Intervista a Drew Pavlou

Ciao Drew, per iniziare vorrei che raccontassi la tua storia ai nostri lettori, perché non penso che tutti la conoscano.

Studio Filosofia, Storia e Letteratura inglese all’Università del Queensland (UQ) a Brisbane, Australia. La mia storia è iniziata l’anno scorso quando ho organizzato una manifestazione on-campus in supporto di Hong Kong. In quell’occasione io e gli altri manifestanti siamo stati circondati e attaccati da sostenitori del PCC.

Siamo stati sbattuti a terra e picchiati: io sono stato colpito alla testa e alla schiena più volte da uomini con il volto coperto. Queste persone venute ad attaccarci non erano studenti e per celare le loro identità indossavano maschere e occhiali da sole. Avevano con loro zaini con cambi di abiti e comunicavano tra di loro attraverso ricetrasmittenti da orecchio.

Per questo sospettiamo che sia stato tutto stato organizzato dal consolato cinese a Brisbane, il quale il giorno dopo ha fatto uscire un comunicato in cui lodava il “comportamento patriottico” dei nostri assalitori, di fatto sponsorizzando gli attacchi violenti di cui siamo stati fatti oggetto.

Chi erano questi aggressori?

La UQ ha effettuato un’investigazione di 6 mesi e non sono mai stati in grado di identificare queste persone come studenti. Tutto sembra indicare che non lo fossero. Il giorno della protesta, quando gli studenti cinesi ci hanno circondati e stavano minacciando di attaccarci, la polizia è intervenuta e ha convocato me ed un rappresentante degli studenti cinesi a negoziare per uscire da quella situazione in modo pacifico.

Il leader degli studenti cinesi disse “Ci sono persone dalla mia parte che non sono studenti e a meno che non ti scusi con la nazione cinese per aver offeso noi e la Cina non posso proteggerti da loro”. Implicitamente ha ammesso che nella folla ci fossero estranei, non studenti, cinesi che ci avrebbero violentemente assaliti se non mi fossi scusato pubblicamente. La UQ in 6 mesi non è stata in grado di identificarli.

Clive Hamilton, un esperto di influenza del PCC in Australia, crede che questi fossero operativi del Ministero della Sicurezza di Stato, sostanzialmente servizi segreti cinesi, distaccati al consolato cinese. Non erano studenti, si sono coperti per evitare di essere riconosciuti, erano violenti e ben organizzati.

Qual è stata la reazione dell’università a questa vicenda?

La UQ invece che sostenerci ha preso le parti degli studenti cinesi e ha cercato di fermare le nostre proteste. Hanno cominciato a minacciare la mia immatricolazione a luglio 2019 dopo quella prima protesta. Dapprima hanno provato ad intimidirmi attraverso i canali ufficiali, portandomi davanti alla commissione disciplinare diverse volte. La UQ, invece che proteggere noi e la nostra libertà di parola, si è schierata con il consolato cinese.

Questo perché il consolato ha un’enorme influenza sull’università. La UQ, infatti, fa affidamento sulla Cina per il 20% delle sue entrate. Un governo totalitario come quello cinese potrebbe in qualsiasi momento decidere di non permettere più ai suoi studenti di frequentare un campus dove ci sono manifestazioni pro Hong Kong, mandando così in bancarotta la UQ da un giorno all’altro.

Pertanto se il console generale della Cina Xu Jie, che tra l’altro è un professore onorario dell’UQ, dice al vice-cancelliere di fare qualcosa, lui lo fa, perché sa che devono proteggere gli interessi del governo cinese, se vogliono evitare la bancarotta. Questo è il motivo per cui ci hanno repressi dopo che siamo stati violentemente attaccati.

Mi sono quindi candidato al senato accademico dell’UQ: volevo ottenere un posto al tavolo delle decisioni e far sentire la nostra voce sul problema. Noi non vogliamo che la nostra università abbia simili legami con un governo tirannico che perseguita i cittadini di Hong Kong, cinesi, tibetani e Uiguri violandone i diritti umani.

Negli anni ’70 e ’80 gli studenti dell’UQ hanno lottato contro l’apartheid e il governo sudafricano: volevano che l’UQ non mantenesse relazioni economiche con quel governo. Credo che lo stesso principio valga oggi. Il regime cinese esercita politiche di apartheid in Xinjiang, che in mandarino vuol dire “nuovi territori”: è un termine colonialista. Questi territori non sono “nuovi” per gli Uiguri musulmani, questa è la loro terra.

Ma per la Cina sono “nuovi territori” da colonizzare, e vi hanno impiantato un regime di apartheid dove gli Uiguri musulmani sono cittadini di seconda classe nella loro stessa terra. Hanno creato campi di concentramento dove hanno rinchiuso 1,5 milioni di Uiguri.

Quindi mi sono candidato al senato accademico e sono stato eletto nonostante l’università abbia cercato di fermarmi. Hanno “reclutato” un candidato che portasse avanti una campagna filo-cinese e pro-PCC su WeChat redatta in mandarino in cui diceva “Votate me per fermare le proteste pro Hong Kong di Drew Pavlou”.

Ancora non si chi abbia scritto quel messaggio, perché il candidato non parlava nemmeno mandarino. Quando ho comunque vinto hanno cercato di negarmi il seggio a cui ero stato democraticamente eletto dagli studenti per far sentire la loro voce, ma non ce l’hanno fatta.

Pensavo che sarebbe finita con me eletto al senato ed il loro fallimento nel tentativo di negarmi il seggio, ma l’UQ ha deciso di peggiorare la situazione. Mi hanno inviato un dossier di 186 pagine scritto dai loro avvocati. Hanno esaminato i miei profili social privati per mesi per trovare post da interpretare nel più malizioso dei modi possibili, hanno montato accuse contro di me dicendo che alcuni studenti mi avevano segnalato per bullismo.

Alla fine si è scoperto che gli studenti nominati dall’università non si erano mai lamentati di me nemmeno una volta, o non volevano far parte di quella segnalazione, o non sapevano nemmeno come il loro nome fosse finito in quelle segnalazioni che a loro (degli studenti) detta erano state create dall’università.

Hanno speso centinaia di milioni di dollari per questo caso, hanno assunto due studi legali internazionali, Clayton Utx e Minter Allison, che hanno gestito l’accusa contro di me per conto dell’università al consiglio disciplinare. Hanno sostanzialmente obbligato il consiglio disciplinare ad espellermi sostenendo che stavo danneggiando la reputazione dell’università con le proteste in favore di Hong Kong.

Il consiglio è formato da membri a tempo pieno stipendiati dall’UQ, quindi se gli avvocati dell’università dicono “dovete espellere questo studente” loro lo faranno. Hanno probabilmente speso mezzo milione di dollari per questo caso cercando di distruggermi. Sono addirittura andati in televisione a dipingermi come un bullo.

Se il sistema giudiziario del tuo Paese trattasse così ogni criminale, sareste ormai la nazione più sicura della Terra. È incredibile.

Lo so! Questo è il punto! La posizione dell’UQ era: “dobbiamo espellere Drew per rendere il campus un posto sicuro”. Questa non è solo diffamazione, è proprio una bugia: hanno speso 500.000 dollari per assumere due studi legali che montassero un caso contro di me. Tutto questo per espellermi così che non potessi più minacciare i legami economici dell’università con la Cina che valgono centinaia di milioni di dollari.

Loro sanno che il governo cinese mi vuole fuori, perché ha rilasciato dei comunicati ufficiali nei media in cui mi accusano di razzismo e di essere anti-cinese, i media di Stato mi hanno attaccato perché non sopportano che difenda Hong Kong. È probabile che abbiano detto “vogliamo questo studente fuori, occupatevene” e l’UQ ha eseguito.

