Abolizione contante? Lasciamo lavorare il mercato

Grazie al contante esistono i peggiori criminali del mondo: le nonne che, elargendo in cartamoneta ai nipotini laute mance, superano il limite annuo di donazioni esentasse togliendo soldi alle istituzioni di tutti.

Almeno pare così dalla rinata attenzione per l’eliminazione del contante, che sarebbe doverosa per porre fine all’evasione fiscale e arrivare, citando il premier Conte, “a pagare tutti per pagare di meno“.

Peccato che sia (e va detto in francese) una solenne stronzata.

Infatti, l’evasione fiscale da anni sta calando e gli introiti dello Stato aumentano, ma aumenta anche la spesa pubblica. Questo perché appena un politico vede un minimo spazio di manovra ci metterà qualche sua mancetta elettorale. E se aggiungiamo che questa spesa è fortemente inefficiente (giusto per dire, mentre state leggendo questa frase lo Stato ha appena sperperato 3000 Euro per l’istruzione) verrebbe da dire, alla Einaudi, che quasi quasi chi evade è un benefattore che prova a limitare l’idrovora statale. Poi ci si ricorda che le conseguenze le paga chi si sbaglia e dichiara un euro in meno del dovuto.

Tralasciando le considerazioni morali, parliamo di mercato. Il mercato, come mostrano varie economie, premia la moneta elettronica. Le ragioni sono diverse e le descriveremo più avanti. Ma i politici e parapolitici italiani soffrono del “gastrospasmo del fare”, usando un termine coniato da Paolo Attivissimo: “Non basta che ci pensi il mercato, noi dobbiamo fare qualcosa” e di solito questo qualcosa è negativo, come Confindustria che vorrebbe introdurre una tassa sul contante. Significherebbe pagare per usare i propri soldi, un qualcosa di cui solo un Paese totalitario andrebbe fiero, ma vabbè.

Perché il mercato premia l’elettronico

Comodità, sicurezza e praticità.

Se avete una carta prepagata con 500€ e 30€ nel portafogli e perdete il portafogli avete perso 30€ e qualche ora per bloccare e rifare la carta. Se invece i 500€ fossero stati in banconota avreste perso ben 530 euro.

Spesso, inoltre, il pagamento con carta è più pratico, specie per cifre non tonde dove bisogna mettersi a cercare spiccioli per avere o dare il resto.

E, soprattutto, una carta si può usare per fare acquisti online in modo semplice, mentre i contanti no.

Infatti, nei Paesi dove il digitale è diffuso da più tempo, la moneta digitale ha superato nettamente l’utilizzo del contante. In Italia, soprattutto chi ha meno di 30 anni, vede ancora nel pagamento elettronico un qualcosa di macchinoso e per grandi acquisti, ma già i giovani hanno un’idea diversa e usano la carta ben più spesso: ormai anche i badge universitari sono carte prepagate, ed esistono, grazie al mercato e non ad una legge, carte che si possono già avere a 12 anni a condizioni decisamente vantaggiose.

È quindi prevedibile che con l’avanzamento tecnologico e l’aumento della disponibilità economica dei giovani che oggi, magari, sulla carta ci mettono giusto qualche soldo per il pranzo, il pagamento elettronico diventerà ancor più diffuso.

Ma è un libero mercato?

Ni. Infatti c’è una cosa che fa imbestialire i commercianti, specie quelli più piccoli: essere obbligati a dotarsi di un qualcosa che va pagato, dove spesso si deve anche pagare un abbonamento mensile.

Se andate dal fruttivendolo e vi chiede 15€ e glieli date in contanti avrà 15€, se pagate con la carta avrà qualcosa in meno tra commissioni e costi fissi.

Il governo dell’epoca legiferò prevedendo delle commissioni agevolate. Ma, come mero esercizio intellettuale, se invece la soluzione fosse lasciar fare al mercato? Stabiliamo l’obbligo del POS ma lasciamo liberi i commercianti di far pagare le commissioni ai clienti.

Ciò, forse, avrebbe danneggiato per alcuni mesi chi paga con carta, ma alla lunga estenderebbe la concorrenza, portando ad avere carte a commissione agevolata e a POS con commissioni più basse per gli esercenti, favorendo ancor di più l’adozione della moneta elettronica.

