È veramente tutta colpa del capitalismo?

La crisi del 2008, i cambiamenti climatici, il lavoro sempre più asfissiante, lo stress in aumento, i poveri sempre più poveri e ricchi sempre più ricchi, insomma, per qualsiasi male di questo mondo la colpa è del capitalismo . È il nuovo morbo del ventunesimo secolo, tutti gli danno la caccia, ma nessuno sa cosa sia. 

Una parola che ormai ha perso il suo vero significato, un orpello ideologico a cui dare la colpa se qualcosa non funziona. Ma cerchiamo di capirne qualcosa.

Il capitalismo è l’attuazione di quell’ideologia chiamata “liberismo”. Ma il liberismo in realtà non esiste, non è mai esistito e non esisterà mai. É semplicemente la libera cooperazione di individui, che senza aver bisogno di un “progettista”, lo stato o il dittatore che sia, fanno fronte alle difficoltà installando relazioni l’un l’altro per trovare la soluzione ai problemi. 

L’unica regola da accettare per un sistema capitalista è la seguente: lasciare gli individui liberi di approcciarsi alla propria vita e ai propri beni come vogliono, a patto di non danneggiare gli altri.  John Locke, John Stuart Mill, Immanuel Kant, Karl Popper, Benedetto Croce, Luigi Einaudi, tutti questi pensatori si sono battuti per enunciare qualcosa di fondamentale alla società: la libertà personale non produce caos, povertà e iniquità ma bensì armonia, progresso e benessere.

Se qualsiasi sistema sociale non ha mai funzionato, se controllato da qualcuno o da qualcosa, il motivo è semplice: la realtà è estremamente complessa per capirla. In un sistema liberista, non c’è nessuna presunzione di conoscere la realtà in quanto tale, ed è proprio per questo che il capitalismo ha creato un benessere esponenziale.

Basti pensare ai grandi obbiettivi raggiunti negli ultimi anni. In cinquant’anni la popolazione mondiale è raddoppiata[1], sintomo che il benessere è aumentato e le malattie mortali diminuite.

Infatti è grazie alla cooperazione internazionale di menti di tutto il mondo che abbiamo debellato malattie un tempo endemiche come la meningite e il vaiolo. Inoltre la penuria non è più un problema, e le morti per incidenza di omicidi sono al di sotto del 1%.[2]

In soli cento anni abbiamo avuto, l’iPhone, la lavatrice, il PC, internet, l’aria condizionata e un aumento della ricchezza generale di ogni individuo. 

Secondo i critici del capitalismo, la crescita della popolazione non è una giustificazione, infatti, dicono, le diseguaglianze sono aumentate rendendo i poveri sempre più poveri e i ricchi sempre più ricchi. Se si analizzano i dati, però, si nota come se ne 1820 l’84 % delle popolazione mondiale viveva ancora in condizioni di estrema povertà, oggi la percentuale è scesa al di sotto del 10 per cento e continuare ad andare giù!

I decessi per carestia sono infimi rispetto al passato, il reddito pro capite è oggi il decuplo di quanto fosse nel 1850 e l’italiano medio è quindici volte più ricco che nel 1880. [3]

Per i più scettici, osserviamo l’esempio della Cina: da quanto si è aperta al capitalismo, 700 milioni di cinesi sono stati sottrarti alla povertà estrema. [4]

In poche parole, oggi, grazie al capitalismo tanto odiato; viviamo più a lungo, siamo pieni di cibo, le malattie non sono più un problema e siamo tutti più ricchi.

Ma di fronte questo benessere allora perché il capitalismo ci sta antipatico? Dietro i giudizi più drastici e negativi sul sistema capitalista ci sono in realtà umanissimi bisogni di trovare un ordine nelle cose e cercare un colpevole per i nostri problemi personali: e c’è la furbizia tutta politica di attribuirli alle forze impersonali dell’economia.

Il bias della negatività è non è mai stato più forte; tendiamo ad esagerare l’importanza delle cose che vanno male dimenticando quelle che invece vanno bene. Il liberismo è il capro espiatorio, il colpevole a cui attribuire ogni complicazione della vita.

La società moderna ha ancora molti problemi da affrontare, ma se oggi abbiamo raggiunto gli obbiettivi così ambiti in passato, è grazie a quel capitalismo che tutti odiano.

[1] https://ourworldindata.org/world-population-growth

[2] Yuval Noah Harari, “Homo Deus”, p. 19-20, Ediz. Bompiani

[3] Rutger Bregman, “Utopia per realisti”, p 2-3-4 Ediz. Feltrinelli

[4] Rutger Bregman “Utopia per realisti”, p 7 Ediz. Feltrinelli

 

 

 

Socialisti contro ricchi: la fobia del benessere

Le imprevedibili virtù dell’ignoranza

Le fila dei socialisti democratici statunitensi (liberal*, democratic socialists, social justice warriors, etc.) traboccano di personaggi tanto interessanti quanto ridicoli: Bernie Sanders, il multimilionario buon samaritano che predica l’uguaglianza e la redistribuzione dalla sua terza casa di proprietà da $600,000 [1]. La senatrice Elizabeth Warren, che per ottenere qualcosa dalla vita ha dovuto fingere di essere una nativa americana per poi essere pubblicamente svergognata dal recente test del DNA [2], e infine l’astro nascente dei guerrieri della giustizia sociale: Alexandria Ocasio-Cortez!

