La violenza è l’ultimo rifugio degli incapaci

Perché socialismo, fascismo, comunismo e tutti gli altri statalismi, pur con le loro differenze, sono parimenti pessime idee? Cosa separa nettamente queste ideologie dal Liberalismo? Un socialista, certo, non ha esattamente gli stessi ideali ed obiettivi di un fascista, e lo stesso vale per un fascista ed un comunista.

Tutti e tre, però, condividono uno stesso principio chiave: il potere nelle mani giuste è il bene supremo, quindi anche la violenza è un bene se il suo scopo è dare potere a coloro che lo meritano.

Per il fascista, che vuole garantire il potere della sua nazione, la violenza è un legittimo strumento politico. Una nazione potente, infatti, non ha paura di combattere guerre per imporre la propria egemonia sulle altre nazioni. Allo stesso tempo, però, un forte esercito e grandi spese militari non bastano.

Una nazione potente, infatti, dev’essere anche una nazione unita e con una popolazione omogenea. Per questo, è necessario reprimere qualsiasi autonomia in favore di un governo centralizzato. Inoltre, bisogna eliminare fisicamente minoranze ed altri gruppi di potere al di fuori dell’autorità statale.

Per il comunista, che sogna la rivoluzione proletaria, la violenza è indispensabile ai fini del cambiamento. I porci capitalisti ed i loro lacchè, infatti, non metteranno mai volontariamente a disposizione dei proletari le risorse ed il potere necessari per realizzare il paradiso del lavoratore. Queste e quello, pertanto, devono essere strappati con la forza.

Ma la violenza non finirà una volta finita la rivoluzione. Una volta instaurata la dittatura del proletariato, infatti, c’è sempre il rischio che qualcuno non sia d’accordo con il nuovo corso, e che organizzi una controrivoluzione. Per questo, sono necessarie numerose purghe per estirpare il problema alla radice.

Fatta eccezione per i più radicali, i socialisti (specie quelli più vicini alla socialdemocrazia) di solito non si esprimono apertamente a favore della violenza fisica, piuttosto auspicano riforme graduali per raggiungere l’obiettivo della giustizia sociale. Ciononostante, anche i socialisti moderati sono favorevoli ad un certo tipo di violenza, più sottile ma non per questo inesistente.

Un socialista moderato certo non chiederà il sangue dei capitalisti e dei loro lacchè, ma chiederà politiche economiche redistributive. Non perseguiterà le minoranze, ma sarà a favore di leggi speciali per proteggere chi ritiene sia oppresso o discriminato, in antitesi con il principio liberale dell’isonomia (per intenderci, non esistono i diritti gay, esistono i diritti individuali).

Soprattutto, un socialista moderato sarà a favore della coercizione, e dell’accentramento del potere per creare un Leviatano statale strumento di tale coercizione. Questo perché, in quanto socialista, è convinto in buona fede che uno Stato che segue i cittadini dalla culla alla tomba sia un bene tale da giustificare la perdita di qualche libertà.

Così, anche il più mite e benevolo fra i socialisti moderati finisce, involontariamente, con l’aprire la porta ad i più radicali, ed infine ai violenti veri e propri. Se le cose stanno così per le varie forme di statalismo, qual è l’approccio liberale alla violenza?

Innanzitutto, bisogna dire che il pensiero liberale non è pacifista, cioè non cerca la pace ad ogni costo. A dispetto della bellissima citazione di Asimov che dà il titolo a questo articolo, i liberali sono pragmatici, pertanto riconoscono la necessità della violenza in determinate situazioni. Quindi, nessuna differenza con lo statalismo?

Quando gli statalisti ricorrono alla violenza, lo fanno come mezzo per acquisire più potere: il fascista combatte guerre per conquistare territori di altre nazioni, il comunista organizza una rivoluzione per sottrarre le ricchezze dei capitalisti, i socialisti fanno lo stesso ma in maniera più graduale.

I liberali, invece, sono disposti a ricorrere alla violenza per proteggere qualcosa che è l’antitesi del potere, qualcosa che tutti gli esseri umani possiedono come diritto di nascita: la libertà negativa.

La libertà negativa è, in poche parole, la libertà dallo Stato (contrapposta alla libertà positiva, libertà attraverso lo Stato), il quale non interferisce nella vita privata dei cittadini e garantisce il rispetto del loro diritto alla vita, alla libertà ed alla proprietà privata.

Quando lo Stato viola la libertà negativa dei cittadini questi, per dirla con i Padri Fondatori, hanno il diritto di rovesciare il governo, con le armi se necessario.

La differenza fra liberali e statalisti rispetto alla violenza, quindi, esiste, ed è vasta quanto la differenza fra i manifestanti di Hong Kong e le SS naziste. Mentre gli statalisti saranno sempre pronti a versare sangue per acquisire potere a danno dei loro nemici, il primo nemico dei liberali sarà sempre il potere stesso, i cui attacchi contro la libertà vanno respinti con tutto il vigore necessario, pena la rovina.

Rubare ai ricchi per dare ai poveri è una buona idea?

Robin Hood, eroe Ancap che combatteva contro le tasse imposte ingiustamente dallo Stato ai cittadini, è oggi inspiegabilmente noto ai più come una sorta di protosocialista che rubava ai ricchi per dare ai poveri.

Robin Hood, tuttavia, è solo una figura semileggendaria. Al contrario, gli aspiranti Robin Hood di oggi (Sanders ed i Socialisti Democratici, Corbyn, Mélenchon) sono purtroppo assai reali, e loro sì che intendono togliere ai ricchi per dare ai poveri (o meglio, di sicuro intendono togliere ai ricchi, il resto non è altrettanto certo).

Ma al di là del dibattito storico-letterario su Robin Hood, rubare ai ricchi per dare ai poveri è una buona idea? Può essere davvero una valida soluzione ai problemi economici?

Innanzitutto, qualche numero utile, preso dalla patria stessa del turbocapitalismo neoliberista, gli Stati Uniti. Ad oggi, l’uomo più ricco d’America è Jeff Bezos, con un patrimonio pari a circa 118 miliardi di dollari. In totale, oggi negli Stati Uniti vivono 705 miliardari, per un valore totale di oltre 3000 miliardi di dollari[1]. Sembra una cifra enorme, e lo è, ma la matematica non depone a favore di Sanders e dei Socialisti Democratici.

