Sindacati: violenze spacciate per libertà?

Se ripercorriamo la storia italiana, ma anche estera, possiamo notare come la violenza sia qualcosa di illegale per chiunque. Almeno apparentemente. Dipende, come ti chiami. Se ti chiami Sindacato, magari la violenza diventa espressione di libertà , di bontà. Magari è lo Stato a considerare positivo l’atteggiamento altamente pericoloso del Sindacato. Prima di continuare, avviso il lettore che mi riserverò di inserire qualche parte del celebre testo “Come si rovina un paese”, scritto da Sergio Ricossa.

[…] (1969, ndr) Il PCI e i sindacati chiedono e ottengono. La Confindustria concede alla Triplice sindacale l’abolizione delle zone salariali, verso una eguaglianza delle paghe e la caduta degli steccati tra operai e quadri. Da parte sua, il governo vara uno “Statuto dei lavoratori”. Dovrei essere lieto dello statuto: sono anch’io un lavoratore. Ma vi vedo dei semi antidemocratici, come sempre quando non si tutela il cittadino, ogni cittadino, ma solo un cittadino particolare (non importa se frequente e benemerito come il lavoratore). Tanto più che all’interno della categoria si scorge qualche lavoratore più previlegiato degli altri, fino al vero e proprio innalzamento del sindacalista sopra il livello del cittadino comune.

L’Articolo 39 della Costituzione italiana annuncia che “L’organizzazione sindacale è libera”. Quella che poteva rivelarsi una risposta storica al Fascismo, periodo in cui vennero sciolti o ridimensionati dall’estremo controllo dello Stato Corporativista Fascista. Ma quella che poteva rivelarsi una vittoria della libertà di associazione, almeno per i costituenti, non pare abbia avuto un percorso di continuità, all’insegna della libertà. Probabilmente siamo andati molto più oltre. L’impressione è che il sindacato abbia acquisito un potere superiore; un potere ancora maggiore rispetto a quanto previsto dalla Costituzione: questo lo possiamo riscontrare anche da certe leggi e certe politiche, non solo italiane.
In Gran Bretagna nel 1906 venne approvato il Trade Dispute Act che permetteva “al sindacato l’esenzione della responsabilità civile”. Negli Stati Uniti, nel 1932, approvando il Norris-La Guardia Act, si annunciò che il sindacato aveva tra le mani “l’assoluta immunità per trasgressioni compiute”. In Italia, lo Statuto dei Lavoratori non era solo lo statuto che legittimava certi diritti dei lavoratori, ma esaltava la figura, oltre ogni limite, del Sindacato.

[…] Mi correggo: il danno peggiore sarà morale, non economico. Nelle fabbriche si è imparato che la violenza paga. Gli industriali si sono umiliati fino a riassumere col tappeto rosso i picchiatori di chi tentavano di sbarazzarsi. E sovente si trattava di lavoratori che picchiavano altri lavoratori, capi-squadra, capi-officina. Nelle scuole, idem. Violenza significa meno studio, promozioni più facili.

Risultato? Da “libertà di associazione”, specie nel corso degli anni Settanta, siamo passati da l’obbligo onnipresente dei sindacati. Il dato allarmante è che la presunta libertà di associazione sindacale, ormai coercitiva e dannosa, viene legittimata dallo Stato e dall’opinione pubblica. Ma la domanda mi sorge spontanea: perché dovrebbero esistere senza consultare il parere dei singoli lavoratori? Perché quest’ultimi devono essere necessariamente ridimensionati e demoliti, in senso figurato. Che si tratti di un lavoratore o di un gruppo di lavoratori, è legittimo e normale tutelare la propria figura e la propria posizione. Si tratta di negoziare. Negoziare è libertà, come la libertà di contratto. Ma non è così normale che lo Stato imponga l’obbligo di un sindacato, non è così normale che il Sindacato debba partecipare solo perché è così dappertutto. Quasi a volere trovare, per forza, il pelo nell’uovo per far notare come i sindacati siano davvero dalla parte dei lavoratori. Quando lo Stato legittima la presenza del Sindacato non vuol dire che sta garantendo un diritto dei lavoratori, ma sta mettendo in condizione essi di poter fare quello che vuole, anche “picchettare”. Talvolta, agendo con pregiudizio.