Se l’UQ volesse spendere 500.000 dollari per investigare ogni caso di bullismo basandosi sulla Carta degli Studenti con cui giudicano gli studenti, beh, è scritta in termini così poveri che con tutte quelle risorse troverebbero qualcosa per espellerlo. Hanno speso mezzo milione di dollari e non hanno potuto trovare nulla perché non c’è nulla da trovare. È una caccia alle streghe.

Ci sono 55,000 studenti all’UQ, è un’università enorme. Se siamo razionali, la Carta degli Studenti viene violata migliaia di volte ogni giorno. Se hai 55,000 studenti nel campus la gente si insulta, litiga, copia agli esami. La Carta viene violata ogni minuto probabilmente, ma non spendono 500,000 dollari per indagare uno studente qualsiasi, bersagliano quello studente che è critico della loro relazione miliardaria con il governo cinese.

Il vice-cancelliere è molto vicino al governo cinese. Per molti anni è stato nel board di Hanban, l’organizzazione che gestisce gli Istituti Confucio in tutto il mondo. Di recente è anche stato invitato a Shanghai per ricevere il premio “individuo più incredibile dell’anno” dal vicepremier cinese che gli ha messo una medaglia al collo per i suoi sforzi nel promuovere gli Istituti Confucio in tutto il mondo, cioè nel promuovere l’influenza del governo cinese in tutto il mondo.

L’anno scorso gli è stato riconosciuto un bonus di 200,000 dollari in parte per avere “rafforzato le relazioni tra l’UQ e la Cina”, il che vuol dire creare relazioni con ufficiali del governo cinese. Hanno interessi diretti, personali ed economici, con la Cina per cui espellermi.

Tutto questo solo per… soldi?

Sì! Perché il Cancelliere Peter Varghese e il Vicecancelliere Peter Høj non sono comunisti né sostenitori del governo cinese, non credo che aderiscano al socialismo cinese o al pensiero di Xi Jinping, non gli interessa l’ideologia di stato cinese né sostengono il governo cinese. Per loro è solo una questione di soldi. Semplicemente soldi. Triste ma vero, sono pronti a svendere ogni valore democratico per questo. Se almeno fossero segretamente comunisti li rispetterei di più.

Come si è conclusa l’intera vicenda?

Il giorno dell’udienza, dopo un’ora io e il mio consulente legale abbiamo lasciato l’udienza perché era sostanzialmente scorretta e costruita contro di me. Hanno continuato l’udienza in mia assenza e mi hanno sospeso per due anni.

Con quale motivazione?

Ah, per tutte le accuse che l’università aveva montato contro di me: bullismo e vilipendio alla reputazione dell’università. Il loro obiettivo era espellermi e hanno montato un caso per farlo. Una sospensione per due anni equivale ad un’espulsione perché non posso laurearmi, quindi ho subito presentato un appello al Senato accademico, che è il più alto organo di appello dell’Università, sto ancora aspettando la data dell’udienza.

Oggi ho denunciato per 3.5 milioni di dollari l’Università, il cancelliere e il vice-cancelliere presso la Corte Suprema per cospirazione, frode, violazione di contratto, diffamazione e molestie per tutto che mi hanno provocato con questa campagna di bullismo nei miei confronti eseguita per compiacere i loro padroni a Pechino.

Ho sporto denuncia per difendere il mio diritto e quello di tutti gli studenti australiani alla libertà di parola nei campus. Non mi importa dei soldi, quel che importa è mandare un messaggio: a queste persone importa solo dei soldi, bisogna mandargli un messaggio che dovranno ascoltare.

Com’è l’ambiente nel campus?

Abbiamo ottime relazioni con i gruppi di studenti di Hong Kong e del Tibet visto che stiamo lottando per i loro diritti. Loro ricevono molto minacce e le loro famiglie a casa (in Cina) sono minacciate. Sono tutti molto preoccupati di essere identificati e fotografati, è una situazione molto tesa nel campus e gli studenti di HK sono spesso bersagliati da sostenitori del governo cinese, il quale controlla direttamente l’associazione degli studenti cinesi dell’Università e la usa per tenere dei registri/file sugli studenti cinesi per controllarli politicamente.

Molte volte mi è capitato, camminando per il campus, che degli studenti cinesi si avvicinassero e mi dicessero “Drew apprezzo molto quello che stai facendo, so cos’è successo a piazza Tienanmen, odio anch’io il governo cinese, apprezzo la tua lotta per i diritti umani, grazie per alzare la voce, vorrei potermi unire al movimento ma non posso permettermi nemmeno di essere visto mentre ti parlo o mi faccio una foto con te”.

Il governo ha operativi che controllano la condotta degli studenti cinesi nel campus. È una situazione tremenda in cui nemmeno gli studenti cinesi nel campus hanno libertà di parola, quindi cerchiamo con tutte le nostre forze di difendere anche loro. Tutti (studenti di HK, cinesi, tibetani, uiguri) sono minacciati da agenti del governo cinese e non sono liberi di parlare nemmeno nel campus.

Noi australiani lottiamo e siamo attaccati, ma è ancora peggio per loro perché hanno famiglie a casa che il governo cinese può minacciare. Infatti il governo cinese agisce come la mafia, sa che il modo migliore per controllare le persone è attraverso le loro famiglie, è fondamentalmente una gang criminale.

L’Amazzonia brucia, e non è colpa di Bolsonaro

In questi ultimi giorni i comodi salotti degli ambientalisti d’Europa sono stati agitati e sconvolti da un’allarmante notizia, l’Amazzonia, il “polmone verde del mondo” sta bruciando ad un ritmo preoccupante. I colpevoli? Molti. Quel fascista del presidente brasiliano Bolsonaro, il cambiamento climatico, il capitalismo, il patriarcato bianco eterosessuale, il neoliberismo, la famiglia Rothschild e Donald Trump sono stati tutti avvistati sul luogo del misfatto armati di taniche di benzina e fiammiferi, intenti a bruciare la più grande foresta del mondo per costruire la loro nuova villa con piscina.

L’Amazzonia vista in questi giorni da Brasilia

Ironia a parte, il dibattito sul tema si è subito caratterizzato per il livello di disinformazione totale; e mentre i luoghi comuni piovevano sui social come grandine ad Agosto, chiunque abbia tentato – anche vagamente – di dissentire è stato immediatamente additato come: fascista, nazista, servo del capitale, eccetera. Cos’è dunque che è sfuggito riguardo al delicato problema della deforestazione e degli incendi in Brasile?

È un’emergenza straordinaria?

No.

Secondo i dati della INPE (Istituto Nazionale di Ricerche Spaziali), che da anni monitora l’avanzamento del disboscamento e il numero incendi nell’Amazzonia, il numero di incendi che ha colpito quest’anno l’Amazzonia fino al 27 di agosto è assolutamente nella norma.

Si noti invece il preoccupante picco avvenuto negli anni 2000 – 2007, quando al potere c’era il socialista Lula del Partito dei Lavoratori (stranamente di boicottaggi e attacchi internazionali allora però non se ne videro). In quegli anni il Brasile affrontò davvero una situazione di emergenza nazionale, caratterizzata però da un numero di incendi doppio rispetto al 2019.

Se andiamo ad osservare la serie storica dei dati sul numero di incendi in un anno, i risultati sono simili: il 2019 non si dimostra un anno particolarmente preoccupante, per ora (anche se il picco del numero di incendi si registra tra agosto e settembre). Si noti che i dati sono aggiornati al 27 di agosto 2019, quindi includono tutto il periodo della fantomatica “emergenza”.