Il cavallo di battaglia di questi ultimi è il Green New Deal, il meraviglioso piano seguendo il quale un forte governo centrale (nelle mani delle persone giuste, naturalmente) potrebbe creare un paradiso di ecosostenibilità ed uguaglianza per tutti i cittadini americani. Il costo di questo bellissimo sogno? La modica cifra di oltre 16000 miliardi di dollari[2], e più potere nelle mani dello Stato[3].

Quindi, anche conferendo allo Stato il potere per confiscare in toto la ricchezza dei miliardari in perfetta legalità, resta un disavanzo di 13000 miliardi di dollari che potrebbe essere colmato solo in 2 modi: facendo debito o confiscando altra ricchezza (ma non quella dei pianificatori del Green New Deal).

Un altro numero utile: il budget federale fissato per il 2020 è pari ad oltre 4700 miliardi di dollari[4]. Quindi, anche inviando Bezos, Gates e tutti gli altri in un gulag, il denaro raccolto non sarebbe sufficiente neanche a mandare avanti il governo federale per un anno intero.

Qui poi bisogna aprire una parentesi: in realtà, già adesso sono gli odiatissimi ricchi a mandare avanti il governo federale, e di conseguenza a sostenere i programmi di welfare tanto cari ai Socialisti Democratici.

Le entrate del governo federale, infatti, derivano principalmente dalle imposte sul reddito. Nel 2016, il 50% più ricco della popolazione ha pagato il 97% delle imposte sul reddito, mentre l’altra metà più povera della popolazione ha pagato il restante 3%. In particolare, l’1% più ricco della popolazione da solo ha pagato il 37,3% delle imposte sul reddito[5].

Un ultimo elemento di cui bisogna tener conto: quando i populisti di sinistra propongono di far pagare ai ricchi “la loro giusta parte”, con delle leggi se possibile o con la violenza se necessario, probabilmente pensano che tutti i miliardi dei loro patrimoni esistano in contanti. Naturalmente, le cose non stanno così.

Jeff Bezos, infatti, non è Zio Paperone, non possiede un enorme deposito nel quale conservare i suoi 118 miliardi di dollari sotto forma di un mare verde di banconote. Il patrimonio complessivo di Jeff Bezos (immobili, azioni di Amazon e contanti) vale 118 miliardi di dollari, ma per confiscarli sarebbe necessario confiscare tutte le sue azioni e venderle, e solo un populista di sinistra potrebbe pensare seriamente di poter vendere tutte queste azioni senza far crollare il loro valore.

Risulta chiaro, pertanto, che “rubare ai ricchi per dare ai poveri”, lungi dall’essere una valida soluzione a qualsivoglia problema economico, non è nient’altro che uno slogan utile per la propaganda in tempo di elezioni, e questo nella migliore delle ipotesi. Nella peggiore delle ipotesi, una massa critica di elettori potrebbe dare ascolto a questa propaganda, con conseguenze fin troppo ben immaginabili.

[1]https://www.google.com/amp/s/amp.businessinsider.com/countries-with-the-most-billionaires-2019-5

[2]https://www.google.com/amp/s/www.nytimes.com/2019/08/22/climate/bernie-sanders-climate-change.amp.html

[3]https://fee.org/articles/the-green-new-deal-is-a-trojan-horse-for-socialism/

[4]https://www.thebalance.com/current-u-s-federal-government-spending-3305763

[5]https://www.google.com/amp/s/www.bloomberg.com/amp/news/articles/2018-10-14/top-3-of-u-s-taxpayers-paid-majority-of-income-taxes-in-2016

I socialisti del sesso: gli Incel

Una lotta di classe da combattere, una casta privilegiata da abbattere, dei mezzi di (ri)produzione da ridistribuire. No, non si tratta dei socialisti stavolta, bensì di una loro incarnazione più moderna, più vicina quindi ai grandi problemi della vita nell’Occidente di oggi: gli Incel.

Molti senz’altro troveranno eccessivo, o addirittura offensivo, accostare Marx, “Il Capitale” e l’Internazionale ai misogini più odiati del web. Tuttavia, se si considerano le idee dietro alla rabbia degli Incel, i punti di contatto con il socialismo appaiono evidenti.

La visione del mondo degli Incel, come quella dei socialisti, si basa sulla constatazione che, al mondo, non vi è una vera uguaglianza fra gli individui. Mentre i secondi però si focalizzano sull’aspetto economico (c’è chi è ricco e chi non lo è), i primi si concentrano sulle relazioni sociali e affettive (c’è chi ha successo con le donne e chi no).

Entrambi, quindi, concepiscono la società come il campo di battaglia di una lotta di classe fra una casta privilegiata (per i socialisti sono i capitalisti, per gli Incel sono i “Chad”, persone che hanno successo galante) ed un gruppo socialmente subordinato (i proletari nel primo caso, gli Incel stessi nel secondo).

In un’ottica marxista, gli Incel considerano le donne come semplici mezzi di (ri)produzione, di cui i Chad possiedono il monopolio. Per raggiungere una vera uguaglianza, questo monopolio dev’essere spezzato, con la coercizione se necessario.

Relativamente a questo punto, come già per i socialisti, è possibile distinguere due scuole di pensiero all’interno del mondo Incel, una di “destra” ed una di “sinistra”, entrambe unite dall’odio e dal disprezzo per l’Occidente moderno.

Secondo gli Incel di “destra”, le loro sofferenze sono dovute al declino morale dell’Occidente, che ha abbandonato l’ordine naturale e la famiglia tradizionale in favore della promiscuità (emancipazione femminile).

Essi quindi propongono, per risollevare le sorti della società, di adottare la soluzione già implementata con così tanto successo dai Talebani in Afghanistan. Considerando le 72 vergini che allietano il loro paradiso, le ragioni dietro alla simpatia di questi Incel per l’Islam radicale diventano assai più chiare.

Secondo gli Incel di “sinistra”, invece, quello ad una vita sessuale attiva è un diritto umano, esattamente come quello al lavoro o all’assistenza sanitaria. Di conseguenza lo Stato, che deve assicurare tutti questi diritti, deve fornire una “partner di cittadinanza” a tutti gli uomini che ne hanno bisogno.

