Chernobyl e l’incalcolabile prezzo delle menzogne

Se prima temevo il prezzo della verità, ora io mi chiedo solamente: qual è il prezzo delle menzogne?
– Valery Legasov

L’ultima produzione di HBO, ampiamente acclamata dalla critica[1] e dal pubblico, è la serie Chernobyl. In 5 tesissimi episodi, la serie televisiva espone tutti i dettagli e i retroscena della famosa tragedia nucleare sovietica in maniera ineditamente cruda, feroce, viscerale.

Chernobyl riesce a esplorare tutta la carica drammatica di un nemico implacabile e invisibile: le radiazioni. Questo fantasma prende vita dai resti dell’esploso reattore 4 della Centrale Nucleare Vladimir I. Lenin, la famosa Centrale di Chernobyl, rendendo la storia di tutti i personaggi un vero supplizio. Tutti sono consapevoli di essere già stati condannati a morte – alcuni moriranno nel giro di giorni, altri in qualche mese, altri ancora in pochi anni.

Non si può scappare dalle radiazioni. Il fisico nucleare Legasov afferma a un certo punto che the atom is a humbling thing (traducibile con “l’atomo è qualcosa che ci rende più umili”), appena per sentirsi ribattere dal ministro Shcherbina it’s not humbling, it’s humiliating (parafrasando, non ci rende più umili, ci umilia). Nel contesto della serie, entrambi hanno ragione: i personaggi, tutti, senza esclusioni, si sentono tanto umili quanto umiliati di fronte all’ineluttabilità della catastrofe che li circonda. Il tocco finale è la colonna sonora, interamente registrata proprio all’interno di alcune centrali nucleari, che è capace di mantenere il telespettatore in un’estasi di suspense soffocante.

Come dicevo, Chernobyl vanta numerosi meriti cinematografici e i produttori hanno avuto la singolare capacità di far sì che il pubblico riuscisse a vivere l’ampia gamma di emozioni e angustie che le vittime della cittadina sovietica di Pripyat provarono all’epoca del disastro. Ma la serie va ben oltre: se molte volte rimaniamo soffocati di fronte al peso dell’ecatombe nucleare che si sviluppa davanti ai nostri occhi, non possiamo non rimanere asfissiati in maniera analoga di fronte al peso della devastazione sociale sovietica che fa da background alle tragedie narrate. Ed è quest’ultimo la causa del primo, concetto che è bene che risulti chiaro a tutti fin dal principio.

Mi spiego meglio: il catastrofico incidente nucleare di Chernobyl, responsabile della devastazione di una ricchissima regione, tale da renderla simile ai peggiori scenari dei film post-apocalittici[2], non è la vera – o, comunque, non l’unica – tragedia raccontata dalla serie.

Il vero flagello della serie è umano, troppo umano, ed è responsabile delle terribili conseguenze che destano l’orrore del pubblico durante 5 interi episodi. Chernobyl ci offre alcuni dei migliori insight circa le conseguenze della tirannia e della menzogna.

Jordan Peterson afferma che “in a true tyranny, everyone lies about everything all the time. And that’s why it’s hell”. 

La tragedia affonda ivi le proprie radici, nella persistente e completa negazione della realtà. In un regime totalitario regna il più assoluto dei relativismi. Non esiste ciò che è giusto e ciò che è sbagliato: esiste solamente la cieca obbedienza. Obbedire è essere liberi, se mi permettete di parafrasare le parole di George Orwell. Per tale motivo, tutti mentono su tutto. Tutti hanno bisogno di mentire su tutto per tutto il tempo.

E questa negazione della realtà, nel 1986, è una bomba a orologeria pronta a esplodere.

Il fatto che l’incidente in questione sia avvenuto proprio in una centrale nucleare intitolata a Vladimir I. Lenin è una di quelle tristi ironie della storia umana che non passa inosservata a uno sguardo attento. Il sistema delle centrali nucleari era, all’epoca, il grande orgoglio sovietico. L’Unione Sovietica possedeva un numero di centrali maggiore rispetto a qualsiasi altro Paese e la complessa rete di energia nucleare rappresentava la perfezione del socialismo, della pianificazione centralizzata, dei piani quinquennali di Stalin e del sistema istituzionale votato a obbedienza, gerarchia e ordine. Era una prova del fatto che il socialismo era in grado di raggiungere anche il più avanzato livello tecnologico: era sufficiente obbligare le persone a perseguirlo.

L’esplosione del reattore 4 seppellisce questa favola lungamente decantata. Dopo la catastrofe, il mondo intero nota che “il re è nudo” (e lo è sempre stato), anche i più alti esponenti del Partito Comunista Sovietico. Lo stesso Gorbachev, nelle sue memorie, sostiene espressamente che l’incidente è stato il grande responsabile della caduta dell’URSS.

