Mitteleuropa e totalitarismo in Kafka, Kundera e Havel

Il libro di Stefano Bruno Galli “Václav Havel, Una rivoluzione esistenziale” è anzitutto il tentativo para-filosofico di capire il mondo intellettuale del Novecento ceco; un insieme di piccole storie della cultura letteraria boema e morava. Certo, la spina dorsale del libro è articolata a ridosso della vita di Václav Havel, dissidente e politico ceco, ma le punte di eccellenza della cultura e della letteratura ceca vengono altresì considerate nell’opera. Nonostante titolo e copertina del libro siano dedicati allo statista praghese, la proiezione di ricerca di Galli è più culturale che politica: è quasi una rincorsa alla ricerca di un “io” (la propria individualità) in un determinato luogo (la Mitteleuropa), attraverso lo sguardo degli scrittori – eternamente “minoranza” – Franz Kafka («intrigante esploratore del paradiso della mente») e Milan Kundera (leader dell’Unione degli scrittori cechi negli anni Sessanta, quelli pre-Primavera di Praga).

I tre intellettuali cechi sono collegati tra di loro da quello che Michael Žantovský nella prefazione del volumetto definisce come un «bisogno esistenziale dell’individuo di vivere una vita autentica e impregnata dalla consapevolezza della propria corresponsabilità verso la comunità e i destini degli altri esseri umani.» Quella che Havel definisce come “autocoscienza civile”, da opporre – e questa volta le parole solo di Kafka dal Processo – alla «repressione poliziesca, oppressione burocratica, corruzione dei funzionari di Stato, assenza di giustizia sociale, concentrazione e anonimato del potere.» Per vivere in una società veramente libera – non oppressa dall’Impero asburgico kafkiano o da quello comunista haveliano – è dunque necessaria la responsabilizzazione del singolo individuo. La sua presa di coscienza e di responsabilità lo rende libero.

In momenti diversi, i tre autori si sono sempre espressi in merito all’appartenenza cecoslovacca al blocco dell’Ovest. Affezionati ad una libertà antica che tutti e tre si videro rubare, percepivano il loro Paese e la loro cultura come profondamente occidentali. «Per il suo sistema politico, l’Europa centrale è all’Est; per la sua storia culturale, è a Occidente», avverte Kundera. In questo senso, la Cecoslovacchia è una Mitteleuropa; una terza Europa, di mezzo, di confine tra Est ed Ovest: dall’Impero Austro-Ungarico, in cui viveva Kafka, al mondo della Guerra Fredda di Kundera e Havel. Terra di confine, terra di emigrazione; mobile, simbolo di una coscienza sociale, ancor prima che un’entità culturale nel suo insieme.

«La Mitteleuropa non è uno stato, è una cultura o un destino», scrive Galli. «I suoi confini sono immaginari e devono essere ridisegnati al formarsi di ogni situazione storica» (e così è accaduto: basti pensare agli eventi del 1918, del 1938 e del 1989, tre anni simbolo per la Cecoslovacchia). La Mitteleuropa è indipendenza, è «il rifiuto di una politica autoritaria e totalitaria», continua l’autore, dal momento che è un insieme di culture diverse non separabili da loro. «La Mitteleuropa è una cultura e un destino; una sorta di cittadinanza storica». La Mitteleuropa è un sogno, un’utopia, un Eldorado, uno spazio storico-culturale.

Infestata dal virus totalitario, per diversi decenni la Mitteleuropa si è come spenta ed è stata dimenticata nel panorama storico e geopolitico mondiale. Il Partito Comunista Cecoslovacco fu in grado, con il 38% dei consensi nel 1946 – e il golpe del 25 febbraio di due anni dopo, quando di lì a poco avrebbe ottenuto quasi il 90% – di monopolizzare l’orizzonte culturale del Paese. Con la nazionalizzazione di fonderie, miniere, banche e assicurazioni – nonché l’esproprio proletario – il regime si assicurò illegalmente il controllo assoluto dello Stato. L’industria culturale era preziosa in Cecoslovacchia, data anche l’assenza della televisione in molte case; essa, in qualche modo, doveva prevenire – e possibilmente evitare – la degenerazione nel totalitarismo. Quello che statalizza tutto, falsifica il passato e la realtà oggettiva, che emargina, punisce, reprime e, dove può, elimina.

I tre intellettuali cechi – tutti e tre, a loro modo, autentici dissidenti e ribelli – hanno saputo illuminare migliaia e migliaia di concittadini con il loro esempio individuale; per questo erano ritenuti pericolosi dai regimi: sia Kafka, che Kundera che Havel sono stati messi ai margini della società. Di fatti, l’intellettuale è come se fosse un dissidente ante-litteram; uomo potente e fragile allo stesso tempo, che dispone solo della parola scritta come arma di consenso per esporre le proprie idee. Secondo Havel, il dissidente – così come la figura dell’intellettuale – combatte il potere «borioso» e «anonimamente burocratico», sviluppando un’azione culturale che i cittadini elaborano. «Uno spettro s’aggira per l’Europa orientale: in Occidente lo chiamano “dissenso”», ha scritto Havel ne Il potere dei senza potere.

Negli anni Settanta «la normalizzazione aveva determinato la completa emarginazione degli intellettuali, relegati a un’esistenza clandestina», scrive Galli, dando vita ad una “polis parallela” alla nomenclatura ufficiale, alla struttura del partito e le sue appendici sociali. L’ideologia che i regimi, totalitari e post-totalitari, intendono conferire alla struttura sociale serve ad impadronirsi dell’uomo, «generando una fitta rete di menzogne e di ipocrisie, di mistificazioni e di nascondimenti della realtà». Il sistema totalitario priva i cittadini – resi sudditi, dunque schiavi – della loro libertà originaria: rivoluziona la loro esistenza. La rivoluzione esistenziale è emancipazione, ma è anche, seguendo le parole di Havel, «una mobilitazione generale della coscienza umana, dello spirito umano, della responsabilità umana, della ragione umana.»

La libertà riacquista nel 1918 (quando nacque la Cecoslovacchia sotto il segno culturale di Tomáš Masaryk) e nel 1989 (quando rinacque sotto quello di Václav Havel) è una sorta di emancipazione; e non può prescindere dalla responsabilità. Libertà è responsabilità: è dover alzarsi e avere anche il diritto di dissentire; ed essere pronti a pagarne le conseguenze, a schiena dritta (Havel andò in galera due volte e a lungo nella sua vita). Sia il 1918 che il 1989 sono stati momenti di grande libertà per le terre boeme, morave e slovacche; hanno svegliato «le coscienza assopite dei cittadini, che devono assumersi le proprie responsabilità, costruendosi una propria identità culturale specifica, fondata sullo spirito critico e lontana dall’anonimato diffuso», continua Galli. Il che vuol dire anche, nelle parole di Havel, prendere la parte «della verità contro la menzogna, dell’intelligenza contro l’assurdo, della giustizia contro l’ingiustizia.»

Il Gender pay gap tra realtà e complottismo

Ho appena finito di vedere l’ennesimo video su YouTube in merito ad un tema che mi sta molto a cuore, ovvero il Gender Pay Gap.
Questo video, creato da un ragazzo molto competente in economia come Giorgio De Marco di What’s Up Economy non mi ha lasciato particolarmente soddisfatto, per questo motivo vorrei permettermi di dire la mia sul tema del Gender pay gap.
Messo e concesso che al mondo esistono diverse forme di discriminazione e che non è solo un nostro diritto, ma un nostro dovere quello di combatterle, ritengo che queste teorie, nel modo in cui vengono sviluppate ed argomentate, spesso e volentieri rasentino il complottismo.
Inoltre, ci tengo a sottolineare come i dati portati a galla possano essere quantomeno pericolosi se dovessero capitare nelle mani sbagliate, ovvero di coloro che vogliono vedere una sorta di disegno della società, con l’intento di discriminare qualche minoranza.

Pensiamo ai collettivisti di stampo post-marxista, ai quali magari potrebbero fare gola dati di questo genere, utili per invocare uno (sbagliato) intervento dello stato ed una distorsione del mercato del lavoro (Che, come ci insegnano gli austriaci, porta sempre effetti controproducenti), oppure per guadagnarci in visibilità, portando avanti quella che Dave Rubin definirebbe come un’ “olimpiade dell’oppressione”.

Ma partiamo dall’inizio.
Come ho detto precedentemente, sono molto contrario a delle rilevazioni di questo tipo per motivi ideologici, ma le sostengo quando vengono fatte esclusivamente con l’intento di analizzare un fenomeno sociale.

Le sostengo, soprattutto quando i soggetti che vengono considerati come oppressori nei confronti di altre categorie sociali sono i soliti bianchi maschi etero. E questo, sia perché -tra le tante- rientro anche in queste categorie, sia perché sono un grande sostenitore della teoria di Jordan Peterson secondo cui “Per essere in grado di pensare, devi correre il rischio di essere offensivo”.


Ma, soprattutto, perché non sopporto chi, perseverando nell’errore che spesso viene fatto da molte minoranze nel mondo, sventola dati fasulli o manipolati nel tentativo di dimostrare una discriminazione sistematica al giorno d’oggi nel loro paese, di qualsiasi tipo essa sia.
Prendiamo ad esempio, sempre in America, il mito del razzismo dei poliziotti statunitensi, portato avanti da alcuni movimenti di Giovani studenti della sinistra in America, che vorrebbero far passare il messaggio secondo cui nel loro paese vi sia una sorta di razzismo sistematico da parte dei poliziotti nei confronti delle persone di colore.
Questi dati, se così vogliamo chiamarli, si basano spesso su una mala interpretazione delle rilevazioni statistiche e sono spesso stati smentiti da persone come Larry Elder, in una delle ultime interviste da “liberal” condotte negli USA da Dave Rubin .

Quello che voglio dire, è che non sostengo minimamente quelle ricerche portate avanti con l’unico scopo di stuprare la matematica nel solo tentativo di portare alla luce risultati distorti, deludenti, o peggio ancora totalmente fuorvianti, che prendendo la parte per il tutto o invertendo causa ed effetto, vogliono dimostrare che se una discriminazione esiste, allora essa è necessariamente sistematica.
Inoltre, essendo uno studente di Matematica vicino alla fine del mio percorso di studi, ed essendo in particolare un amante della Probabilità e della Statistica, conosco molto bene quali possono essere i limiti nelle rilevazioni dei dati per portare avanti un’indagine.

Volendo in questo articolo riferirmi in particolare alla supposta discriminazione del mercato nei confronti delle donne (che si riflette nel così detto Gender pay gap), mi permetto di cominciare facendo un esempio di come la matematica e la statistica possano rivelarci dati sbagliati in base a come vengono presi in considerazione. Supponiamo che in Italia ci siano 100 lavoratori in Lombardia e 100 in Puglia. Immaginiamo che i 100 lavoratori in Lombardia siano 60 uomini e 40 donne e che i lavoratori in Puglia siano 40 Uomini e 60 donne. Supponiamo che tutti i 100 lavoratori lombardi guadagnino la stessa cifra, ad esempio 5000$ e che anche i lavoratori Pugliesi guadagnino tutti la stessa cifra, supponiamo 1000$.

Se prendessimo in considerazione i due gruppi, quello Lombardo e quello Pugliese, vedremmo che non c’è nessuna discriminazione di genere e che il salario di quei lavoratori è condizionato più da fattori regionali che da altri. Eppure, prendendo la media del salario di tutte le donne Lombarde e Pugliesi (40×5000+60×1000 e dividendolo per 100, ottenendo 2600$) e di tutti gli uomini Lombardi e Pugliesi (60×5000+40×1000, dividendo per 100, ottenendo 3400$) e facendo il loro rapporto, si ottiene che ogni donna guadagna 0.76$ per ogni 1$ di un uomo. Ma come abbiamo visto prima, non c’è alcun tipo di gender pay gap all’inizio, se non una differenza dovuta a diverse condizioni tra lavoratori in due regioni diverse.

Questo solo per fare un esempio, ma andiamo più nel dettaglio.
Consideriamo il caso americano e facciamo un passo indietro: il mito del Gender pay gap è esploso negli USA negli anni della presidenza Obama, durante la quale anche l’allora presidente degli Stati Uniti portava avanti istanze come “le donne negli Stati Uniti guadagnano 0.77 cent per ogni dollaro che un uomo guadagna!”. Questa affermazione, prendeva in considerazione il salario medio guadagnato da TUTTE le donne negli USA, ponendolo al numeratore della frazione e portando al denominatore la media dei salari di TUTTI i lavoratori di sesso maschile.

Nel fare ciò, immagino che anche voi possiate capire come questa rilevazione non significhi nulla, perché non tiene conto infinite altre variabili. Ed è qui che vorrei attirare la vostra attenzione e dove ci terrei a farvi capire quali possono essere le limitazioni in base ai dati presi in considerazione.

La parola chiave è variabili.
Se siete degli individualisti come me, immagino che sappiate già che ogni individuo, pur appartenendo ad una determinata categoria sociale può essere diametralmente opposto ad un suo “simile”, quindi spesso risulta già fuorviante confrontare persone appartenenti alle stesse categorie.

Ma in statistica è difficile, se non impossibile, effettuare una rilevazione individualista della realtà. Risulta quindi difficile non avvicinarsi alla metodologia mainstream, rifiutando la visione Austriaca dell’Economia.
In tal modo, quindi, gli statistici tendono a considerare nelle loro analisi una sorta di “collettivizzazione” delle persone, nel tentativo di rendere più facile una matematizzazione della realtà.
Ma nel fare ciò, però, si rischia di essere fuorvianti. Soprattutto in economia.

