Capitalismo e ambiente. La rinuncia al primo favorirebbe il secondo?

La maggior parte degli ecologisti attribuisce al capitalismo e all’industria la colpa dell’eccessivo sfruttamento di risorse e della degradazione dell’ambiente, se ne dedurrebbe che l’abbandono del modello capitalista porterebbe ad una migliore condizione dell’ambiente.

Ma si potrebbe abbandonare il capitalismo? A che costo? Come?

Anche Karl Marx era convinto di poter arrivare ad abbandonare il capitalismo, ma solo dopo aver spremuto fino all’ultima goccia del suo progresso scientifico. Pertanto ne criticava la forma ma non il funzionamento definendolo un male necessario al fine di raggiungere il bene supremo: un mondo comunista talmente avanzato tecnologicamente da non necessitare più della spinta innovatrice dei privati.

Lo sviluppo economico è un viaggio in cui è certa la stazione in cui siamo arrivati, ma non possiamo sapere che successivamente non ne troveremmo di migliori. Non è possibile considerare un determinato livello di sviluppo umano come la sua massima espressione possibile, considerando infinite le idee.

Abbandonare il capitalismo avrebbe un costo incalcolabile, quello di abbandonare le scoperte ancora ignote per favorire quelle che abbiamo già a portata di mano. Il capitalismo viene considerato la sciagura per i problemi umani e ambientali, ma in realtà sarebbe la principale cura, se gli fosse concesso di agire secondo le proprie leggi intrinseche.

Adam Smith credeva in un disegno più grande che abbracciava l’economia di mercato (e l’ecologia di mercato, ndr). Vi è per lui un processo spontaneo che lega gli interessi particolari (degli industriali e dei consumatori) ai benefici universali (dell’ambiente). Colui che offre un prodotto deve andare incontro ai bisogni dei consumatori, essendo questi manovratori del sistema di mercato. Se i consumatori chiederanno più ecologia, i produttori non potranno ignorarli a lungo. Inoltre, la ricerca del profitto spinge ad offrire prodotti sempre migliori a un prezzo sempre minore per far fronte alla concorrenza.

Ciò genera innovazione tecnologica che innalza la qualità dei prodotti e l’efficienza che si traduce in un abbassamento dei costi di produzione. Chiaro che l’ambiente ne tragga un vantaggio in quanto eliminare i prodotti di scarto risulta una voce importante nelle spese di produzione. In un’ottica capitalista di mercato i rifiuti tenderebbero a cessare di esistere o non sarebbero più dei semplici scarti. Grazie alla volontà di profitto degli imprenditori, diventerebbero prodotti da vendere e non sarebbero più un costo, ma una possibilità.

Lo sviluppo tecnologico

L’economia circolare, nonostante i romantici la definiscano come “un nuovo modello di produzione”, non è altro che il vecchio modello esasperato nei benefici.

La spinta di mercato ha generato uno sviluppo tecnologico tale da rappresentare radicali miglioramenti già solo nell’ultimo ventennio. I consumatori hanno richiesto negli anni una sempre maggiore concentrazione di servizi considerando, ad esempio, i soli smartphone. Va da sé che gli altri apparecchi elettronici, ormai obsoleti, siano andati mano a mano diminuendo.

Per la stessa quantità di servizi al giorno d’oggi utilizziamo una minore quantità di risorse e abbiamo un minore impatto sull’ambiente.

Ulteriore esempio è il passaggio dalla carta alla memorizzazione elettronica sviluppatasi poi in modo sempre più efficiente. Appena venti anni fa per stoccare 8 GB di dati servivano migliaia di floppy, ora serve una sola chiavetta USB pertanto la quantità di materiali e plastiche per la fabbricazione di un oggetto dalla stessa capacità è notevolmente diminuita.

Il confronto fra la carta stampata e la memorizzazione elettronica è ancora più impietoso: è famosa la fotografia di Bill Gates imbragato e appeso a diversi metri di altezza con sotto di lui una pila di migliaia di fogli che contenevano gli stessi dati che era possibile immagazzinare nel CD-ROM che teneva nel palmo della sua mano.