Questa giovane donna rappresenta la versione americana dei mali che da tempo affliggono il nostro paese: l’analfabetismo economico, l’idea “uno vale uno”, la totale assenza di vergogna o pudore nell’affermare incorrettezze, la fascinazione dell’ignoranza.

Ma come ha fatto una cameriera del Bronx – che nonostante una laurea in Relazioni internazionali accusa Israele di occupare militarmente la Palestina – non in grado di distinguere le tre funzioni dello Stato, a diventare la figura di riferimento della Sinistra radical-liberal* statunitense?

La ricetta economico-politica della Ocasio-Cortez è estremamente semplice quanto pericolosa: [3]

  • Assistenza sanitaria gratuita per tutti
  • Educazione gratuita per tutti
  • Reintroduzione del Glass-Steagal Act
  • Diritti delle donne e delle minoranze
  • Salario minimo di 15 $/h aggiustato al tasso di inflazione
  • Lotta al cambiamento climatico (il ridicolo Green New Deal)
  • Lotta alle armi
  • Abolizione dell’ICE (Immigration and Customs Enforcement)
  • Ritiro delle truppe dal Medio Oriente

Come al solito un bel programma, pieno di proposte che vanno al cuore degli elettori, al punto che sorprende non trovare l’abolizione della fame nel mondo, la fine di tutte le guerre, e unicorni-arcobaleno per tutti.

Tuttavia, nonostante la varietà di ideali, questo progetto rimane drammaticamente povero in contenuti, povero in dati, e dal costo economico spropositato. La domanda è semplice: chi pagherà i 33 TRILIONI di dollari che Medicare For All – da solo – potrebbe costare solo nei primi dieci anni? [4]

Ovviamente i più ricchi, il Top 1%, che negli ultimi trent’anni avrebbe mangiato in testa al povero lavoratore americano. La proposta della Ocasio-Cortez è quindi naturale: introdurre una nuova aliquota fiscale marginale del 70% sulla parte di reddito eccedente i 10 milioni di dollari, che metterà finalmente fine ai tempi d’oro in cui l’1% più ricco pagava molto meno del restante 99%.

O forse no.

No. Perché tutti i dati economici mostrano in realtà esattamente l’opposto.

 

Cosa dicono i dati?

I dati dell’IRS (Internal Revenue System, l’Agenzia delle Entrate statunitense) mostrano come nel 2014 i 400 maggiori contribuenti americani per reddito (i Top 400) abbiano versato quasi 30 miliardi di dollari in tasse, il 2.13% del totale delle tasse federali per il 2014, con una media di 75 milioni di dollari a testa, coprendo di fatto DA SOLI il budget annuale della NASA e dell’EPA (Ente Protezione Ambientale). [5][6]

Osservando il grafico inoltre, si può notare come questa percentuale sia più che raddoppiata negli anni, passando dall’1.04% del 1992, al 2.13% del 2014, aumentando nonostante il taglio delle tasse sui redditi più alti, operato da George W. Bush nel 2003; in quegli stessi anni (2003-2007) il contributo dei Top 400 crebbe considerevolmente piuttosto che diminuire.

Un altro dato estremamente interessante è quello secondo il quale, sempre secondo l’IRS, negli ultimi anni, nonostante il livello di tassazione sui redditi più alti sia progressivamente diminuito dal 1945 ad oggi, il contributo totale del Top 1% sia vertiginosamente aumentato fino a superare definitivamente quello del Bottom 90%. In poche parole, l’1% della popolazione americana paga più tasse del 90% dell’intera popolazione messa insieme. E si noti sempre come il tax-cut di Bush nel 2003 non abbia minimamente fatto diminuire il contributo dell’1% più ricco, ma al contrario l’abbia incrementato. [7]

Al giorno d’oggi l’1% più ricco paga il 40% del totale delle tasse sul reddito. Ma il dato diventa ancora più significativo se consideriamo quello che in America viene definito il Top 5%, il secondo gruppo dei più “privilegiati”: la classe media-alta. Questi due gruppi combinati, il Top 1% e il Top 5%, contribuiscono da soli per il 60% del totale delle tasse versate allo Stato americano. [8]

E sempre i dati dell’IRS ci mostrano come i redditi più alti non solo contribuiscono in modo straordinario alle entrate, ma pagano anche molto di più in percentuale rispetto ai redditi più bassi. Al punto che il 50% dei contribuenti versa il 97.3% delle tasse. [8]

La progressività del sistema fiscale americano è rimasta invariata negli ultimi 30 anni (quando non è addirittura aumentata) nonostante la progressiva diminuzione delle aliquote sui redditi più alti, e anzi, come abbiamo visto, il contributo del Top 1% è aumentato significativamente fino ad arrivare al 40% del totale delle tasse versate in un anno. E solo nel 2006 le politiche fiscali statunitensi hanno redistribuito circa 1.4 trilioni di dollari dal 40% più ricco al 60% più povero, mentre le diseguaglianze nella distribuzione del reddito si sono stabilizzate. [8] [9]

Inoltre, per comprendere la completa follia della proposta della Ocasio-Cortez di un’aliquota marginale al 70% sulla parte di reddito eccedente i 10 milioni di dollari l’anno basta analizzare le prospettive di gettito fiscale aggiuntivo che questa potrebbe generare.