[…] Il parlamento approva lo Statuto dei lavoratori, peggiorandolo o migliorandolo secondo i punti di vista. Esiste ormai una specie di presunzione di colpevolezza giuridica del datore di lavoro, sempre per la gioia dei “pretori d’assalto”, quelli dedicati ad assaltare il capitalismo.

Oggi i sindacati sono in palese declino. Eppure il rapporto con l’opinione pubblica risulta di alti e bassi. Seppur in alcuni casi i cittadini abbiano spesso rimproverato o denunciato certi comportamenti dei sindacati, l’impressione è che lo stesso cittadino non metta per nulla in discussione l’attuale posizione giuridica di questo istituto. La sensazione, forse errata o magari no, è che i sindacati abbiano sempre sofferto di quell’ansia di perdere appettibilità dinanzi ai lavoratori. Con il crescente declino, anche una “vertenza sindacale” – nata allo scopo di evidenziare una contrarietà rispetto alle retribuzioni o alle condizioni d’impiego -, sembra che venga adottata allo scopo di “farsi pubblicità” di fronte all’opinione riluttante. Nessuno riflette sul fatto che i sindacati, specie in Italia, siano tra i principali responsabili del declino economico. A tal proposito, sui danni dal punto di vista economico, ne parlerò un’altra volta.

Il potere coercitivo (e distruttivo) dei sindacati, oltre che infangare e calpestare qualsiasi principio di libertà, costituisce un puro danno per i lavoratori stessi. In primo piano, scusandomi per la banalità, coercizione verso il datore di lavoro, vuol dire anche coercizione nei confronti del lavoratore. Esercitare azioni coercitive limita la responsabilità del lavoratore, ma, soprattutto, lo ridimensiona. Anche lo stesso diritto di sciopero. Perché considerarlo diritto inalienabile dell’individuo se, nella maggior parte dei casi, il lavoratore è pressoché costretto a scioperare? Diversamente rischierebbe di lavorare in un ambiente ostile, in quanto i colleghi lo potrebbero considerare un “nemico”, qualcuno che non sta “dalla stessa barricata”.

(1963, ndr) Finalmente la Confindustria firma l’accordo sui metalmeccanici. Ma con l’aggiunta dei contratti integrativi aziendali ai contratti nazionali, i sindacati hanno raggiunto lo scopo di firmare la pace per poter ricominciare a combattere più di prima.

In sostanza, da libertà di associazione sindacale, siamo passati a legalizzazione di qualsiasi comportamento sindacale, seppur quelli estremamente penalizzanti nei confronto del prossimo. Ma i danni dei sindacati non si limitano a questo. Oltre alla sua libera attività coercitiva, ci sono ulteriori danni. Ma di questo ne riparleremo in un’altra occasione.

Paradisi fiscali: non parassiti, ma simbionti

Sul tema dei paradisi fiscali il dibattito è distorto come pochi altri: dall’accusa di parassitismo alla richiesta di un’imposta minima globale gli agitatori sono sempre e comunque rappresentanti o di paesi dalla tassazione altissima come Italia e Francia o di un’ala politica economicamente a sinistra.

Specialmente in un periodo di crisi queste voci si fanno più pressanti, ma c’è un motivo se nessun decisore politico ha effettivamente cercato di porre fine a regimi speciali di tassazione in altri paesi, specie in quelli dove vi è trasparenza e l’unico vero discriminante è la tassazione più bassa: i paradisi fiscali non solo stimolano la crescita economica nel mondo riducendo la tassazione ad imprese e persone, ma lo fanno anche nei paesi che si vedono “sottratti” aziende e gettito fiscale; di seguito, mostreremo come l’opposizione alla concorrenza fiscale non sia supportata da alcun dato empirico ma abbia solo motivazioni politiche, sfatando il luogo comune che i cosiddetti paradisi fiscali agiscano da parassiti nei confronti di giurisdizioni più fiscalmente onerose.