Solo uno Stato freddo e senza cuore, ragionano, uno Stato asservito al mondo della finanza ed al neoliberismo potrebbe ignorare il diritto dei suoi cittadini ad un coito regolare.

Studiare il pensiero degli Incel è interessante in quanto esso presenta, esasperate ai limiti del ridicolo, le stesse fallacie logiche dell’ideologia socialista. Viene quindi da chiedersi: se il rigetto delle loro idee è così immediato per la stragrande maggioranza delle persone, perché lo stesso non vale per le idee socialiste?

Tutti, di sicuro, sono d’accordo che non ha senso odiare qualcuno solo perché nato con un viso attraente. Molti, invece, sono d’accordo che nascere nell’agiatezza sia un valido motivo di disprezzo.

Se quel qualcuno, grazie alla propria bellezza, riuscisse a conquistare una donna attraente, non dovrebbe essere poi costretto a condividere la propria partner con i meno fortunati, su questo non c’è dubbio. D’altro canto, molti sono convinti che le persone di successo debbano essere costrette a condividere i loro beni, con la violenza se necessario.

Tutti riconoscono che uno Stato che interviene nella vita sessuale dei suoi cittadini, anche se allo scopo di eliminare le disuguaglianze, sia una minaccia per la libertà. Eppure, molti vogliono uno Stato che segua i suoi cittadini dalla culla alla tomba, uno Stato che abbia il potere di soddisfare tutti i loro bisogni, ma anche di controllare le loro vite.

Quindi, seppur misogini e ben poco affabili, possiamo ringraziare gli Incel per questo: semplicemente esistendo, essi mostrano il vero volto del socialismo, spogliato di tutte le belle immagini (uguaglianza, solidarietà, progresso) con le quali generazioni di politicanti hanno cercato di renderlo più attraente per le masse.

I finanziatori di Hitler: una storia di “crony capitalism”

Molto è stato detto ed è stato scritto sui rapporti fra le alte gerarchie del Partito Nazista ed i grandi industriali tedeschi. Che tali legami siano effettivamente esistiti, e che siano stati essenziali per l’ascesa di Hitler, è un fatto storico innegabile.

I seguaci dell’ideologia marxista, quindi, sono soliti considerare questa verità storica come la prova schiacciante della compatibilità del capitalismo con il fascismo, o perfino dell’inevitabile tendenza di una società capitalista a degenerare nel fascismo.

In realtà, la collaborazione fra nazisti ed industriali non fu altro che un ennesimo esempio di quello stretto rapporto fra potere politico e potere economico che oggi viene definito come “crony capitalism”, o capitalismo clientelare.

Il “crony capitalism” è un sistema che in apparenza si basa sul libero mercato, ma che in realtà è dominato dalle leggi e dalle regolamentazioni statali, che vengono usate per promuovere gli interessi di un piccolo gruppo di magnati industriali e politici compiacenti.

Un sistema simile, in teoria capitalista, in pratica corporativista e statalista, era quello esistente in Germania durante il regime nazista. Grandi nomi dell’industria tedesca, come Gustav Krupp e Fritz Thyssen, finanziarono generosamente la causa di Hitler.

In cambio, una volta conquistato il potere assoluto, i nazisti non persero tempo per ripagare i favori dei grandi industriali. Le industrie Krupp, per esempio, specializzate nella produzione di acciaio, beneficiarono delle enormi commesse statali di armi e munizioni, facenti parte del programma di riarmo tedesco.

Ad ottenere ricchezza e successo, quindi, erano solo gli imprenditori con le dovute conoscenze nelle alte sfere del Partito. I piccoli e medi imprenditori, privi di legami privilegiati con il potere politico, non traevano vantaggi significativi dal sistema, spesso anzi il contrario.

Per esempio, nel 1933, venne creata la “Adolf Hitler Spende der deutschen Industrie”, una cassa intitolata ad Adolf Hitler alla quale gli imprenditori vennero obbligati a versare elargizioni “in segno di riconoscenza per il boom economico reso possibile dal Fuhrer”[1].

Gli ingenti fondi della Adolf Hitler Spende erano gestiti da Martin Bormann, segretario del Fuhrer, il quale poteva disporne a piacimento, per ricompensare i funzionari del Partito più servili e fanatici.

Quindi gli imprenditori tedeschi, per un boom economico fittizio, limitato a pochi grandi gruppi industriali, furono costretti ad autotassarsi per mantenere nel lusso Hitler e gli alti gerarchi dell’NSDAP.

A lungo termine, tuttavia, anche i magnati dell’industria, che avevano scelto di voltare le spalle al libero mercato per fare soldi facili con la protezione e la complicità delle autorità statali, arrivarono a pentirsi della loro scelta.

Dopo il 1942, con la situazione bellica che diventava sempre più critica, lo Stato (e quindi il Partito) iniziò ad esercitare un controllo più diretto sull’apparato produttivo tedesco. Aziende ed industrie private, progressivamente, passarono dalle mani dei loro proprietari in quelle dei funzionari nazisti.

Questo processo di centralizzazione delle attività produttive sotto il controllo del Partito, allo scopo di massimizzare l’efficienza dello sforzo bellico, fu dovuto tanto alle circostanze quanto ad una precisa volontà politica.

Da un lato, infatti, i bombardamenti sempre più devastanti costrinsero i proprietari delle fabbriche ad accettare l’aiuto dello Stato per trasferire la produzione sotto terra. In cambio, però, furono costretti a cederne il controllo alle autorità politiche locali.

Dall’altro, si fece progressivamente spazio nella mente di molti funzionari del Partito l’idea di una specie di “socialismo di Stato”[2]. In quest’ottica la nazionalizzazione dell’industria, che venne descritta agli imprenditori come una misura temporanea, sarebbe continuata anche in tempo di pace.

Naturalmente, la sconfitta della Germania rende impossibile sapere come si sarebbe evoluto il rapporto fra imprenditori e funzionari nazisti, o se il progetto di un “socialismo di Stato” di questi ultimi avrebbe avuto successo o meno. Tuttavia, dalla storia dei finanziatori di Hitler è possibile ricavare delle lezioni, per il passato e per il presente.

La prima è che, sul lungo termine, capitalismo e dittatura non possono coesistere: o il primo viene soffocato dalla seconda, o la seconda viene abbattuta dal primo.