Nella serie, egli afferma “our power comes from the perception of our power”, ossia che il reale potere dell’Unione Sovietica deriva dalla percezione che si ha di tale potere. È possibile sostituire il regime sovietico con qualsiasi regime collettivista, o, più semplicemente, con qualsiasi regime che, in maggiore o minor misura, preferisce appiattire l’individuo, trasformandolo in un mero ingranaggio del sistema. Laddove gli individui sono dei semplici mezzi, e non dei fini, le tragedie sono sempre all’orizzonte.

Continuando l’analisi, l’URSS si autosostenta grazie al potere delle apparenze, della percezione, della menzogna. Sfortunatamente per i sovietici, la Verità è già di per sé un potere, un potere in grado di annichilare le apparenze.

La Verità, così come la radioattività – che lascia il pubblico senza fiato in ogni singolo minuto della serie –, è ineluttabile, trascendentale, e può essere mortale. E Chernobyl è stata in grado d’intrecciare simbolo e tragedia numerose volte nei 5 episodi. Il pubblico si sente soffocato, sì, perché le radiazioni rappresentano una minaccia troppo grande alla vita di tutti i personaggi, ma si sente anche, talvolta incoscientemente, asfissiato dal peso incontestabile della Verità, della realtà che s’impone con la forza anche con chi si rifiuta di vederla e affrontarla.

Risulta chiaro fin dall’inizio che l’incidente della centrale nucleare è il risultato di una serie di menzogne in crescendo, che finiscono per sommergere tutta la delicata attività dell’impianto in un mare d’ignoranza e decisioni irresponsabili e imprudenti. Non poteva esservi un altro finale possibile in un contesto del genere.

Gli operatori addetti alla sala di controllo mentono a loro stessi, accettando l’autorità abusiva e insignificante di Anatoly Dyatlov, per paura del potere che questi detiene all’interno del regime. I superiori di Dyatlov, a loro volta, hanno mentito più e più volte nel programma dei test della centrale, disobbedendo a tutti i protocolli e alle linee guida delle operazioni di controllo di sicurezza: il reattore 4 era stato inaugurato anni prima dell’incidente e i responsabili della centrale erano stati insigniti con tutti gli onori sovietici possibili in una cerimonia che altro non era che una pantomima, dal momento che l’ultimo test di sicurezza previsto, requisito essenziale per garantire il corretto funzionamento del reattore, non era mai stato eseguito. Tutta la ricerca e la progettazione delle centrali nucleari dell’Unione Sovietica era una grande farsa, in cui era stato possibile occultare e distruggere pagine e pagine di ricerca scientifica i cui risultati potevano risultare scomodi per il regime.

E lo stesso processo atto a individuare i colpevoli di questo disastro finisce con l’essere anch’esso una farsa,  una vera e propria montatura, che acquisisce un senso solo per gli individui coinvolti, parte integrante di un sistema schiavo della menzogna, delle apparenze, della forma e della liturgia insensata.

Se non ti piace o ti risulta scomoda la Verità contenuta nella conclusione di una ricerca scientifica in ambito fisico-nucleare, non vi è nulla di più semplice che distruggerla ed esiliare il ricercatore. È in questo modo che i sovietici affrontavano la Verità. Pensavano che fosse il metodo più facile. Ma aveva ragione Ayn Rand, quando diceva che “puoi anche ignorare la realtà, ma non puoi ignorare le conseguenze della realtà”.

Distruggere tutti i registri dei centri di ricerca nucleare in cui si fa riferimento al fatto che i reattori RMBK non sarebbero sicuri, non li rende sicuri, ma semplicemente ostacola la ricerca di metodi e protocolli atti a incrementarne la sicurezza e a ridurre rischi operazionali potenzialmente letali. Quei reattori non erano dotati di un sistema di spegnimento d’emergenza che fosse realmente efficace. E, seppur consci di ciò, gli scienziati responsabili portarono comunque avanti il progetto. Il risultato di questo climax di menzogne non poteva essere diverso da quello che poi avvenne: il reattore 4 esplose durante un test di sicurezza, creando un immenso Nuclear Wasteland.

Chernobyl è la prova che l’uomo, in fin dei conti, può scegliere se aggrapparsi alla menzogna o alla Verità, ma la sua scelta avrà necessariamente un costo, delle conseguenze. È impossibile fuggire dalle conseguenze.

Ignorare la tragedia – o mentire su di essa – è una scelta. Purtroppo però la realtà ti divorerà comunque, che tu la riconosca oppure no.

