Pillola – la visione liberale della libertà

Poiché solo il liberalismo anglosassone convenzionalista ed evoluzionista costituisce una tradizione liberale omogenea e coerente con se stessa, è legittimo ricercare in esso il concetto liberale della libertà. Agire in questo modo significa però circoscrivere la propria ricerca in essa e non nella tradizione costruttivista continentale.

Questo comporta rifiutare la tipica distinzione continentale (ma soprattutto italiana, in cui il celebre Benedetto Croce indicava per “liberalismo” il liberalismo politico e per “liberismo” il liberalismo economico, terminologia che – intenzionalmente o meno – attribuisce chiaramente maggiore importanza alla dimensione politica della concezione liberale) tra liberalismo politico e liberalismo economico intesi da essa come scindibili.

Per la tradizione inglese, invece, i “due liberalismi” sono inseparabili. Ciò perché il ruolo del governo come agente limitato a imporre il rispetto delle norme di condotta generali (fulcro della tradizione inglese) toglie al governo il diritto/potere di internarsi in queste norme e coordinare e dirigere le attività economiche degli individui liberamente associati.

Se, al contrario, il governo avesse questo potere, esso sarebbe dotato di un potere arbitrario e discrezionale, il quale culminerebbe nel controllo economico quindi nella limitazione di tutte quelle altre libertà – di carattere anche non economico – che il liberalismo si propone di garantire come proprio principio. La libertà nella legge implica che gli individui siano anche economicamente liberi, poiché quando si controllano i mezzi economici si controllano, essenzialmente, gran parte dei mezzi attraverso cui gli individui giungono ai propri fini soggettivi.

Accettando quanto detto sopra, può apparire che tra le due correnti liberali sopracitate, sulla materia della libertà individuale, dunque anche del rispetto della libertà personale, sussista una differenza importante. Nell'”epoca d’oro” del liberalismo, libertà individuale significava in sostanza ciò che in storia delle idee viene denominata libertà negativa, ovvero libertà dalla coercizione arbitraria, quindi libertà da i governi illiberali.

Ma per degli uomini che vivono in società la protezione da tale coercizione significava comunque l’imposizione di un vincolo a tutti gli individui, di una limitazione che li privasse, quindi, di applicare coercizione sugli altri. La libertà di ogni individuo in una società avrebbe dunque potuto essere realizzata solo se la libertà di ciascuno non fosse andata oltre ciò che era compatibile con una eguale libertà per tutti gli altri.

La concezione della libertà da parte di un liberale, che dunque si conforma come libertà nella legge, richiede una legge che limiti la libertà di ciascuno allo scopo di garantire la medesima libertà a tutti (uguaglianza formale, isonomia). Dunque la libertà liberale non coincide con la “libertà naturale” o la “libertà spirituale soggettiva”, ma con una libertà eguale per ogni individuo quando è in società con altri individui, limitata dalle norme indispensabili alla garanzia di se stessa.

In questo senso il liberalimo è da distinguersi chiaramente dall’anarchismo e deve riconoscere che, se tutti devono essere liberi, la coercizione non può essere totalmente eliminata, ma solo ridotta al minimo indispensabile affinché un individuo o un gruppo di individui qualsiasi non possano esercitare oppressione a danno di un altro individuo o gruppo di individui.

Si trattava di una libertà entro una sfera limitata da norme conosciute che permetteva agli individui di non subire coercizioni, finché si fosse mantenuta appunto entro tali limiti. Violare queste norme avrebbe poi potuto significare la perdita di tale libertà garantita da coloro i quali si uniformavano ad esse.

Questa libertà, inoltre, poteva essere garantita solo a chi fosse in grado di osservare le norme intese a garantirla. Soltanto l’individuo adulto e sano di mente, interamente responsabile delle proprie azioni, era considerato legittimo fruitore di tale libertà. Per chi non fosse tale, come i minori e gli psicologicamente invalidi, sarebbero state applicate norme speciali di tutela della libertà.

Questa libertà che sarebbe stata valida solo in quanto esercitata da chi consapevole di sé li avrebbe anche resi, moralmente, responsabili della propria sorte. Ciò in virtù del fatto che il governo dovesse garantire la libertà di ogni individuo senza però intervenire nella sua sorte, nelle conseguenze delle sue azioni.

Questo “sistema” di governo era considerato eccelso per due motivi: primo, il governo avrebbe garantito il massimo vantaggio a tutti, secondo, utilitaristicamente, esso avrebbe spinto/incentivato ogni individuo a essere produttivo al massimo delle sue capacità in ogni sua particolare situazione, ovvero a dare il meglio di sé sempre, che avrebbe risultato in un maggiore benessere collettivo rispetto a qualsiasi diretto intervento del governo.

La concezione liberale della libertà è stata, storiograficamente, definita come negativa, e giustamente. Esattamente come la giustizia o la pace, essa si conforma come un bene in quanto assenza di male: la condizione di pace è un tale in quanto assenza di guerra, la condizione di giustizia è tale in quanto assenza di torto, la libertà è tale se considerata come assenza di coercizione arbitraria.

Si riteneva, però, che sarebbero divenuti disponibili maggiormente dei mezzi per raggiungere diversi fini privati: la libertà negativa, infatti, prevede l’assenza della maggior parte dei vincoli governativi alle attività dei privati individui, sebbene alcune funzioni essenziali di comune necessità fossero accettate come eccezione alla regola nel campo della realtà quotidiana (ex. esercito di difesa, misure cautelari per guerra o epidemie).

Ad ogni modo, nessun supposto vantaggio che l’intervento del governo avrebbe apportato nel campo sociale sarebbe stato circoscritto nel paradigma della libertà negativa liberale; questo sarebbe stato legittimo solo quando, appunto, circostanze strettissime l’avessero invocato.

