Scuola libertaria, e dopo il voucher?

Ho pubblicato articoli sul tema istruzione dal mio punto di vista liberale classico, e mi è sempre dispiaciuto non potervi offrire anche la visione dei libertari. Fortunatamente ora, grazie a Mises.org, posso proporvi la traduzione di un articolo libertario del 2000 a cura di William Anderson sul lasciare l’istruzione al mercato. Pur non condividendone totalmente i contenuti l’ho trovata una lettura interessante che vi lascio volentieri.

I voucher scuola sono un punto caldo dell’attuale campagna elettorale e mettono contro democratici e repubblicani, con i primi che sostengono che danneggerebbero la scuola pubblica e i secondi che credono siano necessari per migliorare l’istruzione, specie per i più poveri. Come normale nel nostro panorama politico, sbagliano entrambi i lati.

I contrari ai voucher cadono quasi sempre in due categorie: i primi temono che siano una minaccia allo status quo della pubblica istruzione, visto che sempre più genitori iscriverebbero i propri figli nelle scuole private avendo i fondi per farlo, i secondi vedono invece nei voucher un cavallo di Troia che permetterebbe al governo di regolare le scuole private.

Essendo convinto che le scuole pubbliche siano viziate ogni oltre possibile sistemazione, per me è benvenuto ogni cambiamento che possa favorire la fine di questo mostro che danneggia le nostre libertà mentre svuota i nostri portafogli. Quindi, se credessi che i voucher fossero effettivamente capaci di danneggiare l’establishment delle scuole pubbliche, li sosterrei nonostante i miei timori.

In ogni caso, chi vede i voucher come un cavallo di Troia ha ragione, ma si perde un punto importante: i voucher non sono altro che una forma di “socialismo di mercato”. Vogliono giocare al mercato usando hardware socialista, una cosa che però in URSS ha mostrato di non funzionare e che quindi fallirebbe anche qui.

Il primo campione dei voucher fu Milton Friedman che li propose nel suo libro del 1962 “Capitalismo e Libertà” come maniera per migliorare l’istruzione per i giovani. Li ha poi riproposti nel suo “Liberi di Scegliere”, un best-seller, divenuto poi una serie di successo sulla televisione pubblica americana. I voucher, argomentava, creerebbero un mercato competititvo in un settore oggi dominato dal governo.

Le sue critiche della scuola pubblica sono fondamentalmente accurate. Le scuole pubbliche sono un monopolio intrusivo e ingombrante, come tutti i monopoli statali, e dunque falliscono quando si tratta di istruire bambini e ragazzi. Contro il monopolio Friedman e altri, soprattutto vari editorialisti neoconservatori del Wall Street Journal, propongono il già citato modello a voucher. A detta loro permettere ad ogni famiglia di usare il voucher per pagare la retta di una scuola privata darebbe ai figli l’opportunità di frequentare una scuola di qualità al posto di una decadente scuola pubblica.

L’idea sembra essere meritoria a prima vista, ma in verità ha vari problemi. Prima di tutto, come fatto notare da molti critici conservatori e libertari, i voucher – essendo finanziati dalle tasse – permetterebbero allo Stato di regolare le scuole private nella stessa maniera in cui regola gli istituti che, già oggi, ricevono sussidi statali. Dunque, il settore potrebbe trovarsi paralizzato e schiacciato molto presto dal governo. 

Ma passiamo alla seconda obiezione: l’obiettivo del voucher è quello di “creare un mercato” dove tale mercato non esiste. Purtroppo, come fatto notare molte volte da Murray Rothbard e da Ludwig von Mises, un mercato è impossibile senza veri diritti di proprietà. I voucher sono finanziati dallo Stato, coi soldi dei contribuenti. Non sono più privati di un’autostrada o del Ponte di Brooklyn.

Il problema della proprietà privata è importante: senza tali diritti il programma a voucher opererebbe a volontà degli enti statali, che potrebbero cambiarne i termini a loro piacimento. Un governo potrebbe dare un voucher senza farsi troppe domande, quello dopo potrebbe chiedere “responsabilità” o abolire direttamente il programma, se così chiedesse il sindacato dei docenti.

In sostanza, a differenza dell’apparato attuale, dove il governo fa pagare delle tasse per l’istruzione ma lascia comunque liberi di utilizzare quanto risparmiato per un’istruzione privata (d’altronde, miei soldi = mia proprietà), in un sistema del genere sarebbe lo Stato a pagare. Uno Stato che potrebbe limitarne l’uso su pressione di gruppi di interesse che non sono certamente interessati ai diritti delle famiglie.