Vi faccio un altro esempio, prendendo in considerazione una scienza “pura” quale la climatologia. Essa, al pari della Fisica, dell’astronomia, della Biologia e della Chimica, si basa su una certa interpretazione di dati “oggettivi”, nudi e crudi.
Eppure, già qui le diverse interpretazioni proposte dai diversi scienziati raccontano realtà spesso opposte le une dalle altre.
Come sappiamo, la scienza si basa su due cose: sui dati (che vengono presi, ed in quanto tali, non discutibili in quanto valori assoluti) e sulle loro interpretazioni.

Ed è proprio in quest’ottica che ad esempio si arriva a creare una discussione ancora oggi presente sul surriscaldamento globale.
Alcuni potrebbero far vedere che l’aumento della CO2 comporta un aumento della temperatura. Altri, potrebbero obiettare il contrario. Altri ancora, potrebbero prendere in considerazione dei dati in un arco di tempo più lungo, facendo notare un andamento “armonico” della temperatura nel corso della storia e via discorrendo, creando teorie che – partendo solo da un particolare differente – portano a conclusioni opposte.
E questo in una scienza “pura”, dove non vengono presi in considerazione troppi dati “soggettivi” e dove l’interpretazione dei primi dati è molto limitata.

Pensate allora all’Economia ed ancor più in particolare alle analisi condotte sul mercato del lavoro, dove i dati da prendere in considerazione di stampo “oggettivo” già sono parecchi, ed alla quale se ne potrebbero aggiungere un’altra infinità di stampo soggettivo.

Tra i primi potremmo considerare il sesso delle persone, la nazione dove lavorano, la regione della stessa, la città in cui lavorano, la ditta per cui lavorano, il loro titolo di studi, la loro specializzazione, il tipo di contratto (se part-time o a tempo pieno ad esempio), le ore di lavoro, le ore di straordinario fatte, lo stipendio stesso, l’età, l’età lavorativa e la relativa esperienza e molte altre.
Prendiamo ad esempio due individui che dovendo andare a lavorare a Bologna, uno da Imola ed uno da Milano, richiedano al loro datore di lavoro dei rimborsi per gli spostamenti. È probabile che quello che partirà da Imola prenderà necessariamente qualcosa in meno rispetto al secondo. E di questi dati, spesso molto nascosti da una parte o dall’altra ce ne sono sempre in agguato.

E tra di essi, magari, perché non prendere in considerazione magari dei dati più “soggettivi”, di stampo sociologico e comportamentale, che possono avere a che fare con il carisma, con il carattere, con l’attitudine della persona sul luogo di lavoro? Questi non sono dati facilmente reperibili perché non quantificabili, ma che sicuramente influiscono sullo stipendio finale dell’individuo.
Ad esempio, in questo ambito possono tornarci utili le parole di Jordan Peterson, il quale, basandosi su delle ricerche fatte da dei suoi colleghi ha rilevato ad esempio che in media i ragazzi e le ragazze hanno differenze comportamentali rilevanti.
I primi, risultano essere infatti più materialisti, più inclini alla violenza e al pericolo, mentre le donne sviluppano caratteri più legati all’emotività ed un attaccamento maggiore nei confronti dei legami interpersonali. Ciò chiaramente non ci dà una spiegazione dettagliata, ma può risultare essere un buon punto di inizio per comprendere quanto possa essere difficile la scelta dei parametri da prendere in considerazione.

Ma non sono certo qui a voler dire che bisogna buttare nella spazzatura qualsiasi ricerca fatta nel tentativo di ricercare la verità.
Quindi, prendiamo in considerazione alcuni dati che ci possono tornare utili per capire meglio questo Gender Pay Gap (sempre in America).

Una ricerca del 2017 condotta da Valentin Bolotnyy e Natalia Emanuel , entrambi economisti di Harvard, hanno rilevato dagli operatori sindacali di autobus e treni che questo gap si annulla totalmente se prendiamo in considerazione le scelte fatte dagli stessi lavoratori.
L’indagine ha preso in considerazione lavori sindacalizzati, in quanto venivano lasciate ai manager poche capacità decisionali in merito ai salari dei lavoratori, che potevano essere accusati di imparzialità, e ha lasciato ai ricercatori la possibilità di soffermarsi esclusivamente sul comportamento dei lavoratori.
La rilevazione statistica, a parità di lavoro e di mansione ha rivelato che:

Le donne usano il Family Medical Leave Act (FMLA) per prendere più tempo libero non retribuito rispetto agli uomini e lavorare meno ore di straordinario con salari 1,5 volte superiori. La radice di queste diverse opzioni è il fatto che le donne apprezzano il tempo e la flessibilità più degli uomini.”

Oppure, che:

“Il divario di reddito può essere spiegato nel nostro ambiente dal fatto che gli uomini prendono il 48% in meno di ore non retribuite e fanno l’83% in più di lavoro straordinario all’anno rispetto alle donne. La ragione di queste differenze non è che uomini e donne affrontano diversi set di opzioni in questo documento. […] Queste differenze di genere sono coerenti con le donne che assumono più mansioni domestiche e di assistenza all’infanzia rispetto agli uomini, limitando la loro disponibilità di lavoro nel processo. […] Quando gli straordinari sono previsti con tre mesi di anticipo, gli uomini si iscrivono per circa il 7% in più rispetto alle donne.”


Allo stesso modo, possiamo prendere in considerazione uno studio di Claudia Goldin, ricercatrice di Harvard, la quale, nelle sue ricerche ha rivelato che questo gender pay gap muta in base al settore che viene preso in considerazione.
Lo studio, ha infatti riportato che nei settori Scientifici e tecnologici, dove probabilmente la qualità di un lavoratore è valutata in maniera più “oggettiva”, dove le specializzazioni e le mansioni sono poche questo gap si accosta quasi allo 0, in alcuni casi si inverte addirittura l’andamento.
A dirla tutta, la stessa Goldin durante la discussione di questa sua tesi all’AEA (American Economic Association) arriva esattamente alla mia conclusione, ovvero che un certo gap esiste, così come esiste senza ombra di dubbio la discriminazione. Ma è fuorviante pensare che questo tipo di discriminazione sia di tipo sistematico e che il mercato sia automaticamente discriminatorio nei confronti delle donne.

In ogni caso, continuando sempre secondo l’analisi della Goldin abbiamo anche una conferma di quanto detto prima. Infatti, sempre all’interno della sua rilevazione statistica si ha che il settore del Business evidenzia un andamento del Gender wage gap ancora maggiore rispetto a quello dei precedenti settori evidenziati. Perché?

Beh, si può tenere in considerazione il fatto che all’interno di questo settore le professioni variano, così come i compensi. Ci saranno donne che saranno CEO, imprenditrici, o che guideranno interi istituti di ricerca, così come ne esisteranno altre che copriranno mansioni meno retribuite, come ad esempio segretarie e quant’altro (dove il tasso di donne è molto superiore a quello di uomini).
Inoltre, in questi settori dove con ogni probabilità entrano in considerazione fattori che hanno a che fare con dei parametri molto soggettivi, si ha un aumento di questo differenziale (esattamente come affermato prima).
Si tratta, infatti, di lavori dotati di poca flessibilità e che automaticamente portano ad avere degli svantaggi sulla carriera lavorativa di chi ne richiede di più (In particolare, secondo l’indagine della Goldin, le donne).

Non solo, possiamo prendere in considerazione un articolo uscito sempre nel 2017 sul The Economist, che evidenzia come questo gap arriva a diminuire costantemente (in paesi come la Gran Bretagna, la Francia e la Germania) considerando solo fattori come il lavoro, il medesimo lavoro a medesimo livello di responsabilità, nella medesima compagnia e a parità di mansioni.

E in tutto ciò, come non prendere in considerazione anche le citazioni della nostra Christina Sommers, la quale, nel suo video promosso da PragerU ha evidenziato che la AAUW (American Association of Univeristy Women) ha rilevato che prendendo in considerazione alcune differenti scelte fatte da uomini e donne all’interno dello stesso settore, il gender pay gap arriva ad assottigliarsi dai famosi 0.23$ precedentemente citati negli USA a 0.066$ per ogni dollaro che un uomo guadagna. Tesi confermata anche da altri studi condotti .

In tutto ciò, possiamo citare che un’altra ricerca molto interessante fatta da tre economisti in merito al Gender Pay gap, i quali hanno rilevato che le donne nate dal 1948 in poi, una volta superata la soglia dei 40 anni, hanno visto il loro gap salariale ridursi costantemente, fino ad avvicinarsi allo zero. Perché questo? Semplice.
Nella fascia d’età che va dai 20 ai 40 anni, le donne è probabile possano avere una gravidanza, la quale è senza ombra di dubbio una penalizzazione dal punto di vista lavorativo e della carriera.
Secondo un video promosso sempre dal The Economist , le donne che tornano a lavoro dopo un periodo di maternità si vedono tagliato il loro salario in media del 4%.

Ora stiamo tutti calmi e ragioniamo. La gravidanza, come precedentemente detto, ti penalizza? Dal punto di vista lavorativo, la risposta è senza dubbio: SI.
Ma guai a cadere nella tentazione di dire “le donne sono oppresse”, in quanto una gravidanza comporta per entrambi i coniugi molti sacrifici. Una madre potrebbe guadagnare di meno e per compensare questa perdita, il padre potrebbe essere più incentivato a richiedere più ore di straordinario (il che potrebbe essere anche una motivazione per cui gli uomini richiedono più spesso delle donne degli straordinari). Siamo sinceri, quante coppie soprattutto in caso in gravidanze complicate, preferirebbero far rimanere a casa le proprie mogli per evitare loro sforzi inutili che possano mettere a repentaglio la loro salute e quella del bambino, sacrificandosi a lavoro, cercando di guadagnare qualcosa in più?

Come dice sempre Jordan Peterson, la vita è ingiusta ed è piena di sofferenze ed è solo la collaborazione tra uomini e donne che può renderci più liberi. Ed è da questa concezione, che nasce anche il patriarcato (di cui magari parleremo un’altra volta, dato il tema parecchio controverso).
Inoltre, questa dinamica può spiegare perché sempre in America ci sia una divisione delle mansioni domestiche divisa iniquamente a sfavore delle donne.

Non si tratta di imposizione, ma di necessità e di scelta il più delle volte, così come è una scelta decidere di diventare genitori e sia essere padre che essere madri comporterà una certa dose di responsabilità.
Ma mettiamo un attimo da parte la questione coniugale e prendiamo ad esempio in considerazione la differenza salariale tra uomini e donne non sposati.
Qui ci torna utile Andrew Syrios, il quale in un articolo pubblicato per il Mises Insitute ci fa sapere che:

“Quando le donne mai sposate vengono paragonate a uomini mai sposati, il divario salariale non solo scompare, ma cambia. Già nel 1971, le donne che non erano mai state sposate sulla trentina hanno guadagnato un po’ più degli uomini. Nel 1982, le donne che non si sono mai sposate insieme hanno guadagnato il 91 percento di quello che hanno guadagnato gli uomini. Oggi, tra uomini e donne che vivono tra i ventuno e i trentacinque anni, non vi è alcun divario salariale. E tra uomini e donne single con un’istruzione universitaria di età compresa tra i quaranta e sessantaquattro anni, gli uomini guadagnano in media $ 40.000 all’anno e le donne guadagnano in media $ 47.000 all’anno”

E non è l’unico a dircelo, possiamo prendere in considerazione anche altri studi effettuati da professionisti che rivelano che questo gap è senza ombra di dubbio dovuto nella stragrande maggioranza dei casi alle diverse scelte fatte da uomini e donne durante la loro vita lavorativa.
Possiamo infatti prendere in considerazione uno studio della CONSAD Research Corp. per il Dipartimento del Lavoro degli Stati Uniti che scoprì che una volta controllate le variabili, c’era “un divario salariale adeguato al genere che oscilla tra il 4,8% e il 7,1%”.

Oppure, uno studio di June e Dave O’Neill per il National Bureau of Economic Research ha rivelato che “il divario di genere è in gran parte dovuto alle scelte fatte da uomini e donne in merito alla quantità di tempo ed energia spesa a una carriera“.
Di studi se ne possono prendere tanti altri, e tutti arriverebbero tranquillamente a confutare che questo divario possa essere determinato da una sorta di discriminazione sistematica da parte del lavoro nei confronti delle donne.

Detto ciò, però, vorrei arrivare a questo punto ad una mia conclusione: Indipendentemente se siamo uomini o donne, abbiamo il dovere di combattere ogni forma di discriminazione all’interno della nostra società. Ma rigettiamo l’idea di essere sistematicamente oppressi, in quanto soprattutto nella nostra società occidentale, nessun diritto è negato.

Se un uomo vuole essere segretario, che lo sia. Se una donna vuole puntare ad essere CEO, che ce la metta tutta per raggiungere i suoi traguardi.
Ma rigettiamo tutti insieme l’idea che di una sistematicità di questa discriminazione da parte del mercato, in quanto anche se esistesse, sarà il mercato stesso a fare la sua selezione naturale.
Superiamo gli stereotipi e prendiamoci la responsabilità delle nostre decisioni e delle nostre azioni, ma soprattutto, non invochiamo un aiuto statale per interventi che possono solo fare del male alla nostra economia. Cerchiamo l’uguaglianza, affinché le nostre scelte non siano dettate da nessun altro se non da noi e lavoriamo tutti insieme cercando di capire che non ci sono categorie più o meno oppresse, ma che tutti noi anche in maniera collettivista portiamo i nostri macigni sulle nostre spalle e solo la collaborazione tra di noi può portarci a ritrovare la felicità di cui abbiamo veramente bisogno.

Andiamo avanti, e a chi ci dirà d’ora in avanti che il sistema ci opprime, ricordiamo che il sistema siamo noi e che se siamo arrivati a lamentarci delle scelte che ogni giorno facciamo per realizzarci, allora il problema non va cercato certamente all’interno della società, bensì dentro noi stessi.