Il declino di questa concezione di libertà, quindi dell’intero liberalismo, si può datare circa a fine Ottocento, quando essa è stata reinterpretata come libertà come disponibilità, dunque libertà positiva. Ciò ha comportato il declino del liberalismo non in quanto una qualche altra forza politica si è appropriata di tale definizione di libertà, che già esisteva ai tempi della teoria della democrazia radicale di Rousseau, ma in quanto essa è diventata, commettendo un enorme errore, la definizione della libertà liberale. Definizione che oggi è totalmente maggioritaria; lo Stato sociale è ormai una prerogativa di ciò che oggi viene definito “Stato liberale moderno”.

Introduzione all’evoluzionismo spontaneista di Friedrich Hayek

Tanti potrebbero pensare che la produzione maggiore di Friedrich von Hayek consista nelle formulazioni della teoria economica della Scuola Austriaca di economia.

In ambito accademico si è certamente proclivi ad affermare che sia stato proprio così: per lo meno fino alla prima metà degli anni ’40.

Qualche anno prima della morte dell’amico e avversario intellettuale John M. Keynes, infatti, Hayek asserì che il loro celeberrimo dibattito aveva cambiato radicalmente le tematiche in oggetto: non si discuteva più di teoria economica, ma bensì di filosofia politica e storia del pensiero.

Ebbene, da quel periodo in poi (Hayek nacque nel 1899 e morì nel 1992) egli non si dedicò, in realtà, mai più alla pura teoria economica e mutò il corso della sua produzione intellettuale in 3 campi: filosofia politica, metodologia delle scienze sociali ed epistemologia in generale, e psicologia (ciò per generalizzare, poiché scrisse praticamente su tutto quanto riguarda la società umana).

Dunque egli spese la maggior parte della sua vita ad occuparsi non di economia politica in senso stretto ma più in generale di sociologia, e l’obiettivo di questo articolo è presentare un tema di estrema importanza, un caposaldo del suo pensiero: l’evoluzionismo.

L’evoluzionismo di Hayek appare presente in ogni tematica che affronta nell’analisi della società, che egli appunto concepisce come un ente evoluzionistico. Egli asseriva che tutte le strutture, i sistemi biologici al di sopra dei semplici atomi, quindi anche la società, potessero essere spiegati attraverso la teoria scientifica dell’evoluzione, ovvero che essi potessero essere spiegati come il prodotto di un’evoluzione selettiva.

 

L’ordine biologico e quello sociale

La selezione naturale, secondo Hayek, ha sviluppato due meccanismi che hanno portato ad un ordine “biologico” e ad un ordine “sociale”:

L’ordine biologico, quello che tutti noi abbiamo studiato, quello classico dell’evoluzionismo, si sviluppa con il famoso meccanismo che afferma che i geni lavorano come degli insiemi di informazioni necessarie per creare/coordinare la vita. Le mutazioni provocano la nascita di nuovi geni, dunque l’emergere di nuove informazioni che portan allo sviluppo di una nuova, diversa, caratteristica, quindi ad un nuovo modo di conformarsi all’ambiente: ecco come la vita cambia forma, ed ecco come affronterà ancora un processo di evoluzione selettiva quando essa troverà un nuovo ambiente in cui competere con le altre; il “vincitore”, colui che si adatterà meglio, si riprodurrà di più e, consequenzialmente, i suoi geni saranno, dopo un certo lasso di tempo, più diffusi rispetto a chi sarà meno efficace ad adattarsi, i cui geni lentamente scompariranno.

Questo meccanismo di evoluzione biologica/genetica è scientificamente provato, e la scienza ci suggerisce che è spontaneo, ovvero il fatto che un individuo è il risultato di trenta trilioni di cellule lavoranti in un modo non “centralizzato” provvisto di alcuna pianificazione o progetto premeditato coscientemente.

Sappiamo per certo quindi che, in altre parole, la selezione naturale è stata una sorta di “programmatrice non volontaria” dell’ordine biologico e dei numerosi “sistemi” (sottoposti dell’ordine biologico generale), come il sistema nervoso o digerente, che con gli altri sistemi dell’organismo umano coordinano l’intero sistema delle cellule.

L’ordine sociale è invece il sistema nel cui hanno luogo i fenomeni sociali quali la cultura, l’economia o il linguaggio (gli “organismi sociali” e il “super-organismo” che è la società, anticipava Herbert Spencer), ovvero nient’altro che la società, che Hayek descrive come un ordine spontaneo.

Tra questi due processi evolutivi ci sono due fondamentali similarità che giustificano il fatto che Hayek li chiami entrambi evoluzionismi: primo, in entrambe le evoluzioni si riscontra il fatto che esse portano gli individui o i gruppi a moltiplicarsi; migliori geni fisici permettono all’uomo di vivere più a lungo e in salute, quindi di avere più figli, e tradizioni culturali più economicamente efficienti permettono al gruppo di uomini che le abbraccia di ingrandirsi più velocemente degli altri, e, eventualmente, di inglobarli o reprimerli.

Secondo, entrambe le evoluzioni “non conoscono” alcune “leggi” dell’evoluzione. Hayek intende con “leggi” tutti quei processi necessari dell’evoluzione biologica da una parte e dell’evoluzione culturale dall’altra, e afferma che essi non possono essere conosciuti.

Questa idea di evoluzione, va da sé, comporta la confutazione di una grande categoria di correnti filosofiche, specialmente il pensiero hegeliano e quello marxista (la medesima idea è comune in storicismi simili), che intendevano scoprire questi processi, questi stadi necessari, attraverso cui l’evoluzione deve avere luogo, per poi basare su di essi il proprio sistema filosofico.

Questo pensiero non ha giustificazione se non nella stessa tautologia, ma non solo, è anche in diretta contraddizione con l’essenza stessa dell’evoluzione. Essa consiste infatti di un meccanismo di adattamento a eventi futuri sconosciuti, e affermare di voler conoscere gli “stadi necessari” dell’evoluzione significa negare la dinamicità dell’evoluzione, che, per definizione, è determinata da eventi che la mente umana non può prevedere o conoscere a-priori.