Sempre in nome del libero mercato bisognerebbe permettere, anche solo per ristretti spazi temporali, di non accettare contanti. Pensiamo a luoghi dove servono alti livelli di igiene o ai negozi notturni (per il rischio di furto, ndr).

Davvero impedirebbe l’illegalità non avere il contante? E davvero vogliamo essere sempre tracciabili?

C’è anche chi dice che, abolendo il contante, potremmo eliminare fenomeni come lo spaccio di droga, anche specificando che non bisogna avere paura di avere una lista completa di ciò che si compera se non si ha nulla da nascondere.

Per prima cosa, noi dell’Istituto Liberale crediamo che ci sia una soluzione migliore sullo spaccio, ossia la legalizzazione. Ma, comunque, è abbastanza naif credere che basti impedire agli spacciatori di avere il POS per bloccare il loro business. Anche immaginando che in tutta l’eurozona si elimini il contante e si paghi con carta non puoi di certo impedire fisicamente allo spacciatore di farsi pagare in franchi svizzeri e cambiarli, a meno di abolire la convertibilità dell’Euro…

Anche con i traffici economici illegali vale il medesimo ragionamento: L’assessore corrotto non smetterà di farsi corrompere, semplicemente troverà un modo nominalmente legale per farlo, ad esempio facendo un lavoro iperprezzato e fatturandolo regolarmente, oppure accettando corruzione-merce, come un bel viaggio di lusso.

Seconda cosa: il “nothing to hide argument” funziona solo quando si ha la certezza assoluta che il governo la penserà sempre come noi. Perché non esistono solo spese illegali, ma anche spese immorali.

Da cose innocenti, come una ragazzina con genitori bigotti che vuole comprare qualche preservativo per divertirsi col fidanzato e non vuole lasciarne traccia, a cose magari più serie che potrebbero rovinare una vita se la notizia venisse allo scoperto.

Inoltre, l’esistenza del contante è una questione di libertà di scelta: Scegliere se usare o no il servizio di intermediazione, che si paga, delle banche.

Perché non lasciar lavorare solo il mercato?

Perché i politici vogliono meriti da attribuirsi e perché pensano di poter portare ordine nel caos di mercato. È un po’ come quando aumentano o calano le bollette del gas e i politici si danno meriti o demeriti e poi, alla fine, si scopre che la variazione era dovuta a qualche evento in Russia.

Tuttavia le proposte anti-contante hanno un problema: portano a estremizzare la questione. Se il processo di mercato difficilmente vedrebbe opposizioni, proporre la “tassa sui contanti” porta ad arroccarsi inutilmente in posizioni pro o contro la moneta elettronica, rischiando addirittura di rallentare l’adozione massiva delle nuove tecnologie.

È abbastanza improbabile che il contante scompaia completamente. Ci sarà sempre chi preferirà il contante, per abitudine o per ragioni ideologiche o economiche, così come ci saranno usi dove il contante sarà molto probabilmente preferito come nel dare la mancia ai bambini o per prendere un caffè sotto casa.

Ma, grazie al ricambio generazionale ed all’aumento della domanda, arriveremo anche in Italia ad avere giornate in cui un negoziante di minuteria la moneta fisica non la toccherà nemmeno.

E non servirà alcuna legge per farlo.

Liberalismo e fiducia negli esseri umani

Il concetto di lotta di classe è ormai quasi scomparso dal discorso pubblico. Oggi i politici e gli intellettuali che si rifanno a ideologie stataliste non parlano più di abolire la proprietà privata o di sterminare la borghesia; parlano invece della miseria ed infelicità dei poveri e degli emarginati, sostengono di avere a cuore la comunità, di voler aiutare e proteggere le persone.

Non spiegano mai, però, per quale ragione pensano di dover intervenire.  Non rispondono mai a una semplice domanda: perché credete che gli esseri umani non siano in grado di cavarsela con le proprie forze (o aiutandosi volontariamente a vicenda)?

La realtà è che alla base di questi discorsi c’è una profonda sfiducia nei confronti della bontà e dell’intelligenza degli esseri umani.

La convinzione che gli individui siano incapaci di provvedere a sé stessi e che serva una mano benevola dall’alto a guidarli. La mano è ovviamente la loro, quella di una saggia élite in grado di comprendere le esigenze del popolo ignorante e meschino e di guidarlo verso destini migliori.