Inoltre, potrebbe essere ulteriormente utile andare a confrontare il dato di agosto 2019 con la media del numero di incendi nello stesso periodo, con il massimo e con il minimo.

Come si può vedere, il numero di incendi in Brasile nel mese di agosto 2019 è addirittura inferiore alla media.

Il numero di incendi in Brasile, in particolare in Amazzonia, è tuttavia effettivamente aumentato rispetto all’anno scorso. Questo è innegabile.

Questo aumento, significativo, ma non eccezionale, ha tuttavia una spiegazione scientifica ben precisa, che i canali di informazione mainstream spesso si “dimenticano” di menzionare. Il 2019 è stato caratterizzato dal fenomeno climatico noto come El Niño, ovvero un aumento della temperatura della fascia equatoriale dell’Oceano Pacifico. Tale fenomeno comporta una riduzione delle precipitazioni nel bacino dell’Amazzonia, quindi una maggiore siccità. Di conseguenza la regione diventa molto più sensibile e soggetta ad incendi.

Come si può notare dal grafico, negli ultimi anni in cui si è verificato El Niño (2007, 2010), il numero di incendi è considerevolmente aumentato in Brasile. Il 2019 non è ancora finito, ci avviciniamo infatti al mese critico di settembre, ma ad oggi il trend nel numero di incendi non è allarmante.

E si noti ancora come, nonostante El Niño, il numero di incendi verificatisi prima del mese di agosto 2019 resti decisamente inferiore rispetto al 2007 e al 2010.

Per concludere, vorrei sottolineare come questa situazione di fantomatica “emergenza” non stia colpendo solo il Brasile, ma anche alcuni dei paesi confinati tra cui soprattutto Bolivia e Paraguay.

Bensì, buona parte degli incendi in Amazzonia ha origine proprio al confine della Bolivia, dove i narcotrafficanti sfruttano la siccità della stagione calda (agosto-settembre) per dare alle fiamme ampie porzioni di foresta per poi costruirci piste di atterraggio clandestine da cui far decollare illegalmente i carichi di cocaina.

Proprio la Bolivia infatti in questi giorni sta affrontando una situazione di reale difficoltà. Il numero di incendi che ha colpito il paese fino al 27 di agosto è infatti ben superiore alla media stagionale:

Tuttavia, la comunità internazionale non si è scagliata contro l’eco-socialista Morales né ha lamentato come le sue azioni mettano a repentaglio il “polmone verde” del mondo, ignorando tra l’altro che sia stato proprio lo stesso Morales ad aver aperto alla deforestazione dell’Amazzonia boliviana, con un decreto sovrano di inizio luglio 2019.

C’entra la deforestazione?

No.

La cosa più fastidiosa del dibattito di queste ultime settimane è stata la quantità di fake news circolate in giro. Si è sentito di tutto:

“Bolsonaro ha dato il via ad una massiccia deforestazione”

“Bolsonaro ha emanato decreti per lo sfruttamento dell’Amazzonia”

“Bolosnaro è stato personalmente visto munito di motosega nell’Amazzonia ad abbattere alberi per farci stuzzicadenti”

In primis, da quando è entrato in carica Bolsonaro non ha modificato le normative ambientali brasiliane, che anzi restano le più rigide al mondo.

Basti pensare che in un paese ricoperto al 65% da vegetazione e foresta tropicale chiunque acquisti una certa quantità di terreno in Amazzonia è obbligato per legge a mantenere inviolato l’80% della sua proprietà. Vuol dire che il suddetto contadino potrà coltivare o lavorare solo il 20% del terreno che acquista, pena la confisca del terreno stesso da parte dello Stato.

In secondo luogo, la deforestazione nella foresta amazzonica (salvo piccole fluttuazioni su base annuale) è diminuita progressivamente nel corso degli anni. Di seguito sono riportati gli ultimi 20 anni di dati dell’INPE:

Ora, i dati sulla deforestazione non tengono conto della superficie di foresta tropicale persa a causa degli incendi. Ma per fortuna l’INPE ci fornisce anche quelli (purtroppo solo dal 2002, ma aggiornati a fine luglio 2019):

Come si può vedere il 2019 non risulta particolarmente preoccupante né per quanto riguarda la deforestazione né per quanto riguarda gli incendi. Certamente ci si aspetta che la serie negativa aumenti con i dati definitivi di agosto e di settembre, ma come già evidenziato dai dati precedenti sul numero di incendi, nulla fa presagire un anno straordinariamente negativo.

Si noti quindi il totale di superficie di foresta persa per deforestazione e incendi fino a fine luglio 2019:

Certo, quel dato aumenterà. La stagione secca è appena iniziata, ma di nuovo non c’è alcuna evidenza empirica che supporti l’esistenza di una qualche emergenza. Si confronti il 2019 con altri due anni caratterizzati da El Niño, il 2007 e il 2010.

Per concludere, si noti come dal 1977 ad oggi (la deforestazione è aumentata vertiginosamente fino al 2004) la superficie coltivata del Brasile non sia aumentata più di tanto. Mi domando allora se le “lobby dei germi di soia” non stiano allora forse bruciando e coltivando l’Oceano Atlantico.

L’Amazzonia è il “polmone verde” del pianeta?

No.

In questi giorni si è diffusa forse la più grande di tutte le bufale sull’Amazzonia: quella per cui questa contribuirebbe da sola alla produzione del 20% dell’ossigeno del pianeta. Tralasciando il fatto che la maggior parte dell’ossigeno della Terra (il 50-70%) è prodotto dalla fotosintesi delle alghe oceaniche, l’Amazzonia, che non è una foresta in crescita, produce tanto ossigeno quanto ne consuma per i naturali processi di decomposizione; molto probabilmente essa è – al netto della quantità d’ossigeno richiesta -addirittura una consumatrice di O2, ovvero consuma più ossigeno di quel che produce, rilasciando CO2 nell’atmosfera.

E la Francia?

Il più acceso critico nei confronti del Brasile e del presidente Bolsonaro è stato proprio il presidente Francese Emmanuel Macron, il quale a colpi di tweet ha accusato la sua controparte un po’ di tutti i mali di questo mondo.

Sempre Macron ha invocato quindi una risoluzione globale al problema, in un tentativo alquanto interessante di mettere il Brasile sotto pressioni internazionali.

Il paladino dell’ambiente cade in doppio errore pubblicando dati falsi e una foto non di quest’anno

Non mi spingo oltre per non dare troppa attenzione a chi non ne merita. Vorrei solo ricordare che la Francia – un paese che riceve 7 miliardi di finanziamenti europei all’agricoltura – nella figura del proprio presidente, potrebbe stare reagendo in modo poco entusiasta all’accordo UE – MERCOSUL, che allentando i dazi tra i due blocchi commerciali, permetterà ai prodotti agricoli brasiliani di invadere gli scaffali dei supermercati francesi a prezzi più competitivi.

Quindi?

Per concludere, la situazione è seria dal momento che probabilmente quest’anno si assisterà ad un aumento del numero di incendi.

Tuttavia, non è una situazione straordinaria né di emergenza. Il disboscamento è aumentato nel mese di luglio rispetto allo stesso mese del 2018, ma resta assolutamente in linea con i dati degli anni precedenti. La superficie totale di Amazzonia persa fino a fine luglio tra incendi e disboscamento è assolutamente sotto la media, soprattutto considerando il fattore El Nino, mentre i dati di agosto (aggiornati al 26) sul numero di incendi confermano la realtà di una situazione assolutamente nella media.