Il primo caso è quello della Germania di Hitler, che progressivamente ha abbandonato il libero mercato ( adottando misure protezionistiche e politiche economiche quasi keynesiane per il riarmo bellico), per sostituirlo con il corporativismo e lo statalismo.

Il secondo caso, invece, è quello del Cile di Pinochet. Senza negare il carattere autoritario di tale regime, non si può non concordare con Milton Friedman nel riconoscere il ruolo centrale delle riforme economiche liberiste del regime nel porre fine alla dittatura stessa.

La seconda lezione, che riguarda da vicino il nostro presente, ma anche il nostro futuro, è che il “crony capitalism” inevitabilmente conduce, se non alla dittatura vera e propria, ad un accentramento del potere che è comunque inaccettabile per un liberale.

In un circolo vizioso, imprenditori corrotti finanziano politici compiacenti, che ripagano tali favori con i soldi dei contribuenti o con leggi a loro vantaggio, il tutto con il risultato di rendere sempre più ricchi e potenti sia i primi che i secondi, a discapito del resto della popolazione e della libertà. Ma è possibile contrastare il “crony capitalism”?

Forse, restando pragmatici, un modo c’è. Naturalmente, imprenditori corrotti e politici compiacenti sono sempre esistiti e sempre esisteranno. Quindi, cercare di rimuoverli interamente dalla società e dalla storia è impossibile.

Tuttavia, è possibile impedire loro di fare gravi danni, privandoli delle loro armi più potenti, quelle dello Stato. Il “crony capitalism”, infatti, esiste grazie al Big Government. Se lo Stato ha funzioni limitate, se politici e funzionari non hanno a disposizione grandi poteri e grandi quantità di denaro pubblico, allora l’incentivo a corrompere viene meno.

In uno scenario simile, molti lobbisti si ritroverebbero disoccupati, molti monopoli svanirebbero dall’oggi al domani e molti imprenditori si vedrebbero costretti a tornare all’unico sistema in grado di garantire prosperità economica individuale e collettiva, il libero mercato.

 

[1]Albert Speer, “Memorie del Terzo Reich”, capitolo VII

[2]Albert Speer, “Memorie del Terzo Reich”, capitolo XXIV

 

 

 

 

Ambientalismo e socialismo: una storia d’amore

“Gli ambientalisti sono come i cocomeri: verdi all’esterno, rossi all’interno”, dice il vecchio adagio. Questa piccola metafora contiene in sé un’importante verità. Quando, dopo il crollo del blocco sovietico, l’ideologia marxista perse gran parte della sua credibilità, i suoi seguaci si ritrovarono privi di un ideale da seguire. Molti di essi, quindi, abbandonarono la bandiera rossa in favore della bandiera verde.

Non è un caso, infatti, che i partiti Verdi come li conosciamo oggi siano nati tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta. Allo stesso modo, non è un caso che i Socialisti Democratici negli Stati Uniti abbiano fatto del “Green New Deal” un loro cavallo di battaglia.

Mentre si avvicinano le elezioni del 2020, sono sempre più numerosi i progressisti pronti a dare il loro endorsement a questo programma ambizioso, che già nel nome riprende lo spirito del fallimentare “New Deal” implementato da FDR negli anni Trenta.

Salvaguardare l’ambiente è un nobile obiettivo, condivisibile da tutti al di là del credo politico. Tuttavia, esistono alcuni punti di contatto fra ambientalismo e socialismo che possono essere sfruttati a scopo politico. In questo senso si può parlare di “ecosocialismo”.

Il primo ed il più evidente è la profonda sfiducia verso il capitalismo. Nello specifico, gli ambientalisti (o meglio, gli ecosocialisti) mettono in discussione la capacità di adattamento del sistema. Non solo, molti di loro sono genuinamente convinti che l’abolizione della civiltà capitalista sia necessaria per scongiurare un’apocalisse sempre più vicina.

Fortunatamente, tali profezie apocalittiche sono state più volte smentite dai fatti, i quali dimostrano la resilienza del capitalismo. Un esempio su tutti: la rivoluzione verde.

Nel 1968 Paul R. Ehrlich, ambientalista e biologo statunitense, pubblicò il suo bestseller “The Population Bomb”. In quest’opera egli dipingeva un futuro drammatico (gli anni Settanta), nel quale centinaia di milioni di persone sarebbero morte per via di carestie dovute alla sovrappopolazione.

La storia, come sappiamo, non è andata così. Tra il 1950 ed il 1970, lo sviluppo di nuove tecniche agricole, finanziato dalle industrie e da enti come la Rockefeller Foundation, ha reso possibile un incremento senza precedenti della produzione alimentare (rivoluzione verde).

Simili risultati, tuttavia, sono invisibili agli occhi degli ecosocialisti. La loro sfiducia verso il capitalismo resta granitica, e li spinge verso una strada già percorsa dai loro predecessori, l’intervento statale.

Gli ecosocialisti amano la burocrazia, le regolamentazioni, la visione top-down dell’economia e della società. Nel loro mondo ideale tutto, dal numero di figli che si possono avere alla quantità di acqua per lavarsi, è deciso a tavolino in un’economia pianificata, per ridurre al minimo l’impatto ambientale.

Si potrebbe pensare che la perdita di libertà sia un prezzo accettabile per salvare l’ambiente. Il problema è il seguente: l’unico risultato certo di questa linea d’azione sarebbe l’accentramento di potere nelle mani di pochi ecosocialisti. Una volta a capo dell’economia pianificata, il loro arbitrio sarebbe totale, mentre nulle sarebbero le garanzie di successo del sistema.

A dir la verità, i risultati a livello ambientale di questo sistema sono stati tutt’altro che incoraggianti in passato, come mostra il caso del lago di Aral. Il lago di Aral è, o meglio era, un grande lago salato situato fra Kazakistan ed Uzbekistan.

In epoca sovietica, i principali immissari del lago sono stati deviati per ordine delle autorità statali al fine di soddisfare i bisogni agricoli dell’Urss. In quarant’anni, i loro piani economici hanno ridotto gran parte del lago di Aral in un deserto tossico, uno dei peggiori disastri ambientali del secolo scorso.

Quindi un’economia pianificata, come proposta dai socialisti ieri e dagli ecosocialisti oggi, non solo non è più efficace nel salvaguardare l’ambiente rispetto ad un sistema capitalista basato sul libero mercato, bensì è potenzialmente molto più pericolosa.