L’altra opzione è accettare la realtà, e, in tal caso, l’uomo è portato al sacrificio finale. Il sacrificio è il pesante fardello che portiamo e, se siamo in grado di sopportarlo, se lo portiamo con coscienza, possiamo affrontare a testa alta le dure conseguenze della realtà. Perseverare nella menzogna non solo coltiva tragedie, ma ci priva anche della capacità di affrontarle quando queste accadono davanti ai nostri occhi.

Questo è uno dei punti forti della serie.

Chernobyl dimostra che l’unica forma di salvarsi e salvare il prossimo è accettare la realtà. Legasov e Shcherbina interrompono il ciclo di menzogne e sono i primi ad accettare come un fatto il verificarsi dell’esplosione. Tutti gli altri personaggi prima di loro non fanno che ripetere l’insana domanda “ma come può un reattore RBMK esplodere?”, come se la supposta impossibilità teorica – o la ripetizione delle proprie convinzioni – possa essere capace di cambiare la realtà. Dyatlov non ammetteva l’esplosione del reattore, neanche dopo i reiterati rapporti dei suoi sottoposti, che entravano nella sala di comando vomitando, col viso ustionato, la pelle che si disfaceva sotto i loro occhi, la disperazione stampata sul volto. “State avendo delle allucinazioni”, concludeva Dyatlov.

Legasov, al contrario, accetta la realtà dell’esplosione del reattore fin dall’inizio. A partire da lì, con il fortunato aiuto del ministro Shcherbina, decide di sacrificarsi per impedire la trasformazione di mezza Europa in un deserto nucleare, con la consequenziale morte di decine o centinaia di milioni di persone. Il sacrificio può essere compiuto solo dopo essere entrati effettivamente in comunione con la Verità – o con la realtà. Ed è pertanto possibile solo una volta interrotto il ciclo di (auto)inganni, dopo aver percepito che non sono gli altri ad avere le allucinazioni.

In un determinato momento della serie, l’incisivo Shcherbina dice a Legasov: “Hai già lavorato in miniera? Ti do un consiglio: di’ la verità. Questi uomini lavorano nell’oscurità. Vedono tutto”.

Gli unici qualificati per cercare di stabilizzare l’azione potenzialmente distruttiva del nucleo – che potrebbe causare un’esplosione termoelettrica in grado di far saltare in aria gli altri 3 reattori di Chernobyl – sono i minatori, incaricati di scavare un tunnel sotto il reattore per consentirne il raffreddamento prima che il nucleo incandescente sciolga le strutture circostanti raggiungendo le cisterne d’acqua. I minatori sono anche uomini che vivono nell’oscurità e che non sopportano le menzogne; si importano della vita dei propri compagni e ricercano la verità in ogni parola. Proprio per questo, sono uomini che non accettano le menzogne ufficiali delle autorità statali.

I minatori possono anche obbedire agli ordini del governo sovietico – cosa che effettivamente fanno, votandosi volontariamente al sacrificio finale –, ma solamente dopo aver saputo esattamente cosa stanno affrontando. Difatti, sono disposti a morire pur di non vendere la propria coscienza ai burocrati sovietici, nel caso in cui non mostrino loro i fatti così come stavano. Fatto sta che i minatori impediscono che la menzogna penetri nelle loro coscienze.

A causa dell’attività del nucleo di uranio, il calore durante gli scavi aumenta tanto che questi sono costretti a lavorare nudi per poterlo sopportare. Ciò non sminuisce la loro dignità, bensì la mette ancor più in evidenza agli occhi degli altri. I minatori non si vergognano di essere nudi di fronte alle autorità e al resto del mondo. In realtà, simbolicamente, i minatori sono sempre stati nudi, ancora prima di togliersi i vestiti.

La serie termina con Legasov che, in una delle più profonde conclusioni di una serie TV, sentenzia: “i nostri segreti e le nostre menzogne sono praticamente ciò che ci definisce. Quando la verità offende, noi mentiamo, ancora e ancora, fino a dimenticarci della sua esistenza… ma la verità continua a esistere. Ogni menzogna che raccontiamo genera un debito con la verità. E prima o poi questo debito va pagato.”

“Quando la verità offende, noi mentiamo”. Nonostante ciò, Chernobyl e Ayn Rand ci provano che mentire è impossibile, perché il debito (per Chernobyl) e le conseguenze (per la Rand) dovranno inevitabilmente essere pagati.

La menzogna altro non è che un modo per ritardare un’esazione inevitabile da parte della realtà, il più puntuale dei creditori.