Le uscite infelici di Bolsonaro sono indifendibili, ma altrettanto indifendibile è la disonestà intellettuale di una classe politica europea, che dopo aver conquistato lo sviluppo economico disboscando il 70% delle foreste nazionali, vuole andare a fare la morale ad una nazione ricoperta al 65% da foresta tropicale e vegetazione, basandosi su: notizie false, tendenziose, e luoghi comuni.

Il Brasile resta una delle nazioni con le regolamentazioni ambientali più severe di questo mondo. Bolsonaro non ha ancora tentato di modificarle, e anche qualora volesse (e in tal caso ci sarebbe da chiedersi perché non l’ha ancora fatto) avrebbe bisogno dell’appoggio del parlamento, cosa tutt’altro che scontata. In Brasile di fascismi non se ne vedono, e la democrazia funziona come dovrebbe. In Europa, forse, un po’ meno.

Fonti:

http://queimadas.dgi.inpe.br/queimadas/portal-static/estatisticas_paises/ (Brasile)

http://queimadas.dgi.inpe.br/queimadas/portal-static/estatisticas_paises/ (Bolivia)

https://www.forbes.com/sites/michaelshellenberger/2019/08/26/why-everything-they-say-about-the-amazon-including-that-its-the-lungs-of-the-world-is-wrong/amp/?__twitter_impression=true

https://rainforests.mongabay.com/amazon/deforestation_calculations.html

https://rainforests.mongabay.com/amazon/deforestation-rate.html

http://www.ciflorestas.com.br/cartilha/reserva-legal_qual-deve-ser-o-tamanho-da-reserva-legal.html

https://qz.com/1694263/the-amazon-rainforest-wildfires-will-worsen-this-year/

Socialisti contro ricchi: la fobia del benessere

Le imprevedibili virtù dell’ignoranza

Le fila dei socialisti democratici statunitensi (liberal*, democratic socialists, social justice warriors, etc.) traboccano di personaggi tanto interessanti quanto ridicoli: Bernie Sanders, il multimilionario buon samaritano che predica l’uguaglianza e la redistribuzione dalla sua terza casa di proprietà da $600,000 [1]. La senatrice Elizabeth Warren, che per ottenere qualcosa dalla vita ha dovuto fingere di essere una nativa americana per poi essere pubblicamente svergognata dal recente test del DNA [2], e infine l’astro nascente dei guerrieri della giustizia sociale: Alexandria Ocasio-Cortez!

Questa giovane donna rappresenta la versione americana dei mali che da tempo affliggono il nostro paese: l’analfabetismo economico, l’idea “uno vale uno”, la totale assenza di vergogna o pudore nell’affermare incorrettezze, la fascinazione dell’ignoranza.

Ma come ha fatto una cameriera del Bronx – che nonostante una laurea in Relazioni internazionali accusa Israele di occupare militarmente la Palestina – non in grado di distinguere le tre funzioni dello Stato, a diventare la figura di riferimento della Sinistra radical-liberal* statunitense?

La ricetta economico-politica della Ocasio-Cortez è estremamente semplice quanto pericolosa: [3]

  • Assistenza sanitaria gratuita per tutti
  • Educazione gratuita per tutti
  • Reintroduzione del Glass-Steagal Act
  • Diritti delle donne e delle minoranze
  • Salario minimo di 15 $/h aggiustato al tasso di inflazione
  • Lotta al cambiamento climatico (il ridicolo Green New Deal)
  • Lotta alle armi
  • Abolizione dell’ICE (Immigration and Customs Enforcement)
  • Ritiro delle truppe dal Medio Oriente

Come al solito un bel programma, pieno di proposte che vanno al cuore degli elettori, al punto che sorprende non trovare l’abolizione della fame nel mondo, la fine di tutte le guerre, e unicorni-arcobaleno per tutti.

Tuttavia, nonostante la varietà di ideali, questo progetto rimane drammaticamente povero in contenuti, povero in dati, e dal costo economico spropositato. La domanda è semplice: chi pagherà i 33 TRILIONI di dollari che Medicare For All – da solo – potrebbe costare solo nei primi dieci anni? [4]

Ovviamente i più ricchi, il Top 1%, che negli ultimi trent’anni avrebbe mangiato in testa al povero lavoratore americano. La proposta della Ocasio-Cortez è quindi naturale: introdurre una nuova aliquota fiscale marginale del 70% sulla parte di reddito eccedente i 10 milioni di dollari, che metterà finalmente fine ai tempi d’oro in cui l’1% più ricco pagava molto meno del restante 99%.

O forse no.

No. Perché tutti i dati economici mostrano in realtà esattamente l’opposto.

 

Cosa dicono i dati?

I dati dell’IRS (Internal Revenue System, l’Agenzia delle Entrate statunitense) mostrano come nel 2014 i 400 maggiori contribuenti americani per reddito (i Top 400) abbiano versato quasi 30 miliardi di dollari in tasse, il 2.13% del totale delle tasse federali per il 2014, con una media di 75 milioni di dollari a testa, coprendo di fatto DA SOLI il budget annuale della NASA e dell’EPA (Ente Protezione Ambientale). [5][6]

Osservando il grafico inoltre, si può notare come questa percentuale sia più che raddoppiata negli anni, passando dall’1.04% del 1992, al 2.13% del 2014, aumentando nonostante il taglio delle tasse sui redditi più alti, operato da George W. Bush nel 2003; in quegli stessi anni (2003-2007) il contributo dei Top 400 crebbe considerevolmente piuttosto che diminuire.

Un altro dato estremamente interessante è quello secondo il quale, sempre secondo l’IRS, negli ultimi anni, nonostante il livello di tassazione sui redditi più alti sia progressivamente diminuito dal 1945 ad oggi, il contributo totale del Top 1% sia vertiginosamente aumentato fino a superare definitivamente quello del Bottom 90%. In poche parole, l’1% della popolazione americana paga più tasse del 90% dell’intera popolazione messa insieme. E si noti sempre come il tax-cut di Bush nel 2003 non abbia minimamente fatto diminuire il contributo dell’1% più ricco, ma al contrario l’abbia incrementato. [7]

Al giorno d’oggi l’1% più ricco paga il 40% del totale delle tasse sul reddito. Ma il dato diventa ancora più significativo se consideriamo quello che in America viene definito il Top 5%, il secondo gruppo dei più “privilegiati”: la classe media-alta. Questi due gruppi combinati, il Top 1% e il Top 5%, contribuiscono da soli per il 60% del totale delle tasse versate allo Stato americano. [8]

E sempre i dati dell’IRS ci mostrano come i redditi più alti non solo contribuiscono in modo straordinario alle entrate, ma pagano anche molto di più in percentuale rispetto ai redditi più bassi. Al punto che il 50% dei contribuenti versa il 97.3% delle tasse. [8]

La progressività del sistema fiscale americano è rimasta invariata negli ultimi 30 anni (quando non è addirittura aumentata) nonostante la progressiva diminuzione delle aliquote sui redditi più alti, e anzi, come abbiamo visto, il contributo del Top 1% è aumentato significativamente fino ad arrivare al 40% del totale delle tasse versate in un anno. E solo nel 2006 le politiche fiscali statunitensi hanno redistribuito circa 1.4 trilioni di dollari dal 40% più ricco al 60% più povero, mentre le diseguaglianze nella distribuzione del reddito si sono stabilizzate. [8] [9]

Inoltre, per comprendere la completa follia della proposta della Ocasio-Cortez di un’aliquota marginale al 70% sulla parte di reddito eccedente i 10 milioni di dollari l’anno basta analizzare le prospettive di gettito fiscale aggiuntivo che questa potrebbe generare.