Questo atteggiamento di sfiducia verso il genere umano, è ciò che differenzia profondamente collettivisti e individualisti.

I liberali guardano il mondo odierno con gioia e stupore. Vedono un mondo dove il capitalismo e il libero mercato hanno condotto l’umanità a livelli di benessere mai sperimentati prima nella nostra storia.

Ciò è stato possibile grazie alla libera interazione di esseri umani, che hanno collaborato volontariamente portando ciascuno le proprie capacità e le proprie energie.

Questo risultato, se si guarda alla storia della nostra specie dalle origini fino all’età contemporanea, è tanto sorprendente da essere quasi miracoloso. Per quale ragione dovremmo affidarci a una guida dall’alto quando la cooperazione dal basso funziona così bene?  

Negli ultimi anni l’attacco al liberalismo è stato condotto sfruttando l’ascesa della Behavioral Economics[1] e la diffusione della psicologia cognitiva e delle neuroscienze[2].

Ricercatori premi Nobel come Kahneman o Thaler[3] hanno dimostrato quanto spesso gli esseri umani prendano decisioni sulla base di bias, cioè di rapidi e pre-determinati meccanismi mentali, senza effettuare veri ragionamenti logici.

Per fare qualche esempio: fornite un campione di controllo di un numero di riferimento: anche se casuale, le persone tenderanno a usarlo come base per le loro stime (“bias di ancoraggio”); ed è molto forte l’abitudine degli individui di accettare solo informazioni che confermano una loro teoria precedente, trascurando i dati contrari (“bias di conferma”)[4]. La nostra tanto vantata razionalità non è utilizzata poi così spesso!

Tutto ciò mette davvero in crisi l’impianto politico ed economico liberale? La risposta è no, per tre semplici ragioni: la prima è che decidere se un’azione sia razionale o meno dipende molto dal punto di vista e dal sistema di valori del singolo individuo; per fare un esempio, il suicidio è considerato abitualmente una decisione irrazionale, ma quando è compiuto per ragioni patriottiche (come dai kamikaze giapponesi durante la Seconda Guerra Mondiale) si può ancora considerare tale? E chi lo decide?

La seconda è che gli stessi bias affliggono coloro che dovrebbero correggere e guidare gli altri esseri umani; e gli errori di chi è al potere sono ben più pericolosi di quelli della gente comune. La terza è che gli esseri umani sono molto bravi ad imparare ad agire con razionalità.

Vorrei in particolare approfondire quest’ultima osservazione. Molti degli esempi di irrazionalità dimostrati dagli psicologi cognitivi riguardano casi in cui gli individui devono affrontare situazioni nuove e prendere rapide decisioni; in questi casi è facile commettere errori, anche grossolani.

Le cose cambiano, però, quando si osserva il mondo reale: gli esseri umani si dimostrano sorprendentemente adattabili e capaci di modificare opinioni e comportamenti, quando hanno sufficiente tempo per riflettere e tentativi per guadagnare esperienza.

Un esempio perfetto in questo senso fu condotto in laboratorio nel 2004, simulando il funzionamento di un mercato competitivo in asimmetria informativa[5]; dopo appena una decina di interazioni i partecipanti ricrearono in maniera quasi perfetta l’andamento del mercato previsto dalla teoria economica, smentendo chi si aspetterebbe decisioni completamente irrazionali e basate su calcoli irrealistici.

Basti pensare, in scala più breve, a come siamo in grado di risolvere piccoli problemi della nostra vita quotidiana, quando impieghiamo le nostre capacità di ragionamento (dove spendere meno per i nostri acquisti, che strada seguire per evitare il traffico, ecc. ecc.).

La realtà è che l’essere umano ha capacità di apprendimento e adattamento impressionanti; e dispone di grande fantasia e immaginazione.

Queste qualità vanno sfruttate e incoraggiate, perché ci hanno già portato a livelli di benessere elevati e possono portarci ancora più in alto. Accettare una direzione dall’alto significa rinunciare alla nostra intelligenza e alla nostra capacità di coordinarci e aiutarci a vicenda, come liberi individui.