Perché si vive meglio negli Stati piccoli?

Dei dieci Paesi europei economicamente più liberi ben nove sono classificabili come Stati piccoli, per territorio o popolazione. L’unica eccezione è il Regno Unito. Lo stesso per le libertà civili: nove su dieci sono Stati piccoli, l’unica eccezione è il Portogallo. Per il PIL pro capite? Nove sono Stati piccoli, la Germania è l’unica eccezione. Sanità? Tutti e dieci Stati piccoli. Felicità? Ancora nove con l’eccezione dello UK. Inoltre, quasi nessuna di queste classifiche tende a classificare microstati come il Liechtenstein, che sappiamo avere un’economia molto libera.

Per quale ragione gli Stati piccoli primeggiano? Tanti direbbero – ti consiglio di leggere l’articolo linkato! – “perché sono paradisi fiscali che rubano agli stati sociali europei”, ignorando il fatto che spesso gli Stati che primeggiano sono quelli scandinavi: piccoli in popolazione – e a volte la popolazione nel determinare la “grandezza” in senso socioeconomico conta più della superficie – ma con forti Welfare State.

Le ragioni si possono desumere conoscendo il liberalismo. Già nell’Ottocento Alexis de Tocqueville faceva notare:

Nulla è più contrario dei grandi stati al benessere generale e alla libertà individuale […], se non vi fossero che i piccoli Stati e non i grandi, l’umanità sarebbe senza dubbio più libera e felice.

Alexis de Tocqueville

Sicuramente era un bastian contrario della sua epoca: un francese – cittadino del Paese che ha dato i natali allo Stato nazionale – che nell’epoca in cui si anelava l’unità d’Italia e di Germania criticava i grandi Stati. Ma la storia gli ha dato ragione.

Quali sono, in pratica, le motivazioni che rendono i piccoli Stati migliori di quelli grandi? Vediamolo assieme.

Meno autarchia e più libero commercio

I piccoli Stati tendono ad avere meno risorse sul proprio territorio rispetto a quelli grandi per ovvie ragioni. Quindi possono dipendere meno da sé stessi e devono per forza puntare sul commercio internazionale.

I grandi Stati, invece, possono in larga parte usare proprie risorse. Se ciò ad una prima analisi può sembrare una cosa positiva, in realtà non lo è: porta gli Stati a favorire il proprio anche quando è economicamente sconveniente, come nell’esempio dei minatori e della Thatcher.

La ragione è banale: a livello politico è impopolare far estinguere settori solo perché economicamente sconvenienti. Più uno Stato è grande più avrà settori da proteggere e quindi rallenterà la propria economia.

Più uno Stato è piccolo, invece, più questo Stato dipenderà dal libero commercio con Paesi lontani e vicini e dal mantenere buoni rapporti con loro. Questo Paese sarà più legato alle leggi del mercato e sarà in grado di creare più ricchezza in tal modo. Infatti secondo il Global Enabling Trade Report, in Europa, dei dieci Paesi più liberoscambisti otto sono piccoli.

Concorrenza (fiscale) più semplice

Secondo la narrazione mainstream la concorrenza fiscale è un male da limitare ma in realtà è un bene da incentivare. La ragione per cui negli ambienti europeisti di sinistra la si critica è che avvantaggia gli Stati efficienti, che sono praticamente sempre quelli piccoli. Voler risolvere i problemi dei grandi Stati vietando a quelli piccoli di funzionare bene è come avere una perdita in cucina e smettere di mangiare invece che ripararla: non ha alcun senso. Bisognerebbe invece chiedersi “perché il piccolo funziona?” e trarne lezioni anche per i grandi, come suggerisce il buon Giovanni Adamo II del Liechtenstein.

Se le unità statali sono piccole è più facile accedere a questa concorrenza. Basta spostarsi di pochi chilometri per avere condizioni fiscali più adatte alle proprie esigenze. Con Stati grandi ciò è molto più difficile, quindi hanno un minore incentivo a mettersi al servizio dei contribuenti e delle aziende e a efficientarsi in modo da avere un livello di servizi adeguato alla tassazione.

Ma concorrenza non vuol dire averla solo sulle tasse. Piccole unità territoriali – statali o sottostatali decentrate – possono concorrere anche nel tipo e nella quantità di servizi che forniscono. Si tratta del concetto espresso nel libro “Lo Stato nel Terzo Millennio” del già citato Principe del Liechtenstein e che provo a spiegare meglio qui.

Più decentramento

Una spiegazione sul sistema svizzero fatta dalle autorità svizzere

Sembra assurdo pensare che gli Stati piccoli decentrino di più di quelli grandi, in fin dei conti a trarre beneficio dal decentramento dovrebbe essere il grande, non il piccolo.

Eppure, dati alla mano, spesso sono i Paesi piccoli a decentrare meglio. Pensate al federalismo svizzero o al decentramento comunale del Liechtenstein. Oppure, come non citare il fatto che nei Paesi scandinavi il welfare sia, in larga parte, in mano a entità locali (quando non è in mano a privati come alcune scuole in Svezia)?

Sulla ragione sono giunto ad una teoria: gli Stati grandi hanno molte situazioni socioeconomiche sul proprio territorio e molte di esse hanno problemi. Viene spontanea la creazione di un “nazionalismo sociale” che chiede che “non esistano cittadini di serie A e di serie B” e propone un marcato intervento dello Stato, quasi sempre fallimentare, negli affari locali per “dare a tutti gli stessi servizi”.

Gli Stati piccoli tendono ad essere per loro natura più uniformi e quindi possono mettere l’efficienza prima di questa forma di nazionalismo sociale, dunque decentrando e avendo, alla fine, servizi migliori e una struttura più funzionale.

Democrazia migliore

Risultato immagini per landesgemeinde
Landesgemeinde, un’antica forma di democrazia diretta ancora praticata in parte della Svizzera. Fonte Wikimedia Commons

Nove delle dieci democrazie migliori d’Europa sono piccoli Stati secondo il Democracy Index. Non è chiaramente un fatto a sé: se come abbiamo già mostrato in questi Paesi lo Stato è leggero e decentrato è abbastanza ovvio che la qualità della democrazia sarà maggiore rispetto ai Paesi dove lo Stato deve affrontare mille questioni e vince chi urla di più inventandosi la crisi del momento.

Comunque, in generale, gli Stati piccoli hanno una democrazia migliore anche per le proprie dimensioni: è più semplice che i rappresentanti siano vicini al cittadino – come ad esempio accade in Svizzera – e l’esercizio della democrazia diretta non ha i costi proibitivi che ha nei Paesi grandi.

Molti direbbero che la democrazia diretta è meglio non averla, ma così non è: sono i nostri Stati elefantiaci e mastodontici a non avere una struttura adatta ad essa. Nei due Paesi europei dove c’è la democrazia diretta ha prodotto ottimi risultati e ha responsabilizzato i cittadini nell’uso dei propri soldi.

Unioni migliori

Quando ho osato criticare l’Unione europea è arrivato uno stuolo di nazionalisti che avevano barattato il loro tricolore con una bandiera a dodici stelle a lamentarsi animatamente – in un comportamento che una persona, che per di più non condivideva il contenuto originale, ha saggiamente definito “grillismo europeista” – perché, per loro, dire che ci sono Stati che possono stare bene senza Bruxelles è una brutta bestemmia.

Un giorno scriverò un articolo sulle critiche all’attuale integrazione europea da un punto di vista liberale, ma proviamo un attimo a immaginare un’Europa composta da piccoli Stati.

Per gli Stati piccoli è parecchio difficile avere una forza militare degna di tal nome. Sarebbe quasi spontanea un’unione ai fini militari di questi Stati, come già spiegavo nell’articolo linkato nell’introduzione.

Anche a livello diplomatico gli Stati piccoli, con le dovute eccezioni, tendono a pesare poco. Un’unione sarebbe spontanea anche qui e, tra l’altro, Stati piccoli tendono a favorire la stabilità per poter commerciare liberamente rispetto a interessi partigiani.

Anche un mercato comune di beni, persone, capitali e servizi, con il limitato governo che esso richiede, verrebbe spontaneo: infatti Stati piccoli possono affidarsi molto meno ad una “autarchia interna”, anche per quanto riguarda i lavoratori, come mostrato nei punti precedenti.

Fin qui basta. Non c’è bisogno di accentrare la democrazia – cosa che rende i politici meno responsabili – né di limitarsi la concorrenza come provano a fare gli Stati oggi usando l’UE come un mezzo per dire agli altri dove comperare, arrivando agli assurdi della Francia e dell’Italia che sostengono posizioni diplomatiche diverse in Libia ma guai a loro se commerciano con Paesi diversi.

Essendo il libero scambio per gli Stati piccoli un bene questa Unione cercherebbe trattati vantaggiosi per tutti ma non avrebbe nulla da contestare se uno degli Stati commerciasse liberamente con altri Paesi ancora, finché coerente con la linea diplomatica comune.

Ecco, io preferirei mille volte un’unione come quella descritta rispetto all’UE che, nei fatti, per favorire alcuni Stati membri è molto unita dove potrebbe non esserlo e disunita dove un’unione sarebbe benefica per tutti.

Fonti e documenti utili

Mercato vs. Stato: perché la sanità sudcoreana sta surclassando quella italiana?

Questo articolo è stato pubblicato originariamente su Mises Institute.

Ormai tutti conosciamo la diffusione del COVID-19 in tutto il globo. Restrizioni al movimento sono in ogni dove, le persone vengono testate e si preparano alla possibile quarantena, preoccupandosi per il proprio lavoro e la famiglia. I grandi eventi sono cancellati e interi Paesi messi in quarantena.

In tutto questo si può comunque intravedere un esperimento naturale sul funzionamento delle sanità socializzate in queste situazioni. E pare che stia andando abbastanza male per loro: possiamo vedere l’esempio dell’Italia e della Corea del Sud. Al momento, 12/3/2020, l’Italia ha 15’113 casi mentre la Corea del Sud 7’869 (i dati sono riferiti al giorno in cui l’articolo originale è stato pubblicato su Mises – ndr) e i dati sudcoreani stanno crescendo con calma – circa 100 casi al giorno contro le migliaia dell’Italia. Corea del Sud e Italia hanno popolazioni simili ma la parte della Penisola Coreana sotto la sovranità di Seoul è circa 1/3 della Penisola Italiana.

Nonostante la chiusura quasi totale del Paese l’Italia sta vedendo un aumento vertiginoso di casi mentre la Corea, con un culto che diffonde volutamente la malattia, no, e sta guadagnando il ruolo di guida nella lotta contro COVID-19. Ci sono varie ragioni e non poche sono legate ai differenti sistemi sanitari.

Sanità sudcoreana

Anche se il governo sudcoreano ha un proprio sistema assicurativo in monopolio di Stato ciò non ha impedito lo sviluppo del mercato: ospedali e cliniche chiedono abitualmente ai pazienti più di quanto copra l’assicurazione statale e per questa ragione più di 8 coreani su 10 hanno un’assicurazione supplementare, che pagano circa 120$ al mese.

Il 94% degli ospedali sono privati con un modello a pagamento, senza sussidi diretti del governo. Tanti sono posseduti da università o da enti caritatevoli. Il numero di ospedali è cresciuto nettamente dal 2002, quando erano 1’185, al 2012, quando erano 3’048. Il risultato è che in Corea del Sud ci sono 10 posti letto ogni 1’000 abitanti, più del doppio della media dell’OECD e quasi tre volte di quelli che ha l’Italia, che ne ha 3,4. Questi ospedali, tra l’altro, fanno pagare significativamente meno di quelli americani, che per la cronaca richiedono un “certificato di necessità” del governo in molti Stati.

Sanità italiana

In Italia, invece, il Servizio Sanitario Nazionale copre praticamente tutto ed esistono solo copagamenti simbolici. I tempi d’attesa possono essere anche di qualche mese, specie per le grandi strutture pubbliche, mentre nelle piccole cliniche convenzionate possono essere più brevi.

Vari ospedali offrono delle opzioni di mercato dove il paziente paga a sue spese, ma pochi ne fanno uso. I servizi d’emergenza sono sempre gratis.

Tempi d’attesa e qualità sono decisamente peggiori nel Meridione del Paese, dove spesso gli abitanti vanno al Nord a curarsi. Sono alti i tassi di medici laureati in Italia che vanno a lavorare all’estero, con l’istruzione italiana che vorrebbe rispondere riducendo i posti in medicina nelle università. In Italia vi era carenza di personale sanitario ben prima dell’epidemia di COVID-19. Il numero di ospedali è inoltre in calo: dai 1’321 del 2000 ai 1’063 del 2017. I prezzi del SSN sono stati messi sotto quelli di mercato con l’obiettivo di risparmiare denaro, e i risultati si vedono.

Conclusione

Attualmente il sistema sanitario italiano è sotto enorme pressione a causa dell’epidemia di COVID-19 che sta gestendo, tant’è che in alcuni ospedali si è già scelto di curare prima i giovani e i sani. Molti parlano solo del pericolo dell’epidemia ignorando l’evidenza che racconta una storia diversa: sotto le sanità che si affidano al governo la situazione è peggiore che sotto le sanità che si affidano al libero mercato. La sanità sudcoreana ha una rete di sicurezza, ma è molto simile ad un sistema di puro libero mercato, sicuramente di del sistema attualmente vigente negli Stati Uniti d’America dove gli ospedali sono sottoposti a stretta regolamentazione del governo, spesso imponendo strette restrizioni sulle forniture che non fanno altro che aumentare i costi e diminuirne la disponibilità. Come risultato la Corea del Sud ha fatto ciò che l’Italia non è stata in grado di fare: gestire efficacemente un’epidemia senza chiudere il Paese.

