Cosa sta succedendo in Cina?

Mentre in tutto il mondo le restrizioni anti-Covid vengono alleggerite o rimosse, l’esatto opposto sta succedendo in Cina.

Un lockdown, severo come non mai, è stato imposto a Shanghai, uno dei centri nevralgici del Paese, abitato da 25 milioni di persone. Girano voci di cittadini cinesi ridotti alla fame, perché il governo non gli permette di uscire di casa per procurarsi da mangiare.

Cosa ha portato a tutto ciò? Quale potrebbe essere l’impatto di questa decisione sul futuro del Partito Comunista Cinese?

I FATTI

La situazione è ancora in corso, ed il PCC sta censurando il flusso di notizie in uscita dal Paese, per cui non abbiamo un quadro molto chiaro su cosa stia realmente accadendo. Ad ogni modo, questi dovrebbero essere i fatti.

Negli ultimi due anni Shanghai era sfuggita alle restrizioni più dure imposte ad altre zone della Cina. A partire dalla fine di marzo, tuttavia, la città è stata colpita severamente dalla diffusione della nuova variante Omicron del virus.

Contro tale variante, il vaccino cinese si è rivelato meno efficace rispetto ai vaccini a mRNA occidentali, ma il governo si è rifiutato di importarli. Dietro a questa decisione non vi è alcun motivo valido, se non una sorta di “nazionalismo vaccinale”.

Ora, a differenza di quasi tutti gli altri governi al mondo, quello cinese resta fedele alla sua strategia “zero-Covid”. Secondo tale strategia, qualsiasi misura restrittiva, anche la più severa, è giustificabile al fine di stroncare la curva dei contagi sul nascere.

Pertanto, il 28 marzo è stato ufficialmente dichiarato il lockdown.

A dispetto della linea dura adottata dal PCC, i contagi sono saliti. Apparentemente, il picco è stato raggiunto circa un mese fa, con oltre 27.000 nuovi casi ogni giorno verso la metà di aprile.

Sul fronte virus sembra infine che le cose stiano migliorando, ed il governo ha annunciato che presto le restrizioni verranno allentate. Ma tra quello che dice il PCC e quello che fa davvero ci sono grosse discrepanze.

Molti cittadini, infatti, si lamentano sul web perché le autorità continuano a limitare severamente la loro libertà di movimento. Numerosi abitanti di Shanghai si sono affrettati a fare scorte appena possibile, temendo un lockdown prolungato de facto.

Ma anche se il governo cinese mantenesse la parola data, il danno ormai è fatto.

Sul versante meramente economico, il PIL nazionale potrebbe aver perso quasi 30 miliardi di dollari per ogni settimana di lockdown, ed altrettanti per ogni settimana in cui Shanghai continuerà ad essere paralizzata.

Ancora più pesante è il costo umano. Per settimane gran parte dei 25 milioni di abitanti di Shanghai è stata confinata in casa. Non potevano uscire per fare una passeggiata, per fare provviste, o perfino per recarsi in ospedale.

Potevano solo uscire per sottoporsi ai test anti-Covid (cosa che comunque molti evitavano, per il timore di prendere il virus nei centri sovraffollati).

Tutto ciò ha minato la sanità fisica e mentale di milioni di persone, generando un malcontento popolare come se ne vedono raramente, sotto l’occhio vigile del PCC.

“Voci di aprile”, un video realizzato con gli audio di diversi cittadini di Shanghai, in cui ognuno descrive l’impatto del lockdown sulla propria vita, è diventato virale sui social media cinesi.

LE MOTIVAZIONI

Dal momento che le misure draconiane del PCC hanno danneggiato l’economia nazionale e hanno reso critici del governo milioni di cittadini, perché Xi Jinping non ha cambiato rotta?

La risposta più probabile è forse la più semplice: in un sistema come quello cinese, chi è al potere non può permettersi di ammettere di aver sbagliato.