Ogni domanda scomoda che scegliamo di non fare per quieto vivere, ogni volta che accettiamo a capo chino le più evidenti distorsioni della realtà, ogni verità che ci offende, è semplicemente un indebitamento crescente nei confronti della realtà. Sempre Peterson ci insegna che “dire la verità è trarre all’Essere la più accettabile delle realtà. La verità costruisce edifici che possono rimanere in piedi per migliaia di anni. La verità alimenta e veste i poveri, e rende le nazioni ricche e sicure. […] La verità è la più grande e inesauribile risorsa naturale. È la luce nell’oscurità. […] In Paradiso, tutti dicono la verità. È questo che lo rende il Paradiso”.

Chernobyl ci fa pensare alla nostra civiltà, che accetta sempre più che vengano corrotte le proprie istituzioni, il proprio linguaggio e i propri valori fondanti, tra cui il più grande di essi, la libertà. Ci mostra che si cede sempre maggior spazio, codardamente e convenientemente, al politicamente corretto, alle reiterate farse ideologiche e allo stretto prisma marxista per l’interpretazione della complessa e ricchissima realtà sociale. Chernobyl ci dimostra come la nostra civiltà, una volta basata nella Verità e nella ragione, sia stata ora ricostruita sulle fragili basi della menzogna e del relativismo. Ci costringe a guardarci allo specchio, e ciò che vediamo non ci piace.

In una delle ultime scene, la telecamera riprende un dipinto sulla parete di una vecchia scuola della cittadina di Pripyat, in cui è rappresentata una donna con un bambino in braccio. La parete risulta scollata e la bocca della donna, distrutta.

La serie si chiude così, con un’eloquente allerta sui costi del silenzio e della nostra distruttiva passività. La radioattività, la centrale nucleare, l’esplosione, Pripyat. Nulla avviene per caso, niente è fortuito. La Verità è il più puntuale e severo dei creditori e, a questo ritmo, il sacrificio può finire con l’essere la nostra unica via d’uscita possibile.

Il registro ufficiale russo dichiara ancora oggi che vi furono solamente 31 vittime nell’incidente di Chernobyl.

______________________________________________

[1] Chernobyl ha ottenuto il voto 9.6 sul sito IMDb, il che la rende la serie TV meglio valutata della storia, superando anche serie di alto livello come Breaking Bad e Game of Thrones.

[2] Secondo le stime, quell’immensa regione rimarrà inospitale per i prossimi 24.000 anni.

 

Il Signore degli Anelli di J.R.R. Tolkien: un inno al Liberalismo

J. R. R. TOLKIEN E IL LIBERALISMO

 

Il Signore degli Anelli, di John Ronald Reuel Tolkien, è considerato l’opera fantasy più acclamata del XX secolo, con circa 150 milioni di lettori in tutto il mondo. Nella prefazione, Tolkien, che sentiva la necessità di spiegare in maniera più dettagliata l’obiettivo della sua opera, scrisse che:

Il motivo primo è stato il desiderio di un narratore di provare a cimentarsi in una storia veramente lunga che potesse attirare l’attenzione dei lettori, divertirli, deliziarli e a tratti anche eccitarli o commuoverli.

Per Tolkien, dunque, l’obiettivo principale dell’opera era dilettare e divertire se stesso e, come ogni autore che si rispetti, desiderava che la sua storia fosse divertente da leggere quanto lo era stato per lui scriverla. Diede vita alla Terra di Mezzo solo perché sentiva la necessità di dare un contesto ai propri piacevoli esercizi linguistici – adorava creare nuove lingue, grammatiche, ortografie, etc. – e successivamente si innamorò di questo nuovo mondo, che continuava a crescere in profondità ed estensione.

La Terra di Mezzo di Tolkien è, in fin dei conti, un prodotto eminentemente individuale, specchio del proprio essere. Ed egli prende la felice decisione di condividere una parte di questa sua visione del mondo con i suoi lettori, ossia, con tutti noi: la sua opera riflette tutto ciò che l’autore considera buono, spregevole, gradevole, sgradevole, morale, immorale. Ed è proprio la particolare visione del mondo di Tolkien, satura di profonde e personali impressioni filosofiche, teologiche e politiche, che ha finito per regalarci una delle opere più meravigliose del suo genere. Un’opera repleta del più puro liberalismo e della più sincera difesa dell’individuo!

È possibile analizzare l’opera di Tolkien attraverso diverse “chiavi di lettura”, ma mi atterrò, per ovvie ragioni, alla chiave di lettura politica.

Nella prima opera pubblicata, Tolkien dà i natali a una razza molto particolare: gli Hobbit. Questi sono un riflesso dell’autore stesso, della sua visione del mondo e dell’importanza che egli dava alle cose: l’Hobbit è un piccolo-borghese, avvezzo alla vita nei campi, attaccato alle piccole comodità domestiche (come i 6 pasti quotidiani), che, improvvisamente, viene chiamato ad essere protagonista dei grandi eventi della propria epoca, e non si nega a tale ruolo.