Se gli Stati Uniti vogliono gestire effettivamente un gran numero di casi nelle grandi città dovrebbero seguire l’esempio sudcoreano e liberalizzare il mercato, non costruire un sistema monopolizzato di test sanitario che impedisce alle persone di essere testate. Ciò non risolverebbe subito il problema delle scelte passate, ma aumenterebbe sicuramente la capacità di risposta del sistema sanitario.

La guerra nucleare (segreta) dell’Unione Sovietica

Grazie alla miniserie “Chernobyl”, il grande pubblico ha scoperto quanto il governo sovietico fosse disposto a sacrificare vite umane, comprese quelle dei suoi stessi cittadini, per salvaguardare il prestigio e la potenza dell’URSS. Questo, gli abitanti di Semipalatinsk lo sapevano già, in quanto lo hanno vissuto, e lo stanno vivendo, sulla loro pelle.

Per quarant’anni, dal 1949 al 1989, la città di Semipalatinsk (oggi Semej) in Kazakistan è stata il campo di battaglia di una guerra nucleare segreta, condotta dal governo dell’Unione Sovietica contro i cittadini sovietici. Sebbene tale guerra sia finita quasi trent’anni fa, e l’URSS stessa non esista più, la sua eredità di dolore e morte sopravvive ancora oggi.

La storia del poligono nucleare di Semipalatinsk iniziò con un uomo oggi quasi del tutto dimenticato ma il cui nome, nell’URSS verso la fine degli anni Quaranta, era temuto quasi quanto quello di Stalin stesso: Lavrentij Pavlovič Berija, capo dell’NKVD, la polizia segreta. Sul conto di Berija, è sufficiente sapere che Stalin in persona lo descriveva come “il nostro Himmler”.

All’epoca, la priorità assoluta per il regime comunista era quella di recuperare il vantaggio degli americani nella corsa agli armamenti nucleari. Per fare questo, era necessario un sito adatto ad ospitare il programma nucleare sovietico. Berija quindi, incaricato a tal proposito da Stalin, scelse il remoto sito di Semipalatinsk, descrivendo la regione come “disabitata”. Non era vero: nella vasta regione interessata dai test nucleari, vivevano quasi due milioni di persone[1].

Come per molte tragedie che hanno contraddistinto l’esistenza dell’Unione Sovietica, dall’Holodomor a Chernobyl, anche nel caso di Semipalatinsk è quasi impossibile definire con certezza il confine fra la stupidità del regime e la sua brutalità criminale: i test nucleari vennero condotti in un’area popolata per pura stupidità, o perché il governo sovietico era interessato a studiare gli effetti delle radiazioni sulla popolazione?

Gli elementi sembrerebbero dimostrare la seconda ipotesi. Per esempio, dalle testimonianze degli abitanti risultano diversi casi in cui i militari hanno costretto le persone ad uscire di casa durante i test nucleari[2], in modo da massimizzare la loro esposizione alle radiazioni e quindi la loro utilità come soggetti di studio involontari.

In ogni caso, tre cose sono innegabili: la portata della devastazione che il governo sovietico ha scatenato su Semipalatinsk, l’ossessione del regime per la segretezza al posto della sicurezza, e le vittime.

Fra il 1949 ed il 1963, in questa zona del Kazakistan (regione abitata, bisogna tenerlo a mente, da circa due milioni di persone) sono stati effettuati più di 110 test nucleari in superficie, con ordigni anche 25 volte più potenti di quello usato ad Hiroshima[3]. Dal 1963 fino all’abbandono del sito, i test si sono svolti sottoterra.

Sin dall’inizio le autorità sovietiche, come poi a Chernobyl, non si fecero scrupoli nel mentire ai loro cittadini: infatti, la sezione locale del PCUS, in seguito alla prima di una lunga serie di detonazioni nucleari, classificò l’evento come un semplice terremoto, nulla di cui preoccuparsi. Successivamente, nel 1957, venne stabilita nella zona una “Clinica anti-Brucellosis”, ufficialmente per monitorare i casi di tubercolosi, in realtà per osservare gli effetti dei test nucleari sui civili inconsapevoli[4]. Tali effetti non tardarono a manifestarsi.

Questo perché il regime comunista, nella sua superiore saggezza, aveva scelto come sito per detonare i suoi ordigni più devastanti una regione caratterizzata tutto l’anno da forti venti, che trasportarono in lungo e in largo le radiazioni, tanto che si stima che almeno 1,5 milioni di persone siano state esposte ad esse[5]. Forse il governo sovietico non l’aveva previsto, forse l’aveva previsto e ha deciso di ignorare le conseguenze, entrambe le ipotesi sono ugualmente plausibili.

Del resto, il PCUS aveva del lavoro ben più importante da svolgere: per esempio, trovare delle scuse. Infatti, quando le autorità kazake iniziarono a riportare a Mosca l’aumento repentino di tumori e malformazioni, il governo sovietico rispose prontamente incolpando la povertà della dieta kazaka, oppure la loro abitudine di bere tè troppo caldo[6].

Un esempio della vita ai tempi del poligono nucleare di Semipalatinsk: nel 1956, a seguito di un test in superficie, oltre 600 residenti della città di Ust-Kamenogorsk, a quasi 400 kilometri dal sito della detonazione, vennero ricoverati con evidenti sintomi da avvelenamento da radiazioni. Per un’inquietante coincidenza, non esistono documenti su cosa sia successo loro dopo il ricovero in ospedale[7].

I 600 abitanti di Ust-Kamenogorsk costituiscono però solo la punta dell’iceberg: degli 1,5 milioni di persone esposte alle radiazioni, 67000 sono state contaminate in modo grave, mentre oltre 40000 sono decedute[8], senza neanche sapere il perché della loro morte. Ma il lascito nucleare dell’URSS si estende, oltre che nello spazio, anche nel tempo: ad oggi, sebbene i test siano terminati trent’anni fa, il tasso di tumori e quello di malformazioni nei neonati restano marcatamente superiori alla media.

La triste vicenda del poligono nucleare di Semipalatinsk risulta ancora più rilevante se paragonata a quella di un suo sito gemello, attivo nello stesso periodo: il Nevada Test Site, negli Stati Uniti.

Superficialmente, fra i test nucleari condotti in Nevada e quelli condotti a Semipalatinsk non vi è alcuna differenza: in entrambi i casi, fino al 1963, il governo di una superpotenza ha condotto test nucleari in superficie in un’area tutt’altro che disabitata, ed in entrambi i casi c’è stato un costo in vite umane. Ma fra le due vicende ci sono anche delle fondamentali differenze.

In primo luogo, la trasparenza. Mentre il governo sovietico ha fatto finta di niente per decenni, fingendo d’ignorare la vera natura del poligono nucleare di Semipalatinsk, i cittadini americani erano perfettamente consapevoli di cosa fosse il Nevada Test Site, e non solo: in città come Las Vegas si registrò un vero e proprio boom turistico, grazie alle persone attratte dalla vista delle detonazioni in lontananza[9].

In secondo luogo, la sicurezza al posto della segretezza: mentre il PCUS si è concentrato sulla seconda, per nascondere ai propri cittadini la verità su Semipalatinsk, senza curarsi della loro sicurezza, il governo americano si è rivolto ai maggiori esperti di meteorologia per tracciare il percorso dei venti radioattivi, e salvaguardare così la salute degli abitanti nelle zone limitrofe[10]. Naturalmente, visto che anche il Nevada Test Site ha causato delle vittime, questo non ha funzionato perfettamente, ma proprio qui vi è la più grande differenza fra le due vicende.

Infatti, mentre nell’Unione Sovietica le proteste dei cittadini sono state ignorate nel migliore dei casi e nel peggiore dei casi chi ha protestato è finito in un gulag, i cittadini americani avevano la fortuna di vivere in un Paese libero, in cui il governo non gode di un arbitrio illimitato.

Più volte, nel corso dell’articolo, è stato menzionato il 1963 come anno in cui i test nucleari in superficie sono stati banditi in tutto il mondo. Questo bando, che ha avuto ripercussioni positive anche sugli sfortunati abitanti di Semipalatinsk, è stato reso possibile proprio grazie alle proteste delle vittime del Nevada Test Site, i cosiddetti “Downwinders”.

Nonostante questo importante successo, la strada era ancora lunga. Infatti, per decenni il governo americano ha rifiutato di accettare la responsabilità per i danni causati ai Downwinders. Alla fine, nel 1990, gli sforzi delle vittime sono stati coronati da successo, ed il governo degli Stati Uniti fu costretto a stabilire un fondo per risarcire i Downwinders. Ad oggi, questo fondo ha rilasciato risarcimenti per un totale di oltre 2 miliardi di dollari. Per offrire un paragone, le vittime del poligono nucleare di Semipalatinsk ricevono come risarcimento una somma pari a 12 dollari ogni mese[11].

In ultima analisi, quindi, perché gli abitanti di Semipalatinsk hanno sofferto un destino ben peggiore di quello dei Downwinders? Di sicuro, non perché gli americani fossero geneticamente più intelligenti o predisposti al bene rispetto ai sovietici.

Forse i politici americani erano uomini migliori rispetto ai burocrati del PCUS? In parte sì, ma non abbastanza (com’è stato già detto, il governo americano non ha deciso, di propria spontanea volontà, di porre fine ai test in superficie, di accettare la responsabilità per le vittime e di risarcirle, bensì è stato costretto a farlo).

Alla fine, un’unica cosa ha fatto la differenza fra i Downwinders e gli abitanti di Semipalatinsk: la libertà. La libertà di parola, la libertà di associazione, la libertà di protesta, strumenti che hanno consentito a normalissimi abitanti del Nevada di piegare ai propri voleri il governo della nazione più potente al mondo.

[1] [6] [8] https://www.peacelink.it/ecologia/a/3420.html

[2] https://www.google.com/amp/s/www.rferl.org/amp/Sixty_Years_After_First_Soviet_Nuclear_Test_Legacy_Of_Misery_Lives_On/1809712.html

[3] [5] [7] https://www.nature.com/articles/d41586-019-01034-8

[4] https://www.google.com/amp/s/thebulletin.org/2009/09/the-lasting-toll-of-semipalatinsks-nuclear-testing/amp/

[9] [10] [11] https://youtu.be/bByJdUw8KtE

 

 

 

 

Quando il femminismo è illiberale e totalitario: una critica “thatcheriana”.

Visto il tema delicato una premessa è di dovere: il tema della parità di genere è forse uno dei più scottanti che possiamo affrontare. È importante però capire che la critica non è qui rivolta alle donne, ma al movimento femminista, e alle sue politiche che, per quanto possano apparire “nobili”, se guardate in modo razionale come cercheremo di fare in questa riflessione risultano deleterie per le donne stesse.

“Ma cara, lo sai che la pubblica amministrazione è un mondo per soli uomini”. Questa la dura e ingiusta verità che Dorothy Gillies, direttrice della Kesteven and Grantham Girl’s School non poté negare alla sua giovane alunna Margaret Roberts, che le aveva confidato la propria ambizione ad entrare nell’Indian Civil Service, efficiente ed esclusivo organo dell’amministrazione imperiale britannica in India. “Tanto meglio, se ci riuscirò il mio successo sarà ancora più meritorio!”, si sentì rispondere. (1)

Ovviamente la direttrice non poteva sapere di avere davanti la futura signora Thatcher, prima donna britannica ed europea a diventare capo del governo del proprio Paese, ma noi oggi possiamo dire che senza una simile mentalità, senza un metodo per farsi valere davvero con le proprie forze, probabilmente la giovane figlia del droghiere non sarebbe mai arrivata al Numero 10 di Downing Street.

L’esempio di Margaret Thatcher è uno tra i tanti che potremmo rievocare, ma serve a tutti noi per ricordarci quanto siano inutili e addirittura pericolose nel metodo le rivendicazioni del movimento femminista, e quanto soddisfare le loro richieste comporterebbe atti ingiusti e violenti nei confronti della libertà degli individui e della proprietà privata.

Andiamo quindi ad analizzare il perché un liberale non può che guardare con sospetto a questi movimenti e alle loro richieste assurde.

Innanzitutto: cosa chiede il movimento femminista? È una bella domanda, nel senso che in genere chiede uguaglianza, ma cosa è l’uguaglianza? Un liberale, quando si parla di uguaglianza, può al massimo concordare sull’ uguaglianza nella libertà, come affermata da Herbert Spencer con la sua Legge dell’Uguale Libertà secondo cui “ogni uomo ha la libertà di fare tutto ciò che vuole finché non violi luguale libertà di ogni altro uomo”. Le donne e gli uomini godono in modo uguale di questa legge che, lasciandoli liberi, non li condiziona nella loro complessità lasciando a ognuno la propria unicità.

Fatto salvo l’aspetto della libertà, qualsiasi tentativo di portare uguaglianza per un liberale altro non è un tentativo di togliere unicità, e tutti possiamo capire quanto poco sia umano tutto ciò.

