Paradisi fiscali: non parassiti, ma simbionti

Sul tema dei paradisi fiscali il dibattito è distorto come pochi altri: dall’accusa di parassitismo alla richiesta di un’imposta minima globale gli agitatori sono sempre e comunque rappresentanti o di paesi dalla tassazione altissima come Italia e Francia o di un’ala politica economicamente a sinistra.

Specialmente in un periodo di crisi queste voci si fanno più pressanti, ma c’è un motivo se nessun decisore politico ha effettivamente cercato di porre fine a regimi speciali di tassazione in altri paesi, specie in quelli dove vi è trasparenza e l’unico vero discriminante è la tassazione più bassa: i paradisi fiscali non solo stimolano la crescita economica nel mondo riducendo la tassazione ad imprese e persone, ma lo fanno anche nei paesi che si vedono “sottratti” aziende e gettito fiscale; di seguito, mostreremo come l’opposizione alla concorrenza fiscale non sia supportata da alcun dato empirico ma abbia solo motivazioni politiche, sfatando il luogo comune che i cosiddetti paradisi fiscali agiscano da parassiti nei confronti di giurisdizioni più fiscalmente onerose.

Da uno studio di Desay, Foley e Hines si evince che la presenza di paradisi fiscali in una regione promuove da un lato la riduzione dell’imposizione fiscale (che sappiamo stimola crescita economica), dall’altro stimola la crescita di vendite ed investimenti (variabili chiave per lo sviluppo di breve e lungo termine) proprio nei paesi non-paradisi. Più che di relazione parassitica dunque ha senso parlare di relazione complementare.

Un altro fattore che promuove la crescita economica è la profondità finanziaria (ossia la dimensione di banche, istituzioni finanziarie e mercati finanziari in un paese) come mostra la World Bank. La vicinanza a paradisi fiscali (Offshore Financial Centers come Lussemburgo e Svizzera) promuove la concorrenza bancaria e la profondità finanziaria, come mostrato da Rose e Spiegel: componenti che riducono il danno dell’eccessiva regolamentazione del comparto bancario grazie al quale oggi gode di sostanziose rendite economiche.

Di recente l’OCSE, che ha lanciato l’iniziativa per contrastare pratiche fiscali dannose sotto il nome di Action 5 BEPS non ha trovato dannose le pratiche fiscali di paesi come Lussemburgo, Paesi Bassi, Irlanda, Malta e Liechtenstein (comunemente menzionati come paradisi fiscali), i quali non compaiono nemmeno nella lista nera di paradisi fiscali non-cooperativi dell’Unione Europea (che è sicuramente un’organizzazione più politica), sfatando ulteriormente l’idea che i soli regimi fiscali più favorevoli rechino danno all’economia mondiale.

Insomma: se in passato paradiso fiscale era sinonimo di poca trasparenza, possibile riciclaggio di denaro e sperduti atolli, oggi sembra essere diventato un capriccioso: “qualunque paese che non ha tasse alte è un paradiso fiscale”, tipico approccio ideologico di chi è economicamente a sinistra.

Ma allora da dove derivano le fonti secondo le quali i paradisi fiscali rechino danno ai paesi “vittima” e debbano essere eliminati? Un’ONG britannica chiamata Tax Justice Network, il cui nome non fa trasparire proprio nulla d’imparziale, è alla base della maggior parte della ricerca anti-paradisi fiscali, analizzando il gettito fiscale sottratto ai paesi non-paradisi per promuovere la battaglia ai regimi fiscali più vantaggiosi. Eppure quando il TJN sostiene di aver screditato gli effetti positivi della concorrenza fiscale l’unica fonte è un link ad un sito chiamato Fools’ Gold che non funziona e sembra essere in disuso: le restanti fonti sono autoreferenziali e non hanno fondamenta accademiche. Insomma, gran parte delle proposte fiscali di questa organizzazione hanno ragioni puramente politiche e non giustificabili sotto alcun profilo economico.

La quantità di disinformazione sulla concorrenza fiscale è mastodontica, prestata a ragioni politiche ma che si scontra con la dura realtà e spiega perché nessun decisore politico e nessuna accademia abbia mai seriamente perseguito obiettivi di uniformazione fiscale. Ovviamente anche dal lato morale ci sono grosse riserve: le aziende e le persone non sono di proprietà dei burocrati che compongono un governo e nessuna giustificazione politica (che come dimostrato non ha nemmeno fondamenta pragmatiche) può cambiare questo principio.