Infine, abbandonare il capitalismo porterebbe a mantenere l’attuale sistema produttivo, ma senza un’efficiente allocazione delle scarse risorse, ignorando le possibili soluzioni future provenienti dal mercato e senza portare nessun vantaggio per l’ambiente.

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Stress test pensioni: 5 casi in cui il privato è meglio del pubblico

Spesso, a torto, si sente sostenere che l’attuale sistema pensionistico è da imputare a un sistema liberista volto a impoverire la popolazione italiana e farla morire lavorando.

Sfatiamo subito questo mito, a noi liberali questo sistema pensionistico non piace per niente, la riforma Fornero NON è stata una riforma liberista, bensì una riforma contabile.

Essa è stata una riforma inevitabile per la struttura del sistema pensionistico italiano perché è completamente concentrato nel perimetro pubblico e, per far sì che questo non implodesse, è stato necessario bilanciare le entrate e le uscite di cassa future con un aumento dei contributi versati, un aumento dell’età pensionabile e la riduzione degli assegni a causa della non indicizzazione all’inflazione.

È stata inevitabile e saranno inevitabili altre riforme di questo tipo perché, contrariamente a quanto viene propagandato spesso, i soldi non sono infiniti e lo stato, qualsiasi esso sia, non è onnipotente e non può incidere, se non in misura ridotta, in fattori di così grande portata come il trend demografico di una nazione.

Il nostro sistema pensionistico funziona come un enorme schema Ponzi nel quale si dovrebbe sperare che sempre più persone inizino a lavorare, quando secondo il trend demografico questo non sta accadendo, e che sempre più pensionati smettano di percepire l’assegno pensionistico lasciando al sistema i contributi non riscossi (lascio al lettore immaginare cosa voglia dire).

Alla luce di questo, il sistema pensionistico italiano, contributivo e a ripartizione, NON è il sistema di riferimento per i liberisti.

Un sistema liberista sarebbe uno a capitalizzazione individuale, il lavoratore metterebbe da parte i contributi su un conto previdenziale privato in modo da costruirsi la propria pensione personale che non sia dipendente da contributi di altri e dalla quale riceverebbe degli interessi, anche questi da reinvestire sul conto previdenziale in modo da aumentare ulteriormente la propria pensione futura.

Ora proviamo a immaginare in cinque situazioni di criticità come rispondono le pensioni contributive pubbliche e delle ipotetiche pensioni private a capitalizzazione individuale.