Secondo un recente studio della Tax Foundation, un’aliquota marginale del 70% applicata ai redditi oltre i 10 milioni di dollari l’anno porterebbe infatti nelle casse dello Stato americano 291 miliardi di dollari nel periodo 2019-2028 a fronte di una spesa di 32.6 trilioni nello stesso periodo solo per la prima delle promesse elettorali, Medicare For All, l’assistenza sanitaria gratuita e universale. [10]

A peggiorare questa abissale disproporzione tra gettito aggiuntivo e nuova spesa, si consideri che i risultati di questa politica fiscale potrebbero essere decisamente inferiori, dal momento che un simile aumento esponenziale dell’aliquota massima potrebbe scoraggiare i contribuenti a dichiarare o realizzare livelli di reddito superiori ai 10 milioni di dollari l’anno.

 

La parola ai fatti, non alle buone intenzioni

In conclusione, nessun sistema fiscale è perfetto, ma la storia degli ultimi decenni di quello statunitense è la storia di una semplice ricetta economica che ha funzionato: più bassa è la pressione fiscale, più tasse vengono pagate (dai più ricchi in primis), più l’economia cresce. Infatti, una pressione fiscale accettabile non solo non scoraggia il contribuente, costringendolo a limitare le sue prospettive di crescita per evitare il passaggio all’aliquota successiva, ma permette una maggiore immissione di liquidità nell’economia reale sotto forma di spesa e investimenti, gli unici due fattori in grado di supportare un crescita solida nel lungo periodo.

Le politiche e le proposte della sinistra liberal americana sono dettate da una precisa agenda fondata sull’invidia sociale, l’odio di classe, e la finta giustizia sociale, condite dalla più assoluta ignoranza economica e dal rifiuto dei dati empirici.

Questa agenda mira alla distruzione della più florida economia mondiale e dell’unica nazione fondata su una promessa di Libertà: è infatti evidente che la dittatura economica a cui mirano i Democratic Socialists sia solo l’anticamera della dittatura morale dello Stato etico e del politicamente corretto, a cui segue necessariamente la morte del diritto di parola e della libertà espressione.

 

 

 

 

 

*con il termine statunitense liberal si indica una corrente politica che in Europa verrebbe definita “socialista”. Il termine liberal non ha alcuna affinità con il Liberismo economico, il Liberalismo classico, o il Libertarismo americano.

FONTI:

[1] https://www.washingtonexaminer.com/bernie-sanders-slams-billionaires-gets-reminded-he-owns-3-houses

[2] https://www.foxnews.com/politics/warren-expressing-concern-about-releasing-dna-analysis-on-native-american-heritage-report-says

[3] https://ocasio2018.com/issues

[4] https://www.bloomberg.com/news/articles/2018-07-30/study-medicare-for-all-bill-estimated-at-32-6-trillion

[5] https://www.cato.org/blog/taxes-tippy-tippy-top?fbclid=IwAR1SWwcNuR-7aHT_kIb8FcHV7RzUUmYOsN99l_Cnvo-zFgI7dXI82vzWFTI

[6] https://www.irs.gov/statistics/soi-tax-stats-top-400-individual-income-tax-returns-with-the-largest-adjusted-gross-incomes

[7] https://taxfoundation.org/top-1-percent-pays-more-taxes-bottom-90-percent/

[8] https://taxfoundation.org/summary-latest-federal-income-tax-data-2016-update/

[9] https://taxfoundation.org/official-statistics-inequality-top-1-and-redistribution/

[10] https://taxfoundation.org/70-percent-tax-analysis/

 

N.B. tutti i dati della Tax Foundation sono dati ricavati dal sito dell’IRS, consultabili attraverso i link riportati in fondo agli articoli in citazione.

Stipendio Minimo, ossia come affossare il mercato del lavoro

Breve storia della follia socialista

Negli ultimi 20 anni i movimenti liberal* e progressisti statunitensi hanno chiesto al Congresso, sempre più insistentemente, prima l’approvazione, poi l’aumento, del Minimum Wage, il salario minimo garantito. Nel 2009, sotto la presidenza di Barack Obama è stato stabilito a livello federale un salario minimo garantito di $7,25 all’ora. Nonostante questo provvedimento drastico e discutibile, dal 2009 in poi, sempre più numerosi membri della sinistra americana sostengono che $7,25 non siano sufficienti e che, addirittura, bisognerebbe raddoppiare il Minimum Wage, portandolo a $15,00/h.

La sinistra liberal, i progressisti, e il partito Democratico in primis, credono che questa misura sia efficace e fondamentale per:

  • ridurre la povertà
  • ridistribuire ricchezza
  • garantire la possibilità di vivere dignitosamente anche lavorando full-time a salario minimo
  • creare posti di lavoro
  • aumentare la quantità di denaro circolante (e quindi i consumi)
  • ridurre i programmi di assistenza sociale

 

Questo provvedimento, come tutte le crociate di giustizia sociale, presenta tuttavia dei gravi difetti. Si concentra infatti sui risultati nel breve termine, è un salasso economico per le piccole-medie imprese. Inoltre distorcendo completamente il mercato e le sue leggi, ottiene l’effetto opposto ai propositi di partenza:

  • non riduce la povertà, la accresce
  • non ridistribuisce la ricchezza, la riduce
  • non crea posti di lavoro, crea disoccupati

 

Perché solo 15$/h? Perché non 45$/h?

Per capire l’errore di fondo del Minimum Wage e le sue nefaste conseguenze dobbiamo prima ricordare qual è il significato del salario.

Siamo pagati per i benefici e i miglioramenti che apportiamo alla società in termini materiali o morali. Lo stipendio, in quanto corrispettivo di questo miglioramento, tiene conto della complessità della mansione svolta, del relativo rischio, della sua unicità o peculiarità. È quindi evidente che un lavoratore scarsamente qualificato debba necessariamente avere uno stipendio inferiore rispetto a uno altamente qualificato. Questo non per fare un torto, ma perché la sua specifica mansione potrebbe essere svolta da una qualunque persona con una preparazione minima e senza particolari titoli di studio.

 

L’errore del Minimun Wage

Il Minimum Wage è una radicale distorsione delle necessità di mercato, della legge della domanda e dell’offerta e perfino dell’umano buon senso. Se l’attuale salario minimo di 7,25$/h è un provvedimento discutibile, 15$/h sarebbero un colpo devastante anche per un mercato del lavoro mobile ed elastico come quello statunitense. I più importanti difetti di questa misura sono:

  • aumento radicale del costo del lavoro e della manodopera
  • onere pesantissimo, soprattutto per le piccole-medie imprese
  • obbligo per i datori di lavoro di ridurre le ore di lavoro dei dipendenti per contenere i costi di produzione
  • fine per i giovani delle possibilità di trovare facilmente uno “starting job” ed inserirsi nel mondo del lavoro
  • contrazione della domanda di manodopera e aumento della disoccupazione
  • chiusura di attività produttive perché nell’impossibilità di sostenere l’aumento dei costi di produzione
  • ricorso a macchine per sostituire la manodopera umana ormai troppo cara

 

Per concludere, vorrei ricordare una delle più profonde e significative argomentazione della sinistra americana a favore del Minimun Wage, e cioè che chiunque, lavorando full-time da McDonald’s, dovrebbe essere in grado di condurre una vita dignitosa. Nonostante il lavoratore abbia tutta la mia simpatia, il problema è che, in un mercato del lavoro flessibile ed insaziabile come quello americano, in cui il tasso di disoccupazione ha toccato i minimi storici del 3,5%, non si dovrebbe anche solo lontanamente credere che McDonald’s possa o debba offrire posti di lavoro che permettano di vivere dignitosamente lavorando 40 ore a settimana.