Tolkien era un umile professore universitario che all’improvviso si vide catapultato nelle trincee della Prima Guerra Mondiale. Bilbo era un Hobbit semplice e mite che inaspettatamente si ritrovò alla ricerca dei tesori nascosti nella Montagna Solitaria, che era stata saccheggiata e conquistata dal terribile drago Smaug, responsabile della sottomissione del più grande regno dei Nani dell’epoca.

La storia di Bilbo Baggins, in tal senso, mostra la fede di Tolkien nella capacità dell’individuo – anche del più semplice e pacato, anzi, talvolta proprio del più semplice e pacato – di realizzare grandi sacrifici, di uscire dalla propria comfort zone, di prendere in mano le redini del proprio destino e di essere capace di grandi atti di coraggio ed eroismo in nome di una giusta causa.

Ma Lo Hobbit – mi perdonino i fan più appassionati dell’opera prima di Tolkien – è un semplice assaggio rispetto alla grandezza che ci aspetta ne Il Signore degli Anelli. Ivi veniamo a contatto, grazie alla genialità di Tolkien, con il liberalismo nella sua forma più pura: la diffidenza nei confronti del Potere.

Lord Acton, il celebre storiografo britannico, affermò una volta, giustamente, che:

Il potere tende a corrompere, il potere assoluto corrompe in modo assoluto. I grandi uomini sono quasi sempre malvagi.

Tale visione del mondo rappresenta l’essenza stessa de Il Signore degli Anelli, com’è possibile percepire in diversi momenti dell’opera. Cercherò di raccontarvi gli episodi che considero più rivelatori, giacché, data la vastità dell’opera, la sua densità e la ricchezza di dettagli, non mi sarebbe possibile esaurire l’argomento in un breve articolo.

L’Unico Anello, l’Anello del Potere, rappresenta il fulcro del libro e si configura come la rappresentazione più esplicita del “Potere”, appunto, che può essere assimilato al concetto di “Stato”. Il dialogo tra Boromir e Aragorn ne La Compagnia dell’Anello è, in tal senso, rivelatore. Quando a Gran Burrone Boromir scopre che Gandalf e Frodo possiedono l’Anello, propone, con molta naturalezza, che venga utilizzato per combattere Sauron, ossia, per combattere il Male[1].

Per Boromir, chi è in possesso del “Potere”, ha davanti a sé un immenso ventaglio di opportunità: è possibile usare il Potere per correggere – magari addirittura sconfiggere – il Male. Il Potere Assoluto, chiaramente, potrebbe addirittura annientare il Male Assoluto: potrebbe concederci “il Paradiso in Terra”. Boromir è un costruttivista, crede che sia possibile la disgregazione dello status quo in favore della costruzione di un futuro migliore, ideale, perfetto, dove il Male non esista. Ritiene che sia possibile costruire, in maniera premeditata, il Paradiso in Terra. Come? È sufficiente usare l’Anello, riunire nelle proprie mani il Potere Assoluto con buone intenzioni e l’obiettivo di fare del bene. Boromir è, purtroppo, la rappresentazione della mentalità maggioritaria dei nostri giorni, della fede puerile nella capacità di riscrivere tutto da zero. La convinzione che, con le persone giuste, si possa raggiungere qualsiasi obiettivo.

Aragorn controbatte con fermezza che è da ingenui pensare che l’Anello possa rispondere a qualcuno al di fuori di Sauron – ossia, che il Potere possa rispondere a qualcosa di diverso dal Male. In altre parole, non è possibile fare del bene attraverso il Potere, per quanto buone possano essere le intenzioni di chi lo adopera. Infatti, è evidente come Aragorn non dubiti della purezza e della virtù degli intenti di Boromir, ma semplicemente nutra una profonda diffidenza nella possibilità di usare il Potere per (ri)costruire qualcosa di positivo – e la sua storia familiare, ossia la morte del Dùnedain Isildur ai Campi Iridati, rappresentava per lui il più fulgido ricordo dei risultati di questo tipo di fede.

Tolkien, come il buon liberale che era e in virtù della naturale sfiducia che nutriva nei confronti del Potere, si servì di altri due momenti e di due personaggi totalmente distinti per dimostrare la fallacia e l’ingenuità del raziocinio costruttivista, oltre alla necessità di una fortissima convinzione e di principi ben radicati per resistere alla soluzione più semplice (e catastrofica).

Il primo personaggio è Gandalf.