Vediamo ora quali sono le differenze più importanti tra evoluzionismo biologico ed evoluzionismo culturale. Primo, l’evoluzione culturale/sociale non funziona interamente in virtù dell’ereditarietà, ovvero di geni, ma sta anche (e soprattutto) nel processo di crescita degli uomini (adolescenza), in cui essi imparano ciò che gli è trasmesso; sostanzialmente ciò che avviene è un processo di imitazione delle usanze degli adulti.

Non si nega infatti l’influenza dei geni nel comportamento, in quanto si tratta di una variante la cui influenza è dimostrata dalla scienza, ma, nella formazione della persona, è più influente l’assimilazione delle norme in periodo di crescita di quanto lo siano le caratteristiche ereditarie.

Questo ha prodotto una struttura di idee e opinioni immateriali, ciò che Popper chiamava “mondo 3” (il mondo dei cosiddetti prodotti del pensiero, dunque che include teorie scientifiche, storie, miti, istituzioni sociali, culti ecc), che esiste in ogni momento perché nella mente di molteplici persone, ma che allo stesso tempo può essere trasmesso di generazione in generazione.

L’evoluzione biologica, invece, è esclusivamente basata sull’ereditarietà dei geni. Secondo, la trasmissione di informazioni e caratteristiche da generazione in generazione non passa direttamente dagli antenati (fisici) ai successori (fisici), ma tutti i nostri predecessori potrebbero essere degli antenati e tutta la generazione successiva potrebbe essere un successore, in termini culturali/sociali; non è un processo che prevede una connessione fisica diretta genitore – figlio, procede invece in modo totalmente diverso. Dunque, quando da una parte, nell’evoluzione biologica, un individuo è forzatamente un prodotto dell’evoluzione, in quanto esso non sceglie i geni che lo determinano, dall’altra, nell’evoluzione culturale, esso agisce non in virtù dei soli geni dei genitori, ma in generale delle usanze dell’ordine sociale in cui è ubicato.

Terzo, il processo di evoluzione culturale non si fonda sulla selezione di individui ma sulla selezione di gruppi, come già accennato. Quarto, l’evoluzione culturale avviene in modo molto più veloce dell’evoluzione biologica; l’osservazione ci suggerisce che quando l’evoluzione culturale può portare a una cultura diversa in poche centinaia di anni, l’evoluzione biologica porta ad un uomo diverso in un processo che dura invece milioni di anni.

 

I riferimenti di Hayek nello studio dell’ordine spontaneo

Hayek si dilunga in un excursus storico-filosofico degli autori che considera necessari da percorrere per trattare sull’ordine spontaneo e sull’evoluzione, partendo dai primi filosofi occidentali. Qui critica Aristotele e in generale i filosofi della politica greci poiché nessuno di questi aveva mai realmente formulato una spiegazione secondo cui il mercato e le norme di convivenza sociale fossero in realtà paradigmi evoluzionistici. Come è meglio spiegato da Hayek:

Gli antichi greci, naturalmente, non erano stati all’oscuro del problema posto dall’esistenza di questi fenomeni; ma essi avevano tentato di affrontarlo con una dicotomia che, per la sua ambiguità, produceva una confusione senza fine, dicotomia che divenne una tradizione così salda da agire come una prigione […].

La dicotomia greca che aveva dominato così a lungo il pensiero, e che non ha ancora perso tutto il suo potere, è quella tra ciò che è naturale (physei) e ciò che è artificiale o convenzionale (thesei o nomo) […].

Si percepiva spesso che, tra i fenomeni della società, esistevano questi ordinamenti spontanei; ma dato che gli uomini non erano consapevoli dell’ambiguità della terminologia in uso naturale/artificiale, essi cercavano di esprimere ciò che percepivano in questi termini, ed inevitabilmente creavano confusione: uno poteva definire “naturale” un’istituzione perché non era mai stata deliberatamente progettata, mentre un altro poteva definire “artificiale” la stessa istituzione perché risultava da azioni degli uomini.

F. Hayek, Nuovi studi di filosofia, politica, economia e storia delle idee, p. 275

Afferma poi che, in generale, nelle società sviluppate dell’antichità, c’era una sorta di sentimento “provvidenziale” che regolasse gli affari e i rapporti. Loda poi i giuristi Romani, i quali avevano per primi intuito che le norme sociali si sviluppano secondo un processo di lenta evoluzione e non sono creazioni “dall’alto”: questi avevano per primi introdotto un significato legittimo (sebbene ancora arcaico) del termine evoluzione (cita Catone, che critica coloro i quali avessero avuto la pretesa di “riordinare sotto un unico genio” tutto l’ordinamento societario). Non a caso il diritto romano è un diritto particolarmente individualista.

Questa tradizione, dice il filosofo, è stata perpetuata soprattutto dai filosofi della “legge naturale” seicenteschi, ovvero i giusnaturalisti, come il celeberrimo John Locke nei Trattati sul governo, i quali avevano davvero capito l’essenza della norma sociale come azione né immanente né progettata, ma erano ancora ostacolati dalla antica tradizione linguistica greca, che li portò a strutturare il proprio discorso filosofico sui termini erronei di “natura” e “legge naturale”.

Con la venuta dei razionalisti, sfortunatamente, questa tradizione fu a livello culturale spazzata via. Cartesio nei principi razionalisti e costruttivisti e Thomas Hobbes nel campo sociale-politico (si legga su “Il Leviatano”) del metodo razionalista e costruttivista abbracciarono totalmente l’idea di “artificiale”, ovvero l’idea secondo cui tutte le istituzioni della società sono un diretto prodotto della progettazione umana, dell’intelletto umano intenzionale. Come un grande cervello unico e pianificatore, la società costituirebbe un ordine razionale e intenzionale umano, da indagare proprio ricercando nella ragione umana intenzionale le sue membra.