Il regime comunista cinese può sembrare inattaccabile dall’esterno, ma la realtà è che la sua presa sul potere non è salda come vorrebbe far credere ai suoi nemici.

Spogliato di tutta la retorica marxista, esso non è altro che l’incarnazione moderna di quella forma di governo centralista, burocratica ed assolutista che ha dominato la Cina per millenni, durante l’epoca imperiale.

Tale governo, però, deve legittimare il proprio potere sulla base di un mandato divino, il “Mandato del Cielo”. Secondo tale pensiero, se chi è al potere non riesce più a garantire prosperità e sicurezza alla nazione, allora vuol dire che ha perso tale “Mandato del Cielo”, quindi può e deve essere deposto.

Sin dai tempi delle riforme di Deng Xiaoping, il PCC ha giustificato il proprio diritto di governare tramite la drastica riduzione della povertà prodotta dalla liberalizzazione dell’economia cinese.

Oggi tuttavia, per tutta una serie di fattori (declino demografico, diminuzione delle risorse naturali, competizione da parte dei Paesi in via di sviluppo), la crescita è rallentata. Anzi, con il repentino invecchiamento della popolazione, è probabile che la Cina entri in futuro in un periodo di stagnazione economica.

Il PCC ne è al corrente, e sta correndo ai ripari.

Ecco dunque il perché della retorica aggressiva di Xi Jinping su Taiwan, ed ecco perché non può tornare indietro sulla strategia “zero-Covid”.

Soffiare sulla fiamma del nazionalismo aiuta a distrarre i cittadini dalla situazione economica, supportando così il “Mandato del Cielo” del PCC.

Al contrario, se Xi Jinping cambiasse la propria linea sul Covid, questo vorrebbe dire ammettere ai cittadini che il governo ha inflitto loro sofferenze inutili.

Un simile governo, ovviamente, sarebbe un governo che ha perso il “Mandato del Cielo”.

LE CONSEGUENZE

Sia ben chiaro: il Partito Comunista Cinese gode ancora di una forte presa sul potere. Decine di milioni di cinesi, fra funzionari del Partito e semplici iscritti, traggono vantaggio dal suo governo, e sono pronti quindi a difenderlo.

Oltretutto, a differenza delle dinastie imperiali che lo hanno preceduto, il PCC dispone di sofisticati sistemi tecnologici per tenere a bada il malcontento popolare, e stroncare sul nascere qualsiasi seria opposizione.

Tuttavia, il tempo non sembra essere dalla sua parte. La sua gestione del Covid in generale, e gli ultimi lockdown in particolare, hanno disilluso molti cittadini in merito ai vantaggi della vita sotto il regime comunista.

Senza dubbio, questa non è l’ultima crisi che Xi Jinping ed i suoi successori si ritroveranno ad affrontare. Forse il lockdown di Shanghai sta per finire, ma è facile che in futuro il PCC sarà costretto a prendere altre decisioni impopolari, per non ammettere i suoi fallimenti.

Ad ogni crisi, sempre più cittadini resteranno disillusi, ed arriveranno alla conclusione che i benefici offerti dal sistema non superano più gli svantaggi.

In questo scenario, chissà per quanto ancora il PCC riuscirà a preservare il suo “Mandato del Cielo”.

FONTI

1) https://www.vox.com/future-perfect/23057000/beijing-covid-zero-lockdown-china-pandemic

2) https://www.bbc.com/news/world-asia-china-61023811

3) https://www.reuters.com/world/china/shanghai-inches-towards-covid-lockdown-exit-beijing-plays-defence-2022-05-21/

4) https://www.ilpost.it/2022/03/30/cina-zero-covid-omicron-coronavirus/

5) https://www.afr.com/world/asia/worse-than-wuhan-shanghai-suffers-as-xi-doubles-down-20220505-p5aiun

Sul pensiero di Bastiat

Innamoratevi della libertà. Amare la libertà significa, tra le altre cose, interiorizzare il pensiero di Frèdèric Bastiat (1801-1850), economista, filosofo e giornalista francese. La filosofia economica di Bastiat è controcorrente e molto attuale: l’economista francese fu un liberale, un libertario e un liberista ante litteram.

