La puerilità del dibattito politico economico in Italia

Sfido i lettori a indovinare chi ha pronunciato le frasi di seguito (trovate le risposte in nota):

  1. “Le imprese si reggono sui consumi: perciò sui consumatori dobbiamo fare leva”;
  2. “La manovra ha un piano di investimenti pubblici e di sostegno alle imprese che non ha precedenti rispetto a tutte le altre manovre economiche”;
  3. “È evidente che si può sforare [la regola del 3%]: si tratta di un vincolo anacronistico che risale a 20 anni fa”;
  4. “Dare una mano agli ultimi è anche il miglior modo per rilanciare i consumi”[1]

Viviamo in un Paese dove la polarizzazione politica è sempre più forte e gli elettori si dividono in tifoserie che si guardano con odio reciproco.

Questo rende ancora più sorprendente l’uniformità del dibattito economico italiano. Con pochissime eccezioni, tutti i grandi partiti italiani concordano sulla ricetta da somministrare al Paese: spesa a deficit per rilanciare la domanda interna.

Le citazioni di cui sopra lo dimostrano perfettamente e quasi nessuno propone altre soluzioni. Poi certo, ci sono gradazioni diverse: chi propone più investimenti pubblici, chi sovvenzioni alle imprese, chi minori tasse o sussidi alle fasce più povere, ma la sostanza non cambia.

Tralasciando la propaganda, il ragionamento economico alla base delle proposte è all’incirca il seguente: maggiore spesa pubblica e/o minori tasse significano maggiori consumi; maggiori consumi, grazie al moltiplicatore keynesiano[2], significano maggiore crescita, più che sufficiente a ripagare il deficit accumulato.

Questo ragionamento è prova della profonda ignoranza (o malafede?) dei politici italiani in materia economica. Il moltiplicatore keynesiano non è una bacchetta magica e ha grosse incognite: punto primo, il denaro preso a prestito per finanziare il deficit ha un costo sulle casse dello Stato, in termini di interesse; punto secondo, se il denaro viene prestato allo Stato non può essere prestato ai privati, i cui investimenti dunque si riducono; punto terzo, il moltiplicatore keynesiano si basa sull’aspettativa che il maggior denaro a disposizione dei cittadini sia speso e messo in circolazione nell’economia, ma potrebbe anche essere risparmiato (in effetti è sempre parte speso e parte risparmiato, con proporzioni variabili); punto quarto, chi consuma potrebbe acquistare prodotti importati, diminuendo i benefici per le imprese locali; ed infine, senza investimenti dal lato dell’offerta la produzione non può aumentare né di quantità né di qualità[3].

Insomma, l’effetto positivo, di lungo termine, del moltiplicatore keynesiano non è affatto scontato. A questo aggiungiamo che secondo gli studi più recenti solo raramente, in tempi di recessione profonda, il moltiplicatore è maggiore di 1; più abitualmente non supera lo 0,6[4].

Tradotto, significa che per ogni euro speso, il PIL del Paese cresce di 60 centesimi circa: la strada maestra per accumulare sempre più debito fino ad un inevitabile default.

Ciò che manca nel dibattito politico italiano sono i problemi di fondo dell’economia italiana, riassumibili in un paio di statistiche: siamo all’80° posto per il livello di libertà economica e al 51° per la facilità di fare impresa.

Siamo così in basso[5] perché abbiamo un sistema giudiziario dai tempi lunghissimi e incerti, una tassazione eccessivamente alta, una burocrazia opprimente e una legislazione contorta e difficile da affrontare. Sono tutti problemi ben noti nel nostro Paese e che non si risolveranno certo con altri 2 o 3 punti percentuali di deficit; la domanda allora è un’altra: perché non se ne parla durante il dibattito politico?


[1] 1) Silvio Berlusconi, parlando della futura manovra finanziaria nel Novembre 2008 https://aostasera.it/notizie/news-nazionali/berlusconi-piu-consumi-per-evitare-crisi-finanziaria-estrema/

2) Matteo Salvini, parlando della manovra finanziaria nel Dicembre 2018 https://www.ilmessaggero.it/politica/salvini_diretta_facebook_basta_insulti_minacce-4150917.html

3) Matteo Renzi, Gennaio 2014, proponendo un’alleanza al Movimento 5 Stelle https://www.ilfattoquotidiano.it/2014/01/02/renzi-richiama-grillo-caro-beppe-insieme-faremmo-grandi-cose/829856/

4) Alessandro Di Battista, parlando della manovra finanziaria nell’Ottobre 2018 https://www.fanpage.it/politica/di-battista-manovra-di-sinistra-pronto-ad-andarla-a-spiegare-nelle-piazze-italiane/.

[2] Il “moltiplicatore” è un concetto elaborato dal celebre economista inglese John Maynard Keynes, in base al quale un incremento della domanda aggregata porterebbe a un incremento più che proporzionale del reddito nazionale (PIL).

[3] Per approfondimenti, ad esempio http://vonmises.it/2018/06/01/il-moltiplicatore-keynesiano-e-unillusione/; https://www.adamsmith.org/blog/tax-spending/for-every-multiplier-there-is-a-de-multiplier; https://www.cato.org/publications/commentary/faithbased-economics.