Secondo un recente studio della Tax Foundation, un’aliquota marginale del 70% applicata ai redditi oltre i 10 milioni di dollari l’anno porterebbe infatti nelle casse dello Stato americano 291 miliardi di dollari nel periodo 2019-2028 a fronte di una spesa di 32.6 trilioni nello stesso periodo solo per la prima delle promesse elettorali, Medicare For All, l’assistenza sanitaria gratuita e universale. [10]

A peggiorare questa abissale disproporzione tra gettito aggiuntivo e nuova spesa, si consideri che i risultati di questa politica fiscale potrebbero essere decisamente inferiori, dal momento che un simile aumento esponenziale dell’aliquota massima potrebbe scoraggiare i contribuenti a dichiarare o realizzare livelli di reddito superiori ai 10 milioni di dollari l’anno.

 

La parola ai fatti, non alle buone intenzioni

In conclusione, nessun sistema fiscale è perfetto, ma la storia degli ultimi decenni di quello statunitense è la storia di una semplice ricetta economica che ha funzionato: più bassa è la pressione fiscale, più tasse vengono pagate (dai più ricchi in primis), più l’economia cresce. Infatti, una pressione fiscale accettabile non solo non scoraggia il contribuente, costringendolo a limitare le sue prospettive di crescita per evitare il passaggio all’aliquota successiva, ma permette una maggiore immissione di liquidità nell’economia reale sotto forma di spesa e investimenti, gli unici due fattori in grado di supportare un crescita solida nel lungo periodo.

Le politiche e le proposte della sinistra liberal americana sono dettate da una precisa agenda fondata sull’invidia sociale, l’odio di classe, e la finta giustizia sociale, condite dalla più assoluta ignoranza economica e dal rifiuto dei dati empirici.

Questa agenda mira alla distruzione della più florida economia mondiale e dell’unica nazione fondata su una promessa di Libertà: è infatti evidente che la dittatura economica a cui mirano i Democratic Socialists sia solo l’anticamera della dittatura morale dello Stato etico e del politicamente corretto, a cui segue necessariamente la morte del diritto di parola e della libertà espressione.

 

 

 

 

 

*con il termine statunitense liberal si indica una corrente politica che in Europa verrebbe definita “socialista”. Il termine liberal non ha alcuna affinità con il Liberismo economico, il Liberalismo classico, o il Libertarismo americano.

FONTI:

[1] https://www.washingtonexaminer.com/bernie-sanders-slams-billionaires-gets-reminded-he-owns-3-houses

[2] https://www.foxnews.com/politics/warren-expressing-concern-about-releasing-dna-analysis-on-native-american-heritage-report-says

[3] https://ocasio2018.com/issues

[4] https://www.bloomberg.com/news/articles/2018-07-30/study-medicare-for-all-bill-estimated-at-32-6-trillion

[5] https://www.cato.org/blog/taxes-tippy-tippy-top?fbclid=IwAR1SWwcNuR-7aHT_kIb8FcHV7RzUUmYOsN99l_Cnvo-zFgI7dXI82vzWFTI

[6] https://www.irs.gov/statistics/soi-tax-stats-top-400-individual-income-tax-returns-with-the-largest-adjusted-gross-incomes

[7] https://taxfoundation.org/top-1-percent-pays-more-taxes-bottom-90-percent/

[8] https://taxfoundation.org/summary-latest-federal-income-tax-data-2016-update/

[9] https://taxfoundation.org/official-statistics-inequality-top-1-and-redistribution/

[10] https://taxfoundation.org/70-percent-tax-analysis/

 

N.B. tutti i dati della Tax Foundation sono dati ricavati dal sito dell’IRS, consultabili attraverso i link riportati in fondo agli articoli in citazione.

Dovremmo rivalutare Marx e Marxismo? (Spoiler: no)

Dicevamo del paese dei due pesi e delle due misure. In quest’orizzonte rientra il nuovo libro di Marcello Musto,Karl Marx. Biografia intellettuale e politica.[1] Lui, come molti altri fanno ogni giorno, si è chiesto se “la dottrina marxista non fosse salvifica e geniale e se non siano stati certi uomini nella storia ad averla mal interpretata se non addirittura usata come scudo dietro cui nascondere i propri progetti perversi e violenti”.

Lenin e Stalin sono stati due attenti discepoli di Marx oppure si è trattato solamente di due criminali che avrebbero potuto utilizzare le idee partorite anche da Tizio o Caio? “È doveroso distinguere la concezione di Marx da quelle dei regimi che, nel XX secolo, dichiarando di agire in suo nome, perpetrarono, invece, crimini ed efferatezze”.