 

 

*con il termine statunitense liberal si indica una corrente politica che in Europa verrebbe definita “socialista”. Il termine liberal non ha alcuna affinità con il Liberismo economico, il Liberalismo classico, o il Libertarismo americano.

 

 

Giù le mani da Isacco: la religione del privato cittadino

Dio vive, Isacco è morto.

Il libro della Genesi (22, 1-19) ci offre il racconto ben noto del sacrificio di Isacco da parte di Abramo.

“Dio mise alla prova Abramo e gli disse: «Prendi tuo figlio, il tuo unigenito che ami, Isacco, e offrilo in olocausto su di un monte che io ti indicherò»”

Meno nota è l’analisi della figura e del gesto di Abramo, portata avanti anche dal filosofo Søren Kierkegaard nel suo capolavoro Timore e Tremore. Abramo infatti rappresenta perfettamente la Religione (e sia chiaro ogni Religione) prima dell’avvento del secolo dei Lumi e in particolar modo della filosofia di Kant. Il patriarca è l’uomo di fede ciecamente devoto alla chiamata di Dio, che non esita a sacrificare nemmeno il suo unico figlio.

Per chiarezza è opportuno ricordare che Abramo divenne padre in tarda età, quando ormai aveva perduto ogni speranza di vedere continuata la sua stirpe. Sua moglie Sara infatti era vecchia e sterile. Quest’unico figlio, Isacco, fu un autentico dono di Dio, e tuttavia, Abramo è pronto ad ucciderlo.

Certamente non vuole, ma accetta di compiere il gesto orrendo, perché Dio glielo ha chiesto. Sarà poi un angelo del Signore a fermare la mano di Abramo prima che cali il pugnale sul corpo inerme del figlio.

Søren Kierkegaard vide in Abramo l’incarnazione del suo ideale dell’uomo religioso, la terza possibilità di esistenza della filosofia del danese (vita estetica – vita etica – vita religiosa). Abramo infatti è l’uomo che vive la sua Fede come esperienza totalizzante. Non è sfiorato dal dubbio, dalla critica morale o etica. Non si interroga sulla “moralità” del suo atto, e non mette in dubbio la richiesta di Dio.

Abramo vive la Religione come un sistema assoluto fuori dalla possibilità di giudizio del Singolo, o della Società, che si impone con forza su qualsiasi sistema etico umano. In questo racconto dunque la volontà di Dio trionfa sulla Legge degli uomini, sui valori della famiglia, e sulla Morale.

 

Dio svanisce, Isacco vive.

Il progetto di vita religiosa di Kierkegaard si rivelò sostanzialmente fallimentare perché questa mentalità era già stata superata da anni grazie all’avvento della filosofia di Immanuel Kant. Dopo Kant nessuno si sognò più di provare a dimostrare l’esistenza di Dio o di principi metafisici, che proprio in quanto tali sono inconoscibili da parte dell’uomo.

Dio dunque, in quanto ente metafisico per eccellenza, è inconoscibile e la sua stessa esistenza non è dimostrabile. Di conseguenza la morale individuale dell’uomo, che è fondata su principi universali e necessari ed è superiore a Dio, trionfa sul precetto religioso.

 

Dio è morto, Isacco vive.

Mostrandoci il predominio della morale individuale sulla religione, Kant diede inconsapevolmente inizio a quel “processo filosofico” che in un secolo porterà Nietzsche ad affermare: “Dio è morto”. Dio è morto perché l’uomo si è trovato nel nulla del nichilismo passivo. L’età della tecnica ha trionfato e qualsiasi velleità di metafisica è stata definitivamente cancellata. Il Dio di Abramo e di Isacco è morto perché l’umanità, stanca del sacrificio del povero Isacco, lo ha ucciso.

È dunque giunto il momento della filosofia del mezzogiorno, il momento degli spiriti liberi e dei giovani leoni, che si liberano dal giogo millenario della Religione, “il drago d’oro che dice all’uomo: «Tu devi»”. Dopo secoli di teocrazia mascherata, l’uomo riconosce la sua Libertà e riconduce Fede e Religione alla sfera privata, accettando il mistero personale che riguarda il metafisico. Forse l’aveva già detto in modo migliore a suo tempo il filosofo Ludwig Wittgenstein:

“Su ciò di cui non si è in grado di parlare, si deve tacere”

Privatizzazioni e monopoli: a sbagliare è sempre lo Stato

Nazionalizziamo!1!!111!

Il tragico avvenimento del crollo del ponte Morandi a Genova si è purtroppo trasformato nel pretesto ideale per la boriosa massa degli statalisti feroci per chiedere a gran voce la nazionalizzazione delle autostrade italiane.

Il presunto fallimento del gestore privato è dunque la riprova definitiva del fallimento del liberismo, del regime di concorrenza perfetta, delle privatizzazioni. Il mercato ha fallito e lo Stato deve tornare ad essere proprietario e gestore delle infrastrutture nazionali (cosa che detta dai fautori del NO categorico ad ogni investimento per le grandi opere fa già abbastanza ridere).

Inoltre, è di questi giorni la notizia che il Regno Unito, dopo le privatizzazioni “selvagge” operate dal governo Thatcher, sta riconsiderando la nazionalizzazione del sistema ferroviario britannico. Non è forse questa la prova definitiva del fallimento del privato? Non è forse questo il segno definitivo della necessità dell’intervento dello Stato nella gestione delle infrastrutture (prima) e dell’economia (dopo)?

Beh, no.

Il principale errore dello statalista (o del socialista/comunista) medio è credere questo: gli infami Liberali sono per la privatizzazione indiscriminata a prescindere. Tutto questo nel nome del guadagno indiscriminato, senza alcuna preoccupazione per le conseguenze che il povero cittadino dovrà subire (i.e. il crollo di un ponte). Se potessero infatti privatizzerebbero anche l’aria.

Niente di più sbagliato.

Cosa dice il Liberalismo classico

Ogni Liberale classico crede che lo Stato debba avere un ruolo minimo nell’economia. Deve infatti garantire che le infrastrutture fondamentali per lo sviluppo del tessuto economico nazionale siano costruite. Poi lo Stato deve delegarne la gestione a più privati (come non è stato fatto in Italia). Tutto questo all’interno di un regime di concorrenza perfetta (come non è successo in Italia) per garantire la possibilità di scelta e il miglior servizio possibile al cittadino (certamente non in Italia).

Basta guardare la concessione firmata nel 2007 dal governo Prodi, che ha dato ad Autostrade per l’Italia la gestione delle infrastrutture nazionali, per capire che di tutto si è trattato, tranne che di libero mercato. Il regime creato è stato un monopolio a gestore unico, senza concorrenza. La revisione del contratto è praticamente impossibile. Insomma, è stata l’ennesima porcata all’italiana che ha visto il trionfo di un capitalismo marcio di Stato, cosa che susciterebbe giustamente la più assoluta indignazione di ogni Liberale.

Per spostarci all’estero, andando a guardare all’iter di privatizzazione delle ferrovie britanniche negli anni ’80, si può riscontrare un fenomeno analogo. Si è privatizzato, ma non si è liberalizzato.