[1] La Behavioral Economics o economia comportamentale è una branca dell’economia che studia gli effetti di fattori sociali, psicologici e culturali sulle decisioni economiche degli individui

[2] Le neuroscienze e la psicologia cognitiva studiano rispettivamente il funzionamento del sistema nervoso e il modo in cui gli esseri umani formulano pensieri e ragionamenti

[3] Daniel Kahneman è uno psicologo israelo-americano, vincitore del Premio Nobel all’Economia nel 2002; Richard Thaler è un’economista americano, vincitore del Premio Nobel all’Economia nel 2017

[4] Per approfondimenti: Kahneman D., Thinking, Fast and Slow, 2011;Thaler R. e Sunstein C., Nudge: Improving Decisions about Health, Wealth and Happiness, 2008

[5] Esempio tratto da Levine D., Is Behavioral Economics Doomed?, 2012, capitolo 2

Perché volere prodotti stranieri sui nostri scaffali?

In Italia c’è un’ossessione per il Made in Italy agroalimentare, ovviamente sfruttata da vari politici. Se una persona vuole mangiare solo made in Italy, posto che ciò sia possibile, è una sua libertà fondamentale e inviolabile.

Tuttavia molti, dalla casalinga di Voghera al deputato, non si accontentano di scegliere legittimamente per la propria vita ma vorrebbero imporre la propria visione a tutti.

L’idea per cui il mercato cattivo uccide il Made in Italy contribuisce non poco all’atteggiamento anti-mercatista italiano: per la Lega, il libero mercato è un caos totale, una visione simile a quella di Fratelli d’Italia che contrappone l’apertura del mercato alla tutela del Made in Italy; il M5S vuole ogni tanto i dazi e, inoltre, condivide con Forza Italia un’idea fortemente dirigista dove si deve avere un sistema statale preposto all’esportazione del Made in Italy nel mondo. Il PD, spesso accusato di svendere il Made in Italy perché solitamente meno scettico della media sul libero commercio, purtroppo segue questo copione virandolo un po’ a sinistra e mettendoci di mezzo le multinazionali.

Ma per quali ragioni, fermo restando gli standard sanitari e l’onestà comunicativa, dovremmo importare prodotti stranieri? Ecco cinque ragioni.

Libertà individuale

Magari voi volete mangiare solo Made in Italy, è una scelta legittima. Ma magari c’è chi preferisce prodotti stranieri e questa preferenza non danneggia nessuno. Non è moralmente corretto, quindi, ostacolarla.

Dobbiamo abituarci ad una semplice idea: il mercato è democratico e ogni acquisto è un voto. Si può fare propaganda per la propria parte ma sopprimere un prodotto per favorirne un altro non è troppo diverso dal sopprimere un partito politico.

Di solito chi porta argomenti contro il libero commercio parla di “nostre tavole”. Niente di più sbagliato: la tavola è la mia, pago io, e vorrei decidere cosa metterci sopra.

Aiuta i più poveri

Magari per noi i trenta centesimi che ci possono essere di differenza tra un prodotto straniero e uno italiano sono poca cosa. Preferiamo un prodotto più buono spendendo di più, è la natura umana. Lo faccio anche io, quando prendo la pizza la prendo sempre con la bufala perché mi piace di più.

Ma per gli italiani più poveri quei trenta centesimi sono tanto. Sono soldi che potrebbero usare per comperare altro, per risparmiare, per realizzare un sogno o per investire e accrescere il proprio reddito.

Chiaramente di per sé trenta centesimi sono pochi ma sul totale il peso è considerevole. Un esempio abbastanza noto è quello del tanto odiato olio tunisino: costa significativamente meno rispetto all’equivalente italiano. Magari un signore anziano con la pensione minima preferirà condire la propria insalata con quest’olio, che a detta degli esperti non è affatto male, e avere più soldi per comperare altro, ossia abbiamo aumentato il suo potere d’acquisto.

Togliere la libertà di scelta danneggia soprattutto le fasce più deboli della società, ossia quelle che più beneficerebbero da prodotti a basso prezzo, nonché quelle a cui nominalmente i partiti si appellano di più.

Aiuta i Paesi lontani a svilupparsi

Si parla tanto di “aiutarli a casa loro”. E comperare i loro prodotti è il miglior modo di farlo. Gli aiuti continuati, come ben fa notare il buon Stossel in questo video, uccidono l’imprenditoria e quindi rendono, alla lunga, sempre più dipendenti dagli aiuti stessi.