Questa contraddizione delle uguaglianze e dei diritti ci richiama un po’ la differenza, pienamente espressa nel pensiero di un grande liberale padre del conservatorismo come Edmund Burke, tra i diritti naturali riconosciuti nelle leggi inglesi e quelli artificiali come les droits de l’homme affermati con la Rivoluzione Francese. I primi, incentrati sull’habeas corpus, sulla libertà individuale, il diritto di proprietà e la libertà di espressione si sono affermati in un primo momento per la loro validità e secondo natura grazie alla consuetudine, e casomai in un secondo momento molto più tardo sono stati affermati dal diritto positivo. I secondi invece, in quanto artificiali, protettori di certe classi contro altre, non erano forti nella consuetudine né presenti in natura: era un costrutto artificiale e metafisico presente nella mente di qualche intellettuale che per affermarlo ha dovuto prima usare carta e penna e poi la ghigliottina. (2)

La forza di questi due diritti, la loro resistenza al tempo, è evidente nel corso della storia: tutti conosciamo la prosecuzione e l’evoluzione delle istituzioni liberali e democratiche che ha visto la Gran Bretagna dai tempi di Burke, senza bisogno di nuove costituzioni fondamentali, mentre non si contano i morti, le rivolte, i cambi di costituzione e di regime che la Francia ha affrontato anche dopo la Rivoluzione. (3)

Se scendiamo però più nel concreto la contraddizione del movimento femminista non si ferma qui. Sia donne che uomini possono essere nella società lavoratori, produttori e consumatori, e il movimento femminista ha due suoi chiodi fissi che, attuando distorsioni nel mercato, andrebbero a colpire queste tre categorie senza guardare al sesso. Stiamo parlando ovviamente delle quote rosa e delle leggi per colmare il gender pay gap, il divario salariale tra uomini e donne.

Riguardo alle quote rosa, l’assenza di donne in determinati ruoli non può essere risolta se non con l’impegno delle donne stesse per avere successo, basti pensare appunto alla Thatcher diventata Primo Ministro in una società che allora era interamente in mano agli uomini. Imporre delle quote rosa vorrebbe dire dare a una categoria, in questo caso le donne appunto, il monopolio di una fetta di mercato, perché i posti di lavoro sono a tutti gli effetti soggetti a regole di mercato.

Gli effetti deleteri del monopolio e le distorsioni che esso crea a lungo andare danneggiano tutti. Qualsiasi atto che vada contro il merito e a favore della “nomina” e del “posto riservato”, qualsiasi atto che restringa il mercato del lavoro non solo danneggia e usa violenza su chi non ne beneficia (tutti gli altri individui) ma anche su chi parrebbe in un primo momento beneficiarne: senza lo stimolo della concorrenza, senza quella lotta per il merito di thatcheriana memoria saranno le donne stesse a perdere competitività. Il mercato e i prezzi nel settore produttivo ne subiranno le conseguenze e queste scelte a lungo andare danneggeranno tutti: lavoratori, produttori e consumatori. Tra i quali, lo ricordo ancora , ci sono anche le donne.

Lo stesso vale per il gender pay gap: purtroppo se da un lato è innegabile che i salari delle donne siano in media più bassi di quelli degli uomini, l’intervento statale anche in questo caso non è una soluzione auspicabile.

L’intervento dello Stato nella questione dei salari è classificato da Rothbard come intervento triangolare, cioè come quell’intervento in cui lo Stato coinvolge non il cittadino in quanto singolo ma almeno due attori, in questo caso il datore di lavoro e il dipendente. Con le leggi per contrastare la disparità salariale lo Stato sta semplicemente andando contro il mercato ed esercitando una proibizione nell’ambito della produzione. Bisogna ricordare però che, come dice lo stesso Rothbard, con una proibizione “entrambe le parti dello scambio (…) perdono invariabilmente”. (4)

L’uguaglianza dei salari affermata artificialmente comporta degli squilibri e delle distorsioni in campo economico, e il suo primo e più diretto risultato è quello di condurre portare disoccupazione, colpendo proprio la categoria che con lo stesso intervento si voleva tutelare. Rothbard analizzando le leggi sul salario minimo ci ricorda dei concetti importanti:“Sul libero mercato il salario di ognuno tende a essere fissato al valore scontato della sua produttività marginale (VSPM).” (5)

In parole povere e semplificando al massimo, i salari sono quanto un imprenditore è disposto a dare in base al profitto che un lavoratore gli porta. Dimenticandoci per un attimo la questione uomo/donna, per qualsiasi fattore discriminante (non in senso razzista, ma come contrario di accomunante), imporre all’imprenditore di turno di pagare colui che secondo lui meriterebbe di meno come quello che secondo lui meriterebbe di più non significa affatto fare l’interesse della vittima, significa impedirgli di avere l’assunzione.

Agire con delle leggi contro il divario salariale tra uomini e donne imposto dal mercato significherebbe quindi aumentare la disoccupazione femminile, poiché allontanerebbe il tasso salariale legale da quello di mercato generando in automatico la non convenienza ad assumere. E il discorso vale non solo per le donne, ma per qualsiasi tentativo di introdurre salari minimi, intendiamoci.

Abbiamo visto che l’uguaglianza per un liberale non è auspicabile se non come uguaglianza nella libertà, ma scendendo nello specifico perchè quote rosa e leggi contro il divario salariale, al di là della loro stupidità a livello economico, sono da ritenersi sbagliate in quanto violente e totalitarie? Perchè entrambe violano la proprietà privata, uno dei concetti sacri per un liberale.

Proprietà privata vuol dire distinzione tra mio e tuo, vuol dire che quello che è mio non può essere tuo contro la mia volontà, e concetti come carità e condivisione perdono il loro nobile significato se è lo Stato a imporli con la forza facendogli assumere il valore di furto e coercizione.

Hans Hermann Hoppe, nell’attaccare i “libertari” di sinistra, che molto spesso hanno battaglie comuni e si identificano nella lotta delle femministe, li bolla come falsi libertari, perché chiedono interventi e coercizione dello Stato per attuare un loro fine, una loro visione delle cose. “Il moderno Stato sociale ha in gran parte sottratto ai proprietari privati il “diritto ad escludere” insito nel concetto stesso di proprietà privata” (6) dice Hoppe, e quando la tutela della proprietà privata viene meno e si attua l’integrazione forzata non si fa altro che accentuare la spaccatura, aumentare il contrasto e rendere necessarie forme sempre peggiori di coercizione per condurre il mondo verso un progresso che in realtà è un ritorno alla barbarie.

Il movimento femminista è illiberale perché non si accontenta dell’eguaglianza nella libertà, ma vuole imporre un livellamento anche dove questo non esiste. La storia ci insegna che quando lo Stato inizia con il proteggere questa o quella categoria, con il mettersi dalla parte di qualcuno non fa altro che inasprire i toni, attuare violenza e coercizione, minacciare la proprietà privata. Tutti questi elementi sono un freno alla crescita economica e motivi di recessione, e la recessione colpisce anche chi inizialmente andava protetto.

Un’ultima citazione dal forte senso pratico di Margaret Thatcher potrà riassumere tutto il mio ragionamento, e ci tengo particolarmente a riportarla perché di solito viene tagliata a metà. Al bambino che le chiese se le sarebbe piaciuto vedere una donna al posto di Primo Ministro disse “Non credo che vedrò, nella mia vita, una donna diventare Primo Ministro della Gran Bretagna”. Al vero liberale però interessa la seconda parte, che riassume tutto il senso di questo articolo: Non importa che sia un uomo o una donna a svolgere quel lavoro, importa che sia la persona giusta in quel momento”.

NOTE

  • 1) Come tutti gli aneddoti su Margaret Thatcher in questo articolo, vedi “Margaret Thatcher, biografia della donna e della politica” di Elisabetta Rosaspina, Mondadori 2020.
  • 2) e 3) Vedi ” Riflessioni sulla Rivoluzione Francese” di Edmund Burke, di particolare interesse e rilievo l’introduzione di Marco Gervasoni all’edizione Giubilei Regnani 2020.
  • 4) e 5) “Potere e Mercato – lo Stato e l’economia” di Murray Rothbard, Istituto Bruno Leoni IBL libri – collana Mercato Diritto e Libertà.

Debito pubblico: cosa accadrebbe se lo cancellassimo?

Il debito pubblico è un qualcosa di cui sentiamo parlare ogni giorno nei telegiornali. Si tratta di un buco nero, ed è dipinto come la causa dei problemi dell’Italia, sebbene ne sia semplicemente la diretta conseguenza.
Nel web, si trovano tanti articoli che trattano del problema debito pubblico e di come sia un peso per gli italiani.
Alcuni lo dipingono come una vera e propria truffa nei confronti dei cittadini, che fa lentamente perdere sovranità nazionale con la conseguenza di diventare sempre più schiavi delle grandi e cattive banche.
Nelle chiacchiere da bar invece, i più arditi si spingono a dire “vabbè ma se tutti gli Stati sono indebitati tra loro, perchè non cancellarlo e ripartire da zero?”

Oggi risponderemo a questa grande domanda.
Cos’è il debito pubblico? Se lo cancellassimo, cosa accadrebbe?

First of all, faremo un discorso preliminare.
Non possiamo parlare di debito, senza sapere prima cos’è un mezzo fondamentale con cui ogni giorno abbiamo a che fare, qualcosa di prezioso, che ci può rendere poveri o ricchi.
Si tratta della moneta.

Cos’è la moneta?

La moneta è un mezzo che facilita gli scambi.
Essa ci consente di raggiungere i nostri fini, permettendo in cambio di essa di avere delle cose che vogliamo, ed ha tre funzioni:

1) E’ un mezzo di pagamento, quindi in cambio di essa acquistiamo beni o servizi.
2) E’ un’unità di conto, cioè ci serve per misurare il valore di un qualcosa.
3) E’ una riserva di valore, cioè conserva il suo valore nel tempo, o almeno dovrebbe.

La moneta non è una risorsa, non serve per produrre direttamente beni e servizi. Singolarmente non vale nulla.
Se domani convenisse utilizzare le mucche per facilitare gli scambi, utilizzeremmo quelle. Infatti il baratto è stato sostituito dalla moneta perchè rende gli scambi più efficienti, più veloci.
Nella storia ci sono stati tanti tipi di moneta, ma attualmente la moneta imposta dal nostro sistema è quella definita “legale” o a “corso forzoso”, la cosiddetta Fiat money (no, non sta per l’azienda di auto).
Questa moneta non è coperta da nessun materiale fisico e limitato che può darle valore, come l’oro in passato. Semplicemente coloro che hanno il potere politico per farlo, cioè le banche centrali, possono regolarne la quantità nel sistema in base alle preferenze (o meglio, convenienze) del momento.

Quindi chi o cosa dà valore a questa moneta?

Di base, il valore della moneta è dato dalla fiducia che il mercato (cioè l’insieme di tutti gli individui e le istituzioni, da zio Tonino a Unicredit) ripone nei confronti delle entità che la emettono, cioè le suddette le banche centrali.
Se questa fiducia dovesse crollare un giorno, quella 5 euro che abbiamo in tasca varrebbe esattamente per il pezzetto di carta che è, cioè niente.
Questa possibile perdita di valore della moneta entra in contrasto critico con una delle funzioni della moneta, cioè la riserva di valore, che viene sistematicamente messa in pericolo da una certa azione:

La svalutazione della moneta

Dipinta da diversi pseudo-economisti di certi partiti politici come la panacèa di ogni male, come la motivazione del benessere italiano negli anni ’80, nonostante di fatto ci si stesse mangiando il proprio capitale, questo è un processo nel quale c’è un aumento del livello dei prezzi perchè si aumenta la quantità di moneta in modo indiscriminato (per diventare più competitivi nei confronti delle altre valute ed esportare di più, per dare modo allo Stato di finanziarsi) portando alla riduzione dei salari reali.
Quindi prendi e prendevi 1000 euro al mese, ma se prima compravi due pagnotte, ora ne puoi comprare una.
Una riduzione molto violenta di questi salari reali porterebbe ad un rifiuto totale di quella moneta da parte degli abitanti (e quindi, del mercato) in cambio di altri mezzi di pagamento, sancendo la fine di quella precisa valuta.
Questo fenomeno però, meriterà una trattazione a parte.

Ora scaviamo un po’ più a fondo, e spieghiamo cos’è questo fenomenale mostro dal nome debito pubblico.

Cos’è il debito pubblico?

Il debito pubblico è l’insieme dei debiti che lo Stato deve nei confronti del mercato(ripetiamo, da zio Tonino a Unicredit), e che un giorno promette di ripagare.
Lo Stato fa debito per un motivo molto semplice: un tempo per acquistare soldati e armi, oggi per costruire infrastrutture, dare una sanità pubblica (che quindi non è gratis) o dare un posto di lavoro a zio Tonino, ma quando non ha soldi a sufficienza per permettersi queste spese, per evitare di tassare ulteriormente i cittadini, chiede questi soldi in prestito.


Mettendo in garanzia il PIL attuale, cioè tutto quello che si è prodotto fino a quel momento, promette di trovare i soldi necessari per ripagare quel debito promettendo un maggior PIL futuro, cioè quel valore in più che si creerà da quelle spese a debito.


Nel caso le cose dovessero andar male, si tasseranno maggiormente i cittadini.
Se le finanze pubbliche sono in ottime condizioni, in cambio verrà richiesto un interesse basso da pagare, perchè c’è un rischio basso d’insolvenza.
Se le finanze pubbliche sono in pessime condizioni, verrà chiesto un interesse molto alto da pagare, in quanto c’è un rischio alto d’insolvenza.

Quindi come vedete nessuna truffa, nessuna magia, è più semplice e meno affascinante di quello che si pensa.

Ma chi detiene il debito pubblico italiano?

Principali detentori del debito pubblico italiano (in miliardi di euro)

Questi sono i detentori del nostro debito pubblico, come mostra questo grafico formulato dal CEPS (Centre for European Policy Studies) costruito partendo da dati della Banca d’Italia.

Quindi abbiamo:
-100 miliardi detenuti direttamente dagli italiani. Il 4,5%.
-690 miliardi dal sistema bancario italiano. il 30%
-400 miliardi dalla Banca d’Italia. Il 18%.
-310 miliardi da compagnie di assicurazione italiane. Il 14%.
-300 miliardi da fondi d’investimento con ultimi beneficiari italiani. il 13,5%.
-450 miliardi da fondi d’investimenti esteri. il 20%.