Quando Frodo, all’inizio de La Compagnia dell’Anello, atterrito dall’immensa responsabilità che rappresentava l’Anello di Bilbo appena ricevuto, decide di offrirlo a Gandalf, il mago, personificazione della prudenza e della saggezza, nonché della coscienza stessa di Tolkien, risponde:

“No!” gridò Gandalf, saltando in piedi […] “Non mi tentare! Non desidero eguagliare l’Oscuro Signore. Se il mio cuore lo desidera, è solo per pietà, pietà per i deboli e bisogno di forza per compiere il bene. Ma non mi tentare! Non oso prenderlo, nemmeno per custodirlo senza adoperarlo”[2].

Per Frodo, Gandalf è un uomo molto più saggio e assennato di quanto egli stesso potrebbe mai sognare di essere, per cui decide, in nome della prudenza, di affidargli l’Anello. E Gandalf, proprio per essere un uomo tanto saggio e assennato, riconosce l’Anello come un oggetto oscuro, degno del più profondo timore, e non osa toccarlo neanche per un solo istante, riconoscendo la tentazione irresistibile che esso rappresenta.

L’Anello (o il Potere) ci si offre come la soluzione più semplice a tutti i nostri intenti, anche ai più puri, lodevoli e irreprensibili, come la pietà verso i deboli, la misericordia e la necessità premente di fare del bene. La risposta dell’Unico Anello ai nostri più profondi desideri è ciò che vi è di più tentatore: “il mondo è una successione infinita di ingiustizie, ma, se mi terrai con te, avrai nelle tue mani tutto il Potere che occorre per correggerle e sanarle. Io ti darò il Potere di aggiustare tutto. Ti basta mettermi al dito”.

La tentazione dell’Anello – o la tentazione del Potere, ai giorni nostri – è in grado di corrompere anche i migliori di noi e nel buio incatenarli. E Gandalf, il liberale, ne era consapevole.

Il secondo personaggio è Faramir, fratello di Boromir.

Frodo e Sam, nel loro viaggio verso il Monte Fato per distruggere l’Anello, lo incontrano insieme ai suoi soldati, di pattuglia nel territorio di Gondor. Il prudente e lungimirante Faramir, prima di eseguire i rigidi ordini del Signore di Gondor (sentenziare a morte qualsiasi individuo si aggirasse per il regno senza autorizzazione), decide di ascoltare ciò che i due piccoli uomini sconosciuti – che successivamente scopre essere “Hobbit” – hanno da dire.

Faramir viene così a sapere che Frodo e Sam fanno parte della Società dell’Anello insieme a suo fratello Boromir e finisce per ricevere la conferma della morte di questi. Frodo e Sam, visibilmente a disagio una volta saputa la parentela di Faramir e Boromir, dal momento che quest’ultimo aveva cercato di convincerli con la forza a consegnargli l’Anello proprio prima di morire in un’imboscata degli Orchi, rimangono sorpresi dalla schiettezza e dalla cautela di Faramir, che sembra “meno ambizioso e orgoglioso, e al tempo stesso più saggio e severo”[3] del fratello:

“Che cosa sia in realtà tale Oggetto, ancora non saprei dire; ma deve trattarsi di qualcosa di assai potente e periglioso. Un’arma crudele forse […] Se questo oggetto poteva procurare vantaggi a un guerriero, comprendo bene come Boromir, fiero e spericolato, sovente avventato, sempre ansioso di vedere la vittoria di Minas Tirith (e con essa la propria gloria), potesse desiderarlo ed esserne attratto. Ahimè, perché partì lui per quella missione? Mio padre e gli anziani avrebbero dovuto scegliere me, ma egli si fece avanti, essendo il maggiore e il più ardito, e non si lasciò distogliere da nessuno”[4].

E, vedendo come gli Hobbit siano ancora molto timorosi e sospettosi, Faramir conclude, in uno dei momenti più profondi e intrisi di significato dell’opera:

Ma non avere più timore! Io non m’impadronirei di codesto oggetto, neppure se lo trovassi lungo la strada, neppure se Minas Tirith stesse cadendo in rovina e io solo potessi salvarla, usando così l’arma dell’Oscuro Signore per il bene della mia città”.

Con queste parole e con questo esempio, Faramir, che ha Sam e Frodo sotto custodia militare e può benissimo impadronirsi dell’Anello (il Potere Massimo e Assoluto) e servirsene (per raggiungere il bene comune) a proprio piacimento, rappresenta per la seconda volta e in una circostanza critica del libro l’atteggiamento di un autentico liberale.

Faramir, come Gandalf, come Aragorn e come lo stesso Tolkien, diffida del Potere. E tale diffidenza lo conduce attraverso un sentiero etico e morale talmente solido da portarlo ad affermare che non si servirebbe del Potere neanche se ne entrasse in possesso per caso (cioè se lo ottenesse senza sforzo e senza coercizione) o se rappresentasse l’unica possibilità di salvezza e di fare del bene per il proprio regno in rovina.