  1. Il primo elemento di criticità che quasi ogni giorno tiene banco nel dibattito pubblico è l’ingiustizia di andare in pensione in età avanzata dopo aver passato la vita con un lavoro usurante. Contro intuitivamente un sistema privato andrebbe a vantaggio principalmente di questa categoria, composta in prevalenza da persone scarsamente specializzate e che entrano precocemente nel mercato del lavoro, perché, anche se verserebbero un contributo più basso, inizierebbero a versarlo molti anni prima rispetto a altri lavori maggiormente specializzati caratterizzati da un ingresso nel mercato del lavoro in un’età più avanzata, facendo si che gli interessi, seppur su importi minori, agirebbero per un maggior numero di anni e favorendo la costituzione di un montante adeguato per andare in pensione prima rispetto a un sistema pubblico in cui l’età di pensionamento dipende esclusivamente dal decisore pubblico.
  2. Una seconda criticità dipende dalla percezione che i lavoratori hanno dei contributi previdenziali che le aziende versano in loro favore, oggi sono vissuti come una tassa (di fatto lo sono) perché non è esplicito quanto sia l’ammontare di contributi versati nelle casse dell’Inps  e non è chiaro, per chi non è un addetto ai lavori, come verrà calcolata la pensione. In un sistema pensionistico a capitalizzazione i contributi sarebbero percepiti come parte dello stipendio (di fatto lo sarebbero) perché confluirebbero direttamente nel conto previdenziale privato cioè nel patrimonio del lavoratore. Questo li allontanerebbe dal mercato del lavoro irregolare perché a parità di stipendio percepito, il guadagno del lavoratore in nero sarebbe nettamente inferiore a quello del lavoratore regolare e non potendo più terziarizzare i contributi, farseli cioè pagare da altri, sarebbe incentivato a farseli versare direttamente in azienda.
  3. Nel mercato del lavoro odierno, caratterizzato da una maggiore discontinuità lavorativa rispetto al passato, la perdita di lavoro corrisponde a un cessazione del versamento dei contributi, questo si ripercuote non solo sulla situazione reddituale presente, ma anche sulla situazione reddituale futura. In un sistema privato, essendo composto anche dagli interessi oltre che dai contributi versati, il problema, pur rimanendo, avrebbe un impatto negativo minore perché quest’ultimi continuerebbero a maturare a prescindere che il lavoratore stia o meno continuando a lavorare e versando i contributi.
  4. Mediamente in Italia viene percepito un assegno pensionistico fra il 70% e l’80% rispetto agli ultimi stipendi riscossi prima di uscire dal mercato del lavoro ed è la stessa percentuale che viene mediamente riscossa nei sistemi privati con la piccola differenza che in Italia i contributi pensionistici ammontano al 33% dello stipendio lordo mentre nei paesi che adottano il secondo sistema i contributi sono nettamente inferiori (in Cile ad esempio solo il 10%), le pensioni private quindi raggiungono lo stesso risultato, ma con un impiego di risorse economiche molto inferiore, questa differenza è una vera sottrazione di risorse private che potrebbe essere impiegata per consumi o investimenti dai quali, al giorno d’oggi, il lavoratori sono completamente esclusi. Inoltre contributi pensionistici così alti incidono negativamente sul cuneo fiscale, disincentivando l’assunzione. Abbassarli vorrebbe dire aumentare l’occupazione e disincentivare il lavoro nero.
  5. C’è un ulteriore aspetto che premia le pensioni private rispetto a quelle pubbliche ed è la reversibilità, non è raro che una persona muoia prima di aver maturato il diritto a riscuotere l’assegno pensionistico o prima di aver consumato completamente il proprio credito presso le casse previdenziali. Nel sistema pubblico spesso oltre al danno si assiste alla beffa. Dopo aver pagato una vita intera per poter godere di un servizio futuro, quale è la pensione, non solo ne si è esclusi personalmente dal consumo, ma ne sono esclusi anche tutti propri cari che non goderanno di questo servizio, se non in minima parte, costituendo, di fatto, un ulteriore tassazione a fondo perduto avvenuta durante la vita alla quale non verrà mai corrisposto il servizio promesso.

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L’economia riparte grazie alla marijuana

Bisogna legalizzare la marijuana non solo perché è giusto, ma anche perché ci conviene.

NB: questo testo non vuole in alcun modo sponsorizzare l’utilizzo di marijuana e suoi derivati.

Fumare marijuana è l’evidente dimostrazione di quanto sia assurdo pensare che determinate abitudini, nelle quali non abbiamo alcun interesse, debbano essere necessariamente sbagliate: è ancora più assurdo assumere che si possa porre un veto su di esse, anche se non danneggiano nessuno – meno chi accetta la responsabilità che deriva dalle proprie azioni -. 

Nessuno può negare la libertà di essere conservatori, ma allo stesso modo non si può impedire a nessuno di fare, secondo la propria libertà e responsabilità, ciò che più gli aggrada.

Tendenzialmente, la marijuana o altri tipi di sostanze, potrebbero non rappresentare alcuna attrattiva, qualcuno potrebbe motivatamente esserne disgustato, ma la convenienza per la società che deriverebbe da una sua legalizzazione sarà comunque innegabile, che l’argomento vi tocchi o meno.

Legalizzare la marijuana porterebbe innanzitutto benefici ai consumatori, che ora sono costretti a rivolgersi ad un mercato fuorilegge per l’acquisto e, complice la mancanza di competitività e di un naturale rapporto tra domanda e offerta all’interno dello stesso mercato, non sanno mai precisamente cosa stanno comprando né hanno alcuna garanzia dai venditori: gli spacciatori spesso rimangono anonimi, e questo li porta (come è ovvio) fuori da un sistema di trasparenza.