Ora, notiamo due cose:
1) Semplicisticamente, è vero che la maggior parte del debito pubblico è detenuto da “italiani”.
2) il sistema bancario italiano, che è composto da banche estere e banche italiane presenti nel territorio nazionale, è la maggiore fonte di finanziamento del Belpaese.

Ora andiamo nel fulcro della vicenda, e sveliamo questo mistero.

Cosa accadrebbe se cancellassimo il debito pubblico?

Se domani non solo lo Stato italiano, ma tutti gli Stati del mondo si accordassero e decidessero di cancellare il debito pubblico e ripartire da zero, accadrebbe una cosa molto interessante.

Ogni agente economico, ha un bilancio. Nel bilancio abbiamo un attivo ed un passivo.
Se domani lo Stato non volesse più pagare i propri debiti, i propri cittadini, le proprie imprese, le proprie banche perderebbero i soldi che hanno investito in esso. Questo sarebbe configurabile come un passivo in bilancio, e i passivi vanno coperti.

Zio Tonino, seguendo il consiglio del consulente finanziario che gli diceva “i titoli di stato sono investimenti a zero rischio!“, perderebbe parte dei suoi risparmi, così come tutti gli altri suoi connazionali. 100 miliardi di euro in fumo.
Le società assicurative italiane, quelle alle quali vi affidate per le vostre polizze, per le vostre auto, per le vostre case e che detengono 300 miliardi di debito, coprirebbero questa passività con delle risorse improvvisate al momento.
In mancanze di esse fallirebbero. 300 miliardi di euro in fumo.

Anche le banche, con tutto il debito che detengono, rischierebbero di fallire all’istante provocando il collasso dell’intero sistema economico.
…E per questo interverrebbero le banche centrali, i prestatori di ultima istanza, che si ritroverebbero con un enorme passività in bilancio da coprire.
E qual è l’unico modo con il quale la banca centrale può coprire delle passività?

Stampando moneta.

Ma qui abbiamo un problema grande quanto una casa

La moneta richiesta per affrontare una emergenza del genere sarebbe di quantità così illimitata da portare ad una gigantesca iperinflazione dovuta al crollo totale della fiducia nei confronti della valuta. Questo porterebbe alla distruzione completa e totale del nostro sistema economico.

Uno scenario fantaeconomico, inquietante, ma che almeno porta alla luce una delle più grandi e terribili balle che si possano mai dire.
La prossima volta che trovate un sovranista o pseudo-tale che incita magari alla suddetta soluzione, tirategli uno scappellotto.

A giocar col fuoco, si rischia di farsi male.

 


Fonti e approfondimenti :

Who Holds Italian Government Debt? – CEPS, Daniel Gros (2019).
What Is The Money? – European Central Bank.
Mises On The Basics Of Money.
Lezione di tango: la svalutazione riduce i salari – Michele Boldrin, Gianluca Codagnone.

Annual Consolidated Balance Sheet Of The Eurosystem.
Piccola storia della moneta, tra miti e realtà – Alessandro Guerani, Sole 24 ore.
I malanni delle valute fiat – Alasdair Mcleod, traduzione Francesco Simonelli.
Hyperinflation, Its Causes and Effects with Examples – The Balance

Gli europei tra cristianità e libertà individuali

Mi definisco un liberal-conservatore, ma cerco sempre di allontanarmi dallo pseudo-bigottismo che contraddistingue i conservatori classici. Il mio punto di vista non è quello di un cattolico vero e proprio, in quanto ormai da qualche tempo mi identifico come un ateo-agnostico. Per questo motivo, ritengo di poter dire che la mia visione sul tema delle radici della cultura europea non può essere in alcun modo influenzata da fattori che mi possano legare particolarmente al tema della santissima trinità e di tutto ciò che ne è attinente.

Eppure, ritengo che la verità sia questa, per quanto possa essere difficile da digerire per alcuni di voi che magari si legano particolarmente alla visione laica dello Stato (che io stesso ritengo oltre che giusta, doverosa), ostinatamente proposta soprattutto dagli ambienti della sinistra radicale.

Ma procediamo con ordine. La maggior parte delle persone che leggeranno questo articolo avranno visto il video promosso da Vice in cui un gruppo di ragazzi, tra cui il nostro caro Alessio Cotroneo, esprimevano le loro posizioni su tantissimi temi, dall’Europa, all’immigrazione, dall’antifascismo a Salvini. Tra questi temi, uno che mi ha colpito particolarmente è quello delle radici cristiane del nostro continente, promosso da un famoso giovane conservatore come Francesco Giubilei, respinto in toto da un altro ragazzo della sinistra radicale, il quale ha affermato che “le radici non sono cristiane; se vediamo alla storia, queste sono pagane, perché il cristianesimo nasce nell’anno 0, l’Europa no”.

Per quanto io possa almeno in parte capire l’obiezione di questo ragazzo, ritengo che alla base delle sue argomentazioni ci sia un errore di fondo, che ha a che fare con la definizione di radici. Non si parla di radici per definire “chi è arrivato prima”, altrimenti non staremo qui a parlare nemmeno dei greci, ma dei fenici, dei messapi, dei dauni, degli etruschi, dei sabini e di tutti quei popoli che hanno popolato il nostro continente di cui al giorno d’oggi poco o nulla è rimasto nella nostra cultura. Certo, abbiamo avuto influenze da parte anche di tante altre popolazioni; dai greci che ci hanno tramandato almeno in parte il concetto di democrazia, dalla cultura latina (spesso e volentieri niente più che una copia di qualcosa che era stato già trattato dai primi), dagli arabi saraceni, dai normanni e quant’altro.

Ma non sono i loro valori, quelli che ci sono stati tramandati al giorno d’oggi in maniera inequivocabile. Infatti, moralmente parlando, siamo più legati alla visione della morte dei romani o dei cristiani? E cosa dire del concetto di carità, di amore, di fratellanza, di rispetto del prossimo? Siamo magari più vicini alla visione degli arabi saraceni o alla morale delle parabole di Dio?

Forse, quel ragazzo aveva ragione nel ritenere che il Cristianesimo nasce nell’anno 0 e l’Europa no. Ma cos’è effettivamente l’Europa? Qualcuno potrebbe obiettare affermando che essa sia semplicemente un continente, un’entità geografica, una zona. Ma non è così. Il concetto d’Europa, dalla quale segue anche quello di radici europee non è legato ad una semplice visione geografica, bensì ad una entità sociale, politica, economica e culturale che nasce persino qualche secolo dopo la nascita di Gesù.

Infatti è facile scoprire che il termine “Europa”, la cui appartenenza è legata originariamente al nome della figlia di Agenore, raramente identifica un popolo o un territorio, almeno fino al VI secolo d.C. con il Monaco Isidoro Pacensis che utilizzò tra i primi questo temine per indicare i combattenti sotto la guida di Carlo Martello nella battaglia di Poitiers. Combattenti che non soltanto rappresentavano un esercito di stampo plurinazionale (in quanto questi appartenevano a diverse nazioni del tempo), ma probabilmente il primo esercito europeo occidentale biunivocamente collegato alla cultura cristiana del periodo, che si scontrò per la prima volta contro i Mori che stavano cercando piano piano di razziare l’intero continente.

Con questo, si può dire che il ragazzo che nel video si oppone alla considerazione di Giubilei, non si sbaglia una ma ben due volte nella sua obiezione. L’Europa, infatti, nasce grossomodo con la caduta dell’Impero Romano d’Occidente avvenuta nel 476 d.C., anno in cui il Cristianesimo esisteva ormai da almeno quattro secoli, in cui gli apostoli, gli evangelisti e tanti altri contribuenti della causa cristiana avevano ormai diffuso a macchia d’olio in tutta Europa e in buona parte dell’Africa e dell’Asia Minore la parola di Cristo. Inoltre, sempre in questo periodo, abbiamo la vera creazione della cosiddetta “Europa degli stati e delle nazioni” con la costruzione dei vari regni romano-barbarici che si stanziarono in tutto il suolo europeo, come gli Ostrogoti in Italia, i Visigoti in Francia e Spagna, i Suebi nell’Iberia occidentale e via discorrendo e che nel giro di poco tempo arrivarono ad abbracciare la cultura e i valori cristiani.

Non solo: la storia vera a propria dell’Europa che siamo abituati a considerare, comincia nel Natale dell’800 d.C. con l’incoronazione di Carlo Magno, il quale fu il pioniere di una lunga tradizione di imperatori del Nord Europa che si faranno incoronare da quel momento in poi non solo come “regnanti” delle loro terre, ma come difensori di Roma e della fede cristiana. Fu infatti proprio Adriano I ad incoronare, nel Natale dell’800, Carlo Magno Imperator Romanorum, con la conseguente conversione di tutti i Franchi, originariamente di fede pagana, in quanto in quel periodo il Cristianesimo si dimostrò nido di tutta la cultura, di tutta la tecnologia e di tutto il sapere dell’epoca. Fu con lui che cominciò quella lunga tradizione di stampo cristiana degli imperatori europei e che caratterizzò il nostro continente nel corso della storia.

Cominciò così quel processo storico che vedrà tutti i regnanti europei nel corso della storia non solo come Re, Imperatori o quant’altro della loro terra, ma anche come difensori della fede cristiana, talvolta andandone addirittura contro e facendo come Enrico VIII, il quale, in disaccordo con Papa Clemente VII decise di fondare una Chiesa tutta sua, autodichiarandosi quale difensore di questa nuova fede, tanto che ancora oggi la Regina Elisabetta è anche a capo della Chiesa Anglicana la quale, esattamente come la fede cattolica o protestante, ebbe i suoi alti e bassi.

Perché, assieme a tutte le cose positive, noi europei siamo gli eredi culturali anche di quelli che sono stati gli orrori e le atrocità perpetrate dai cristiani in quel periodo, come la distruzione della città cristiana di Costantinopoli, delle crociate e soprattutto della soppressione di molte libertà individuali dei periodi passati. Pensiamo alla Santa Inquisizione, alla caccia alle streghe, a Copernico, a Galileo, a Giordano Bruno e a tanti altri esempi che ben conosciamo del passato.

In ciò, però, mi sento di spezzare una lancia a favore del Cristianesimo in quanto, se è vero che è a causa sua che molte scoperte scientifiche tardarono ad arrivare nel corso della storia, è anche vero che moltissimi progressi della Scienza sono stati portati avanti e foraggiati da enti della stessa chiesa Cristiana. Possiamo pensare ai Gesuiti, i quali nel corso della storia furono tra i più sensibili nei confronti delle nuove scienze, raggiungendo spesso grandi risultati in molte discipline scientifiche e che si proposero come dei custodi del sapere e della cultura scientifica in Europa, o di come la Riforma Protestante abbia indiscutibilmente un doppio legame con l’emergere della rivoluzione scientifica e dell’affermarsi della scienza come forma del sapere dominante e che portò successivamente, fenomeno che anche Max Weber ebbe modo di segnalare, ad una rapida evoluzione del capitalismo e della sua vasta diffusione nel nord Europa.

Consideriamo inoltre John Heilbron, il quale sostenne che nel periodo della Rivoluzione Scientifica, ed in particolare durante il XVII secolo, la Chiesa Cattolica non si oppose ai progressi della scienza, ma li promosse in modo attivo e fecondo. Pensiamo ad esempio alle meridiane, agli orologi astronomici, ai laboratori e agli osservatori conservati nelle cattedrali dell’epoca, visibili ancora oggi. Prima fra tutti la meridiana conservata all’interno della Basilica di San Petronio a Bologna. Potremmo in tal senso fare tante citazioni, come ad esempio il pendolo di Foucault, i cui esperimenti vennero fatti proprio all’interno del Pantheon di Parigi.

È così, veniamo a scoprire che accanto ai progressi della scienza dei nostri tempi abbiamo radici in un cattolicesimo capace anche di accettare l’innovazione scientifica e tecnologica del tempo, promulgandola ed in alcuni casi foraggiandola attivamente.

Non solo, la cultura non è solo scienza e così possiamo pensare alle arti letterarie, come ad esempio alla Divina Commedia di Dante, alle opere di San Francesco d’Assisi patrono d’Italia, alla Gerusalemme Liberata di Torquato Tasso, ai Trionfi di Petrarca e molti altri ancora. Oppure possiamo pensare alle arti figurate: alla Pietà e al Mosè di Michelangelo, al Cristo Velato di Giuseppe Sanmartino, alla volta e al Giudizio universale della Cappella Sistina, alla Maria sulla seggiola di Raffaello, all’ultima cena, al San Giovanni Battista, al battesimo di Cristo di Leonardo da Vinci, oppure alle varie opere di Giotto, ai suoi polittici ed alle varie opere dei suoi allievi, all’Allegoria della Concezione, alla Natività, alla Deposizione ed alla tentazione di San Girolamo del Vasari. Siamo circondati delle opere che trattano motivi religiosi Cristiani, anche nell’architettura. Pensiamo alla cattedrale di Notre Dame de Paris, andata a  fuoco lo scorso anno, o alla cattedrale di Westminster, alla Sagrada Familia a Barcellona, Santa Maria di Tyn a Praga, alla Cattedrale di Santo Stefano a Vienna, per poi arrivare in Italia e trovare la Basilica di San Marco a Venezia, il Duomo di Milano, la Basilica di Santa Maria Novella a Firenze, il Vaticano a Roma, il Duomo di Napoli, Catania, Lecce o la Basilica di San Nicola a Bari. Ovunque andiamo in Italia, la maggior parte della cultura del posto è legata in qualche modo alla fede Cristiana. Oppure, pensate ancora alla famosa Lega Santa ed alla famosa Battaglia di Lepanto vinta dalla Lega Santa Cristiana, nel nome della difesa del Cristianesimo dall’invasione dell’Islam. Parlando di Lega Santa, sarebbe assurdo non nominare l’assedio di Famagosta, il quale rappresentò, assieme all’assedio di Malta una delle lotte più importanti condotte dagli Europei in nome della cristianità. Oppure, potremmo pensare alla stessa battaglia di Poitiers precedentemente citata, ai martiri d’Otranto, alla battaglia di Vienna o ancora alla battaglia di Las Navas de Tolosa. Tutte guerre combattute in un modo o nell’altro per la difesa della cristianità e delle sue radici culturali nel nostro continente.