Come fatto presente sempre da Rothbard e Mises, senza diritti di proprietà, il calcolo economico è una simpatica commedia degli errori. Ciò porterebbe a tre probabili scenari:

  1. La nuova domanda nel settore delle scuole private porterebbe ad un aumento delle rette, impedendo comunque a molte famiglie di mandare i figli nella scuola preferita e con politici che possono usare gli eventi per parlare di speculazione e proporre nuove regolamentazioni, spesso non necessarie e non sagge
  2. La nuova domanda porterebbe a varie start-up dell’istruzione: alcune assolutamente legittime, altre losche, i cui crimini porterebbero i politici a colpire duro sul settore privato, anche quello legittimo
  3. L’oligopolio: come mostrato da vari economisti le aziende già presenti sul mercato sono in grado di prendere in mano rapidamente il processo regolatorio, lasciando fuori i piccoli concorrenti. 

L’ultimo scenario è molto probabile in caso di adozione massiccia dei voucher: in principio scuole pubbliche e sindacati resisterebbero all’introduzione, ma prima o poi si renderebbero conto che i flussi di danaro permettono loro di avere più potere sulle operazioni delle scuole private.

Così, sorgerebbero alleanze tra questi ultimi e le scuole private più importanti, che non desiderano competere con piccole istituzioni, portando a regolamentazioni in grado di danneggiarle o portarle al fallimento.

In altre parole, il voucher sembra un’ottima idea ed è proposto in buona fede da chi vuole davvero mettere in discussione il monopolio statale sull’istruzione, ma i programmi a voucher hanno troppi problemi intrinseci. Non creano vere condizioni di mercato perché non sono proprietà privata. Esattamente come il socialismo di mercato di Lange sono misure a metà che, alla fine, metterebbero in trappola le scuole private più di quanto lo siano oggi.

Putin ed i suoi oligarchi: breve storia della cleptocrazia russa

La Russia di Putin, come qualsiasi altro Stato di polizia, è uno Stato governato da criminali. I crimini qui discussi, però, non sono quelli che stanno venendo alla luce in questi giorni a Bucha, Irpin, Hostomel.

Si tratta di crimini altrettanto disgustosi, ma un po’ meno sanguinari. Questa è la storia della cricca decadente, corrotta e megalomane di oligarchi che fa capo a Putin, e che ha reso possibile tutti gli orrori che vediamo oggi.

Le origini

Lo Stato ereditato da Putin vent’anni fa era una nazione in crisi. I cittadini russi non solo avevano visto il loro Paese ridotto da superpotenza a potenza regionale, si erano anche ritrovati grandemente impoveriti sotto Yeltsin.

Durante il suo governo, beni statali vennero privatizzati in massa, ufficialmente allo scopo di aprire la Russia all’economia di mercato e di generare fondi per il nuovo governo post-sovietico.

Quello che accadde in realtà, però, fu che pochi politici e burocrati si arricchirono, svendendo proprietà dello Stato ad una stretta cerchia di uomini politicamente ben collegati. Oggi li conosciamo come oligarchi.

Gli oligarchi ed i loro amici prosperarono, ma il cittadino russo medio rimase povero ed amareggiato. In questi anni, circa un terzo della popolazione russa viveva sotto la soglia di povertà[1].

Per via della carenza di fondi (dato che il ricavato delle privatizzazioni era andato perso in corruzione), il governo dovette tagliare pesantemente il welfare ed i servizi come scuola e sanità, esacerbando il malcontento popolare.

A tutto ciò bisogna poi aggiungere l’inflazione galoppante, che dopo il “martedì nero” del 1994 raggiunse livelli critici (in questo periodo, un dollaro americano valeva circa 4000 rubli)[2].

Per proteggersi da tale malcontento, gli oligarchi si affidarono al braccio destro di Yeltsin, favorendone l’ascesa. Costui era un politico fino a quel momento semi-sconosciuto, un certo Vladimir Putin.

Gli anni d’oro

La scommessa degli oligarchi si rivelò, all’inizio, un successo. Dal 1999 (inizio del primo mandato di Putin come presidente) al 2014 (annessione della Crimea), l’economia russa prosperò.

Questo soprattutto grazie ad un fattore esterno a Putin, cioè il massiccio aumento dei prezzi degli idrocarburi, che la Russia produce ed esporta in grandi quantità.

Fra il 1998 ed il 2008, l’economia russa crebbe del 7-8% ogni anno[3]. In seguito, con la grande recessione ed il conseguente crollo del prezzo di gas e petrolio, tale crescita rallentò, ma la Russia soffrì meno per la crisi rispetto ai Paesi occidentali.

Complessivamente, questo periodo fu molto piacevole per il cittadino medio russo, infatti il numero di persone sotto la soglia di povertà scese al 10%, ed il potere d’acquisto dei russi (malgrado l’inflazione) aumentò di quasi dieci volte[4].

Risulta facile capire come mai Putin non abbia avuto grandi difficoltà nel farsi rieleggere una volta dopo l’altra.

Certo, per andare sul sicuro il suo governo ha perseguitato, imprigionato o assassinato chiunque minacciasse il suo potere, ma in ogni caso i consensi necessari non mancavano.

Non bisogna però lasciarsi trarre in inganno da questa prosperità apparente. La vendita dei combustibili fossili russi ha generato enormi profitti, non c’è dubbio, ma di tali profitti ai cittadini sono andate solo le briciole.