In una società italiana oppressa dallo statalismo più soffocante, le riflessioni di Bastiat sono uno spiraglio di luce. 

Bastiat ha il pregio di essere attuale senza mai sbiadire nel tempo; non si conformò al pensiero economico o filosofico accademico e mainstream, basato su assunti (totalmente fallaci) come il progressismo, la giustizia sociale o il politicamente corretto. Il suo stile di scrittura fu limpido e chiaro, ispirato al giornalismo. Non è un caso che Schumpeter lo definì come il più grande giornalista economico del suo tempo.

 

La prima lezione di Bastiat, che dobbiamo rivendicare ancora con più forza ai giorni nostri, è la teoria della difesa dell’individuo.

Nella sua opera “La legge”, Bastiat difese la concezione del diritto naturale (Ius naturae), ereditata da Grozio e Locke. L’individuo unico e irripetibile della tradizione cristiana e liberale possiede dei diritti inalienabili, come la vita, la proprietà e la libertà, che derivano direttamente da Dio. Bastiat operò una sforbiciata alla “Ockham” e ribaltò la concezione negativa di Bentham sui diritti naturali o individuali.

I reali “nonsensi sui trampoli” (secondo un’espressione dello stesso Bentham) sono il diritto statale e le sue norme positive e arbitrarie vigenti in un determinato territorio.

 

La seconda straordinaria lezione che possiamo ricavare da Bastiat è la critica dello statalismo. Con il suo inchiostro limpido, il pensatore francese smontò i pregiudizi cristallizzati degli statalisti e le loro opinioni fittizie. Pensiamo solo alla politica economica. L’intervento dello Stato in economia non solo produce inefficienze e disfunzionalità, ma apporta “storture” all’equilibrio del mercato e alla libera iniziativa privata.

La teoria dominante ed in voga nei dipartimenti economici – ovvero la teoria keynesiana – concepisce lo Stato come una sorta di pianificatore retto e morale, guidato dall’intervento dei policy maker, degli ingegneri sociali, ovvero i politici (e i tecnici loro amici). Questa concezione non è solo falsa ma è anche smentita dalla realtà dei fatti.

Bastiat ci mise in guardia in “Quello che si vede e quello che non si vede” sui rischi dell’interventismo statale (con il famoso racconto della “Finestra Rotta”). Inoltre, criticò il monopolio pubblico su certe merci e prodotti, così come sulla moneta e sull’istruzione.

 

Bastiat non fu solo un ottimo pensatore; egli applicò sul campo le sue idee. Pensiamo solo alla politica fiscale. Bastiat fu un apologeta del libero commercio, del laissez faire, dell’ordine spontaneo del mercato e dei suoi meccanismi interni (a partire dalla “mano invisibile” che guida le scelte degli operatori economici). Per questo motivo attaccò senza sosta la politica fiscale francese dell’epoca.

Lo Stato, per l’economista francese, non solo non produce nulla, non solo offre sul mercato, rispetto ai concorrenti privati, servizi o beni costosi e scadenti; ma soprattutto lo Stato non possiede risorse proprie ed è per questo motivo che ambisce a detenere un “patrimonio preda” attraverso la spoliazione legale dei contribuenti.

Attraverso la tassazione lo Stato nutre se stesso e le proprie “élite”, danneggiando in questo modo i produttori della ricchezza, spogliati “legalmente” del frutto del proprio lavoro e delle proprie fatiche. Per Bastiat tutto questo è ingiusto e intollerabile.