Insomma: se la disonestà e l’ignoranza in materie sociali vengono spesso attribuite ai conservatori, quelle in materie economiche sono proprie, come sempre, dei progressisti e dei socialisti.

Fonti:

Effetti regionali sui paradisi fiscali:
https://www.nber.org/papers/w10806

Profondità finanziaria ed effetti dei paradisi fiscali: https://www.nber.org/papers/w12044
https://www.worldbank.org/en/publication/gfdr/gfdr-2016/background/financial-depth

OCSE: https://www.oecd.org/tax/beps/beps-actions/action5/

Blacklist EU: https://www.consilium.europa.eu/en/policies/eu-list-of-non-cooperative-jurisdictions/

Tax Justice Network e assenza di fonti peer-reviewed: https://www.taxjustice.net/faq/tax-competition/

 

Il danno nascosto del colonialismo: l’affermazione del terzomondismo

Quando si parla di colonialismo, non manca l’elenco di danni provocati alle colonie da parte dei conquistatori europei, tra cui figurano tragedie come schiavitù, segregazione, omicidi e depredazione.
Ma benché questi eventi siano stati drammatici per il futuro dei paesi colonizzati, un altro e ben più insidioso effetto ha condannato le ex-colonie africane e asiatiche: il disprezzo per il libero mercato, visto come un sistema tipico dei conquistatori e, per usare un termine collettivista, una “roba da bianchi”.

Ci sono ormai pochi dubbi sull’efficacia del libero mercato nell’arricchire e migliorare l’economia dei paesi che lo adottano: è inequivocabile la relazione – peraltro parecchio forte – tra libertà economica e molti altri indicatori di ricchezza e benessere.

Tuttavia, la percezione di un sistema è vitale perché questo sia adottato e se in genere le colonie non godevano del libero mercato – perché costrette a commerciare solo con il paese colonizzatore di riferimento – i paesi europei e nordamericani avevano iniziato a liberare le loro economie, di fatto facendo percepire alle colonie non solo di essere schiavizzate con la forza – come in effetti erano – ma anche di essere oppresse da un capitalismo di cui non vedevano i frutti, in realtà perché questo capitalismo per loro non veniva applicato o non potevano accedervi.

E non è quindi un caso che in larga parte le ex-colonie africane, asiatiche e mediorientali abbiano economie estremamente represse, come questo ranking mostra: la liberazione dai colonizzatori è stata il cavallo di battaglia del terzomondismo, movimento socialista diffuso in Medio Oriente, Indocina e Africa.
E non è nemmeno un caso che i paesi di queste aree, ad oggi, siano ancora parecchio sottosviluppati e privi di democrazia e libertà.
Di certo, però, non sono privi di ricchezze e potere per i leader politici, distorsione questa sicuramente meno presente nei paesi più liberi economicamente dove la correlazione tra chi produce ricchezza e chi la detiene è infinitamente più alta.

Casi eclatanti di terzomondismo che hanno intrappolato le economie per decenni sono il Vietnam, dominato dalla figura di Ho Chi Minh ed il Congo, per cui Patrice Lumumba ancora oggi rappresenta un’icona del pan-africanismo.
Ma per quanto personaggi come questi siano osannati come icone anti-colonialiste e liberatori dal giogo atlantico, le loro politiche economiche e sociali hanno direttamente portato miseria e conflitti all’interno dei loro paesi.
Per fare qualche esempio, il Congo, ancora non libero economicamente, è uno dei paesi più poveri ed instabili d’Africa, il Vietnam ha cominciato a crescere solo dopo una liberalizzazione dell’economia ancora oggi non comparabile a quella di altre nazioni asiatiche come Giappone e Corea del Sud ed infine il Laos, che pur avendo una simile popolazione alla liberista Hong Kong, ha un PIL pari al 5% di quello della famosa città-stato proprio per via della conversione al comunismo, in diretta protesta al passato da colonia francese.

E la responsabilità di tutto questo non è soltanto attribuibile alla demagogia della nuova classe dirigente che ha ammassato fortuna tramite l’esercizio del potere come nel Medioevo in Europa, ma anche e soprattutto ai soprusi dei paesi colonizzatori (si ricordi il caso del Congo – Kinshasa appunto, colonizzato dal Belgio), rei di aver creato il pretesto per intrappolare i paesi colonizzati tramite la retorica dialettica dell’oppresso e dell’oppressore che è il cavallo di battaglia del marxismo culturale .