Insomma, ovunque andiamo in Italia o in Europa, potremmo tranquillamente constatare come il Cristianesimo sia al centro della cultura Europea, essendo stato non solo centro dello sviluppo, ma anche del mantenimento e della custodia del sapere, delle arti e delle scienze fino al nostro tempo.

Ripensiamo nuovamente alla nostra morale, alla nostra indole di stampo caritatevole in Europa che affondano le loro radici negli insegnamenti di Cristo, il quale nelle sue parole ci diceva esplicitamente di amare il prossimo, di non fare agli altri ciò che non vorremmo sia fatto a noi (sebbene io preferisca la versione di Peterson di questo detto, ovvero “Tratta te stesso come fai con chi si affida a te”) o al dare a Cesare ciò che è di Cesare, che secondo me rappresenta una delle radici della cultura liberale nel mondo.

Infatti, non siamo persone che ragionano per stereotipi, per dogmi o quant’altro come al contrario fanno (o hanno fatto) tanti collettivisti al giorno d’oggi, ma siamo capaci di discernere ciò di positivo o di negativo di cui è fatto qualcosa. E vale allo stesso modo per il Cristianesimo: se siamo dei veri liberali dovremmo essere coscienti del fatto che alla base della cultura della nostra Europa c’è senza dubbio un’influenza di tipo pagana, latina o greca. Ma dal VI Secolo in poi la maggior parte della cultura del nostro continente si basa su quelli che sono, senza se e senza ma, dei preconcetti teorizzati dal Cristianesimo. E la negazione di ciò non è solo irrispettosa, ma irriguardosa e da ingrati.

Riprendendo inoltre ciò che ho scritto in precedenza, potremmo dire che ancor prima di Hayek, Mises o di Friedman sia stato il Protestantesimo a partorire una pre-condizione culturale per la forte presenza del capitalismo nel nostro tempo. In accordo con la visione di Max Weber, infatti, il lavoro e la ricerca del profitto sono trovano una concretizzazione morale nella visione calvinista e luterana dell’impegno la quale, al contrario della visione cattolica che si fonda per lo più nella divinizzazione dell’entità superiore per l’ottenimento di qualcosa, si basa più sulla gratificazione personale e sulla preghiera a Dio per ciò di cui si è già in possesso.

Parlando di Capitalismo, non si può non parlare anche di proprietà privata (e magari anche di imposte), ed anche in questo contesto il Cristianesimo ebbe modo di influenzare il nostro punto di vista.
Come si legge nel libro “Schiavi Fiscali” di Leonardo Facco, tra le varie citazioni che egli fa, c’è anche quella di Carlo Zucchi, il quale afferma che:

“Nel proprio ruolo di esattore la Chiesa di un tempo si è sempre limitata di esigere la decima e poco altro, e ha sempre difeso la proprietà privata come strumento della responsabilizzazione della persona. Non è un caso che la deriva positivista e collettivista dell’era moderna e contemporanea, che ha condotto a prelievi fiscali elevati come non mai, abbia sovente ricevuto la condanna della Chiesa”.

Non solo, a sostegno di una visione di stampo Anarco-Capitalista della Chiesa (si fa per dire) ci viene incontro anche la Storia.

Scherzi a parte, però, si può dire senza se e senza ma che un certo riconoscimento nei confronti di un’arcaica forma di “proprietà privata” abbia radici anche di stampo Cristiano. Come ben sappiamo, infatti, fu la stessa Chiesa Cristiana che durante gli anni dell’Alto Medioevo a cercare di promuovere nei confronti dei Vassalli, ancora fedeli ai vari sovrani Carolingi, una sorta di emancipazione delle loro terre dal comando del sovrano centrale.

Fu lei, infatti, a promuoverne una sorta di alienazione, cercando di sopprimerne i vincoli, padronali e familiari, con cui si cercava di legare in doppia maniera i vari Nobili al comando centrale del sovrano.

Inoltre, sempre secondo Weber, nella cultura calvinista l’accumulo di ricchezza e di capitale altro non è che la manifestazione materiale della grazia di Dio. Infatti, questo segno con Calvino si concretizza nella ricchezza, nel prosperare e nel benessere frutto del duro lavoro e del duro sacrificio. Non solo, se qualche europeista tra di voi sogna un giorno non troppo lontano di fondare una confederazione di stampo federale sotto la bandiera dell’Unione Europea, dovrebbe convenire che non può esistere uno stato sotto un’unica bandiera se prima non esiste una cultura capace di racchiudere al suo interno, almeno in maniera parziale, tutte le storie, i percorsi storici e le tradizioni dei Paesi che comporranno in futuro detta unione.

Chiaramente, a tutto ciò c’è comunque da aggiungere che il liberalismo ha alla base la volontà di preservare ad ogni individuo la propria libertà di culto, nel pieno rispetto delle regole, della civiltà, delle tradizioni e della cultura nel Paese in cui si trovano.

Il mondo è bello perché è vario e perché, laddove si va, si può sempre entrare a contatto con culture, punti di vista e conoscenze differenti ed è proprio ciò che ho voluto fare con questa mia analisi, che si basa esclusivamente su delle considerazioni personali di quelli che potremmo definire come dati storici ed empirici del nostro tempo. Perché, se è vero che le nostre radici rimangono e saranno per sempre di stampo Cristiano, c’è bisogno però di non estremizzare questo discorso e di non utilizzare queste argomentazioni per portare avanti nel dibattito pubblico e politico una discussione becera, fondata sul bigottismo, la misoginia, la xenofobia e l’odio in generale per le altre culture nel mondo.

Allo stesso tempo però, il Cristianesimo e le radici cristiane del nostro continente possono rappresentare un buon punto di partenza, per la costruzione di un’identità di popolo tramite la quale si può facilmente provare a costruire successivamente un’unione ricca e solida. Perché, se è vero che una cultura può vivere senza uno Stato, è anche vero che uno Stato non ha motivo di esistere senza una cultura.

Ebbene sì, qualcuno avrà mandato a quel paese questo articolo solamente leggendone il titolo, per questo motivo ringrazio tutti quanti voi che avete voluto comunque cimentarvi in questa lettura, dimostrandovi capaci di non giudicare un libro dalla copertina e di provare a capire un certo punto di vista.

Tasse e Welfare. Rubrica “Welfare secondo un Liberista”

Nell’articolo precedente ho spiegato perché l’assistenzialismo è sbagliato. Ho cercato di evidenziare come l’assistenzialismo tende a dividere, tende a indebolire, tende ad escludere.

In questo articolo, pertanto, voglio provare a spiegare come si approccia un liberista al tema del Welfare.

Cosa vuol dire Welfare? Welfare può essere come qualcosa legato al benessere, al stare bene. Quando sentiamo Welfare State, vuol dire un governo che compie delle azioni allo scopo di “dare” un benessere a qualcuno.

Il Welfare State nasce da un’esigenza sociale. Soddisfare i più bisognosi. Ma da esigenza sociale, diventa pretesto per farla diventare giustizia sociale. Il presupposto è dunque togliere a chi ha troppo per dare a chi ha poco.

Nel welfare rientrano numerosi campi. Dal pensionato al lavoratore che perde il lavoro, dall’infortunato alla sanità per tutti. Quindi, secondo un welfare state tutti sono “protetti” e questa protezione dovrebbe coprire la persona, in teoria, dalla culla alla morte.

Sostanzialmente, il welfare, per come ci viene raccontato da decenni, è qualcosa legato al collettivismo e alla solidarietà. Tutto ciò però, all’insegna della coercizione statale. Una coercizione statale progressiva, direi. Infatti più sei ricco e più “devi essere” solidale con il prossimo, dando un contributo maggiore.

Ma cosa vuol dire per un liberista il welfare? Per un liberista, il benessere è un fattore individuale. Questo vuol dire che esiste un’azione umana che governa tutto. Non solo la tanto cara Mano Invisibile di Adam Smith, ma anche il fatto che il welfare può esistere senza lo Stato.

Provo a spiegarmi meglio. Quanti welfare esistono? Avendo studiato spesso queste tematiche, oltre al welfare state, mi vengono in mente una moltitudine di modelli di welfare. Abbiamo il welfare aziendale, il welfare associativo, welfare corporativo, welfare universale, ecc ecc.

Esiste un welfare liberista? Non può esistere un welfare liberista. Sarebbe una sorta di ossimoro. Un liberista può dare del benessere a qualcuno? Dipende.

Il Liberista non crede nella lotta alla disuguaglianza, ma crede nella lotta alla povertà. Pertanto, l’obiettivo del liberista non è quello di provare ad “equilibrare” i redditi, ma operare affinché tutti possano esprimere il proprio potenziale.

Fare in modo che tutti siano messi nella condizione di dare il meglio di sè, sempre e comunque.

Ma qualcuno potrebbe chiedermi, legittimamente, “ma il povero come si aiuta?”. Ebbene, un Liberista crede nella figura del Guardiano Notturno. Cosa vuol dire guardiano notturno? Vuol dire che lo Stato, in riferimento al tema welfare, si deve limitare a garantire un’uguaglianza di partenza per tutti.

Il Liberista vuole che il cittadino, in difficoltà economiche, detentore di un piccolo guadagno, non deve essere massacrato da tasse, dirette e indirette che siano. Quel piccolo reddito guadagnato deve essere protetto e valorizzato. Mi viene in mente la storica proposta di Milton Friedman sull’imposta negativa sul reddito, affinchè il cittadino con un reddito troppo inferiore alla soglia minima, riceva una detrazione delle tasse pagate, ottenendo un rimborso.

Questo perché welfare, per un liberista, vuol dire investimento. Investimento sulla persona. Un investimento che non deve ricadere sulle spalle di un’altra persona.

Mi viene in mente una straordinaria frase di Margaret Thatcher, presente in uno dei suoi testi autobiografici, “Come sono arrivata a downing street”

“Sono convinto che occorra giudicare una persona per i loro meriti e non per la loro provenienza. Credo che la persona che è pronta a lavorare più sodo è quella a cui spetta il compenso maggiore, un compenso che dovrebbe restargli anche dopo le tasse. Dobbiamo appoggiare i lavoratori e non gli imboscati: che non è solo lecito ma lodevole voler migliorare la propria famiglia con il proprio impegno“.

Ma come approcciare il pensiero liberista nella concretezza delle cose, come nella sanità, il carovita, la scuola?

Ci vediamo nel prossimo articolo.

I limiti della Libertà e la nostra responsabilità

Quasi tutti hanno avuto modo di finire il periodo di istruzione obbligatoria e sicuramente tutti hanno avuto la possibilità di finire la Scuola Primaria.

Io ho vividi ricordi di quel periodo, alcuni belli ed altri meno belli.

Mi ricordo bene di come, seduto sul banco, aspettavo costantemente la ricreazione per poter giocare con i miei amici e di quando, invece, speravo che le lezioni delle mie maestre non finissero mai.

Durante le scuole Elementari, mi ricordo che non andavo troppo d’accordo con la mia maestra di Italiano, tanto che la mia mente, quasi, si rifiutava di imparare decentemente i tempi verbali o di scrivere un buon tema.

Per fortuna, con la fine della scuola primaria e l’inizio della Secondaria di Primo Grado, queste lacune si affievolirono e cominciai ad elaborare contenuti molto originali che, a volte, mi diedero la soddisfazione di essere il migliore della mia classe.

Sebbene il mio astio per i tempi verbali non abbia voluto minimamente farsi da parte, durante il mio primo periodo alla scuola elementare ho maturato un profondo interesse per il peso delle parole.

Non mi riferisco a QUALI usare, ma a QUANDO usarle e di come fossero importanti in tal senso le figure retoriche, in particolare gli ossimori.

Riflettiamoci un secondo, quanta curiosità destano nella nostra mente parole messe una accanto all’altra con significati diametralmente opposti? Quanto ci fanno pensare e riflettere frasi come “rumoroso silenzio”, “caos calmo” o altre?

Ma, soprattutto, quand’è che queste parole dal significato contrastante possono andare oltre la semplice retorica e cercare di suggerirci qualcosa su cui bisognerebbe veramente riflettere?

Pensate, ad esempio, ad espressioni come “Assolutismo Illuminato” o a “tacita follia”, o al “tacito tumulto” di Pascoli. Egli utilizzava ossimori e sinestesia più per impressionare il lettore che per innescare nel suo cervello un ragionamento chiaro e razionale.

Quindi, è proprio su questa linea d’onda che mi sono sempre posto una domanda: La libertà, ha dei limiti?

Questo, secondo me, è l’ossimoro più intrigante sul quale si può creare una lucida conversazione tra persone, soprattutto, tra noi liberali.

Libertà è un concetto molto bello e appagante e accostare a questa parola il termine “limiti” sembra quasi annullarne la bellezza. Eppure è così, la libertà è tanto sacra quanto bella, tanto necessaria quanto pericolosa.