Se fosse permesso alle aziende di esistere in questo mercato e commercializzare questo prodotto – sia perché potrebbero esistere normative generiche, sia per fidelizzare i consumatori – non lo taglierebbero con sostanze dannose come avviene con i fiori di canapa tessile aggiunti ad henné e paraffina per la produzione di hashish, queste componenti amplificano e aggravano le conseguenze negative della sostanza.

Inoltre portare la marijuana fuori dal mercato illegale allontanerebbe i consumatori dagli ambienti criminali e renderebbe più difficile che entrino in contatto con droghe pesanti, che hanno tutt’altre conseguenze sulla salute delle persone e sul tessuto sociale.

I benefici non si fermerebbero a chi ne fa un uso ricreativo, ma anche a chi deve assumerla per questioni mediche.

Oggi, come riporta il Corriere della Sera, in Italia la produzione di marijuana per uso medico è sotto il monopolio dello stabilimento chimico farmaceutico militare italiano.

Un laboratorio che principalmente produce e studia 5 farmaci orfani (quelli per le malattie rare) che sono difficili da finanziare sul mercato e che dal 2014 ha avviato appunto la produzione della marijuana per uso medico.

La legalizzazione renderebbe possibile alle aziende farmaceutiche italiane (prime produttrici in Europa) di investire sul settore, esponendole ai vantaggi che porta un sistema di mercato: aumenterebbero  le quantità disponibili (nel 2018 il laboratorio militare ha prodotto solo 110 kg a fronte di un investimento di un milione di euro), si ridurrebbe ancora di più il prezzo delle medicine (come è già successo con l’ingresso del laboratorio statale in un mercato fino a quel momento composto dalle sole importazioni dall’Olanda), e si intensificherebbe la ricerca in questo campo.

Se tutto quello scritto finora non bastasse, i benefici sull’economia sarebbero molteplici, guardando al paese che più si sta avvicinando alla diffusa legalizzazione della marijuana non si può non guardare agli Stati Uniti d’America.

Il trend di legalizzazione ha avuto inizio nel 2012 quando il Colorado ha aperto a questo mercato, da quel momento il settore è stato sempre in crescita e come riporta il Financial Times “gli investimenti sono arrivati nel solo 2018 a 10 miliardi” il doppio rispetto al triennio precedente secondo NBCnews (per avere un termine di paragone sono 11 miliardi gli investimenti stanziati nei prossimi tre anni dalla finanziaria 2019) sebbene il paragone possa sembrare improprio, c’è in realtà da considerare il campione di popolazione dei 10 stati che hanno avviato questo iter, che ammonta a 65 milioni di abitanti, praticamente simile all’intera popolazione italiana che ne conta circa 60 milioni.

Negli Stati Uniti non è stato ancora riconosciuto come legale il mercato della marijuana a livello federale e questo implica che venga completamente tagliato fuori dal settore bancario.

Conseguentemente, le aziende che operano nel settore non possono accedere a finanziamenti, inoltre esse rimangono escluse dall’utilizzo dei servizi bancari, quali ad esempio semplici operazioni di routine, come un bonifico bancario.

questo ha indubbiamente frenato il trend di crescita rispetto al proprio potenziale.

Anche i numeri sull’occupazione sono impressionanti, come riporta CNBC sono circa 65 mila i nuovi posti di lavoro creati nel 2018 nel mercato della marijuana che portano  a un totale di 210 mila lavoratori nel settore.

Anche il settore turistico non potrebbe che guadagnare dalla legalizzazione della marijuana, l’emcdda (european monitoring centre for drugs and drug addiction) ha stimato che “su 4,5 milioni di turisti che si recano ad Amsterdam in vacanza  circa il 25% visiti in coffe shop nel proprio periodo di permanenza in città” questo porterebbe un vantaggio competitivo per le nostre città in confronto alle altre mete europee concorrenti.

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