Questo perché il secondo sistema ha una dinamicità invidiabile, che è il segreto del suo successo. Tutti sono protagonisti attivi nel libero mercato, tutti contribuiscono con le loro azioni e le loro idee alla direzione seguita dal sistema.

Certo, il contributo di un grande imprenditore, di un Elon Musk, non sarà lo stesso di una persona comune, ma la natura del sistema impedisce anche ai più ricchi industriali di ignorare le esigenze ed i desideri dei loro consumatori. In questo senso, un boicottaggio è uno strumento più potente di una rivoluzione.

Questo non accade in un’economia pianificata. In tal caso i pianificatori, una volta ottenuto il potere assoluto facendo grandi promesse, non hanno alcun incentivo reale a mantenerle, ed in caso di fallimento non corrono alcun rischio.

Esistono solo due tipi di ecosocialisti. I primi, che sanno tutte queste cose, sono spinti solo dall’avidità e dalla sete di potere, e sono parte del problema.

I secondi, che hanno realmente a cuore la causa e che sono ingannati dai primi, sono quelli che vorrei raggiungere con questo articolo.

Dimenticate la storia che vi raccontano da sempre, quella dell’imprenditore cattivo che cospira contro la Madre Terra e del politico buono che lo sconfiggerà (dopo essere stato eletto o rieletto, naturalmente).

Invece di delegare ad un politico il potere di costringere gli altri a vivere come voi vorreste che vivano, siate individualisti. Scegliete per voi stessi di vivere una vita a basso impatto ambientale, e lasciate agli altri questa stessa libertà.

Lasciate che il libero mercato sia vostro alleato, premiate con il vostro denaro le imprese che danno ascolto alle vostre richieste, e boicottate (a titolo personale) quelle che non lo fanno. Ormai è giunta l’ora di porre fine a questa storia d’amore tossica con il socialismo, ed andare avanti senza più credere nelle sue menzogne.

 

Come il “politically correct” ci rende persone peggiori

Se mai è esistita una società attenta a non urtare la sensibilità altrui, è senz’alcun dubbio la nostra. In nome del “politically correct”, grandi crociate sono state portate avanti per trovare e condannare i promotori d’idee ritenute, per un motivo o per l’altro, offensive. Eppure, dopo anni di sforzi, basta un breve giro in rete per rendersi conto del marcio dietro a questa facciata di progresso. Questo perché il “politically correct” non ci rende persone migliori. Anzi, esso contribuisce attivamente a renderci persone peggiori.

La via per l’inferno è lastricata di buone intenzioni, ed il “politically correct” non fa eccezione. Certamente esistono molte persone che, in buona fede, considerano la cultura politicamente corretta (PC culture) come uno strumento in grado di rendere il mondo un posto più accogliente e gradevole per tutti. Sfortunatamente, non è così che essa si manifesta nella vita quotidiana.

Il “politically correct” si manifesta, innanzitutto, come censura. Se un’idea è politicamente scorretta, cioè offensiva, allora non merita di essere discussa. Se questa offende molte persone, allora non si può consentire ai suoi sostenitori di parlarne, per il bene superiore. I sentimenti della maggioranza, infatti, sono più importanti della libertà di parola della minoranza.

Una simile intransigenza è, in primo luogo, incompatibile con i valori che hanno reso grande l’Occidente. La speculazione ed il dibattito fra tesi opposte sono la base del vero progresso, e non possono essere soggetti a censura. Ma questo non è l’unico problema della “PC culture”. Essa, infatti, è anche inutile e controproducente.

Il “politically correct” è inutile, in quanto non elimina il marcio, ma si limita a nasconderlo. I fanatici e gli zeloti di tutte le bandiere, infatti, non sono scomparsi, si sono solo nascosti. Inoltre, hanno elaborato sofisticate strategie per aggirare gli ostacoli dovuti alla PC culture”. L’esempio più comune è il dog whistle”.

Il dog whistle”, come suggerisce il nome, è un segnale, un messaggio che solo un pubblico ben preciso è in grado di recepire. Per esempio i neonazisti, per non essere riconosciuti come tali, hanno a disposizione una vasta gamma di termini, gesti e simboli. Inseriti in un discorso, solo altri neonazisti coglieranno il vero significato del messaggio, che passerà invece inosservato agli occhi degli altri.

Il “politically correct”, dunque, non è efficace contro i target della sua attività, ma non solo. Esso è controproducente, in quanto contribuisce alla formazione di nuovi fanatici e zeloti. Questo meccanismo è diabolico nella sua estrema semplicità.

I veri bersagli dalla “PC culture”, infatti, sono persone che hanno idee più conservatrici rispetto alla massa, specie in ambito sociale. Ma non sono jihadisti, neonazisti o ultraconservatori. Sono solo persone normali un po’ più all’antica, che non vogliono imporre agli altri le loro idee, ma non vogliono neanche rinunciarvi.

Questo è inaccettabile per i paladini del “politically correct”, per i quali il mondo si divide in progressisti (loro) e non progressisti (tutti gli altri). Ma se non sei un progressista, allora devi essere automaticamente un nazista/omofobo/sessista. Di conseguenza, o rinneghi in toto le tue idee, o diventi un paria.

Quindi è comprensibile, anche se non condivisibile, che molte di queste persone un po’ all’antica finiscano con l’essere attratte, in cerca di sostegno, dall’estremità opposta dello spettro ideologico. Del resto, come detto in precedenza, i fanatici sono diventati abili nel mascherare il loro fanatismo.

Pertanto la gente, nauseata dal “politically correct”, si rivolge verso il politicamente scorretto. Ed utilizzando il politicamente scorretto come esca, i veri estremisti conquistano un pubblico e potenziali nuovi seguaci.

Sfatiamo anche questo mito: il politicamente scorretto non è un baluardo contro le follie della PC culture. Il politicamente scorretto è una conseguenza della “PC culture”, che spesso gente priva di scrupoli usa a proprio vantaggio, per ottenere denaro, fama o sostenitori.

Ma se neanche il politicamente scorretto può fornire una via d’uscita da questo circolo vizioso, che è alimentato dall’intransigenza e dal fanatismo delle persone, e che genera a sua volta fanatici ed intransigenti, allora com’è possibile fermarlo?