E, considerando la situazione in cui fa tale affermazione, Faramir non sta solo pronunciando belle parole prive di significato.

In quel momento, mentre le proferisce, ha appena incontrato per caso il Potere Assoluto e, per quanto ne sa, l’Anello rappresenta l’unica possibilità di salvare Gondor dalla rovina causata dalle orde quasi infinite del Signore Oscuro. Ciononostante, non se ne appropria. Pronunciando quelle parole, Faramir le mette in pratica: parla e agisce in accordo con i propri principi di libertà.

Con tale affermazione, Faramir si configura come un gigante liberale. In tale contesto, si dimostra più grande di quanto il più grande guerriero di Gondor, suo fratello Boromir, sia mai stato. Perché la cautela di Faramir è la risposta giusta, non l’ansia di salvare tutto e tutti, costi quel che costi, di Boromir.

Nell’ansia di salvare Gondor, Boromir quasi la distrugge. Mentre, in un momento di cautela liberale – che sembra anticipare i brillanti insegnamenti di Hayek [5] – Faramir la salva.

Dunque, alla fine del libro, tocca al piccolo Frodo Baggins compiere la difficile missione che nessun uomo, per quanto grande e nobile fosse, era stato fino ad allora in grado di portare a termine: lanciare l’Anello tra le fiamme del Monte Fato, spazzando via per sempre il Potere Assoluto dalla Terra di Mezzo. Se neanche il leggendario Dùnedain Isildur ci era riuscito, come può Gandalf affidare una missione così difficile a Frodo? Come può un piccolo uomo riuscire dove anche i più grandi uomini hanno fallito?

Per Tolkien, non vi è di che sorprendersi. Nella sua visione del mondo, la domanda si inverte: come potrebbe l’umile e semplice Frodo non farcela? E, pensandola come Tolkien (o pensandola come un liberale, che è lo stesso), si comprende molto facilmente la scelta di Gandalf.

Mi spiego: mentre Saruman è ossessionato dalle antiche pergamene, dagli affari della Corte di Gondor, dal Regno degli Uomini, dalla grandezza e dalla gloria di Númenor (insomma, dalla storia dei “grandi uomini” di Lord Acton), Gandalf si è sempre interessato agli Hobbit. Interesse estremamente indicativo della visione del mondo del mago.

In uno dei pochi momenti in cui la trilogia The Hobbit di Peter Jackson riesce a captare con profondità la visione del mondo di Tolkien, Gandalf, interrogato da Galadriel sulla ragione per la quale ha scelto proprio un Hobbit per compiere quella missione, afferma:

Saruman ritiene che soltanto un grande potere riesca a tenere il male sotto scacco. Ma non è ciò che ho scoperto io. Ho scoperto che sono le piccole cose… le azioni quotidiane della gente comune che tengono a bada l’oscurità. Semplici atti di gentilezza e amore.

Ed è ciò che Frodo, nella storia, rappresenta per Tolkien. Egli è un medio termine tra l’uomo con common sense di Chesterton e l’introspezione liberale, con un pizzico di rassegnazione stoica. È proprio in virtù del suo essere piccolo, del suo non essere superbo, che riesce a non cedere, per tutto il suo lungo viaggio, alle tentazioni del Potere. È il suo essere piccolo, umile, che lo spinge a distruggerlo, anziché a usarlo. Frodo riconosce i propri limiti umani e, così facendo, riconosce i limiti dell’intera umanità. Pertanto, egli sa che nessuno sarebbe capace di fare un buon uso di un Potere così grande.

Egli non vuole a tutti i costi risolvere tutti i problemi del mondo, è pienamente cosciente del fatto di non conoscere il metodo infallibile per risolvere e correggere tutto – o per cercare di attuare lo stesso piano di sempre, fallendo per la millesima volta (“perché stavolta andrà tutto bene, lo giuro!”). Frodo è Hayek che afferma che il curioso compito dell’economia è insegnarci quanto poco sappiamo riguardo a ciò che crediamo di sapere. Frodo è Tolkien, che sostiene:

My political opinions lean more and more to Anarchy (philosophically understood, meaning abolition of control not whiskered men with bombs) – or to ‘unconstitutional’ Monarchy.  […] Anyway, the proper study of Man is anything but Man; and the most improper job of any man, even saints (who at any rate were at least unwilling to take it on), is bossing other men. Not one in a million is fit for it, and least of all those who seek the opportunity. And at least it is done only to a small group of men who know who their master is. The medievals were only too right in taking “nolo episcopari” as the best reason a man could give to others for making him a bishop. [6].

E, come previsto da Gandalf, questo piccolo uomo riesce laddove tutti prima di lui hanno fallito: porta l’Unico Anello al Monte Fato, a Mordor, e lo distrugge tra le fiamme.