[4] Ad esempio si vedano https://www.ecb.europa.eu/pub/pdf/scpwps/ecbwp1267.pdf?5ed52b5ab649fecb6236f72c090252f3; https://www.imf.org/external/pubs/ft/tnm/2014/tnm1404.pdf; https://www.imf.org/external/pubs/ft/wp/2013/wp1301.pdf;

[5] Per capire meglio la sconfortante situazione, nel confronto con i soli Paesi OCSE (l’organizzazione che raggruppa gli Stati più sviluppati al mondo) siamo rispettivamente 36° e 32° su 37 (fonti: https://www.doingbusiness.org/en/rankings; https://www.heritage.org/index/ranking)

Più Europa non è (sempre) uno slogan liberale

In Italia tutti gli appartenenti alla frastagliata galassia liberale sono convintamente filo-Unione Europea e spesso invocano più Europa come soluzione ai problemi che di volta in volta si discutono.

Cosa significa più Europa?

Analizziamo in breve cosa può significare l’invocazione di più Europa. Chi utilizza questo slogan sostiene in generale che debbano aumentare le materie direttamente gestite dall’Unione Europea, che la legislazione europea debba crescere e intervenire in ambiti sempre maggiori, che le istituzioni europee debbano coordinare e talora dirigere in maniera ancora più decisa le politiche degli stati membri.

Ebbene, tutto ciò non è esattamente in linea con alcuni dei principi fondamentali del metodo liberale.

L’Unione Europea è un’istituzione sovranazionale democratica con finalità politiche, quindi un potere pubblico a tutti gli effetti, per di più caratterizzato da un assetto burocratico enorme e costoso e da una limitata possibilità di controllo “dal basso”, viste le dimensioni continentali.

Una critica liberale

Chiedere più Europa è a mio parere un obiettivo discutibile che sovente si scontra con due principi fondamentali del Liberalismo: la limitazione del potere e la negazione del “punto di vista privilegiato”.

Il principio di limitazione del potere

Riguardo al primo punto, dire acriticamente più Europa equivale a dire più potere pubblico, più intervento pubblico dell’Europa sugli Stati (quindi indirettamente sui cittadini) o direttamente sugli individui. Sia ben chiaro, io non nego che questo sia necessario in qualche settore, anzi sono pronto anche a mettere la firma nero su bianco dove sarebbe necessario questo maggiore intervento.  Per esempio io ritengo che su Difesa, Politica Estera e Immigrazione la sovranità dovrebbe essere attribuita all’Unione Europea in maniera sostanziale.

Ma attenzione a dire più Europa sempre e comunque, perché ogni potere pubblico, anche e a maggior ragione quello europeo, deve essere limitato e controllato, altrimenti, per la legge di gravità del potere, diventa ipertrofico e liberticida.

Cosa succederebbe se creassimo una Unione Europea con grandi poteri in ogni campo e poi alle prossime lezioni europee vincessero forze nazionaliste e illiberali? Avremmo consegnato uno strumento potentissimo nelle loro mani.

Non cadiamo nel rischio di miticizzare l’Unione europea come fanno molti partiti dell’area liberal e socialista. Quando sento frasi del tipo “La nostra stella polare è l’Europa”, mi viene in mente il famoso “sol del avvenir” di Sovietica memoria e questo è solo un esempio della visione dogmatica e teleologica che circonda l’Unione Europea. Insomma, bisogna stare alla larga dall’ideologia secondo la quale ad ogni costo bisogna aumentarne le funzioni e i campi di intervento.

La negazione del “punto di vista privilegiato” sul mondo.

E qui mi ricollego al secondo punto: per tutte le forze Euro-fanatiche l’Unione Europea è diventata il nuovo “punto di vista privilegiato” sul mondo. Un punto di vista elevato, illuminato, infallibile che quindi non si discute ma che al contrario va recepito. Quante volte abbiamo sentito la frase “va recepita la direttiva europea n° 123”. Ormai ci siamo abituati e lo accettiamo acriticamente, come farebbe un funzionario sovietico con una direttiva proveniente “dall’alto”.

Invece un liberale ha il dovere di dubitare, ma soprattutto di rifiutare ogni pretesa di infallibilità e di possedere una conoscenza superiore, privilegiata sulla realtà. Non a caso Bruxelles è popolata da una tecnocrazia autoreferenziale e convinta della propria superiorità intellettuale.

L’UE sta diventando il nuovo “legislatore onnisciente” che tutto conosce, tutto decide e tutto risolve. E invece non è così, un liberale deve rifiutare con forza tale paradigma.

Una Unione “forte ma poco affaccendata”.

Una federazione “leggera” di stati europei serve, serve tantissimo, ce lo richiedono le sfide della modernità e della globalizzazione, ma bisogna evitare di beatificare l’UE ad ogni costo. Io lo dico forte e chiaro, W l’Europa, W l’Euro, abbasso i nazionalismi! Però il super-stato europeo burocratizzato, tecnocratico e illimitato questo no, non lo possiamo proprio accettare! Vogliamo una Europa che sia, come direbbe Roepke, “forte ma poco affaccendata”.