Ci serve una Repubblica direttoriale?

Abbiamo appena assistito ad una crisi di governo. Una crisi figlia del nostro assetto costituzionale che, pur volendo dare un bel po’ di potere allo Stato, voleva evitare un forte accentramento politico.

Da tempo mi interrogo sulla forma di governo migliore per uno Stato liberale. A mio parere questa forma dovrebbe avere principalmente tre caratteristiche:

  • Rappresentare quanti più cittadini possibile;
  • Avere una visione a lungo termine e un certo potere di implementarla;
  • Non essere schiava delle logiche elettorali.

Ho scartato subito la Repubblica presidenziale: essendo un ruolo elettivo si rischia di perdere una qualsiasi garanzia e di legare anche la più importante carica del Paese a logiche a breve termine per ottenere voti. Se è accettabile in grandi Stati federali in un sistema di controlli e contrappesi, in Stati unitari invece rischia di essere un pericolo per la prosperità.

La Repubblica parlamentare è migliore ma di poco: il Presidente viene eletto dai Partiti ma dipende un po’ meno da essi che in uno Stato presidenziale, tende ad avere una visione di termine leggermente maggiore ma comunque resta il fatto che, avendo pochi poteri, i problemi si spostano al premier e, premierato debole o forte che sia, resta il problema della visione a breve termine e delle logiche elettorali. E anche se decidessimo, come accade in Cechia o in Austria, di eleggere direttamente il Presidente, poco cambierebbe.

Verrebbe naturale pensare alla Monarchia ma, Liechtenstein a parte essendo un’eccezione, le Monarchie europee sono solo leggermente più stabili delle Repubbliche, per il semplice fatto che hanno il medesimo sistema istituzionale sostituendo il Capo di Stato eletto con uno non eletto e vitalizio.

Un Capo di Stato collegiale?

Nel 1160, tuttavia, i Lombardi idearono un particolare sistema per la propria alleanza: un capo di Stato collegiale. La Lega Lombarda, che era una confederazione con compiti commerciali, giudiziari e politici oltre che militari, aveva un consiglio denominato universitas composto da membri dotti della società nominati dai singoli comuni.

Tale impostazione venne ripresa dai rivoluzionari francesi e, in tempi più recenti, dalla Confederazione Svizzera, che ad oggi rappresenta l’unico Stato ad adoperare questo sistema.

Si parla, in questi casi, di repubblica direttoriale: il Capo di Stato è collegiale ed è composto da pari; se c’è una figura unica, come il Presidente della Confederazione, assume esclusivamente un ruolo di rappresentanza poiché è un primo tra pari.

Perché è un sistema stabile?

Perché più o meno tutti sono rappresentati nel consiglio di governo. Nel sistema elvetico c’è un accordo de facto tra le forze politiche, denominato “formula magica”, ma si può anche immaginare una formula proporzionale direttamente prevista per legge.

Il governo, collegialmente, deciderebbe su vari temi rendendo possibile convergenze parallele e non obbligando a creare alleanze fisse: ogni partito sceglierebbe i migliori uomini e costoro, nel governo, deciderebbero.

E qualora non vi sia un accordo può decidere il popolo, nella forma di Parlamento o con voto diretto. Non è un caso che in Svizzera non esistano elezioni anticipate e sia la Patria della democrazia diretta: è una semplice conseguenza del sistema direttoriale.

Un’altra conseguenza potenzialmente piacevole è che il Capo dello Stato collegiale, se decide all’unanimità, rappresenta gran parte della popolazione. Pensate ad un potere di veto forte (ad esempio superabile solo per voto popolare o con un’elevata maggioranza di entrambe le camere): se venisse dato a Mattarella da solo sarebbe un conto, verrebbe sicuramente contestato, mentre se un consiglio che vede a destra Giorgia Meloni e a sinistra Pietro Grasso decidesse unanime che una legge ha qualcosa che non va forse tutti i torti non li avrebbe.

Certo: in Italia collaborare col nemico si chiama “inciucio” se lo fa l’avversario, se invece lo fanno gli alleati si chiama accordo. Ma vediamo bene i risultati: instabilità, riduzione della sovranità popolare, trasformazione del parlamento in un passacarte dell’esecutivo e, in definitiva, uno Stato peggiore.

Dove invece l’inciucio è legge, dove la “governabilità” sarebbe vista come un concetto degno di una dittatura, dove in ogni livello, dallo Stato federale al più piccolo comune montano, bisogna giungere ad accordi e dove, per buona pratica istituzionale, la minoranza del governo sostiene le decisioni prese collegialmente invece di aprire le crisi di governo defollowandosi su Instagram, si ha stabilità politica, economica e una vera partecipazione popolare.