Tutta l’opera letteraria di Tolkien è straordinaria e incredibile, e spero quanto prima di poter scrivere un articolo riguardo a Il Silmarillion. Per il momento, mi piacerebbe reiterare quanto ho affermato all’inizio, con la speranza che questa chiave di lettura politica sia stata utile per tutti i lettori giunti fino alla conclusione di questo articolo.

Il Signore degli Anelli è un’opera grandiosa, dotata di un’intensità e di una ricchezza di dettagli impareggiabili. Ma soprattutto, in diversi momenti, sembra rivolgersi direttamente a noi, sembra dialogare intimamente con noi riguardo a diverse questioni contemporanee. Mi piace pensare che ciò si debba all’essenza profondamente liberale dell’opera, che fa sì che non invecchi mai, conservando sempre la sua innata freschezza e genuinità.

Mi sembra evidente che in Tolkien scorgiamo la soluzione a molti dei nostri problemi. Egli ci insegna a riconoscere i nostri limiti e, in tal modo, a riconoscere i limiti delle altre persone. Egli ci dice che un individuo, anche il più piccolo, è capace di atti di coraggio ed eroismo. E questo individuo non ha bisogno e mai avrà bisogno dell’Anello per salvare se stesso e gli altri dalla rovina – e non deve mai cadere nella tentazione di pensare il contrario. Questa è la lezione che dobbiamo imparare da Tolkien.

____

[1] Il Male, che nel libro viene impersonificato da Sauron, ex-generale di Morgoth, può (e deve) essere inteso, in tale analisi politica, non come qualcosa di astratto, ma come qualcosa di molto concreto. Il Male è tutto ciò che si considera sbagliato, come la miseria, la disuguaglianza, la mancanza di opportunità, l’ingiustizia, le istituzioni imperfette, etc. Il male è tutto ciò che non dovrebbe essere, ma che, purtroppo, è.

[2] TOLKIEN, J. R. R. La Compagnia dell’Anello, Bompiani, p. 135.

[3] TOLKIEN, J. R. R. Le Due Torri, Bompiani, p. 415.

[4] TOLKIEN, J. R. R. Le Due Torri, Bompiani, p. 424/425.

[5] Discorso di Hayek in occasione dell’assegnazione del Premio Nobel per l’Economia del 1974: “Agire nella convinzione di avere la conoscenza e il potere che ci permettono di modellare i processi della società interamente a nostro piacere, conoscenza che in realtà non possediamo, probabilmente ci porterà ad arrecare molti danni. Nelle scienze fisiche ci possono essere poche obiezioni al tentativo di fare l’impossibile; si potrebbe persino pensare che non si debba scoraggiare il presuntuoso o l’arrogante, perché i suoi esperimenti potrebbero, dopotutto, produrre qualche nuova intuizione. Ma nel campo sociale, la convinzione errata secondo cui esercitare un certo potere avrebbe conseguenze favorevoli, è probabile porti all’affidare a una certa autorità un nuovo potere di coercizione sugli uomini. Anche se tale potere non è in sé cattivo, il suo esercizio è probabile impedisca il funzionamento di quelle forze d’ordine spontaneo da cui, senza capirle, l’uomo è, in effetti, è aiutato tantissimo nel perseguimento dei suoi obiettivi. […] Se l’uomo non deve fare più male che bene nei suoi sforzi per migliorare l’ordine sociale, dovrà imparare che in questo, come in tutti gli altri campi in cui la complessità essenziale di un genere organizzato prevale, non può acquisire la conoscenza completa che permette la padronanza degli eventi. Quindi dovrà usare la conoscenza che può ottenere, non per modellare i risultati come l’artigiano modella i suoi oggetti, ma per coltivare una crescita fornendo l’ambiente adatto, così come fa il giardiniere per le sue piante. C’è un pericolo, nell’esuberante sensazione di sempre maggiore potere che il progresso delle scienze fisiche ha generato e che tenta l’uomo, ‘ubriaco di successo’ per usare una frase caratteristica del primo comunismo, a cercare di soggiogare al controllo della volontà umana non solo il nostro ambiente naturale ma anche quello umano. Il riconoscimento dei limiti insormontabili alla sua conoscenza deve, effettivamente, insegnare allo studioso della società una lezione di umiltà, la quale dovrebbe impedirgli di diventare complice nel fatale tentativo di controllare la società – un tentativo tale da renderlo non solo un tiranno dei suoi compagni, ma il distruttore di una civiltà non progettata da nessun cervello, ma nata dagli sforzi liberi di milioni di individui”.

[6] The Letters of J. R. R. Tolkien; Lettera 52.