 

Il suo lavoro mina le false certezze che contraddistinguono la nostra atmosfera culturale, frutto dell’egemonia di una ristretta minoranza astiosa verso il lavoro, la responsabilità e le fatiche. Una delle opere fondamentali del suo sterminato pantheon economico porta il titolo di “Sofismi economici”. I sofismi sono frutto di un errore della ragione e della logica umana. Al posto della verità si mettono simulacri tanto sbagliati quanto pericolosi. Ed ecco che in economia come in filosofia, nella letteratura come nel giornalismo, dominano opinioni prive di qualunque fondamento. Bastiat ci insegna ad usare la logica e a fare a meno di queste idee false e obsolete.

 

Bastiat è stato un precursore di molti dei concetti espressi in seguito da un grande gruppo di economisti: la Scuola Economica Austriaca. La linfa vitale di questo approccio economico è la libertà, il rigore analitico e la critica di tutti quei substrati che si oppongono al mercato (in primis il marxismo). Accanto al collettivismo sono messi in stato d’accusa i principi della pianificazione centrale. Gli austriaci rivendicano la libertà economica, contro socialisti e statalisti vari.

Leggete quindi Bastiat, per non perdere mai la speranza nemmeno nei momenti difficili che sono parte integrante della storia. Siate dei “Bastiat contrari”, per non adeguare la vostra mentalità al conformismo della nostra epoca.

Bernie Sanders e la tassazione al 95%

Questo articolo è una traduzione del pezzo “Bernie Sanders Just Proposed a 95% Business Tax. Here’s Why That’s So Absurd” di Brad Polumbo, uscito su fee.org (Foundation for Economic Education) il 30/03/2022 e che potete leggere in originale qui: https://fee.org/articles/bernie-sanders-just-proposed-a-95-business-tax-here-s-why-that-s-so-absurd/

 

Prezzi alti della benzina ed inflazione fuori controllo sono generalmente le prime cause di preoccupazione per molti americani ad oggi.

Come risultato, i politici progressisti si sentono sotto pressione quando devono giustificare perché la stampa di denaro da parte del governo federale ed il deficit non ne sono i responsabili. E se l’ultima radicale proposta di Bernie Sanders ci dice qualcosa, alcuni di loro sono arrivati alla frutta.

 

Il senatore del Vermont ha appena svelato una proposta di legge per una tassa al 95% —esatto, 95%!— sui profitti aziendali al di sopra dei loro livelli pre-pandemia. Questo fa parte del suo più ampio tentativo di incolpare l’avidità delle imprese e il loro “ingiusto aumento dei prezzi” per gli effetti dell’inflazione.

Gli americani sono stufi di farsi derubare dalle corporations che fanno profitti record, mentre famiglie di operai pagano cifre esorbitanti per benzina, affitto e cibo” dice Sanders in un tweet[1] commentando le notizie. “È giunta l’ora che il Congresso si metta al servizio delle famiglie dei lavoratori ed esiga che le grandi corporations paghino la loro giusta quota”.

Di seguito alcuni dettagli del piano del senatore.

Le aziende potrebbero pagare l’attuale 21% dell’aliquota d’imposta sulle società sui guadagni fino ai livelli pre-pandemia e poi il 95% sui profitti oltre quei livelli.” spiega Bloomberg: “La tassazione totale viene bloccata al 75% del fatturato aziendale in un singolo anno. L’imposta verrebbe inoltre solo applicata ad aziende con almeno 500 milioni di $ di fatturato annuale”.[2]

 

Vediamo i tre grossi problemi di questa radicale e fuorviante proposta.

 

1. Non risolve il vero problema

L’avidità delle aziende e il loro “ingiusto aumento dei prezzi” non sono, in effetti, la ragione dietro l’attuale innalzamento dei prezzi che sta colpendo così duramente le famiglie americane. Come ha fatto notare l’economista Brian Riedl [3], le compagnie petrolifere, per esempio, non sono meno “avide” o “bramose di profitto” oggi di quanto non lo fossero nel maggio 2020, quando la benzina costava meno di 2$ al gallone.

Erano molto generose allora e sono molto avide oggi? Certo che no.