Hayek osserva però che all’inizio del 18esimo secolo la questione prende un’altra direzione. Una intuizione degna di nota la ebbe un olandese che viveva in Inghilterra di nome Bernard Mandeville (probabilmente influenzato da alcuni tardo-scolastici, da alcuni teorici della common law e dai giusnaturalisti); gli uomini agiscono per autocompiacimento con considerazioni non del tutto razionali, ciò che rende invece le azioni umane razionali non è infatti l’intenzione umana in quanto tale, ma le tradizioni e le istituzioni che le veicolano. Mandeville inoltre iniziò a studiare la società intesa come insieme di ordini spontanei, inaugurando per primo quel concetto di evoluzione che Hayek abbraccia nella sua interezza (egli lo definisce per questo il primo vero scienziato sociale); formulò dei paradigmi aggiuntivi oltre a quelli già individuati dai giuristi romani; la moneta, il mercato, la morale e la crescita della conoscenza tecnologica. Il più grande merito di Mandeville, comunque, secondo Hayek, fu quello di fornire gli strumenti a Hume per elaborare il suo sistema filosofico.

[…] è infatti la mia stima per Hume, che io considero forse il più grande fra tutti gli studiosi moderni della mente e della società, a farmi sembrare così grande Mandeville.

[…] l’aver fornito a Hume qualcuno dei suoi concetti più importanti mi sembra un titolo sufficiente per considerare Mandeville una mente superiore.

F. Hayek, Nuovi studi di filosofia, politica, economia e storia della idee, p.284

Come si evince dalla citazione riportata sopra, David Hume rappresenta una figura di enorme importanza per Hayek; egli riordinò le idee di Mandeville e le sviluppò in un vero e proprio sistema filosofico, diventando l’esponente cardine della tradizione morale Scozzese.

Hume introdusse un concetto che Hayek considerava cruciale: le leggi morali umane non sono un prodotto della ragione umana che le progetta in quanto essa non ne è in grado e, consequenzialmente, essa non può ergersi al di sopra di esse.

Bisogna perciò accontentarsi di regole astratte che nessuna mente singola può formulare, quindi delle regole sorte spontaneamente, e smettere di provare a pianificare la morale secondo un sistema razionalistico, non perché sia sbagliato farlo, ma perché ciò è semplicemente impossibile. Allora Hume si chiese: a che cosa devono fare capo le leggi morali, se la ragione è inaffidabile? La sua risposta non fu che la ragione e la scienza non potessero esprimere giudizi in assoluto, ma piuttosto che esse dovessero farlo in modo molto limitato, e non dovessero avere appunto la presunzione di ergersi al di sopra di esse tentando di ri-progettarle.

Ciò che Hume sottolineava era soprattutto la superiorità di un ordine che si produce quando tutti i membri obbediscono alle stesse regole astratte, perfino senza capirne l’importanza, rispetto a una condizione in cui ogni azione individuale è decisa sulla base di vantaggi, ossia considerando esplicitamente tutte le conseguenze concrete di una particolare azione.

F. Hayek, Nuovi studi di filosofia, politica, economia e storia delle idee, p. 285

Hume dovette poi porsi delle altre domande, necessarie in riguardo alla sua indagine della natura umana: da dove vengono le leggi morali? Perché si sono sviluppate proprio certe leggi e non altre? E quale è stata la loro influenza su di noi? Indagare sulla morale prevede per forza farsi queste domande, e Hayek, da studioso dei fenomeni socio-economici, doveva necessariamente occuparsi di questi problemi, poiché l’economia è la scienza dell’azione umana.

Adam Smith proseguì la trattazione spontaneista, questa volta indagando sul mercato e sull’economia in generale, con l’opera “La ricchezza delle nazioni”, in cui formulò la celebre teoria della mano invisibile, la cui essenza può essere riassunta nella seguente frase: la persecuzione dell’utile individuale porta al benessere generale della società se gli individui sono liberi di interagire in un ordine sociale, ovvero se i vincoli arbitrari (statali) sono assenti o molto limitati.

Non è dalla benevolenza del macellaio, del birraio o del fornaio che ci aspettiamo il nostro pranzo, ma dalla cura che essi hanno per il proprio interesse. Non ci rivolgiamo alla loro umanità ma al loro interesse personale.

A. Smith, Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni

Anche Edmund Burke, apprezzato da Hayek anche e soprattutto nella sua filosofia politica, ha contribuito a sviluppare questa tradizione filosofica influenzando gli intellettuali dell’epoca nel considerare l’evoluzione come aspetto importante delle scienze sociali.

Un altro studioso citato da Hayek per quanto concerne l’ordine sociale è Adam Ferguson, al quale attribuisce il grande merito di avere individuato quale sia il reale campo di indagine di ogni scienziato sociale. E questo è nientemeno che l’evoluzione degli uomini; questo “luogo comune” di indagine della società, che ha avuto la sua maggiore popolarità nel 19esimo secolo, è stato individuato da Ferguson molto prima di Darwin (egli lo definisce uno dei “darwiniani prima di Darwin”), contribuendo alla diffusione del pensiero evoluzionistico applicato allo studio della società, quindi influenzando Darwin (indirettamente) a considerare quell’aspetto nello studio dell’uomo, che poi egli traspose nel campo biologico.

L’idea di un uomo che deliberatamente costruisce la sua civiltà deriva da un falso intellettualismo che considera la ragione umana come qualcosa al di fuori della natura e provvista di una capacità intellettiva e razionale indipendente dall’esperienza. Ma lo sviluppo della mente è parte dello sviluppo della civiltà; e lo stato della civiltà in qualsiasi momento determina la portata e le possibilità di fini e valori umani.

F. Hayek, La società libera, p. 55

Ora, che cosa trae il filosofo da questo percorso storico? Come possiamo “classificare” la storia dello studio della verità sociale e del metodo delle scienze sociali? Hayek propone una divisione in due grandi filoni: il razionalismo costruttivista (rintracciabile in Platone, sviluppato con Cartesio, Hobbes, Rousseau, Voltaire) e il razionalismo evoluzionista o razionalismo critico (Socrate, Locke, Mandeville, Hume, Ferguson, Popper, Hayek stesso)*. Da una parte troviamo una filosofia che, una volta affrontata la riflessione filosofica, si articola in una visione che si pretende e si presenta come onnicomprensiva del mondo; si presenta quindi come il sapere della verità essenziale delle cose, di ciò che, immune alle apparenze e delle opinioni comuni, costituisce necessariamente il vero.