La parte più consistente, infatti, è rimasta nelle mani degli oligarchi e dello stesso Putin, il quale ne ha approfittato, tra le altre cose, per farsi costruire una gigantesca villa sul mar Nero da 1.4 miliardi di dollari (a spese dei contribuenti)[5].

Le prime sconfitte

La luna di miele fra Putin e l’economia non durò a lungo. Dal 2014 in poi, per via delle sanzioni occidentali dovute all’annessione della Crimea e del calo nel prezzo degli idrocarburi, la Russia è entrata in una grave recessione, che ha spazzato via gran parte dei risultati economici conseguiti nei primi anni Duemila.

Come ai tempi di Yeltsin, il governo russo si è ritrovato a corto di fondi, e sempre come allora ha dovuto tagliare welfare e servizi.

La strategia di Putin per mantenere il consenso popolare, quindi, è cambiata. Per distrarre i cittadini dal peggioramento dei loro standard di vita, il governo si è affidato sempre di più ai successi militari[6].

Con le avventure militari in Crimea, Donbass e Siria, il presidente russo ha potuto “dimostrare” ai suoi concittadini di aver restaurato il prestigio nazionale all’estero. Grazie al controllo dei media da parte del governo, tale strategia si è rivelata complessivamente un successo nel preservare la popolarità di Putin.

Il suo regime, tuttavia, non è più stabile come una volta, e questo ha avuto profonde conseguenze. Negli ultimi otto anni, le ultime tracce di democrazia e legalità sono state spazzate via.

Nuove riforme autoritarie hanno indebolito il sistema giudiziario ed il Parlamento, concentrando il potere nelle mani del presidente. Emendamenti alla Costituzione hanno aperto a Putin la possibilità di restare al governo per altri due mandati, fino al 2036[7].

L’evoluzione sempre più marcatamente dittatoriale della scena politica russa non ha colpito solo i cittadini comuni. Stavolta, neanche gli oligarchi stessi sono stati risparmiati dal mostro che hanno contribuito a creare.

Quale futuro?

Un esempio di come il rapporto fra Putin e gli oligarchi sia cambiato è dato dal “caso Bashneft”.

Nel 2014 l’oligarca Vladimir Evtushenkov venne inaspettatamente arrestato, e la sua compagnia petrolifera (Bashneft) venne statalizzata[8].

Tempo dopo, il governo russo mise in vendita la compagnia, e molti oligarchi si mostrarono interessati ad acquistarla. Tra questi spiccava Igor Sechin, CEO di Rosneft (la più grande compagnia petrolifera russa), probabile istigatore della caduta in disgrazia di Evtushenkov.

Sechin, però, era già considerato da molti come il secondo uomo più potente in Russia dopo Putin, di conseguenza il presidente intimò a Sechin di rinunciare ai suoi progetti.

Inizialmente Sechin si rifiutò, ed arrivò perfino a cercare il sostegno di altri oligarchi, ma venne ben presto messo all’angolo.

Nel 2015, di punto in bianco, Putin obbligò il potente Vladimir Yakunin, oligarca a capo delle Ferrovie dello Stato russe, a dimettersi. In questo modo, gli altri oligarchi capirono che nessuno di loro era intoccabile. Sechin tornò sui propri passi e rinunciò ai suoi piani[9].

Questa storia, come tante altre, mostra come il rapporto di potere fra Putin e la sua vecchia cerchia si sia capovolto nel corso degli anni.

Un tempo, lui era il politico semi-sconosciuto, scelto dagli oligarchi come burattino per proteggere i loro interessi. Oggi, lui è lo zar indiscusso di tutta la Russia, davanti al quale perfino i più ricchi fra loro devono piegarsi.

Come accadde in Germania all’epoca di Hitler, i ricchi e potenti che ne hanno appoggiato l’ascesa al potere sono stati messi da parte e ora non possono più contrastarlo, neanche quando i suoi piani vanno contro i loro interessi. La guerra criminale in Ucraina è solo l’ennesima dimostrazione della loro impotenza.

Quale futuro attende Putin, i suoi oligarchi e la cleptocrazia che hanno creato? Difficile da prevedere. Una cosa, però, è certa: ancora una volta, il russo medio finirà per pagare gli errori e gli eccessi dei suoi governanti.

[1][2] https://www.crf-usa.org/bill-of-rights-in-action/bria-8-1-c-on-the-road-to-revolution-with-boris-yeltsin

[3][4] https://www.youtube.com/watch?v=2F4x2-rVkIk&t=585s

[5] https://fortune.com/2022/03/02/vladimir-putin-net-worth-2022/

[6] https://www.youtube.com/watch?v=ZAMz5kgb7V4

[7] https://www.institutmontaigne.org/en/blog/putins-grip-power-beginning-end

[8][9] https://www.youtube.com/watch?v=BT4sK36cU3Y&t=598s