L’operazione, sebbene intrigante, è già vista e rivista, e vuole in ogni modo operare arbitrariamente una scissione tra il marxismo e i circa cento milioni di morti che vengono addebitati ai regimi comunisti più noti. Sebbene il comunismo continui a mietere vittime, prosegua nel generare miseria, perpetui nell’annientamento dell’individuo: sembra essere oggi ancora in voga; non mancando di protoumani che, con le terga a mollo nelle acque occidentali, si sgolino nel tesserne le lodi. 

Nonostante questo, il tentativo di edulcorarne i difetti, risulta del tutto velleitario: per ogni ideologia, l’unico giudizio possibile è quello riguardante la sua concreta applicazione nella realtà e sugli individui in un dato momento storico. Non esiste altra possibilità per giudicare le idee di qualcuno, altrimenti useremmo lo stesso criterio con cui si tende ad ignorare i risultati referendari: inaugurando nuovi referendum, sin quando non uscirà il risultato desiderato, come per la Brexit. Ecco, il marxismo ha generato i regimi comunisti, e questo è per adesso l’unico dato possibile cui dobbiamo attenerci. 

La dottrina marxista è accentratrice, fortemente statalista e interventista nell’economia e, dunque, nelle vite dei cittadini. I prncipi fondamentali del Marxismo, ossia l’accentramento dei mezzi produzione nelle mani dello Stato e l’abolizione della proprietà privata, prevedono il ruolo preponderante dello Stato che sarà chiamato a regolamentare ciò che -nella società capitalistica- sorge spontaneo.

Il marxismo è difatti anti-mercatista, nega la libertà di scambio degli individui, e sopperisce a questa mancanza con l’interventismo dello Stato centrale, che dovrà pianificare la creazione dei beni e il loro successivo movimento nelle mani dei cittadini.

Inoltre, l’assunto “Il lavoro crea valore”, ossia “il mero lavoro conferisce valore ai beni prodotti” è errato, ed è evidente, poiché sono i movimenti insiti nel mercato ad aumentare o diminuire il valore di un bene, ossia la maggiore o la minore domanda da parte dei consumatori, i quali, fuori dalla logica marxista, potranno liberamente chiederne e acquistarne nelle quantità desiderate conferendogli inevitabilmente maggior valore.

In Unione Sovietica difatti è stata creata una quantità enorme di lavoro, ma chissà come mai la miseria rimaneva preponderante e invincibile. Il marxismo, e la sua mania accentratrice, va di pari passo col giacobinismo noto nella Rivoluzione francese, e chiediamoci come mai noi oggi viviamo in un Paese fondato su decentramento dei poteri alle autonomie locali.

Lenin, in Stato e rivoluzione, scrisse che “il socialismo consiste nella distruzione dell’economia di mercato. Se rimane in vigore lo scambio, è persino ridicolo parlare di socialismo”.[2] E poi, da altri testi fondanti, ricordiamo che “la società va concepita come un grande ufficio e una grande fabbrica, dove vi sarà la sostituzione totale e definitiva del commercio con la distribuzione organizzata secondo un piano”, cosicché lo Stato sia in grado di “tutto correggere, designare e costruire in base a un criterio unico”, “giungendo in tal modo alla centralizzazione assoluta”. 

E oggi dovremmo perder tempo nel ritenere che Stalin e i suoi colleghi non facessero riferimento a questa dottrina durante la creazione dei loro piani quinquennali? Si basavano forse sulla dottrina della favola di Cappuccetto rosso? Senza alcun tipo di rispetto per la realtà, e per ciò che quella realtà tragica racconta, Musto afferma che “molti dei partiti e dei regimi politici sorti nel nome di Marx hanno utilizzato il concetto di dittatura del proletariato in modo strumentale, snaturando il suo pensiero e allontanandosi dalla direzione da lui indicata. Ciò non vuol dire che non sia possibile provarci ancora[3]“. Il suo auspicio, dunque, è questo: tocchiamo ferro, sperando che tutto ciò rimanga un mero vaneggiare.

L’aspetto divertente del tutto, riallacciandoci con la premessa iniziale dei due pesi e delle due misure, consiste in un esercizio mentale che tutti noi dovremmo fare: proviamo a immaginare cosa sarebbe accaduto se un autore avesse scritto che il razzismo in sé è un valore da tenere in considerazione, e che la sua applicazione hitleriana fu un banale errore, se non una mistificazione della dottrina in sé. Beh, innanzitutto nessun editore lo avrebbe pubblicato. Se, poi, qualche coraggioso gli avesse concesso spazio avremmo assistito a uno stracciamento di vesti collettivo, con annessa discesa in campo di associazioni e politici in difesa della giustizia sociale.

Alcuni intellettuali, poi, ci avrebbero ammorbato, furoreggiando in diretta nelle tv nazionali, trovando inspiegabili nessi tra l’apologia del nazismo e la criminalità organizzata. Di Hitler sono innominabili anche i quadri (sì, disegnava e non era granché), altrimenti intervengono i guardiani sempre svegli del politicamente corretto, che sanzionano e puniscono; come alcuni insegnanti nelle scuole spesso già fanno, varcando i limiti della propria professione.