Io, un pensierino, ce lo farei.

Il danno nascosto del colonialismo: l’affermazione del terzomondismo

Quando si parla di colonialismo, non manca l’elenco di danni provocati alle colonie da parte dei conquistatori europei, tra cui figurano tragedie come schiavitù, segregazione, omicidi e depredazione.
Ma benché questi eventi siano stati drammatici per il futuro dei paesi colonizzati, un altro e ben più insidioso effetto ha condannato le ex-colonie africane e asiatiche: il disprezzo per il libero mercato, visto come un sistema tipico dei conquistatori e, per usare un termine collettivista, una “roba da bianchi”.

Ci sono ormai pochi dubbi sull’efficacia del libero mercato nell’arricchire e migliorare l’economia dei paesi che lo adottano: è inequivocabile la relazione – peraltro parecchio forte – tra libertà economica e molti altri indicatori di ricchezza e benessere.

Tuttavia, la percezione di un sistema è vitale perché questo sia adottato e se in genere le colonie non godevano del libero mercato – perché costrette a commerciare solo con il paese colonizzatore di riferimento – i paesi europei e nordamericani avevano iniziato a liberare le loro economie, di fatto facendo percepire alle colonie non solo di essere schiavizzate con la forza – come in effetti erano – ma anche di essere oppresse da un capitalismo di cui non vedevano i frutti, in realtà perché questo capitalismo per loro non veniva applicato o non potevano accedervi.

E non è quindi un caso che in larga parte le ex-colonie africane, asiatiche e mediorientali abbiano economie estremamente represse, come questo ranking mostra: la liberazione dai colonizzatori è stata il cavallo di battaglia del terzomondismo, movimento socialista diffuso in Medio Oriente, Indocina e Africa.
E non è nemmeno un caso che i paesi di queste aree, ad oggi, siano ancora parecchio sottosviluppati e privi di democrazia e libertà.
Di certo, però, non sono privi di ricchezze e potere per i leader politici, distorsione questa sicuramente meno presente nei paesi più liberi economicamente dove la correlazione tra chi produce ricchezza e chi la detiene è infinitamente più alta.

Casi eclatanti di terzomondismo che hanno intrappolato le economie per decenni sono il Vietnam, dominato dalla figura di Ho Chi Minh ed il Congo, per cui Patrice Lumumba ancora oggi rappresenta un’icona del pan-africanismo.
Ma per quanto personaggi come questi siano osannati come icone anti-colonialiste e liberatori dal giogo atlantico, le loro politiche economiche e sociali hanno direttamente portato miseria e conflitti all’interno dei loro paesi.
Per fare qualche esempio, il Congo, ancora non libero economicamente, è uno dei paesi più poveri ed instabili d’Africa, il Vietnam ha cominciato a crescere solo dopo una liberalizzazione dell’economia ancora oggi non comparabile a quella di altre nazioni asiatiche come Giappone e Corea del Sud ed infine il Laos, che pur avendo una simile popolazione alla liberista Hong Kong, ha un PIL pari al 5% di quello della famosa città-stato proprio per via della conversione al comunismo, in diretta protesta al passato da colonia francese.

E la responsabilità di tutto questo non è soltanto attribuibile alla demagogia della nuova classe dirigente che ha ammassato fortuna tramite l’esercizio del potere come nel Medioevo in Europa, ma anche e soprattutto ai soprusi dei paesi colonizzatori (si ricordi il caso del Congo – Kinshasa appunto, colonizzato dal Belgio), rei di aver creato il pretesto per intrappolare i paesi colonizzati tramite la retorica dialettica dell’oppresso e dell’oppressore che è il cavallo di battaglia del marxismo culturale .

Ma lentamente questi paesi si stanno emancipando dal giogo del socialismo: nel continente africano Rwanda, Botswana ed Etiopia stanno liberalizzando le loro economie.
Il primo, il più libero economicamente della regione, sta crescendo con estrema rapidità e sta ottenendo interessanti traguardi tecnologici come il primo smartphone made in Africa, il secondo è ad oggi il paese con il PIL pro capite più alto dell’Africa meridionale ed il terzo sta rapidamente crescendo e ponendo fine a sanguinosi conflitti grazie al nuovo Nobel per la Pace Abiy Ahmed. È abbastanza noto invece il successo raggiunto dalle ex-colonie inglesi Singapore ed Hong Kong che hanno preferito adottare sin da subito un sistema di libero mercato.

Il danno della colonizzazione è stato dunque duplice: durante per le violenze ed i soprusi e dopo per aver creato un’immagine distorta del libero mercato che ha portato a lunghi (alcuni ancora presenti oggi) periodi di povertà e violenza nati dalla retorica socialista.