Economisti di ogni gruppo politica hanno liquidato l’uscita di Sanders come senza senso e sconnessa dalla realtà. Un sondaggio IMG di Chicago ha rivelato che l’80% degli economisti non è d’accordo con questa spiegazione dell’inflazione[4].

 

2. Aumentare la tassazione sulle imprese porterebbe a prezzi più alti e danneggerebbe l’americano medio invece di aiutarlo

L’aumento delle tasse sulle imprese, naturalmente, aumenterebbe i costi che i fornitori devono sostenere.

Quindi, é un classico esempio da manuale di qualcosa che causa scarsità di offerta. Cosa succede quando l’offerta cala? Avete indovinato, i prezzi salgono.

 

Diminuendo i profitti, questa politica scoraggerebbe le aziende dal reinvestire nella creazione di nuove tecnologie per aumentare l’offerta di petrolio” spiega l’economista della FEE Peter Jacobsen “e potrebbe anche incentivare le aziende a spostarsi fuori dagli Stati Uniti”.

Per queste ragioni un’ulteriore tassa sui profitti farebbe calare ulteriormente l’offerta di petrolio” ha detto, prendendo come esempio un settore che ne verrebbe colpito “Qualsiasi altra cosa simile porterebbe ad un innalzamento del prezzo alle pompe di benzina”.

 

Il senatore Sanders vorrebbe rispondere alla grande inflazione causata dall’ingerenza del governo con… maggior ingerenze nel mercato da parte del governo. È davvero una sorpresa che questo peggiorerebbe la situazione?

 

3. Il profitto è in realtà una cosa buona, non qualcosa da punire.

Il piano di Sanders è sbagliato dal principio, nell’incolpare il profitto quando è invece qualcosa che andrebbe celebrato.

 

Questo fraintendimento è il motivo per cui l’economista del Cato Institute Chris Edwards ha definito il piano “un’idiozia“.

Una cosa che la sinistra sembra non in grado di afferrare completamente a proposito del libero mercato è l’enorme rischio che le aziende corrono, e che  è vero che esse incassano i profitti, ma anche le perdite” ha detto Edwards a FEE “Si accusano le aziende con grandi profitti, ma quelle con perdite vengono accusate di avere una cattiva gestione. La realtà è che col tempo i guadagni tendono ad eguagliarsi fra le diverse aziende e a tornare a livelli normali, seguendo il flusso di denaro che gli investitori apportano ai vincenti e che sottraggono ai perdenti. E se il governo non si mette in mezzo, la competizione si mangia qualsiasi profitto superiore alla norma”.

 

I profitti sono benefici perché rappresentano un segnale che indica agli investitori dove allocare risorse che beneficino la crescita economica della nazione” ha aggiunto l’economista. “Anche i lavoratori ne giovano in quanto le risorse col tempo vengono dirottate verso aziende profittevoli aumentandone la produttività. La maggior parte dei profitti viene infatti reinvestita per ampliare le aziende, il che aiuta anche i lavoratori”.

L’idea di Sanders sarebbe di rubare più profitti dalle aziende, lasciandone meno per reinvestirlo e riducendo così le opportunità per i lavoratori” conclude Edwards.

 

Quest’argomentazione fa eco alle parole del celebre economista Ludwig von Mises, che notoriamente spiegava “Il profitto è la forza trainante dell’economia di mercato (…). Nel dichiarare guerra al profitto i governi sabotano deliberatamente il funzionamento dell’economia di mercato”.

 

In definitiva: una cattiva idea radicata nella lotta di classe.

Non c’è modo di difendere il nuovo radicale piano di Sanders nei suoi meriti. Tassare i profitti aziendali al 95%, anche se solo le aziende oltre una certa dimensione, è oscenamente ingiusto, da analfabeti economici e totalmente fuori strada per quanto riguarda l’arginare il vero problema dell’inflazione.

Quello che c’è davvero dietro questa proposta non sono considerazioni politiche ragionate ma l’invidia e l’incitamento alla lotta di classe, tipiche di Bernie Sanders. Mentre potrà giovargli dal punto di vista politico, questo non è il modo di far funzionare un Paese.