Da uno studio di Desay, Foley e Hines si evince che la presenza di paradisi fiscali in una regione promuove da un lato la riduzione dell’imposizione fiscale (che sappiamo stimola crescita economica), dall’altro stimola la crescita di vendite ed investimenti (variabili chiave per lo sviluppo di breve e lungo termine) proprio nei paesi non-paradisi. Più che di relazione parassitica dunque ha senso parlare di relazione complementare.

Un altro fattore che promuove la crescita economica è la profondità finanziaria (ossia la dimensione di banche, istituzioni finanziarie e mercati finanziari in un paese) come mostra la World Bank. La vicinanza a paradisi fiscali (Offshore Financial Centers come Lussemburgo e Svizzera) promuove la concorrenza bancaria e la profondità finanziaria, come mostrato da Rose e Spiegel: componenti che riducono il danno dell’eccessiva regolamentazione del comparto bancario grazie al quale oggi gode di sostanziose rendite economiche.

Di recente l’OCSE, che ha lanciato l’iniziativa per contrastare pratiche fiscali dannose sotto il nome di Action 5 BEPS non ha trovato dannose le pratiche fiscali di paesi come Lussemburgo, Paesi Bassi, Irlanda, Malta e Liechtenstein (comunemente menzionati come paradisi fiscali), i quali non compaiono nemmeno nella lista nera di paradisi fiscali non-cooperativi dell’Unione Europea (che è sicuramente un’organizzazione più politica), sfatando ulteriormente l’idea che i soli regimi fiscali più favorevoli rechino danno all’economia mondiale.

Insomma: se in passato paradiso fiscale era sinonimo di poca trasparenza, possibile riciclaggio di denaro e sperduti atolli, oggi sembra essere diventato un capriccioso: “qualunque paese che non ha tasse alte è un paradiso fiscale”, tipico approccio ideologico di chi è economicamente a sinistra.

Ma allora da dove derivano le fonti secondo le quali i paradisi fiscali rechino danno ai paesi “vittima” e debbano essere eliminati? Un’ONG britannica chiamata Tax Justice Network, il cui nome non fa trasparire proprio nulla d’imparziale, è alla base della maggior parte della ricerca anti-paradisi fiscali, analizzando il gettito fiscale sottratto ai paesi non-paradisi per promuovere la battaglia ai regimi fiscali più vantaggiosi. Eppure quando il TJN sostiene di aver screditato gli effetti positivi della concorrenza fiscale l’unica fonte è un link ad un sito chiamato Fools’ Gold che non funziona e sembra essere in disuso: le restanti fonti sono autoreferenziali e non hanno fondamenta accademiche. Insomma, gran parte delle proposte fiscali di questa organizzazione hanno ragioni puramente politiche e non giustificabili sotto alcun profilo economico.

La quantità di disinformazione sulla concorrenza fiscale è mastodontica, prestata a ragioni politiche ma che si scontra con la dura realtà e spiega perché nessun decisore politico e nessuna accademia abbia mai seriamente perseguito obiettivi di uniformazione fiscale. Ovviamente anche dal lato morale ci sono grosse riserve: le aziende e le persone non sono di proprietà dei burocrati che compongono un governo e nessuna giustificazione politica (che come dimostrato non ha nemmeno fondamenta pragmatiche) può cambiare questo principio.

Insomma: se la disonestà e l’ignoranza in materie sociali vengono spesso attribuite ai conservatori, quelle in materie economiche sono proprie, come sempre, dei progressisti e dei socialisti.

Fonti:

Effetti regionali sui paradisi fiscali:
https://www.nber.org/papers/w10806

Profondità finanziaria ed effetti dei paradisi fiscali: https://www.nber.org/papers/w12044
https://www.worldbank.org/en/publication/gfdr/gfdr-2016/background/financial-depth

OCSE: https://www.oecd.org/tax/beps/beps-actions/action5/

Blacklist EU: https://www.consilium.europa.eu/en/policies/eu-list-of-non-cooperative-jurisdictions/

Tax Justice Network e assenza di fonti peer-reviewed: https://www.taxjustice.net/faq/tax-competition/