Ma lentamente questi paesi si stanno emancipando dal giogo del socialismo: nel continente africano Rwanda, Botswana ed Etiopia stanno liberalizzando le loro economie.
Il primo, il più libero economicamente della regione, sta crescendo con estrema rapidità e sta ottenendo interessanti traguardi tecnologici come il primo smartphone made in Africa, il secondo è ad oggi il paese con il PIL pro capite più alto dell’Africa meridionale ed il terzo sta rapidamente crescendo e ponendo fine a sanguinosi conflitti grazie al nuovo Nobel per la Pace Abiy Ahmed. È abbastanza noto invece il successo raggiunto dalle ex-colonie inglesi Singapore ed Hong Kong che hanno preferito adottare sin da subito un sistema di libero mercato.

Il danno della colonizzazione è stato dunque duplice: durante per le violenze ed i soprusi e dopo per aver creato un’immagine distorta del libero mercato che ha portato a lunghi (alcuni ancora presenti oggi) periodi di povertà e violenza nati dalla retorica socialista.

L’unico buon socialismo è quello del potere: la decentralizzazione

Benché i liberals (nell’accezione americana) ed i socialisti suonino insieme il tamburo dell’abbattimento della disuguaglianza economica, spesso finiscono per voler togliere il vero potere a tutti gli individui, cioè quello di poter partecipare al processo decisionale più attivamente. Questo potere si ha solo ottenendo la più alta decentralizzazione possibile, redistribuendo quindi non la ricchezza, ma il potere.

La decentralizzazione è la distribuzione di competenze e potere decisionale dal blocco principale ad organi periferici. In questa configurazione quindi un’organizzazione (come un’impresa od un governo) delega alcune materie ai livelli più bassi e in un’ottica governativa si traduce nella maggior autonomia in materia decisionale degli enti locali (comuni, province e regioni).

Ad una maggior decentralizzazione corrisponde dunque una maggior autonomia ai livelli più bassi (dal governo nazionale al comune). Esempi di paesi ad alto livello di decentralizzazione sono Svizzera, Stati Uniti, Canada, Australia e Germania, dove paesi come Regno Unito, Francia, Italia e Cina mostrano un basso livello di decentralizzazione, attribuendo un numero elevato di competenze al governo nazionale.

Il motivo per cui preferire la decentralizzazione è semplice: avvicinando il potere ai cittadini essi possono controllare meglio l’operato dei loro rappresentanti che vicini alle persone che influenzano con le loro decisioni sono soggetti a maggior scrutinio ed un malgoverno si traduce in effettive punizioni o ricompense.

Non solo: cittadini insoddisfatti del governo in una zona possono facilmente trasferirsi rafforzando il cosiddetto “voto con i piedi”, dove i contribuenti cambiano zona geografica in base alla miglior offerta non solo fiscale (tasse più basse) ma anche di costumi (per esempio leggi più o meno restrittive sull’aborto), innescando un vero e proprio processo di concorrenza tra apparati governativi che, come tutto ciò che è in competizione, si traduce in miglior offerta a costi più bassi.

Nel mondo di oggi, complesso e poco standardizzabile, le soluzioni che implicano centralizzazione hanno sempre meno spazio, limitandosi solo a casi di necessità di scalabilità (come difesa) e/o a basso contenuto di informazioni (come scegliere il tipo di presa elettrica). Dove queste condizioni non si verificano un approccio top-down si traduce in enorme perdita di informazioni e quindi alla creazione di sacche di inefficienza.

Vi è anche una forte correlazione tra decentralizzazione e prosperità, come evidenziato da un paper dell’OCSE, ma non solo: paesi più decentralizzati resistono meglio alle crisi economiche, con l’esempio di Svizzera e Stati Uniti, paesi altamente decentralizzati che durante la grande recessione in Occidente del 2009 hanno registrato bassa decrescita in percentuale e riprendendosi rapidamente.

Questi ritrovamenti sono confermati anche da un paper nel CESifo Economic Studies, che sottolinea anche la minor tendenza a fare deficit per spesa improduttiva, tendenza, ahinoi, tristemente comune in Italia. Quindi non solo paesi decentralizzati sono più resilienti e prosperi, ma anche più virtuosi e riescono ad allocare meglio le risorse.

