotta politica attuale è uno specchietto per le allodole. Lo stato ha usato il giornalismo (e l’istruzione) per far uscire di scena l’unico attore che ne minava l’esistenza: il liberalismo (e gli ha pure rubato il nome).

COME HA FATTO?

Prima dell’avvento delle tecnologie di informazione e comunicazione (ICT), l’offerta sul mercato dell’informazione era molto limitata. Ciò permetteva di tenere i prezzi relativamente alti.
Per leggere le ultime news su un quotidiano dovevi spendere 1500 lire. Per riceverle dalla tv o dalla radio pagavi le tasse. Gli introiti erano abbastanza non solo per retribuire i giornalisti ma anche per fare dell’informazione un business redditizio.

Perchè l’offerta era limitata? Perchè l’informazione è potere. Controllare il popolo senza limitare l’informazione è impossibile.
Lo stato ha sempre sfruttato i canali di informazione pubblici e anche quelli privati (attraverso scambi di favori con le lobby) per fare propaganda.

Essendo proprietario delle infrastrutture tecnologiche che ne permettono il funzionamento, ha sempre eretto e controllato le barriere all’entrata del mercato.
Ha sempre filtrato e bloccato le iniziative private scomode.

Tutti questi canali di informazione offrivano un, limitato e oculatamente selezionato, spettro di opinioni e punti di vista.

Il giornalismo non è mai stato il garante della democrazia bensì il cane da guardia del potere.

L’INFORMAZIONE OGGI

Le cose sono cambiate. Internet ha distrutto le barriere all’entrata, chiunque può creare un canale di informazione senza dover passare dai “custodi della verità”.
E’ arrivata la concorrenza e si è riaperto il mercato delle opinioni.
L’aumento di offerta sul mercato dell’informazione ne ha fatto crollare il prezzo costringendo i vecchi attori al quasi-fallimento.
Quasi, non perchè si siano svegliati ma perchè sono stati salvati dai politici prima che potessero tirare l’ultimo respiro.
Non potevano fare diversamente: lasciare morire il proprio cavallo voleva dire perdere la gara.

Oggi il mercato dell’informazione è spietato e ha margini minimi. In questo ambiente estremo, i mainstream media stanno provando diverse strategie di sopravvivenza:

  1. Essere alla mercè delle forze politiche.
    I politici gestiscono i miliardi delle tasse dei cittadini. Sono ben felici di aiutare i media che ne facilitano la carriera.
  2. Polarizzare il panorama ideologico.
    Possiamo anche definirla “Hooliganizzazione”. Un ultras che va sempre allo stadio, compra il pay per view in tv e ha pure le mutande coi colori della squadra fa incassare molti più soldi rispetto a un tifoso occasionale o moderato. L’ultras ama alla follia la propria squadra e odia quella nemica. Stessa cosa vale per le fazioni politiche. Più i media riescono a creare “ultras” irrazionali più incassano.
  3. Click bait professionale.
    Non solo titoli accattivanti per spingere gli utenti a cliccare in modo da ottenere ritorni pubblicitari, ma articoli sensazionalisti studiati per creare fobie, manie, ossessioni.
    Un cambiamento climatico catastrofico e imminente che crea ambientalisti fanatici e suscita forti emozioni fa incassare di più di un cambiamento climatico incerto.
  4. Fake news e hate speech. Questi ultimi due sono l’arma definitiva partorita dalla simbiosi tra mainstream media e politica per riprendere il controllo della narrativa dominante. Meritano un articolo a sè che verrà pubblicato prossimamente.