Per farlo, bisogna ricorrere allo strumento che tutti gli estremisti temono: il dibattito, e di conseguenza la libertà di parola. Molti pensano che la censura sia un male necessario per difendere la libertà di parola, ma questo è un ossimoro: censurando le parole delle persone, non le cambi nel loro intimo.

Con la censura, le persone razionali continuano ad essere tali, così come i fanatici. Ma con la libertà di parola, e quindi con il dibattito, c’è la possibilità di combattere i nemici della società aperta, mostrando alla gente chi sono veramente.

Certo, se si sceglie la libertà di parola bisogna anche accettare il rischio opposto, cioè che demagoghi senza scrupoli la usino per i loro scopi. Ma questo, purtroppo, è un rischio insito nella democrazia stessa.

Per questo la libertà di parola è così importante: senza un dibattito costante che convinca le persone dell’importanza della libertà, si apre la porta ai fanatici, e quando i fanatici conquistano il potere, solo le pallottole possono toglierglielo.

 

 

Perché non possiamo (e non dobbiamo) essere “liberal”

Già decenni or sono uno dei padri del pensiero liberale, Friedrich Von Hayekdeprecava il furto del termine “liberal” da parte dei movimenti di sinistra americani. Non c’è da sorprendersi, dunque, se oggi a definirsi “liberal” siano figure come Bernie Sanders, Michael Moore e Alexandria Ocasio-Cortez, le quali nulla hanno da spartire con coloro che credono veramente nella libertà. Al di là della somiglianza fonetica, infatti, il liberalismo americano è quanto di più lontano vi sia dal Liberalismo.

Cominciamo quindi dalla base su cui si fonda tutta l’ideologia liberal, la giustizia socialeLa giustizia sociale è la scusa dietro la quale sono pronti a trincerarsi i socialisti per giustificare le loro misure più scellerate. L’idea di base è giusta: tutti gli individui devono essere messi in condizione di poter realizzare pienamente il proprio potenziale.

I liberali rispondono a questa esigenza con la meritocraziail che significa uguaglianza di opportunità: a chi possiede talento e spirito di sacrificio dev’essere offerta l’opportunità di elevarsi, ma solo l’opportunità. Non si possono e non si devono eliminare le disuguaglianze, dal momento che ogni individuo è diverso dall’altro, ma si può e si deve lavorare per “livellare il piano di gioco”.

La risposta dei liberal, invece, è per l’appunto la giustizia socialeuguaglianza di esiti. Non importa che per natura esistano persone più dotate ed altre meno, tutti devono ottenere gli stessi risultati, anche a costo di abbassare gli standard accademici o lavorativi, tutti devono guadagnare lo stesso stipendio, tutta la società dev’essere omologata.

A causa delle peculiarità della storia americana, poi, la giustizia sociale dei liberal si è tinta di razzismo. Da qui il “white privilege”, l’idea assurda che demonizza i bianchi (peggio se maschi, peggio se eterosessuali), e riduce a vittime le minoranze, rendendo di fatto impossibile qualsiasi vera emancipazione.

Se poi un individuo parte di una minoranza decide di non considerarsi una vittima, e di non aderire all’ideologia liberal, diventa oggetto di disprezzo, se non di odio. Lo sanno bene gli afroamericani che votano per il GOP.

A dispetto di quanto auspicato da Martin Luther King, ed in antitesi con qualsiasi principio liberaleil colore della pelle è tornato ad essere il criterio in base al quale assegnare un valore agli individui, tutto ciò con il plauso dei “Social Justice Warrior” affiliati ai liberal. E l’odio razziale fomentato dai SJW è solo l’inizio.

Il conflitto fra i bianchi e le minoranze, infatti, è secondario nella loro visione del mondo rispetto al conflitto storico, quello fra ricchi e poveri. L’idea marxista della lotta di classe si sta imponendo sempre di più negli ambienti liberal, soprattutto grazie al successo dei Socialisti Democratici.

Anche in America, tuttavia, l’amore per i poveri dei socialisti (cioè dei liberal) è superato dal loro odio per i ricchiQuel che è peggio, gran parte dei media è in mano loro, ed essi usano questo potente mezzo per diffondere le loro idee. Basta dare un’occhiata alla cinematografia degli ultimi anni.

Il cattivo per eccellenza, nei film che vediamo, è l’uomo d’affari, l’imprenditoreQuesta figura viene quasi sempre dipinta come un Gordon Gekko, una specie di sociopatico che rovina le vite della gente comune per il proprio tornaconto.

Anni di propaganda hanno dato i loro frutti. Oggi, proprio nel Paese che ha sconfitto l’Impero del Male, una fetta sempre più vasta della popolazione preferisce l’economia pianificata alla libera impresail marxismo al capitalismo. La cosa peggiore è che si tratta soprattutto di giovani, gli stessi che vanno ad ingrossare i ranghi dei Socialisti Democratici.

In conclusione, il rimprovero di Hayek ai liberali americani è oggi più valido che mai. Questi, permettendo ai socialisti di impadronirsi della propria terminologia, hanno dato loro gli strumenti per influenzare la coscienza popolare senza dare troppo nell’occhio. Potremmo dire infatti che solo recentemente i liberal sono usciti allo scoperto, ma ormai il danno è fatto.

Tuttavia, non è detta l’ultima parola. Se non altro, ora che l’inganno è stato svelato è possibile cominciare a combattere questa confusione ideologica, e forse arriverà il giorno in cui gli americani che credono veramente nella libertà potranno tornare a chiamarsi con il loro nome, liberali“liberal”.

Emancipazione femminile: il perché di un’anomalia storica

Sin da quando ne ho memoria, sono stato abituato a vedere donne in posizioni di potere, di prestigio, di rispetto. Questo dovrebbe essere, in sé per sé, del tutto scontato, quasi insignificante, se non fosse per il fatto che non lo è. In ogni tempo e in ogni luogo, solo in Occidente, e solo negli ultimi tre secoli la condizione della donna si è evoluta in questo modo.

La domanda da porsi, quindi, è perché solo qui, e perché solo adesso? Forse il socialismo ha eliminato le disuguaglianze fra i sessi, o forse per generosità i governanti hanno concesso il suffragio femminile, il divorzio e l’aborto? Per comprendere questa anomalia storica, è necessario identificare i principali punti di rottura fra l’Occidente moderno e le altre civiltà, passate e contemporanee.