Non è quindi un caso che i paesi più poveri siano non solo poco liberi economicamente, ma anche più centralizzati: socialismo ed accentramento del potere vanno a braccetto, con la scusa di livellare la disuguaglianza economica ma dimenticandosi di aggiungere che l’equalizzazione volge verso il basso, dando vita a paesi fragili e ricchi esclusivamente di tensioni sociali. E non serve nemmeno citare i soliti paesi comunisti che sono ormai un fallimento conclamato: la centralista Francia è infinitamente meno efficiente e desiderabile della più decentralizzata Germania.

In questo l’Unione Europea gioca un ruolo cruciale: la promozione del decentramento e l’idea di confederazione devono prevalere sul desiderio di centralizzazione e di Stati Uniti d’Europa, che riporterebbero l’Europa indietro in tutte le dimensioni di libertà, con l’armonizzazione fiscale come concetto più pericoloso in assoluto.

L’unica redistribuzione morale, efficace ed efficiente è quella del potere.

Riferimenti:
https://data.worldbank.org/indicator/ny.gdp.mktp.kd.zg?end=2009&name_desc=false&start=2009&view=map&year=2009

https://www.oecd.org/regional/regional-policy/Decentralisation-trends-in-OECD-countries.pdf

https://academic.oup.com/cesifo/article-abstract/64/3/456/4080209?redirectedFrom=fulltext

Dall’economia alla cultura: l’evoluzione del Marxismo

Spesso da oltreoceano arrivano neologismi come “marxismo culturale”, tradotti nel nostro Paese con espressioni come “radical chic” o anche “buonisti”.
Ci si riferisce con questi epiteti a personaggi come Roberto Saviano, Laura Boldrini e, più recentemente, Domenico Lucano, il discusso sindaco di Riace.

Un elemento che però non viene mai discusso da questi esponenti culturali/politici è l’economia, stessa cosa per i loro corrispondenti d’oltreoceano: le battaglie che li vedono protagonisti sono quelle sociali, tanto da dare via al fenomeno del “social justice warrior” negli Stati Uniti e in Italia dei “buonisti del politicamente corretto”.

Ma l’espressione “marxismo culturale” è vista come invenzione delle destre populiste per giustificare il loro razzismo, sessismo ed omofobia.
Eppure, i leader socialisti scrivono di questa strategia da decenni ormai.

Per esempio, il il libro scritto dai teorici socialisti Ernesto Laclau e Chantal Mouffe del 1985 intitolato “Egemonia e strategia socialista”,
ispirato dall’articolo da loro scritto nel 1981 con il titolo “strategia socialista, e ora?”. Ma cosa scrissero in questo articolo? Per gli autori la “lotta politica socialista” era entrata in una nuova era:
la tradizionale lotta di classe e l’analisi delle contraddizioni economiche del capitalismo hanno avuto difficoltà ad affermarsi (visti anche gli orrori delle dittature comuniste).
Pertanto, la nozione di lotta di classe doveva essere modificata, includendo gruppi non classificabili in una classe economica.

Il loro desiderio era dunque di incorporare donne, minoranze etniche, omosessuali e movimenti anti-istituzionali in un movimento socialista modificando oppressi ed oppressori: non più proletari oppressi da borghesi ma donne oppresse da uomini, neri oppressi da bianchi, omosessuali oppressi da eterosessuali e così via; perché la società ora non era solo più capitalista, era anche sessista e patriarcale, oltre che razzista ed omofoba.

La sfida per Laclau e Mouffe era riunire tutte queste categorie con obiettivi differenti sotto l’egida del socialismo, sviluppando un’ideologia organica: non è un caso che il socialismo si sia allineato negli ultimi trent’anni al movimento femminista ed in esso si sia sviluppato il concetto di intersezionalità per descrivere la sovrapposizione (o “intersezione”) di diverse identità sociali e le relative possibili particolari discriminazioni, oppressioni o dominazioni.

Il nuovo obiettivo del marxismo diventa dunque, secondo questa nuova ideologia, la soppressione di tutte le relazioni di dominazione e di creare “un’uguaglianza genuina e partecipazione a tutti i livelli della società”.