Perché, siamo chiari, anche Stalin era solo un incompreso.

Note: [1] Marcello Musto, Karl Marx, biografia intellettuale e politica, Einaudi.

[2] Lenin, Stato e Rivoluzione.

[3] Marcello Musto, Karl Marx, biografia intellettuale e politica, Einaudi.

 

Stipendio Minimo, ossia come affossare il mercato del lavoro

Breve storia della follia socialista

Negli ultimi 20 anni i movimenti liberal* e progressisti statunitensi hanno chiesto al Congresso, sempre più insistentemente, prima l’approvazione, poi l’aumento, del Minimum Wage, il salario minimo garantito. Nel 2009, sotto la presidenza di Barack Obama è stato stabilito a livello federale un salario minimo garantito di $7,25 all’ora. Nonostante questo provvedimento drastico e discutibile, dal 2009 in poi, sempre più numerosi membri della sinistra americana sostengono che $7,25 non siano sufficienti e che, addirittura, bisognerebbe raddoppiare il Minimum Wage, portandolo a $15,00/h.

La sinistra liberal, i progressisti, e il partito Democratico in primis, credono che questa misura sia efficace e fondamentale per:

  • ridurre la povertà
  • ridistribuire ricchezza
  • garantire la possibilità di vivere dignitosamente anche lavorando full-time a salario minimo
  • creare posti di lavoro
  • aumentare la quantità di denaro circolante (e quindi i consumi)
  • ridurre i programmi di assistenza sociale

 

Questo provvedimento, come tutte le crociate di giustizia sociale, presenta tuttavia dei gravi difetti. Si concentra infatti sui risultati nel breve termine, è un salasso economico per le piccole-medie imprese. Inoltre distorcendo completamente il mercato e le sue leggi, ottiene l’effetto opposto ai propositi di partenza:

  • non riduce la povertà, la accresce
  • non ridistribuisce la ricchezza, la riduce
  • non crea posti di lavoro, crea disoccupati

 

Perché solo 15$/h? Perché non 45$/h?

Per capire l’errore di fondo del Minimum Wage e le sue nefaste conseguenze dobbiamo prima ricordare qual è il significato del salario.

Siamo pagati per i benefici e i miglioramenti che apportiamo alla società in termini materiali o morali. Lo stipendio, in quanto corrispettivo di questo miglioramento, tiene conto della complessità della mansione svolta, del relativo rischio, della sua unicità o peculiarità. È quindi evidente che un lavoratore scarsamente qualificato debba necessariamente avere uno stipendio inferiore rispetto a uno altamente qualificato. Questo non per fare un torto, ma perché la sua specifica mansione potrebbe essere svolta da una qualunque persona con una preparazione minima e senza particolari titoli di studio.

 

L’errore del Minimun Wage

Il Minimum Wage è una radicale distorsione delle necessità di mercato, della legge della domanda e dell’offerta e perfino dell’umano buon senso. Se l’attuale salario minimo di 7,25$/h è un provvedimento discutibile, 15$/h sarebbero un colpo devastante anche per un mercato del lavoro mobile ed elastico come quello statunitense. I più importanti difetti di questa misura sono:

  • aumento radicale del costo del lavoro e della manodopera
  • onere pesantissimo, soprattutto per le piccole-medie imprese
  • obbligo per i datori di lavoro di ridurre le ore di lavoro dei dipendenti per contenere i costi di produzione
  • fine per i giovani delle possibilità di trovare facilmente uno “starting job” ed inserirsi nel mondo del lavoro
  • contrazione della domanda di manodopera e aumento della disoccupazione
  • chiusura di attività produttive perché nell’impossibilità di sostenere l’aumento dei costi di produzione
  • ricorso a macchine per sostituire la manodopera umana ormai troppo cara

 

Per concludere, vorrei ricordare una delle più profonde e significative argomentazione della sinistra americana a favore del Minimun Wage, e cioè che chiunque, lavorando full-time da McDonald’s, dovrebbe essere in grado di condurre una vita dignitosa. Nonostante il lavoratore abbia tutta la mia simpatia, il problema è che, in un mercato del lavoro flessibile ed insaziabile come quello americano, in cui il tasso di disoccupazione ha toccato i minimi storici del 3,5%, non si dovrebbe anche solo lontanamente credere che McDonald’s possa o debba offrire posti di lavoro che permettano di vivere dignitosamente lavorando 40 ore a settimana.

 

 

*con il termine statunitense liberal si indica una corrente politica che in Europa verrebbe definita “socialista”. Il termine liberal non ha alcuna affinità con il Liberismo economico, il Liberalismo classico, o il Libertarismo americano.

 

 

Quando l’Ungheria era comunista

Nel 1945, centinaia di migliaia di Ungheresi entrarono in possesso di terreno coltivabile grazie alla redistribuzione delle terre. Dopo aver subito gli orrori del nazismo, i vecchi e nuovi proprietari confidavano che la propria stabilità economica non fosse più in pericolo. Tuttavia una nuova minaccia incombeva sull’Ungheria: il comunismo.