In primo luogo, l’industrializzazione. L’impatto storico di questo fenomeno sul nostro mondo non potrà mai essere sopravvalutato, e questo vale soprattutto per la condizione della donna. Senza elettricità, macchine e la medicina moderna, le donne nei Paesi sviluppati vivrebbero ancora come le loro antenate di secoli prima, quasi tutte analfabete, impegnate esclusivamente a lavorare nei campi, a svolgere le faccende domestiche ed a partorire numerosi figli, spesso a costo della vita.

Tuttavia, il vero contributo dell’industria all’emancipazione femminile consiste nell’aver aperto alle donne il mondo del lavoro. Prima della nascita delle industrie, la manodopera femminile era confinata in una ristretta cerchia di attività economiche, spesso legate in ogni caso alla dimensione domestica (come la tessitura dei vestiti). Con l’avvento dell’industria le donne lavorano insieme agli uomini, imparano a leggere e a scrivere, acquisendo in questo modo i mezzi materiali e la volontà per vivere autonomamente.

L’industrializzazione, a sua volta, è stata resa possibile dallo sviluppo, nel corso di secoli di storia europea, di un sistema economico e produttivo favorevole all’innovazione, il capitalismo. Infatti, senza il sostegno economico di Matthew Boulton, facoltoso imprenditore britannico, James Watt non avrebbe mai avuto i mezzi per sviluppare la sua macchina a vapore, simbolo stesso della prima rivoluzione industriale. Lo stesso Boulton si interessò alle scoperte di Watt per un solo motivo: il profitto. Egli infatti era alla ricerca di soluzioni tecniche per migliorare la produttività delle proprie fabbriche. Come già menzionato, lo sviluppo industriale seguente generò una crescente domanda di manodopera, che ebbe ripercussioni soprattutto sulle donne.

Il capitalismo, a sua volta, si basa su di un singolo punto centrale, dal quale deriva tutto il resto: lo scambio volontario di merci o servizi fra due soggetti, due individui. Non può esservi coercizione, in quanto entrambi gli individui devono essere soddisfatti della transazione. Ciò è possibile solo in un sistema che metta al primo posto l’individuo e la sua libertà. Per questo, in ultima analisi, è sull’individualismo che si basano le conquiste dell’Occidente, compresa l’emancipazione femminile.

Basta pensare ai diritti per cui hanno combattuto le prime femministe: l’individuo ha diritto a prendere parte alla vita pubblica dello Stato, e quindi il voto deve essere esteso anche alle donne; l’individuo ha diritto a decidere in autonomia sulla propria vita affettiva e sessuale, e quindi il divorzio; l’individuo ha diritto sul proprio corpo, e quindi l’aborto (anche se in questo caso, essendo per forza di cose coinvolti più individui, ritengo sia necessario che venga preso in considerazione l’interesse di tutte le parti).

Il movimento femminista delle origini, dunque, aveva un’importante componente individualista, e quindi liberale, e non è un caso che tra i suoi sostenitori ci siano stati grandi nomi liberali come quello di John Stuart Mill. Questa componente si è poi persa nel tempo, e oggi il movimento femminista, dominato dalla sua componente marxista, si batte contro il patriarcato, contro il “gender pay gap” e in generale contro le disuguaglianze (ma solo in Occidente ovviamente, per loro le donne degli altri Paesi non contano niente), proponendo misure collettiviste come le ridicole quote rosa.

L’involuzione subita dal movimento femminista, tuttavia, non ne cancella le vere origini, e sebbene oggi molte femministe siano contro l’industrializzazione, il capitalismo e l’individualismo, è proprio grazie alla combinazione di questi fattori nel corso di secoli se anche loro, così come tutte le altre donne che hanno la fortuna di vivere nei Paesi occidentali, sono libere di cercare la propria felicità, senza influenze esterne che non siano quelle dovute al caso.

Egoismo individuale e bene collettivo: la favola delle api

Qual è il segreto per costruire una società prospera? Una società in un cui la ricchezza sia capillarmente diffusa, in cui l’individuo sia libero di realizzare a pieno il proprio potenziale?

Per secoli, filosofi e scrittori hanno descritto società ideali, utopie, che in genere presentano sempre lo stesso denominatore comune: lo Stato-Leviatano e l’individuo ridotto a uomo-massa. Che si tratti della Repubblica di Platone o della Città del Sole di Campanella, ci viene proposto sempre lo stesso arcaico punto di vista: l’individuo è egoista, corrotto, e solo uno Stato potente può salvarlo da sé stesso.

Ma se invece non fosse così? Se invece fossero proprio i vizi dell’uomo, primo fra tutti l’esecrato egoismo, la chiave per costruire una società più prospera e più giusta?

Questa non è solo una mia radicata convinzione, ma anche quella di Bernard de Mandeville, autore de “La favola della api“, il cui sottotitolo è “Vizi privati e pubbliche virtù“.

In questo breve apologo, Mandeville presenta un florido alveare, palesemente ispirato all’Inghilterra dell’epoca, in cui ogni ape persegue indefessa il proprio tornaconto. La ricerca di lussi sempre più grandi domina l’alveare, stimolando così il commercio, l’industria, la produttività ed il progresso scientifico. Tutte le api si adoperano per elevare la propria condizione, e così facendo sono inconsapevolmente responsabili per il benessere generale dell’alveare.

Alla fine, tuttavia, la prosperità dell’alveare giunge al termine quando il suo “vizio”, per mezzo di Giove, viene rimpiazzato dalla “virtù”. Questa riforma dei costumi abolisce il lusso e l’egoismo, sostituendoli con la frugalità e l’onestà. Insieme al “vizio”, però, viene meno il motore stesso dietro al progresso della società: i traffici commerciali vengono abbandonati, le arti e i mestieri regrediscono, in quanto le nuovi api “virtuose” sono ora soddisfatte di quanto già posseggono, e non si industriano più a migliorare le loro condizioni di vita, paghe della propria  “virtù”.

Questo genera una grave crisi che impoverisce l’alveare, portando alla morte di gran parte della sua popolazione, mentre le api sopravvissute si ritrovano a vivere in condizioni miserevoli rispetto al passato.