Ovviamente un’uguaglianza di risultato come nella vecchia teoria socialista di Marx: “da ognuno secondo le proprie capacità, ad ognuno secondo i propri bisogni”.
Il risultato? Il virus del socialismo, implicitamente desiderato da tutte le sinistre, ha contagiato importanti battaglie sociali, snaturandole.

Pur essendo stato sconfessato in tutti i modi dalla storia, il nuovo obiettivo del Marxismo è responsabile delle divisioni in Occidente, creando politiche d’identità che mettono in contrapposizione diversi sessi e diverse razze, frammentando la società. Se vi chiedete da cosa sia scaturita questa divisione così profonda nella società (tanto da dare risalto alle destre populiste), ora avete la risposta.

Il fenomeno del marxismo culturale è quindi tutt’altro che un’invenzione: è una vera e propria strategia di rebranding del socialismo.

“Il debito pubblico non è importante, in fondo siamo noi i nostri stessi debitori” – Perché Krugman e Keynes si sbagliano

I debiti, alla fine, vanno ripagati

Quando i dirigenti d’affari giapponesi hanno messo in discussione la politica del loro governo di sfrenato uso del debito pubblico come strumento risolutore, il premio Nobel Paul Krugman ha immediatamente scritto un articolo sul New York Times intitolato “La saggezza economica – o la sua mancanza – dei dirigenti d’impresa”. Krugman sostiene essenzialmente che il governo può spendere, spendere e spendere. Può continuare ad accumulare debito senza mai preoccuparsi di ripagarlo perché lo dobbiamo a noi stessi. Accenna anche che chiunque non riesca a comprendere questa semplice nozione non è sicuramente del suo livello intellettuale.

Le conclusioni tratte dall’economista fanno sorgere almeno due domande: il debito pubblico è davvero diverso da quello privato? E siamo davvero noi i nostri stessi debitori? A queste domande le risposte, usando lungimiranza ed onestà, sono: non nel lungo periodo e no, ben diverse da quelle prospettate da Krugman.

Analizziamo la prima risposta, in cui sosteniamo che in un’ottica di lungo periodo il debito pubblico sia uguale a quello privato e che, come tale, vada ripagato: nonostante lo Stato abbia il monopolio della forza e possa rifiutarsi di pagare il debito, i creditori hanno memoria e, delusi dall’impossibilità di vedersi ripagati, non erogheranno più credito a tale scopo, costringendo i governi ad aumentare le tasse o la quantità di moneta per mantenere il livello di spesa pubblica. In entrambi i casi i cittadini perderebbero potere d’acquisto, per la minore disponibilità individuale di risorse (tasse) o per un aumento smodato del livello dei prezzi (inflazione). Basti notare gli esempi di Grecia e Argentina e l’attuale crisi inflattiva del Venezuela.

La seconda risposta è una protesta contro la disonestà dell’asserzione: “siamo noi i nostri stessi debitori”. Ovviamente viene esclusa la realtà, che non tutti i creditori sono cittadini della nazione e che non tutti i cittadini della nazione erogano credito. Nel caso di investitori stranieri assistiamo a ciò che è accaduto in Grecia (ossia il debito è stato riscosso con la forza, costringendo il paese a vendere moltissimi beni pubblici ad imprese straniere), mentre nel secondo caso si omette che la maggior parte degli investitori appartiene a ceti medio-alti, di fatto la necessità di ripagare alti debiti tramite tasse costituisce una redistribuzione di ricchezza dai ceti più poveri a quelli più ricchi. Di fatto la spesa pubblica, nata per appianare le disuguaglianze, finisce per accentuarle.

Infine, una considerazione sul capitale: l’individuo genera capitale tramite tentativi e scoperta imprenditoriale, processi che richiedono tempo e mostrano che il valore non è infinito e non è generabile tramite alcun strumento governativo. L’imprenditore è il responsabile per l’accumulo e la creazione di capitale, quindi di valore. Quando questo processo viene distorto con interferenze governative, il meccanismo si interrompe ed è inevitabile che il processo di crescita e benessere si interrompa con esso, e le generazioni successive ne soffriranno.

Per questi motivi il debito pubblico non è, come distopicamente sostenuto da Krugman, diverso da quello privato e l’ipotesi collettivistica del debito è tanto errata e pericolosa come i collettivismi che hanno portato l’umanità ad indicibili sofferenze.