Il costruttivista, data la sua fede irrefutabile per la ragione, non si accorge dunque che esistono eventi di fondamentale importanza la cui genesi non è affatto dovuta ai programmi intenzionali di singoli o di gruppi e che esistono sviluppi di progetti intenzionali che non costituiscono affatto la realizzazione degli scopi previsti.

D’altra parte troviamo, invece, un pensiero nel quale la riflessione critica razionale non costituisce soltanto un momento indispensabile, bensì costituisce l’aspetto essenziale e permanente del filosofare (contrariamente alla transitorietà del dubbio nel razionalismo costruttivista), nel quale prevalgono dubbi e perplessità circa la possibilità stessa dell’acquisizione, da parte della ragione, di una conoscenza vera e definitiva. Quando questo filone di pensiero si fa propositivo procede con grande prudenza e circospezione, formulando piuttosto ipotesi e congetture che non definizioni e teoremi, consapevole dei propri limiti e, dunque, della natura sempre fallibile del proprio indagare (“dotta ignoranza” socratica).

Questo excursus storico servirà ad Hayek per presentare la sua personale visione del liberalismo, che si leggerà tra poco. Ma prima intendo rendere chiaro come Hayek concepiva l’evoluzione lui stesso non in relazione a filosofi del passato.

 

Osservazioni generali sull’evoluzione culturale/sociale delle società

Hayek arrivò alla conclusione che le leggi che non sono prodotto della pianificazione umana e che sono spontanee non possono essere giudicate dalla ragione se non guardando unicamente all’effetto che hanno avuto nello sviluppo della società. Ecco quindi che egli individua come norma comune la proprietà privata (menziona anche la famiglia**); essa non è una legge “naturale” nel senso che è innata nella natura umana, né essa è una legge artificiale nel senso che sarebbe un prodotto della ragione e progettazione umana. Se guardiamo alla storia antica, difatti, apparirà evidente che questa legge, che non è stata concepita razionalmente, fu comune a una grande varietà di gruppi sociali, i quali ebbero delle tradizioni che li mantenevano insieme, facendo funzionare la loro società, senza che potessero appunto spiegare razionalmente il perché.

E queste tradizioni sono da sempre state soggette ad evoluzione soggettiva proprio come i geni nell’evoluzione biologica: le tradizioni più efficaci per il mantenimento della società saranno quelle che permeeranno maggiormente in esse, le tradizioni delle società che, al contrario, non riusciranno a sopravvivere, andranno lentamente a morire.

Hayek critica quindi gli scienziati sociali che si sono “dimenticati” di prendere in considerazione questo fatto e hanno concepito le leggi spontanee come leggi naturali o come prodotti artificiali della mente umana, commettendo poi errori catastrofici nella propria teoria.

Difatti, per Hayek, gli effetti inintenzionali dell’azione umana intenzionale costituiscono l’unico ed esclusivo compito delle scienze sociali (egli intende usare l’individualismo metodologico come strumento d’analisi, ma di questo argomento più propriamente epistemologico si potrà parlare in altra istanza). Qua si può scorgere immediatamente la critica di Hayek ai rivoluzionari degli ultimi due secoli, che provarono ad attaccare e demolire la proprietà privata, quando in realtà mai e poi mai è avvenuto che un sistema, fosse esso antico e inconsapevole (religioni di privazione della proprietà), fosse esso moderno e ideologico (comunismo, anarchia etc) ha perdurato per più di cento anni senza proprietà privata.

Allo stesso modo, Hayek dà importanza ai sistemi di credenze: i sistemi di credenze dei gruppi che sono risultati i vincitori dell’evoluzione culturale sono in realtà solo “verità simboliche” e non sono essi stessi verità scientifiche/fattuali. Essi furono però essenziali nello sviluppo della civiltà perché portavano in sé delle leggi morali, delle tradizioni, delle norme che i gruppi seguivano inconsapevolmente e di cui non avevano mai capito i vantaggi.

Proprio i sistemi di credenze, le religioni, hanno insegnato ai suddetti gruppi vincitori l’importanza della proprietà privata, sebbene con l’assenza di una spiegazione scientifica/fattuale; non sarebbe stato possibile, infatti, convincere la maggioranza della popolazione ad accettare un sistema di proprietà privata quando la stragrande maggioranza della quantità di essa era nelle mani di pochissimi (Hayek si sta riferendo ai primi sistemi agricoli risalenti a una dozzina di migliaia di anni fa) prima della nascita della scienza economica nel 1700. Davanti a queste affermazioni gli approcci razionalisti e costruttivisti alle scienze sociali si rivelano totalmente fallaci.

[…] la mente è il risultato di un adattamento all’ambiente naturale e sociale in cui l’uomo vive, e che si è sviluppata in costante interazione con le istituzioni che determinano la struttura della società. La mente è tanto un prodotto dell’ambiente sociale in cui è avvenuta la sua crescita, quanto qualcosa che a sua volta ha influenzato e modificato le istituzioni della società. Essa è il risultato del fatto che l’uomo si è sviluppato all’interno di forme sociali, e che ha acquisito quegli usi e quei modi di agire che hanno aumentato le possibilità di sopravvivenza del gruppo in cui viveva. La concezione di una mente già completamente sviluppata, che progetta istituzioni che rendono possibile la vita all’interno della società, è in contrasto con tutto ciò che sappiamo circa l’evoluzione dell’uomo.

F. Hayek, Legge, legislazione e libertà, p. 25

Altro punto da notare è la critica di Hayek a chi considerasse degli uomini come dei singoli homo oeconomicus utilitaristici, ovvero come uomini che avessero come unico scopo nella vita il perseguire il proprio singolo interesse, al costo di sacrificare quello altrui. Hayek è lungi dall’affermare che l’uomo sia “buono”, ma rifiuta questa concezione di uomo: egli non afferma infatti che esso non sia mai mosso da interessi di utile personale, ma rifiuta il presentarlo come una “macchina utilitaristica”.