Come si evince da questo apologo, Mandeville è giunto, precedendo Smith, alle stesse conclusioni dell’economista scozzese. Questo perché il suo oggetto di studio è lo stesso di Smith, vale a dire l’Inghilterra del Settecento, luogo di nascita del capitalismo, della rivoluzione industriale e del Liberalismo.

Proprio la combinazione fra questi 3 fattori ha trasformato in poco più di un secolo l’Inghilterra, da Stato ai margini dell’Europa a prima iperpotenza della storia. Ma l’Inghilterra non è un esempio isolato: in ogni tempo ed in ogni luogo, queste forze hanno cambiato il destino di intere nazioni, a prescindere dalla loro ricchezze naturali: quale altra risorsa ha un Paese come la Svizzera, se non il carattere dei suoi abitanti?

Ma affinché tutto questo avvenga, è necessario un catalizzatore, qualcosa che dia agli individui la forza di andare avanti, incuranti delle sconfitte, senza mai perdere di vista l’obbiettivo finale: quel catalizzatore è, secondo me, una sana dose di egoismo. Non esiste a mio parere religione o ideologia politica in grado di fornire una motivazione più grande dell’amore per sé stessi connaturato in ognuno di noi.

Anzi, non è un caso che dietro a molti dei crimini più orrendi mai compiuti in nome di un credo religioso o politico vi sia un’intenzione altruistica: i nazisti di ieri, così come i jihadisti di oggi, sono mossi dalla certezza di contribuire alla creazione di un mondo migliore, e per questo fine altruistico sono pronti a sacrificare tutto, in primis il loro ego. Il problema è, per dirla con Asimov, che mentre il bene individuale è facilmente osservabile e misurabile, quello collettivo o dell’intera umanità comprende semplicemente troppe variabili, che neanche il cervello positronico di un robot può risolvere, figurarsi quello di un semplice essere umano.

Per questo, penso che l’unico modo per fare il bene sia quello di partire dal livello più basso possibile, non dall’umanità intera, non da una nazione, bensì dalla più piccola e bistrattata delle minoranze, l’individuo, facendoci guidare dal nostro ego verso l’ autorealizzazione.

Autarchia: una pericolosa utopia

Il dibattito fra libero mercato e protezionismo non è certo un’invenzione dei nostri tempi. Già nell’Ottocento Cavour,convinto sostenitore del libero scambio,con le sue politiche economiche rese il Regno di Sardegna il più florido fra gli Stati italiani pre-unitari. Al contrario uno dei suoi successori,Francesco Crispi,nel pieno della grande depressione del 1873-1896 si imbarcò in una guerra commerciale contro la Francia,il nostro principale partner economico di allora,che risultò disastrosa per il Paese. Allora come oggi,dunque,una grave crisi economica spinse molti governi ad abbandonare il libero scambio per adottare politiche protezionistiche, che prolungarono ulteriormente la crisi. Il protezionismo, malgrado i danni che esso determina, non è nulla se confrontato all’antitesi stessa del libero mercato, l’autarchia.

Per “autarchia” si  intende l’assoluta autosufficienza del mercato nazionale,in grado di rispondere al fabbisogno interno di qualsiasi merce indipendentemente dagli scambi con i mercati esteri. Ciò era lo scopo ultimo della politica economica dei regimi totalitari europei del secolo scorso, ed è oggi il principio ispiratore delle proposte economiche di molti movimenti populisti,no global e della nuova sinistra.

Viene da chiedersi se l’autarchia possa essere considerata non solo un modello teorico,ma anche una concreta politica economica. A parere di chi scrive la risposta è sì,ma non nel XXI secolo. In passato infatti non sono mancati esempi reali di autarchia: cos’era infatti una corte feudale dell’Alto Medioevo,se non un microcosmo autarchico, in cui produttore e consumatore coincidevano nella medesima persona,il contadino?

Come per molte altre realtà storiche,dalla schiavitù al colera,a rendere obsoleta l’autarchia è stato lo sviluppo tecnico-scientifico. Mentre la civiltà feudale necessitava di risorse presenti ovunque nel mondo,quali terre fertili da coltivare e legname come combustibile,la nostra è una civiltà basata sulla tecnologia moderna,la quale tuttavia richiede materie prime che si trovano solo in aree specifiche del globo,come il petrolio (essenziale per carburanti,materiali sintetici e agricoltura) e le “terre rare”,come il neodimio,essenziali per i nostri dispositivi high-tech,dagli smartphone alle automobili elettriche. Ne consegue che nessuno Stato moderno possa sopravvivere senza scambi commerciali con altri Stati,in quanto non esiste paese al mondo dotato di tutte le risorse necessarie alla tecnologia moderna. Per ovviare a questo problema esistono tre possibili soluzioni: l’abbassamento delle condizioni di vita degli esseri umani,la guerra o il libero mercato.

La prima è la via intrapresa dal regime che governa la Corea del Nord,la cui ideologia prende il nome di “Juche”,generalmente tradotta come “autarchia” per l’appunto. La seconda è la scelta spesso adottata dagli Stati Uniti,che dalla seconda guerra mondiale in poi hanno sostenuto dittature e combattuto guerre al fine di assicurarsi il controllo di mercati esteri con le loro risorse. La terza,il libero mercato,rappresenta un modo per rimediare agli squilibri esistenti fra le nazioni senza ricorrere alla forza militare e senza rinunciare alle conquiste della tecnologia moderna,rendendo quindi possibile la ridistribuzione della ricchezza mondiale, non quella da attuare con la forza,figlia dell’ideologia marxista,bensì quella fra produttore e consumatore figlia della libertà economica,presupposto indispensabile per ogni altra libertà personale.

Ne consegue che l’autarchia è doppiamente pericolosa,in quanto ha come risultato un mercato interno bisognoso di espansione (spesso causa di guerre) e l’impoverimento delle nazioni. Soprattutto,l’autarchia è una grave restrizione alla libertà umana. Sin dalla nascita della civiltà,l’uomo ha condotto scambi economici con i suoi simili,prima con il baratto e poi con la moneta. Questi scambi, che oltre alle merci veicolano la diffusione delle idee, devono essere salvaguardati in una società libera,ed è per questo che l’autarchia è la compagna naturale del totalitarismo.