Ebbene si, la libertà va maneggiata con cura, è come un’arma o uno strumento potenzialmente pericoloso: essa consente l’opportunità di scegliere tra varie possibilità, in cui nessun genere di risultato è precluso: ne conseguirà che tramite l’uso della libertà avremo accesso ad ogni genere di capolavoro, così come contemporaneamente coesisteremo con la possibilità che, invece, vengano combinati dei guai, talvolta molto gravi.

Ma i primi non possono certo pagare per l’incapacità dei secondi.

Quindi, che fare? Annulliamo il diritto alla Libertà dell’individuo? Niente affatto. Dobbiamo però renderci conto che oltre a persone che possono usare questo mezzo nel migliore dei modi, ce ne possono essere altre capaci di fare dei danni o, talvolta, di far male ad altri con la loro Libertà.

Nasce quindi da questo ragionamento la mia domanda: ESISTONO DEI LIMITI ALLA LIBERTA’?

Dopo parecchie riflessioni, perlopiù interiori, sono arrivato ad una mia personalissima conclusione e la risposta è: SI.

Per quanto possa essere strano da dire o da ammettere, anche la libertà prevede dei limiti dettati, con ogni probabilità, più dalla nostra morale individuale che da enti esterni (come il nostro più acerrimo nemico: lo Stato).

Sia chiaro, ciò che distingue noi Liberali dagli anarchici è la voglia di libertà, pur sottostando a determinate leggi, purché queste non diventino coercitive, o per meglio dire, invadenti. Pensiamo alle allucinanti leggi che vorrebbero porre un controllo sulla libertà d’espressione dell’individuo oppure a quelle che vanno oltre la semplice “regolamentazione” o “tutela”, tanto da minare alle radici la nostra Libertà di parola o di azione.

Detto ciò, mi sono posto quindi un altro problema, logicamente consecutivo: “Quali sono questi limiti? Come possiamo trovarli?”.

Come ho scritto sopra, alcuni potrebbero subito far riferimento a ciò che ho sostenuto prima e affermare: “Le leggi”. Ma per rispondere adeguatamente a questa domanda torna nuovamente in mio aiuto il mio periodo da scolaretto, in quanto proprio in quegli anni mi venne insegnata una lezione molto importante. Ricordo che stavamo facendo una lezione di Educazione Civica (Ore di lezione buttate nella spazzatura) e ad un certo punto nel mio libro di testo vidi l’illustrazione di un bambino che passeggiava per la strada e nel mentre guardava una scritta sul muro che diceva: “La tua libertà finisce laddove comincia la mia”.

Pensiero troppo generico pensai, forse troppo stupido o forse troppo difficile da comprendere per un bambino della mia età.

Eppure, ultimamente quella scritta mi è tornata sempre più in mente e ha destato in me non poche riflessioni.

In fin dei conti, lo diceva anche Thomas Jefferson, uno dei padri fondatori degli Stati Uniti d’America scrivendo nella Dichiarazione d’Indipendenza Americana:

“Noi riteniamo che sono per se stesse evidenti queste verità: che tutti gli uomini sono creati eguali; che essi sono dal Creatore dotati di certi inalienabili diritti, che tra questi diritti sono la Vita, la Libertà, e il perseguimento della Felicità”

La Libertà con la L maiuscola. Mai una frase potrà accogliere meglio nella sua formulazione una parola così bella.

Perché in fondo, tutti noi liberali, al di là delle nostre differenze e delle nostre divergenze abbiamo una cosa che ci accomuna: la sete e la voglia di Libertà.

Essa è come quel caffè amaro, che bevi ogni mattina prima di andare all’Università o prima di andare a lavorare.

Probabilmente lo preferivi dolce, preferivi un aiuto da parte di qualcuno o qualcosa per buttarlo giù appena sveglio. Le prime volte non ti va a genio, eppure, subito dopo si rivela indispensabile, tanto da renderti quasi disgustoso quel sapore dolce, frutto della tua precedente abitudine.

La Libertà è parte imprescindibile del nostro essere, è quella cosa che fa esprimere il meglio o il peggio di noi e di cui nessuna persona sulla terra deve fare a meno.

Secondo Jefferson, siamo liberi di fare tutto; abbiamo la libertà di leggere un libro senza che nessuno ce lo impedisca, abbiamo la libertà di credere nel dio che più ci piace o di esternare come vogliamo il nostro orientamento politico o sessuale.

Eppure, spesso, questa Libertà rischia di estendersi troppo oltre, tanto da calpestare quella di altre persone che ci stanno vicino.

Se ci riflettiamo bene, essere liberi ci dà la possibilità di non sentirci incatenati, di avere la possibilità mentalmente, ma soprattutto fisicamente di fare ciò che più vogliamo. La libertà, quindi, in senso assoluto altro non è che la totale mancanza di vincoli e perciò non esiste legge, entità divina o altro che possa regolarla nell’immediato.

Considerate ad esempio i Nazisti. Hanno avuto la libertà di deportare il popolo Ebraico e di mandarlo a morire nei vari campi di concentramento di Auschwitz-Birkenau o Bergen Belsen. Pensate ai Sovietici o ai Comunisti cinesi, che perseverando in questo orrore si sono sporcati le mani del sangue di oltre cento milioni di persone.

Ritenevano di avere la libertà di farlo, nessuno glielo ha impedito e nessuno ha potuto o voluto fare niente per impedirglielo.

Eppure, la loro libertà è arrivata a calpestare quella di oltre cento milioni di individui che da un giorno all’altro si sono visti privati di quella che potrebbe essere definita come la Libertà più grande: la Libertà alla Vita.

Possiamo prendere in considerazione casi anche meno gravi, il furto ad esempio.

Un ladro ha la libertà fisica di entrare a casa tua, prendersi il tuo bel televisore da 64” e andarsene via senza problemi, eppure nel fare questo egli sta calpestando la tua Libertà di poter vedere qualsiasi cosa tu voglia, tramite il frutto del tuo lavoro e del tuo sacrificio.

Arriva a questo punto la prima considerazione che potrebbe definire DOVE si possa godere la propria libertà, ovvero la proprietà privata.

Spesso mi domando cosa ci differenzi dagli altri animali. Pensate alle Aragoste.

Sto leggendo in questo periodo il famoso libro “12 regole per la Vita” di Jordan Peterson ed è incredibile come egli, nella formulazione della sua prima regola utilizzi l’esempio caratteriale e comportamentale di questi animali per legittimarla.

Non voglio certo farvi un riassunto di quel capitolo, sebbene vi raccomandi sinceramente di leggerlo. Voglio, però, prendere quell’esempio per dirvi come nella mente delle aragoste si sia formato un certo elemento comportamentale per la loro “scalata sociale” e per attaccare, più che per difendere, la libertà dei loro simili.

Qualcuno sarà lì pronto a obiettare il contrario e lo capisco, ma credo che ciò che ci differenzi di più dal mondo animale sia la volontà di non attaccare la libertà di chi ci sta accanto.

 Sebbene qualcuno con una tale attitudine esista, in generale, la nostra volontà rimane sempre quella di difendere la nostra libertà.

Diventa importante in questo modo per ognuno di noi difendere la Proprietà Privata, il frutto del proprio lavoro, nonché ciò che gli appartiene.

Quindi, dov’è che finiscono i nostri diritti, frutto della nostra libertà?
Forse non sono la persona adatta per rispondere a questa domanda, ma in generale mi verrebbe da dire che tutto può dipendere da un punto di vista personale, dalla propria indole caratteriale, dalla propria educazione e probabilmente dalla nostra capacità di comportarci da individui autonomi all’interno di una società composta da migliaia, milioni o miliardi di individui.

In generale potremmo pensare che essa arriva ad essere “troppa” quando facciamo del male fisico a delle persone, violando la loro proprietà corporea; Oppure quando entriamo in casa d’altri privandoli di qualsiasi cosa possa essere di loro proprietà.

Potremmo dunque arrivare a dedurre che la proprietà, di qualsiasi tipo, possa rappresentare una sorta di concretizzazione della nostra libertà e potrebbe diventare un buon punto di inizio per cercare di capire quali potrebbero essere questi limiti.

Ma a questo punto, arriva si presenrta un altro problema: se la Libertà può arrivare ad esprimersi tra le tante forme, anche con la proprietà privata dobbiamo noi preoccuparci della difesa della nostra proprietà?

Se qualcuno mi vuole fare del male, ho il diritto di difendermi? Se qualcuno vuole entrare in casa mia per rubare il mio televisore, ho il diritto di fare il possibile per far si che i miei cari rimangano illesi?

A queste domande, magari, eviterò di rispondere, sia a causa dell’accesa diatriba legale ancora in atto tra i nostri migliori Magistrati, sia perché rimane, a volte  un argomento di discussione tra noi Liberali.

Ma mi permetto di dire allo stesso modo un’altra cosa: il possedimento della libertà, per quanto detto prima, non impone che essa verrà sempre rispettata e non è detto che al mondo non esistano persone volenterose di “espandere” la propria anche a discapito della nostra.

Nasce quindi un altro concetto, che dovrebbe sempre essere scritto indelebilmente nella nostra testa: la responsabilità di ognuno di noi.

Come ho detto prima, se la libertà può essere in qualche modo rappresentata dalla nostra proprietà, ciò non implica che questa rimarrà imprescindibilmente sempre nostra.

Pensiamo a me bambino, a quando tra una lezione e l’altra mi divertivo con i miei amichetti a scambiarmi le figurine di Dragon Ball o di ciò che più andava di moda in quel periodo.

Avevo le mie figurine, erano mie, eppure c’era sempre qualche piccoletto più egoista di me che regolarmente provava a ledere i miei diritti e la mia Libertà tentando di rubarmene qualcuna.

A volta me ne accorgevo, altre volte no, altre volte lasciavo stare. Eppure, accadeva e la mia Libertà veniva violata.

Pensavo fosse un’ingiustizia e probabilmente lo era. Ma era anche colpa mia, perché nel mio esibire le mie figurine non avevo preso le giuste precauzioni affinché queste non venissero sottratte.

Pensavo che l’esistenza sola della libertà fosse indice di inviolabilità della stessa e mi beavo fino a quando non mi vedevo privato della stessa. Non ero stato responsabile, avrei dovuto prendere delle precauzioni.

Voglio portare alla vostra attenzione un evento accaduto durante la partita Lecce-Inter di quest’anno, finita 1-1.Durante quella partita è accaduto un episodio deplorevole, che fa male alla mia gente e non rappresenta minimamente quello che è lo spirito di accoglienza e di calorosità della mia terra.

Come dicevo, ad un certo punto della partita qualcuno in Curva Sud ha pensato bene (si fa per dire) di prendere la sciarpa di un tifoso interista, la cui unica colpa era quella di aver voluto vedere la sua squadra del cuore in mezzo a centinaia di altri tifosi Leccesi e di bruciarla di fronte agli occhi increduli degli altri tifosi.

Ora, non so quali siano state le dinamiche effettive del misfatto, ma mi viene da dire che il tifoso interista aveva la libertà di fare ciò che ha fatto, ovvero vedere la sua squadra del cuore allo Stadio anche se in mezzo a centinaia di tifosi rivali. È ciò che si fa in una società civile, quante volte durante i derby più importanti d’Italia vediamo le tifoserie condividere i medesimi settori nel pieno rispetto reciproco? Eppure, la realtà al Via del Mare è un po’ diversa e questo lo si sa. Molti tifosi vanno allo stadio non perché interessati alla partita, ma perché sono interessati a tutt’altro.

E accade così che un poveruomo che voleva solo vedersi una partita torna a casa sua svilito, amareggiato, magari arrabbiato perché qualcun altro si è permesso di violare la sua libertà, esercitando la forza, umiliandolo e facendogli del male per il solo gusto di farlo.

Ripeto, non so quali siano state effettivamente le dinamiche e forse potrei sbagliarmi. Ma l’uomo stesso che ha subito il danno non è solo una vittima ma anche un responsabile del danno subito.

Può far male dirlo e può far male sentirlo dire, ma egli è responsabile per il solo fatto che non sia stato capace in quel frangente di difenderla. Avrebbe potuto farlo con la forza, in quanto legittima difesa, oppure avrebbe potuto trovare altre precauzioni affinché si potesse vedere la partita senza che nessuno arrivasse a violare la sua proprietà, nonché la sua libertà.

Il punto spesso è questo: viviamo in un paese in cui esistono delle leggi che puniscono (giustamente) determinate azioni, tra cui l’omicidio, il furto o la violenza di ogni tipo e crediamo che la sola esistenza di queste leggi possa in qualche modo difenderci da assassini, ladri e violentatori di ogni tipo. Invece no.

La legge serve per punire, ma durante la messa in atto del reato come può essa difenderci? Pensate che un assassino o un ladro in procinto di compiere un reato si fermino nella loro azione criminosa solo perché esiste la legge? La risposta è no.

Ed è qui, in questo limbo in cui nessuno può difendere noi e la nostra libertà che sale in cattedra la nostra responsabilità.

È lei infatti che ci permette di evitare spesso e volentieri che ci venga fatto del male, è lei che ci dà la possibilità di goderci ciò che è nostro a dispetto di tutti coloro là fuori pronti a togliercela.

È lei, assieme al nostro buonsenso ed alla nostra forza d’animo e fisica che ci permette di fare in modo che la nostra libertà non venga calpestata e usurpata da altri. Quindi, se non siamo in grado di capire fin dove può estendersi la nostra libertà, dovremmo quantomeno imparare a difenderla e a responsabilizzarci. Ciò non toglie che non possano comunque accaderci cose brutte, ma questo è senza dubbio il primo passo per imparare che la libertà altro non è che un valore tanto forte quanto volatile e che da un momento all’altro ci può essere portata via.

Dunque sta solo a noi imparare a difenderla, perché se la libertà passa anche per la nostra proprietà, la difesa della stessa è il primo punto per imparare a comprenderla il meglio possibile.