Le società, egli dice, non esisterebbero proprio, se così fosse. Dall’impossibilità da parte dei membri di un ordine sociale di prevedere gli eventi e i fini futuri consegue che se gli uomini non avessero norme comuni di comportamento e opinioni comuni le società si estinguerebbero. Non esisterebbe armonia, ma solo conflitto di interessi, se fosse necessario giungere a un accordo concernente la prevalenza di determinati interessi su altri.

A sanare questa situazione non è altro che l’aderenza comune a norme o opinioni: l’ordine sociale è difatti solo un generale accordo sulle opinioni, ovvero su certe caratteristiche astratte della vita sociale, sostenute molto tempo prima che la gente sapesse il perché, e non un accordo su atti concreti e particolari.

Per quanto riguarda l’ordine che è l’economia, le cui parti sono il commercio, la moneta, la competizione, il sistema bancario, il sistema industriale, i tassi di interesse, lo Stato etc, Hayek afferma che la conoscenza è il motore di tutto: essa è presente nelle menti degli agenti economici (consumatori, imprenditori, aziende) e si diffonde attraverso la competizione.

Strumenti di uso quotidiano odierno non sono altro che il frutto della diffusione di idee nuove attraverso la competizione nell’ordine sociale: l’aria condizionata, le telecamere, le pen drive non sono altro che idee di un individuo o di pochi individui che sono state diffuse e integrate nell’ordine sociale e che si sono fatte concrete.

Questo solo grazie alla libertà di scelta che un’economia di mercato offre: è comune che i produttori copino l’idea originaria di un altro produttore, cercando di innovarla, cambiarla, usando le migliori tecniche di produzione per loro disponibili. Con la continua formulazione di idee innovatrici i prezzi si abbassano, ancora nuove idee si diffondono e ancora il processo di innovazione ha luogo, in un continuo processo di generazione – innovazione (l’evoluzione nell’economia sta in questo).

Un esempio calzante può essere rappresentato dai computer, i quali un tempo erano molto costosi, ma con l’avvento dell’innovazione tecnologica diffusa nel mercato i prezzi si abbassarono, fino ad oggi, dove con pochi soldi si può avere a disposizione un computer con migliaia di funzioni diverse.

E ancora, l’avvento dei computer ha portato alla nascita dell’Internet, con le conseguenze che noi tutti oggi conosciamo. Dunque la libertà economica e la decentralizzazione del potere, per Hayek, si conformano come condizioni necessarie e sufficienti per lo sviluppo di un ordine economico sano.

Più ricchezza creata equivale a più ricchezza offerta trasformata in lavoro quando le aziende competono tra loro per la forza lavoro di cui necessitano. Lo Stato, al contrario, non è soggetto a questo processo di mercato in quanto esso è un monopolio finanziato coercitivamente da tasse, esso non è soggetto al giudizio degli ordini del mercato, ne è immune, ed è proprio per questo che gli ordini creati da esso non sono dinamici e non creano ricchezza: essi non sono spontanei. Essi, in definitiva, a differenza dell’ordine di mercato, sono prodotti della progettazione pianificata umana, e non dell’interagire spontaneo.

 

La conclusione di carattere politico

Queste osservazioni sul funzionamento del mondo culminano necessariamente nella filosofia politica: egli basa infatti il fondamento della sua riflessione sul liberalismo proprio sui concetti espressi precedentemente in questo articolo.

Nella storiografia politica tradizionale sia il filone costruttivista sia quello evoluzionista vengono denominati con il sostantivo liberalismo in virtù di alcuni principi essenziali condivisi da entrambi i filoni, quali la libertà di pensiero, di parola e di stampa e della comune opposizione storico-politica ai conservatori e ai reazionari.

Queste due tradizioni, però, costituiscono differenze così radicali che parlare di liberalismo come movimento unitario per entrambe costituisce – secondo Hayek – un errore fatale. Benché entrambe patrocinassero “principi di libertà e uguaglianza”, la similarità era solo di carattere verbale; ciò che intendevano, infatti, era differente. Per gli anglosassoni libertà significava libertà negativa, ovvero libertà mediante la quale ci si potesse proteggere dalla coercizione arbitraria di un governo, per i continentali (costruttivisti) libertà significava libertà positiva e rivendicazione dei diritti di auto-governo per ogni gruppo sociale. Ciò condusse ad identificare erroneamente il movimento liberale con il movimento per la democrazia, quando invece i fini divergevano.

Stanti questi fatti, sarebbe comunque scorretto qualificare come liberale l’una e non liberale l’altra di queste tradizioni, piuttosto sarebbe giusto parlare di una tradizione liberale autentica e coerente ed un’altra no. Hayek è convinto che la tradizione convenzionalista anglosassone sia quella autentica in quanto è stata l’unica a elaborare un programma politico liberale ben definito, dunque sia necessario incentrarsi su di essa per trovare quali siano i principi del liberalismo.

Ora, il raggiungimento di una società capace di fronteggiare i problemi comuni di ogni gruppo di individui fa sì che questi due filoni si succedano in due ulteriori branche, direttamente collegati ai precedenti: quello contrattualista e quello convenzionalista.

Il primo esprime l’intenzionalismo tipico della filosofia costruttivista, che è fondato, come si è detto, nella propensione ad attribuire l’origine di tutte le istituzioni sociali all’invenzione e alla progettazione deliberata di un contratto tra i cittadini e lo Stato positivo. Il secondo esprime invece compiutamente l’approccio evoluzionista, secondo cui l’ordine sociale si raggiungerebbe non grazie a un contratto sociale (pactum), ma spontaneamente.