Ora, lo sciacallaggio di governo ha approfittato di questa tremenda tragedia per lanciare una proposta dal sapore di IRI 2.0 (tra l’altro proprio l’IRI costruì il ponte Morandi nel ’67). La risposta al fallimento del concordato Stato – industriali (che ripetiamo non ha niente a che vedere con un regime di libero mercato) non sta nel nazionalizzare. Riuscite ad immaginare l’intera rete autostradale nazionale gestita dall’ANAS come la Salerno-Reggio Calabria? Trent’anni di cantieri? Continui ritardi? Disagi inimmaginabili? Miliardi di euro dei contribuenti sacrificati sull’altare dell’inefficienza pubblica? Ma manco per sogno.

Liberalizzare per il bene del cittadino

La soluzione è unica ed evidente, ma questo paese la rifiuta categoricamente sin dall’era giolittiana. Deve finalmente cessare lo sporco connubio tra Stato e industria. Privatizzando un settore dell’economia senza liberalizzarlo si finisce semplicemente per passare dal monopolio statale a quello privato. Solo un regime di perfetta concorrenza, con lo Stato relegato alla giusta dimensione di arbitro, può garantire uno sviluppo efficiente delle infrastrutture nazionali. Vogliamo un sistema efficiente e che funzioni, al servizio del cittadino. Non vogliamo che il contribuente venga sfruttato come finanziatore né dello spreco statale né di accordi secretati e monopolistici.

 

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Come il Presidente americano NON viene eletto dal popolo

Ancora una volta un presidente non eletto dal popolo”. Quante volte abbiamo sentito pronunciare queste parole? E perché ultimamente anche gli Stati Uniti d’America, la nazione del presidenzialismo per eccellenza, hanno cominciato a mettere in dubbio l’ordine costituzionale ereditato dalla lungimiranza dei padri fondatori?

In Italia, negli ultimi sette anni, quello del “presidente non eletto dal popolo” è stato uno dei principali cavalli di battaglia del Movimento 5 Stelle nella loro critica al sistema politico del Belpaese. Negli USA invece, dopo la sconfitta alle elezioni presidenziali del 2016, i Democratici hanno sostenuto con forza la necessità di abolire una volta per tutte i collegi elettorali e il sistema dei grandi elettori.

In Italia, Silvio Berlusconi fu il primo nel 2006 a tentare di riformare la Costituzione in senso federalista per superare il bicameralismo perfetto e soprattutto per aumentare i poteri del premier (il famoso premierato), ma fallì: il popolo respinse il progetto con il referendum costituzionale del 2006. Caduto il governo Berlusconi nel 2011, il governo Monti fu da subito additato come l’incarnazione del male assoluto, il tecnico non eletto dal popolo, servo dell’Europa e dei tanto famosi, quanto misteriosi, “poteri forti”.

Vent’anni di berlusconismo avevano riproposto al paese quell’immagine nostalgica dell’uomo forte, capace di governare da solo e senza dover scendere a compromessi, che mancava da decenni. L’Italia infatti, salvo il fascismo e la DC delle elezioni del 1948, non aveva mai visto un solo partito conquistare la maggioranza assoluta di voti e seggi. Siamo sempre stati il paese delle coalizioni, del Pentapartito. Caduto Berlusconi, la possibilità di un governo di larghe intese sembrava dunque un sacrilegio. Ed è proprio in questi anni che la cantilena del “premier non eletto dal popolo” cominciò a diffondersi.

Le ultime elezioni poi hanno visto la formazione dell’ennesima legislatura senza maggioranza assoluta, e con un gesto di coerenza stoica, l’accordo di governo tra due forze politiche che si erano presentate in liste diverse ci ha consegnato l’ennesimo premier non eletto dal popolo. Ma il popolo non elegge il premier, come molti, troppi si ostinano a credere. Per la nostra Costituzione, l’elettore è chiamato a rinnovare il Parlamento ogni 5 anni. Poi, il presidente della Repubblica indica un premier incaricato che deve formare un governo e presentarsi davanti alle Camere per ottenerne la fiducia.

Negli Stati Uniti invece, dopo le elezioni del 2016 è iniziato un acceso dibattito circa il superamento del sistema elettorale corrente basato sul collegio elettorale, l’Electoral College. Infatti, l’elettore americano, quando si reca ogni quattro anni alle urne, non elegge direttamente il presidente (come molti erroneamente credono), ma vota per eleggere i grandi elettori, 538 rappresentanti divisi tra i vari Stati, che “promettono” di votare un determinato candidato alla presidenza (ma non sono legalmente obbligati a votare per un determinato candidato).

Questo peculiare sistema elettorale winner-takes-all (per cui il partito vincitore in un determinato Stato ottiene tutti i grandi elettori dello Stato) non è puramente proporzionale, e presenta degli innegabili vantaggi, poiché da un lato concede anche agli Stati più piccoli di avere un certo peso politico, e dall’altro permette un maggiore controllo sull’elezione del presidente da parte dei grandi elettori.

Infatti, nelle intenzioni dei padri fondatori, il presidente non doveva essere eletto direttamente dalla popolazione. Essa invece avrebbe dovuto eleggere come rappresentanti uomini validi, “grandi” elettori appunto, i quali avrebbero poi scelto il presidente della nazione, e se necessario, avrebbero potuto sovvertire il risultato dell’elezione popolare nel caso in cui il candidato vincente si fosse dimostrato incapace di svolgere il ruolo di presidente.

Le elezioni presidenziali del 2016 hanno visto il trionfo di Donald Trump, che è riuscito a conquistare 304 grandi elettori, strappando a Hillary Clinton e al Partito Democratico alcuni Stati chiave (Michigan, Pennsylvania, e Wisconsin) storicamente blue.

 

                                                        

 

A livello nazionale i risultati furono i seguenti:

  Donald Trump Hillary Clinton
Partito repubblicano democratico
Voti 62.984.825

46,1 %

65.853.516

48,2 %

Grandi Elettori 304

56,5%

227

42,2%

 

In un sistema proporzionale puro Hillary, che ottenne circa 2.800.000 voti (il 2%) in più di Trump, avrebbe vinto. Tuttavia, occorre considerare due dati:

  • La distribuzione dei voti per contea
  • La distribuzione dei voti per Hillary Clinton

Hillary (come più o meno ogni candidato democratico) vinse soprattutto nelle grandi città e nelle storiche roccaforti democratiche (California, East Coast, Oregon, New Mexico). La stragrande maggioranza delle contee americane votò repubblicano.

Il motivo per cui Hillary Clinton conquistò il voto popolare, ma perse le elezioni, è da ricercare proprio nel sistema elettorale americano. Dove vinse Hillary (soprattutto nelle città) vinse di molto, distaccando notevolmente il proprio avversario. Tuttavia, per questo sistema elettorale, è meglio vincere due Stati con il 51%, piuttosto che un solo Stato con il 90%.

E qui si scopre l’errore principale dei Democratici, che costò loro la vittoria: la decisione di non fare campagna elettorale nelle roccaforti storiche del midwest (Michigan, Winsconsin) o in Pennsylvania (che da quasi vent’anni votava blue). La vittoria di Trump in questi Stati, con margini di vantaggio relativamente modesti rispetto allo scarto tra Democratici e Repubblicani in California, gli fruttò 46 grandi elettori, che gli permisero di sconfiggere agevolmente l’avversaria.

 

                                      

 

L’anno dopo la sua sconfitta, Hillary Clinton cominciò a sostenere la necessità di abolire il sistema dei grandi elettori e dei collegi elettorali. Tuttavia, questo sistema (certamente imperfetto, perché la perfezione non è di questo mondo) è senza dubbio la soluzione migliore per gli US, perché tiene conto della partecipazione dei singoli Stati all’unione perfetta, cosa che verrebbe meno con un sistema proporzionale puro, e non permette alle grandi metropoli delle due coste e dei laghi (che comunque mantengono un peso politico enorme) di monopolizzare completamente il panorama politico statunitense.