 

Nonostante la guerra fosse terminata,

i contadini dovevano continuare a pagare dei dazi molto ingenti. La popolazione ungherese doveva provvedere alle spese statali, alle provvigioni delle truppe sovietiche occupanti e alla produzione delle derrate alimentari per l’indennità di guerra. Il prodotto era dunque diviso in tre parti inique: una restava nelle mani del contadino e della sua famiglia, una veniva messa da parte per assicurare il raccolto dell’anno successivo, e la terza doveva essere ceduta ai sovietici.

Contemporaneamente alla presa del potere, i comunisti intrapresero una spietata campagna contro la borghesia Ungherese. Fra il 1948 e il 1953 triplicarono i già ingenti dazi che i contadini erano tenuti a versare. Nel 1952 cambiarono anche l’ordine della distribuzione: prima di tutto i contadini dovevano cedere la quota prevista ai sovietici, per poi mantenere una quota da parte per l’anno successivo. Solo il poco rimanente, ammesso che ce ne fosse, sarebbe rimasto a disposizione dei contadini.

Molto spesso alle famiglie non rimaneva abbastanza di che vivere. Quando alcuni coraggiosi si rifiutavano di pagare, iniziavano le intimidazioni: gli ufficiali esattori arrivavano insieme agli uomini dell’ AVH, la polizia segreta comunista ungherese, che terrorizzava l’intero borgo.

 

Qual era il folle disegno dell’Unione Sovietica?

In preparazione di una terza guerra mondiale, l’Unione Sovietica e i suoi stati satellite, compresa l’Ungheria, dovevano provvedere a enormi investimenti per favorire l’industria pesante. Ragion per cui i burocrati sottraevano ingiustamente ai borghesi gran parte dei loro averi. Inoltre iniziava a sorgere il bisogno di manodopera da sfruttare.

Il Partito non risparmiò alcuno sforzo nel distruggere lo stile di vita tradizionale della campagna e a deportare i lavoratori non in grado di provvedere alle spese imposte. In ogni caso, il sistema comunista non poteva sopportare la sopravvivenza di una comunità economica indipendente. Per protrarre il proprio dominio dittatoriale all’intera nazione, lo Stato-Partito organizzò la sistematica eliminazione della classe di proprietari terrieri Ungheresi, ancora legata ai suoi valori conservatori, ai propri costumi e alle proprie tradizioni.

 

Chi era nel mirino dello Stato-Partito?

Il bersaglio degli attacchi era il “Kulako” secondo il modello Sovietico. Il termine Kulako non ha equivalente nella lingua ungherese. Chiunque non vivesse in condizioni di povertà assoluta, in qualsiasi momento, poteva diventare un Kulako: nemico pubblico e preda dei comunisti.

Gli amministratori stilavano le liste dei Kulaki e i contadini più eminenti e di successo nel villaggio apparivano su di esse. Stava ai funzionari di partito, che puntualmente abusavano del proprio potere, decidere chi punire. I burocrati vessavano continuamente i Kulaki con tasse speciali, quote sempre maggiori, sottratte attraverso torture fisiche e psicologiche.

I comunisti assemblarono delle brigate e le addestrarono a tenere la popolazione sottomessa attraverso punizioni pubbliche, violenze e ispezioni continue. Gli agenti controllavano anche la spazzatura dei contadini, per assicurarsi che non nascondessero nulla allo stato.

I sovietici provarono a spezzare lo spirito delle persone attraverso lavoro forzato, evacuazioni improvvise e confische di proprietà ingiustificate, misero in piedi centinaia di migliaia di accuse false, migliaia di processi, che portavano sempre a prigionia prolungata e spesso ad esecuzioni. Processarono e incarcerarono quattrocentomila civili per “crimini contro la produzione comunitaria”, inoltre perseguitarono innumerevoli vittime senza un motivo giuridico. La resistenza era punita con la morte.

 

Il risultato? Disastroso.

Non è sorprendente che nel negli anni 50′ trecentomila lavoratori abbandonarono la propria terra, fuggendo nell’Europa liberale. I contadini rimasti persero la volontà di continuare a lavorare, dato che creando profitto avrebbero rischiato la propria vita. La situazione portò ad una drammatica scarsità di viveri. Il partito reintrodusse il razionamento del cibo e condannò i “sabotatori”.

 

Sabotatori?

Dato che il sistema socialista attribuiva ogni fallimento al sabotaggio di un nemico sconosciuto, era necessario trovare un capro espiatorio. I comunisti attribuirono la carenza di cibo ad alcuni dirigenti ungheresi di spicco. Furono tutti giustiziati. Vennero introdotti nuovi fantasiosi modi per punire i contadini: il reato di “Sabotaggio della trebbiatura” portava alla pena di morte. I comunisti punivano il macello di animali non autorizzato dall’autorità con imprigionamenti prolungati.

Come se non bastasse, il partito applicò il “Sistema d’Avanguardia dell’Agricoltura Sovietica” in tutta Ungheria: un modello terribilmente inefficiente. I comunisti svilupparono in Ungheria un piano di agricoltura direttamente orchestrato dal partito. I privati contadini erano costretti a coltivare secondo le direttive dei gerarchi, spesso controproducenti e inattuabili. Un tentativo notoriamente goffo fu la produzione forzata di cotone e riso, allora virtualmente non coltivabili in Ungheria.