Ovvero, l’ordine sociale si verificherebbe in modo inconsapevole “dal basso”, da sé, attraverso l’adattamento di ogni singolo individuo a dei determinati segnali provenienti dall’ambiente sociale in cui è inserito (come ad esempio segnali economici come i prezzi, ma anche segnali di ordinamento morale che vieterebbero o incentiverebbero certi comportamenti in relazione agli altri individui).

Benché Hayek sostenga ferocemente e convintamente che il liberalismo autentico è rappresentato dal paradigma convenzionalista, egli non può non ammettere – giustamente – che uno dei tre più celebri contrattualismi della storia della filosofia occidentale sia parte della storia del liberalismo classico e che fosse davvero la prima formulazione completa del liberalismo, sebbene ancora non coerente (sottolinea poi come gli altri due fossero molto diversi dal primo e fondamentalmente illiberali; la teoria assolutistica dello Stato hobbesiana, per definizione, e la teoria della democrazia di volontà generale rousseauniana, che sarà la base fondante del socialismo ottocentesco).

Sta parlando di John Locke e della sua teorizzazione politica. Questa si basa sulla concezione di uno stato di natura in cui gli uomini vivono pacificamente ed esistono delle leggi che governano la loro interazione, senza che ancora lo Stato la regoli. Lo Stato diventa necessario quando questi uomini capiscono che, quando viene commesso un qualsiasi torto, ci si fa in genere giustizia da soli, mentre è necessario un giudice imparziale quale uno Stato avente potere giudiziario. Il contrattualismo sta in questo: gli uomini che necessitano dello Stato lo creano con un contratto bilaterale e revocabile, in cui lo Stato si impegna a tutelare i loro diritti e le loro norme sociali, in un ordinamento di governo liberale.

Come detto, però, il liberalismo autentico è quello convenzionalista scozzese: esso presuppone il riconoscimento che i rapporti sociali fra gli uomini non siano la conseguenza di un deliberato progetto umano, bensì derivino dall’integrazione eventuale di molte attività cooperative e/o antagonistiche.

La summa della filosofia politica di Hume, che esprime la più valida alternativa alla concezione contrattualistica liberale Lockeiana e che dà nascita alla riflessione politica convenzionalista si ritrova nel suo scritto Trattato sulla natura umana (1740). Hume asserisce che gli individui non hanno bisogno di un contratto sociale deliberato per trovare stabilità sociale, ma bastano le norme/convenzioni sociali.

La convenzione, infatti, pur essendo un prodotto umano come il contratto, nasce però non da una legge di natura, né dalla costituzione di un’entità astratta e superiore, bensì dal semplice accordo degli individui sui mezzi più adeguati ai loro scopi.

Secondo il filosofo scozzese, in definitiva, la società si è fondata (originariamente) non attraverso l’alienazione dei diritti o lo sfruttamento del lavoro di certi uomini su altri, ma più semplicemente attraverso i vantaggi di una collaborazione armoniosa e della separazione dei compiti (divisione del lavoro, come la chiamerà Smith) tra gli individui. È quest’ultima, precisamente, che porta a superare i principali ostacoli presenti nella società, come la scarsità delle risorse in rapporto alle società o l’avidità. L’uomo, in quanto mosso da passioni, istinti e inclinazioni, necessita di convivere in società con gli altri uomini per soddisfare la propria individualità interiore. Il momento sociale è costitutivo dell’identità dell’uomo non solo perché può soddisfare i singoli bisogni naturali, ma anche perché può sviluppare quei bisogni secondari che lo spingono alla creazione dei propri hobby grazie a raggiungere la felicità.

Allora come è definibile il liberalismo in rapporto a questa concezione evoluzionistica, convenzionalistica e spontaneistica? Il filosofo austro-britannico espone una meticolosa sintesi della definizione di liberalismo, cercando di circoscriverlo alla tradizione che egli considera autentica e ai propri principi cardine.

Hayek afferma che il liberalismo consiste in sostanza in un metodo, dunque una filosofia politica non statica ma dinamica e continua. Questa consiste nel riconoscere la società come ordine spontaneo e accettarne l’evoluzione necessaria, dopodiché riflettere ostinatamente e non costruttivisticamente sulla sua natura e sulle sue leggi spontanee. Il liberalismo consiste poi nell’offrire soluzioni – a livello politico – in base alla riflessione tratta.

Ciò significa che esso è anche una dottrina, ma una dottrina temporanea, la quale non può conformarsi come un’ideologia statica (marxismo ortodosso, creazionismo, e in generale teorie non falsificabili) da principi universali e irrefutabili, ma come una costante ricerca, le cui soluzioni offerte sono accettabili solo se riconosciute come effimere e, nel lungo termine, possibilmente confutabili. Come abbiamo visto prima, Hayek (ma anche tutti i liberali classici) riconosce la proprietà privata come una legge necessaria al sostentamento dell’ordine sociale, e vede che lo Stato positivo è anch’esso necessario per il medesimo motivo, a patto che esso sia limitato ai suoi compiti essenziali.

Questi “principi” sono fondanti del liberalismo classico, ma anche essi, se l’osservazione della società li smentisse (per assurdo, in quanto queste concezioni sono di validità evidente), sarebbero da rifiutare in virtù dell’atteggiamento critico del liberale autentico. Sta di fatto, infatti, che l’uomo non può prevedere lo sviluppo della propria mente né quello delle menti della società e della sua evoluzione, dunque il liberalismo è una filosofia a-posterioristica.

Questa conclusione rappresenta un pensiero grandioso: esso avverte l’umanità che la razionalità sempre e solo, e mai il dogma, dovrebbe guidarci. Solo lo spirito critico dona valore a un’idea, e solo attraverso esso, ovvero il razionalismo critico e il riconoscimento della propria fallibilità umana, si potrà arrivare a ciò che Hayek in La società libera chiamava la “Grande Società”, o ciò che Popper chiamava – nel suo capolavoro – la “Società Aperta”.