Il presidente dunque non è direttamente eletto dal popolo perché così vollero, con un atto di grande lungimiranza, i padri fondatori, e il sistema elettorale non è un proporzionale puro per garantire una minima difesa degli interessi degli Stati meno popolosi, e tuttavia, come l’elezione di Obama nel 2008 e nel 2012 ci hanno mostrato, questo non è di alcun impedimento per l’elezione di un presidente democratico. Forse il Partito Democratico dovrebbe concentrarsi sui veri problemi che lo affliggono: la scelta di candidati pessimi e la pericolosa svolta a sinistra che il partito sta subendo.

Scienza e Libertà: un rapporto complesso

Un breve excursus filosofico attraverso Comte, Mill e Bergson

Quando l’anno scorso, durante l’ennesimo scontro con un antivaccinista convinto, Roberto Burioni, per mettere a tacere l’insulso complottista, affermò che “la scienza non è democratica”, provai una certa estasi. Quella semplice frase, concisa ed efficace, rappresentava ai miei occhi il trionfo della Scienza e della Ragione sull’oscurantismo digitale 2.0, che sta cercando di mettere in dubbio uno dei più grandi successi della medicina moderna. Tuttavia, nel corso del tempo, ho avuto modo di ragionare sul significato profondo di quella frase. “La scienza non è democratica”.

Ho dunque realizzato di trovarmi totalmente d’accordo con questa affermazione se con essa si intende che in una discussione di argomento medico-scientifico, la mia opinione non può avere lo stesso valore di quella di un virologo del livello di Burioni. In medicina il mio “voto” non può (e non deve) contare quanto quello di una persona altamente qualificata; quindi in questo senso la Scienza non è assolutamente democratica.

Tuttavia, dietro al fatto che, giustamente, la Scienza non sia democratica si annida un problema che già Kant, quasi tre secoli fa, aveva dibattuto: quale Libertà può restare all’uomo in un sistema rigidamente deterministico? Ci sono infatti soltanto due modi di porsi nei confronti della Scienza:

  • Accettarla come Verità assoluta, incontestabile ed immutabile porta necessariamente alla naturale tendenza della Scienza a voler spiegare, e quindi determinare, ogni singolo aspetto della Vita umana: dalla coscienza, al destino del singolo individuo, che viene così privato di ogni libertà di azione e morale
  • Accettarla come momentanea interpretazione della realtà che ci circonda, sempre aperta al cambiamento, all’evoluzione e a nuove teorie, secondo la tradizione humiana-kantiana per cui le leggi scientifiche hanno valore solo ipotetico e probabile, permette al singolo di riconquistare la sua libertà, e conseguentemente sottopone la Scienza al giudizio morale

Positivismo e Riduzionismo

Nella seconda metà dell’800 Auguste Comte, discepolo di Henri de Saint-Simon, concepì quell’insieme di dottrine filosofiche che passarono alla storia con il nome di Positivismo. Egli era convinto che il progresso della razza umana sarebbe stato possibile solo affidandosi ciecamente alla Scienza, e riponeva in essa così tanta fede che negli ultimi anni della sua vita arrivò a fondare una “Chiesa positivista” con un suo catechismo. Per Comte il ruolo di una persona nella società era determinato biologicamente dal suo DNA, la coscienza e la psiche umana erano riducibili a semplici processi chimici a livello del cervello, le donne erano indiscutibilmente inferiori agli uomini perché un cervello femminile pesa meno di uno maschile, e aveva come massima ambizione scoprire una legge scientifica in grado di ridurre l’uomo, i suoi pensieri, la sua volontà e le sue azioni, a fenomeni fisici riconducibili alla Legge di gravitazione universale. Il Positivismo comtiano, e ancora di più quello tedesco, abbracciò di conseguenza il Riduzionismo materialistico e la sua dottrina:

  • Tutto è materia misurabile quantitativamente
  • Spirito, Morale e Metafisica non hanno più alcun valore
  • Ogni fenomeno può essere quantitativamente spiegato dalla Scienza
  • L’individuo è biologicamente determinato nella sua condizione (sono di questi anni degli studi di Lombroso, Darwin, Dalton e Spencer)

È evidente come dal punto di vista sociale non resti più alcuna Libertà. Se tutto è determinabile e determinato scientificamente, l’individuo non ha alcuna possibilità di scelta. La società teorizzata da Comte, convinto oppositore della democrazia, è uno dei primi esempi di Tecnocrazia capitalista-statalista (pre-keynesiana, giusto per intenderci), alla cui guida ci sarebbe dovuta essere una élite di scienziati.

John Stuart Mill e la libertà individuale

Contemporaneo di Comte e padre del liberalismo inglese moderno, John Stuart Mill ebbe come punti di riferimento la tradizione empiristica inglese di Bacone, Berkeley, Locke, Hume e l’Utilitarismo di Bentham. Mill, che pure riconosceva alle scienze un grandissimo valore, sottolineò, in aperto contrasto con le teorie di Comte, la necessità di arrivare alla Scienza attraverso un processo di induzione che partisse dai fatti. A suo avviso infatti, non possono esistere leggi scientifiche definitive, poiché l’Induzione si basa sull’esperienza, che può sempre essere contraddittoria. Pertanto, la soluzione all’apparente dicotomia tra Scienza e Libertà fu trovata da Mill nella Statistica. Essa infatti permette di postulare assiomi generali validi per gruppi di individui numerosi, senza escludere la possibilità di libertà individuale del singolo. Un esempio. Si consideri la frase: “è statisticamente provato che ogni anno a Londra vengano smarrite dal servizio postale circa 10.000 lettere”. L’asserzione statistica permette di formulare un’affermazione che descrive in modo efficace, probabile, e non deterministico, la realtà dei fatti. Tuttavia, non è detto che le 10.000 lettere perse ogni anno appartengano sempre alle stesse 10.000 persone; in questo modo la libertà individuale è garantita, ma il quadro complessivo della società è efficacemente descritto in termini probabilistici.

Bergson e il Naturalismo

Filosofo della reazione anti-positivistica di inizio ‘900, il pensiero di Henri-Louis Bergson fu talmente affascinante da meritare il Nobel per la Letteratura nel 1927. Egli rifiutò radicalmente sia il Meccanicismo darwiniano e positivistico, sia il Finalismo delle nuove correnti spiritualistiche del suo tempo, per teorizzare un nuovo approccio al problema della Vita: il Naturalismo bergsoniano. Bergson, proprio per difendere la libertà umana e il valore intrinseco della vita dal martello del Riduzionismo positivistico, sottolineò come la Scienza, in tutta la sua grandezza, fosse completamente incapace di spiegare i due aspetti più importanti dell’essere umano: la Vita, e la Coscienza. Esse sono due Unità, indivisibili, e pertanto non indagabili dalla Scienza, che con il metodo analitico finirebbe per distruggerle, dal momento che la somma di parti distinte non permette di ricostruire né la Vita, né la Coscienza. Bergson non nega a priori il valore della Scienza, ma critica aspramente la tecnica sterile, che senza il controllo dell’uomo risulta potenzialmente distruttiva. Per concludere, ricordiamo come Bergson abbia rigettato del tutto anche ogni Finalismo; nella sua filosofia l’Universo è animato da uno “slancio vitale” che deriva dalla Vita stessa, Unità originaria di cui l’uomo è Coscienza. Questa “evoluzione creatrice” crea costantemente e in modo imprevedibile, tuttavia senza un fine o un progetto definito, in un costante passaggio dal complesso al semplice, dalla Vita alla materia.