Alla fine ogni resistenza della borghesia fu spezzata, e le ultime fattorie private vennero sottratte e collettivizzate.

 

La giustizia Ungherese, su modello Sovietico,

si liberò della presunzione di innocenza garantita dallo stato liberale, con il risultato che i carnefici potevano utilizzare accuse false contro le vittime. Le confessioni ottenute sotto tortura erano sufficienti. Le testimonianze parlano di pestaggi che spesso portavano alla morte. Era usanza colpire la vittima con un randello, per rompere denti e costole, per poi costringerlo a ingerire fino ad un chilogrammo di sale grosso. Non stava all’accusatore provare la colpevolezza dell’accusato, ma l’imputato doveva provare la propria innocenza, cosa ovviamente resa impossibile dalle circostanze.

La legge non proteggeva il cittadino, era anzi un’arma dello stato per colpirlo. Dieci anni dopo la fine della guerra, i comunisti continuavano ad uccidere e a rendere un inferno la vita di chiunque avesse a che fare con loro.

 

Socialismo significa schiavitù.
-Lord Acton

Serena Williams e l’eguaglianza nel tennis

La finale femminile degli US Open di tennis vedeva contrapposte Serena Williams, americana di 36 anni, contro una ventenne giapponese (ma cresciuta negli States), Naomi Osaka. Per chi non seguisse il tennis, Serena Williams è unanimemente considerata fra le più grandi giocatrici della storia, se non la più grande. Era la ovvia favorita, nonostante fosse tornata a giocare solo da pochi mesi dopo aver portato a termine la sua prima gravidanza.

La partita ed il suo risultato sarebbero rimasti normalmente confinati nel mondo degli appassionati, se non fosse stato per il feroce litigio fra Williams e Carlos Ramos, arbitro della finale.

La campionessa americana ha ricevuto 3 warning durante il match, finendo penalizzata con un intero game[1], l’ultimo dei quali per aver accusato l’arbitro di essere un ladro. Da appassionato, l’episodio mi era sembrato sul momento poco rilevante: è successo molte volte che giocatori abbiano ricevuto warning e conseguenti sanzioni, e spesso i giocatori le ritengono ingiuste e protestano platealmente a riguardo.

La novità è stata l’accusa di sessismo rivolta all’arbitro, dopo il match, da Serena Williams; l’americana ha sostenuto che Ramos non avrebbe mai punito così severamente un uomo e che il trattamento ricevuto è stato ingiusto. L’accusa sembra francamente incredibile a chi segue lo sport: non solo i maschi vengono abitualmente sanzionati di più (solo in questo US Open, 23 warning a 9), ma lo stesso Ramos, noto per la sua rigidità, si era scontrato in passato anche con grandi campioni maschi come Nadal e Djokovic. In maniera interessante, però, Serena ha ricevuto  l’appoggio sia della USTA (federazione tennistica americana) che della WTA (associazione giocatrici) [2]; la sua querelle in campo è ora diventata una battaglia di equità fra i sessi.

Il tennis è sempre stato all’avanguardia nelle battaglie femministe, ma questo non vuol dire che alcune lotte non siano eccessive e fuori bersaglio. Intendiamoci, il sessismo nel tennis esiste: ad esempio, la giocatrice francese Alizé Cornet è stata sanzionata proprio durante gli US Open per essersi cambiata la maglietta in campo, nonostante i suoi colleghi maschi lo facciano tranquillamente (la sanzione è stata poi cancellata, con le scuse dell’organizzazione); ed anni fa il torneo di Montréal utilizzò manifesti parecchio infelici per promuovere il tennis femminile.

Il problema è che la lotta sotto la bandiera dell’eguaglianza copre ormai ogni cosa: dalle polemiche poco credibili di Serena Williams contro l’arbitro a una questione ben più importante come i montepremi dei principali tornei; su quest’ultimo tema vorrei in particolare concentrarmi.

Il tennis è l’unico grande sport al mondo che prevede un montepremi uguale fra uomini e donne nei grandi tornei, che sono quasi tutti “combined”, cioè ospitano sia una competizione maschile che una femminile. La battaglia per la divisione paritaria dei montepremi cominciò negli anni ’70 grazie alla lotta della celebre tennista Billie Jean King; nei decenni seguenti si è sostanzialmente conclusa con l’adeguamento generalizzato dei montepremi femminili a quelli maschili. La lotta di King è diventata nel tempo un simbolo del femminismo, e tuttavia dobbiamo chiederci: è giusta questa battaglia?

Partiamo con una premessa: i compensi che noi percepiamo non dipendono solo dal tipo di lavoro svolto o dall’impegno che vi profondiamo, ma anche e soprattutto da quanto il mercato è disposto a pagare per il nostro lavoro.