 

 

 

* La trattazione su questo dualismo è stata centrale nel lavoro del filosofo, essa è stata trattata in diverse sue opere ed è, in termini assoluti, lunga. Questa è solo una prospettiva sintetica da cui ho proposto l’analisi hayekiana di queste due correnti; c’è stata anche una trattazione perlopiù politica in Liberalismo, Individualismo: quello vero e quello falso e La società libera, una più metodologica in L’abuso della ragione e una più filosofica in Legge, legislazione e libertà.

** Questo punto deve essere analizzato con estrema attenzione: Hayek non fu e non deve essere confuso per un conservatore. Egli stesso scrisse sull’argomento (vi è dedicato l’intero ultimo capitolo de “La società libera”, 1960) e asserì che la famiglia come norma di convivenza sociale è un enigma enorme che potrebbe mutare altamente, e che quindi non deve essere considerato come norma al pari della proprietà: “Ci sono cambiamenti nella nostra conoscenza fattuale (scienza, ndr) che probabilmente porteranno a mutamenti fondamentali nella concezione tradizionale della famiglia, quindi mi limiterò a considerare solo la proprietà privata” affermava alla conferenza dei nobel a Lindau nel 1983. Per ulteriori delucidazioni si consulti il testo sopracitato.

Milton Friedman sul socialismo

Traduzione e riadattamento dell’estratto di una conferenza

Il socialismo ha fallito perché la sua bontà è stata corrotta da uomini malvagi saliti al potere? È stato perché Stalin ha preso il posto di Lenin? Il capitalismo ha avuto successo nonostante i valori immorali che esso offre? Credo che la risposta a entrambe le domande sia negativa. I risultati sono sorti perché ogni sistema si è affidato ai valori che incoraggia, supporta e sviluppa nelle persone che vivono in quel sistema.

Ciò che ci interessa discutere dei valori morali qui, sono quelli che hanno a che fare con le relazioni tra persone. È importante distinguere due tipi di considerazioni morali: la moralità di ognuno di noi che interessa la nostra vita privata, come conduciamo noi stessi, come ci comportiamo, e ciò che è importante per i sistemi di governo, ovvero le relazioni tra le persone, e nel giudicare le relazioni tra persone non ritengo che il valore fondamentale sia fare del bene agli altri.

Il valore fondamentale non è fare del bene agli altri come tu vedi il loro bene. Non è obbligarli a fare del bene. Per come la vedo io, il valore fondamentale nelle relazioni tra persone è rispettare la dignità e l’individualità dei propri simili.

Trattare i propri simili non come un oggetto da manipolare per i propri scopi, ma come una persona che ha i propri valori e diritti, non da obbligare, non a cui fare il lavaggio del cervello. Questo mi pare essere un valore fondamentale nelle relazioni sociali.

Ogni volta che ci allontaniamo dalla cooperazione volontaria e proviamo a fare del bene usando la forza, i cattivi valori morali della forza trionfano sulle buone intenzioni. E capite bene l’importanza di ciò che sto dicendo perché la nozione fondamentale di una società capitalista è la cooperazione volontaria. La nozione fondamentale di una società socialista è, fondamentalmente, la forza.

Se il governo è il capo, se la società deve essere comandata dal centro, cosa produci? Alla fine dovrai ordinare alle persone cosa devono fare, fino a dove puoi spingerti? Torna indietro, portati ad un livello più mite.
Ogni volta che provate a fare del bene con i soldi degli altri dovete usare la forza. Come potete fare del bene con i soldi di qualcun altro se prima non glieli avete portati via? L’unico modo che avrete per prenderglieli è minacciare l’uso della forza: con un poliziotto o un esattore delle tasse che arriva e se li prende.

Tutto ciò spingerebbe ancora più avanti se davvero si vivesse in una società socialista, se non vi fosse un governo centralizzato, se ci fossero burocrati del governo a comandare cose che possono fondarsi in ultima istanza solo sulla forza, ma ogni volta che ricorrete all’uso della forza, anche per fare del bene, non dovete mettere in discussione i motivi delle persone, qualche volta possono essere dei malvagi, ma guardate i risultati che producono. Dategli il beneficio del dubbio, assumete che le loro intenzioni sia buone.

Sapete, c’è un articolo un antico detto a proposito della strada per l’inferno lastricata di buone intenzioni, dovete guardare al risultato: ogni volta che usate la forza, i cattivi valori morali di essa trionfano sulle buone intenzioni.
Il motivo non sta solo nel celebre aforisma di Lord Acton, lo avrete sentito tutti: “il potere corrompe, il potere assoluto corrompe assolutamente“. Questa è una ragione per cui cercare di fare del bene con metodi che includono la forza porta a cattivi risultati.

Le persone che sembrano avere buone intenzioni sono esse stesse corrotte, e potrei aggiungere, se non sono corrotte, vengono rimpiazzate da persone con cattive intenzioni che sono più efficienti ad ottenere il controllo sull’uso della forza.

Tuttavia, la ragione fondamentale è più profonda, il danno più grande è fatto quando il potere è nelle mani delle persone che sono convinte della purezza dei loro istinti e della purezza delle loro intenzioni.
Thoreau ha detto che la filantropia è una virtù sopravvalutata, la sincerità è anche una virtù molto sopravvalutata. Non ci hanno salvato dal riformatore sincero che sa cosa è bene per te ed intanto, te lo farà fare che ti piaccia o meno. E questo quando va per il meglio.

Non ho motivi di dubitare che Lenin fosse un uomo le cui intenzioni fossero sincere, forse non lo erano, ma lui si è completamente persuaso di avere ragione, ed era disposto ad utilizzare qualsiasi mezzo per il bene finale.
Ancora, è interessante comparare l’esperienza di Hitler e Mussolini, Mussolini è stato di gran lunga una minaccia inferiore per i diritti umani perché era un ipocrita.

Perché egli non credeva davvero in ciò che diceva, stava al gioco. Ha iniziato da socialista, è diventato fascista, era disposta a vendersi a chiunque avrebbe brillato di più. Come conseguenza vi furono almeno un po’ di protezioni dal suo governo autoritario. Ma Hitler era davvero un fanatico, egli credeva in ciò che faceva, e fece decisamente più male.