 

Traduzione di Claudio Colonna

 

[1] https://twitter.com/SenSanders/status/1507430127843655690

[2] https://www.bloomberg.com/news/articles/2022-03-25/sanders-floats-95-corporate-levy-going-after-jpmorgan-chevron

[3] https://twitter.com/Brian_Riedl/status/1494092072479084544

[4] https://www.igmchicago.org/surveys/inflation-market-power-and-price-controls/

Yeti Carbon Footprint

Il termine Carbon Footprint è entrato nel linguaggio comune, evolvendosi da termine tecnico a parola di uso frequente nell’ambito delle tematiche ambientali. A partire dal 2020, i dati Google mostrano infatti un evidente incremento delle ricerche per queste keyword (Fig. a lato).

Quindi, è particolarmente curioso che ancora non vi siano metodi di calcolo e modelli che possano definirlo in modo semplice e preciso, nonostante ci siano enormi quantità di pubblicazioni che vantano calcoli “precisi” del CF.

Il Carbon Footprint (nel seguito CF) è, nella concezione comune, una quantità che indica l’impatto ambientale di un certo prodotto, servizio o attività. Una definizione che appare semplice e chiara, con valori facili da comprendere (quando posti in paragone: se il mio CF è doppio del tuo, allora “inquino” il doppio).

Questa semplificazione, che ne ha consentito la propagazione in quasi tutti gli ambienti della società (dai Consigli di Amministrazione alle scuole) è in realtà una grossolana sottostima della complessità di un indicatore che – se calcolato correttamente – potrebbe dare importanti informazioni sull’ottimizzazione dei processi produttivi e di smaltimento.

Le definizioni politiche o manageriali di CF erano estremamente vaghe fino a quando Thomas Wieldmann e Jan Minx (Wieldmann and Minx, 2008) ne proposero una definizione accademica, il più precisa possibile: “Il Carbon Footprint è una misura completa dell’ammontare totale di emissioni di biossido di carbonio che sono direttamente o indirettamente causate da una attività o si sono accumulate durante gli stati di vita di un prodotto.”

Il significato, qui riformulato non tanto per renderlo più comprensibile quanto per mettere in evidenza la complessità del concetto, è il seguente: per ogni attività, prodotto, servizio o persona, il CF rappresenta la quantità totale di CO2 (biossido di carbonio, espressa in Kg o comunque in peso) emessa in atmosfera da tutte le fasi di creazione e di smaltimento, considerando ogni aspetto del processo, sommato sul tempo totale di vita del prodotto.

Questa definizione ci fornisce le indicazioni di base, ma restano aperti i problemi di calcolo effettivo, che sono estremamente complicati. Ad esempio, la CO2 non è l’unico gas-serra (GHG, GreenHouse Gas): includere altri gas (tipo il metano) implica aumentare la complessità del calcolo; d’altra parte, escluderli ne diminuisce la precisione.

Altro esempio: nel definire le emissioni di produzione devono essere incluse anche le emissioni dovute al personale coinvolto, ma in misura adatta a non sovrastimare l’emissione (il lavoratore non arriva in azienda per produrre esclusivamente quel prodotto).

Il problema è che a volte le aziende non sono disposte a rivelare i dettagli del loro sistema di produzione (per motivi di brevetto o di segreto industriale), così come i governi non forniscono tutti allo stesso modo i parametri necessari alla valutazione della fase di trasporto internazionale.

Le complessità citate sopra (solamente indicative) hanno portato manager pubblici e privati ad adottare sistemi meno complessi (quali il @UK PLC), basati semplicemente sul costo di un prodotto e su un database di categorie preordinate.

Il risultato di questa semplificazione è però una forte riduzione della precisione, che può arrivare a rendere inadeguato il risultato. In un lavoro di Barnett et al (2013) è mostrato come utilizzando due metodologie diverse nel calcolo del CF di 365 prodotti, i risultati sono completamente scorrelati (vedi fig. sotto).