Comperando, invece, si muove l’imprenditoria locale. Magari l’agricoltore che raccoglie a mano e fa un buon raccolto, riuscendolo a vendere in Occidente, potrà coi ricavi comperare nuovi strumenti e accrescere ulteriormente il proprio benessere economico e quello della propria comunità, in un ciclo virtuoso.

Mette in moto la concorrenza

C’è chi definisce l’Europa un ideale, chi un male necessario e chi come Satana. Io la definisco un’enorme organizzazione dedicata al limitare la concorrenza dell’agricoltura: infatti il 40% del bilancio europeo è destinato alla PAC, ossia la Politica Agricola Comunitaria. Il risultato? Meno del 2% del PIL europeo deriva dall’agricoltura.

In Nuova Zelanda l’agricoltura fu liberalizzata durante un governo laburista. Si temeva la distruzione della locale agricoltura ma, invece, oggi conta il 7% del PIL e della forza lavoro. In sostanza non esiste alcuna contrapposizione tra ruralismo e liberismo, anzi, le liberalizzazioni portano di solito ad un’agricoltura migliore.

La concorrenza non porterebbe alla fine della nostra agricoltura ma, invece, ad un miglioramento tecnologico: se esiste il caporalato, oggi, è soprattutto a causa della necessità di provvedere ad una richiesta agricola di basso livello, alla quale solo lavoratori di basso livello e pagati poco possono rispondere.

Quindi, se ci fosse più concorrenza, si arriverebbe a mutamenti tecnologici e dimensionali dell’impresa agricola in un settore con una dimensione ideale dettata dal mercato e non dalla Commissione europea. In questo modo, ed anche grazie alla tecnologia, è ben probabile che il benessere prodotto dall’agricoltura aumenti.

Dà importanza alle eccellenze

Ormai cito Giovanni Adamo II del Liechtenstein così spesso che, informalmente, chiamo il suo pensiero “la scuola di Vaduz“; d’altronde non è colpa mia se ha detto qualcosa di buono su qualunque cosa io scriva.

In un sistema protezionista ci sarà sempre una certa tendenza all’autarchia. Se l’industria agricola deve provvedere a produrre anche beni che si potrebbero produrre all’estero con una spesa minore, sta di fatto distogliendo persone e soldi dall’economia produttiva ma sta anche togliendo spazio alle eccellenze nazionali.

Ma, come fa notare il Principe, nel mondo odierno i commerci la fanno da padrona. Conviene puntare ad eccellenze da vendere a caro prezzo e delegare la produzione di beni semplici al mercato aprendo anche al mercato internazionale, invece di arroccarsi sulle proprie produzioni.

Questa, tra l’altro, è una delle ragioni per cui nel pensiero del Monarca gli Stati piccoli tendono ad essere più prosperi rispetto a quelli grandi: commerciano su tutto, avendo poche risorse naturali.

L’esempio del riso

Si parla tanto del riso italiano, minacciato dalla concorrenza sudasiatica. Eppure, parlando con un imprenditore del settore alimentare, ho scoperto una realtà che mai avrei immaginato: l’eccellente riso italiano sta scomparendo.

Più del 60% della produzione nazionale è Indica, un riso ad alta resa usato soprattutto per sushi, contorni, e insalate di riso. E, come dice il nome stesso, è un riso tradizionale asiatico.

Trovare riso d’eccellenza come il Carnaroli (dev’essere un vero Carnaroli poiché la legge permette di chiamare Carnaroli un riso che vi è simile visivamente ma non organoletticamente) è diventato quasi impossibile.

Il riso italiano è diventato un riso cinese prodotto in Valpadana. Perché? Perché all’industria è stato chiesto di soddisfare la domanda di questo riso nel nome del nazionalismo alimentare, del “bisogna tutelare il riso italiano”.

Cosa potrebbe succedere se iniziassimo a importare il riso asiatico ad alta resa dall’Asia? Sicuramente libereremmo risorse per tornare a produrre il riso italiano d’eccellenza, quello che si vende a caro prezzo in tutto il mondo e permette di fare deliziosi risotti, invece di fare un riso normalissimo che chiunque può produrre senza particolare talento.