Ecco il motivo per cui nel titolo compare lo Yeti come paragone per il Carbon Footprint: tutti lo conoscono, nessuno l’ha realmente visto.

Valori di CF ottenuti con due diverse metodologie. Se i due metodi fossero affidabili, i punti si sarebbero allineati sulla linea rossa.

Il CF ha quindi un grave difetto di precisione, che (a seconda del metodo utilizzato) pregiudica i risultati per le categorie di prodotti/ servizi più piccoli (una persona, un oggetto od una famiglia) oppure per le grandi realtà pubbliche e private.

Con queste premesse, ci si aspetterebbe che l’utilizzo del CF sia confinato ad ambiti ristretti, dove il detto “meglio una misura qualunque che nessuna misura” ha più senso.

Troviamo invece il CF citato e preso in considerazione in ambienti in cui il risultato non può che essere impreciso, se non completamente inattendibile, come il CF di una casa, di una famiglia o di un’auto.

Basarsi su indicatori che sono fondamentalmente imprecisi è un grave rischio. Il burocrate o parlamentare medio, che ha scarse conoscenze ma ampi poteri legislativi, proverà a convertire i buoni propositi ambientali in leggi, regolamenti e divieti che gravano pesantemente sulla vita dei cittadini, senza essere efficaci nel contrasto al cambiamento climatico.

La PCA, o Personal Carbon Allowance, è stata già pensata nel 2008 nel Regno Unito, come misura per contrastare l’aumento delle emissioni di gas serra. In pratica si sarebbe stabilito un tetto massimo alle emissioni (quindi il CF) che una persona poteva utilizzare per scaldare la propria casa, comprare cibo, andare al lavoro, ecc.; cioè, semplicemente, vivere.

Il progetto non è stato messo in pratica perché ritenuto politicamente inammissibile, ma le recenti misure fortemente coercitive legate alla pandemia hanno rivalutato la possibilità che il PCA possa essere, ora, socialmente accettabile.

Su Nature, la prestigiosa rivista scientifica inglese, un articolo di Fuso Nerini et al. (2021) discute come la PCA sia ora potenzialmente ammissibile e, anzi, auspicabile. Senza segnalare l’inaffidabilità del calcolo del CF, e con solo un fugace riferimento ai problemi di privacy, l’articolo ipotizza il modellamento dei comportamenti individuali, dai viaggi alla scelta del cibo, utilizzando come sensori le tecnologie già presenti (controllo degli spostamenti tramite cellulare-GoogleMap, verifica dei consumi tramite apparecchiature Smart Home). 

Riassumendo in modo estremo, possiamo dire che le nostre libertà individuali potrebbero essere revocate sulla base di misure di Carbon Footprint la cui attendibilità è praticamente nulla. Non possiamo lasciare che avvenga qualcosa del genere; è importante discutere del Carbon Footprint e del cambiamento climatico in maniera seria, senza semplificazioni e senza coercizioni dall’alto. 

Referenze

Wiedmann,T., Minx,J. (2008). A Definition of Carbon Footprint, in C.Pertsova(ed.) Ecological Economics Research Trends, Nova Science Publisher, Chapter 1, pp.1-11

Barnett, A. J., Barraclough, R. W., Becerra, V. and Nasuto, S. (2013). A comparison of methods for calculating the carbon footprint of a product.

Kruger, J., & Dunning, D. (1999). Unskilled and unaware of it: how difficulties in recognizing one’s own incompetence lead to inflated self-assessments. Journal of Personality and Social Psychology, 77(6), 1121.

Defra, UK, 2008, Synthesis report on the findings from Defra’s pre-feasibility study into personal carbon trading, Department for Environment, Food and Rural Affairs, https://www.teqs.net/Synthesis.pdf

Fuso Nerini, F., Fawcett, T., Parag, Y. et al. Personal carbon allowances revisited. Nature Sustain 4, 1025–1031 (2021).