Non è facile avere dati precisi sulla popolarità del tennis maschile rispetto a quello femminile (anche per via dei tornei combined), ma quelli di cui disponiamo forniscono risposte chiare: nel 2014, i ricavi del tour[3] maschile erano più alti di quello femminile di quasi il 50%[4], e nel 2016 l’ATP Tour fu seguito da quasi un miliardo (968 milioni) di spettatori in TV[5], mentre un anno dopo, pur con un trend in crescita, la WTA era seguita da circa 500 milioni[6] (non ho trovato dati per il 2016, ma nel 2015 erano 395 milioni[7]). Gli uomini attirano più spettatori e generano dunque maggiori ricavi, e ci si aspetterebbe che i montepremi vengano divisi su questa base; e invece ciò non avviene.

La divisione equa dei montepremi va a svantaggio degli uomini ed è in effetti un unicum nei grandi sport professionistici: nel calcio, nel basket o nel golf non vi è parità, né vi sono lotte per ottenerla. La situazione oltretutto va a danneggiare principalmente i tennisti di medio-bassa classifica; per un grande giocatore intascare 1 milione di dollari per la vittoria di uno Slam invece che 1,5 o 2 non fa molta differenza, tanto più che i veri guadagni arrivano dagli sponsor.

Molto diversa è invece la situazione per i giocatori di livello minore, per i quali un aumento del 50% dei propri guadagni può fare la differenza fra poter continuare a competere o doversi ritirare: il tennis è uno sport molto costoso e si calcola che solo i primi 150 giocatori al mondo riescano a stare in positivo fra entrate e uscite; per tutti gli altri giocare significa perdere soldi, nella speranza di arrivare un giorno a un livello sufficiente da ripagare l’investimento.

Alcuni giocatori di seconda fascia hanno provato a lamentarsene (Gilles Simon e Sergiy Stakhovsky, per citarne due); il risultato è stato aspri rimproveri aspramente da colleghi/colleghe e opinionisti vari, e nessun seguito è stato dato alle loro proteste.

Al momento, non sembra probabile che vi sarà alcun cambiamento nel breve periodo. Perché le regole di suddivisione vengano cambiate, servirebbe una protesta complessiva di tutto il movimento tennistico maschile, che coinvolga anche e soprattutto i grandi nomi; tuttavia, giocatori come Djokovic, Federer o Nadal sono comprensibilmente restii a capitanare un movimento del genere, visti i potenziali danni d’immagine[8].

Eppure il problema resta e aiuta a comprendere meglio un concetto fondamentale: imporre l’uguaglianza sostanziale significa negare la giustizia.

 

Note:

[1] Per chi non conoscesse bene le regole, nel tennis l’arbitro può comminare dei “warning” ai giocatori che infrangono una norma del regolamento; i warning non portano a sanzioni di per sé, ma per effetto cumulativo: al primo warning non succede nulla, al secondo si perde un punto, al terzo un game, al quarto l’intera partita

[2] L’ITF, federazione internazionale di tennis, e gli stessi US Open hanno invece appoggiato l’arbitro

[3] Il tennis, sia maschile che femminile, è organizzato in tour di durata annuale, con una serie di tornei, in diverse città mondiali, da Gennaio a Ottobre-Novembre

[4] https://www.sportsbusinessdaily.com/Journal/Issues/2015/11/23/Leagues-and-Governing-Bodies/ATP-revenue.aspx

[5] https://www.atpworldtour.com/en/news/atp-world-tour-250-media-rights-2017

[6] http://www.wtatennis.com/ABOUT-WTA

[7] http://www.wtatennis.com/content/wta-global-interest-all-time-high-0

[8] Un paio di anni fa il serbo Novak Djokovic, all’epoca n°1 del mondo, aveva provato ad affrontare timidamente l’argomento, ma aveva fatto quasi subito marcia indietro, dopo le forti polemiche suscitate (https://www.gazzetta.it/Tennis/ATP/23-03-2016/tennis-djokovic-si-scusa-facebook-le-polemiche-sessiste-premi-1401125743847.shtml)

Capitalismo o socialismo? Guardiamo i numeri

Ignoriamo la propaganda da entrambe le parti, non serve.
Siamo nel 2018, dati sulle performance dei vari stati ce ne sono molti e possiamo sapere in che misura pratichino capitalismo o socialismo.
Guardiamo ai fatti.

L’indice che misura la libertà economica

L’Economic Freedom World index (EFW) misura il grado con cui le politiche e le istituzioni dei paesi supportano la libertà economica.
E’ diviso in 5 macro-aree di analisi.

  1. Dimensione del governo – All’aumentare delle spese, delle tasse e della dimensione delle imprese controllate dal governo, il processo decisionale del governo è sostituito alla scelta individuale e la libertà economica diminuisce.
  2. Sistema giuridico e diritti di proprietà – La protezione delle persone e delle loro proprietà ottenute legalmente è un elemento centrale sia della libertà economica sia della società civile. E’ la funzione più importante del governo.
  3. Denaro stabile – L’inflazione erode il valore di salari e dei risparmi legalmente guadagnati. Per proteggere i diritti di proprietà è essenziale che il denaro sia stabile e affidabile. Quando l’inflazione non è solo alta ma anche volatile, diventa difficile per le persone pianificare il futuro e quindi usufruire efficacemente della libertà economica.
  4. Libertà di commercio internazionale – La libertà di scambiare, comprare, vendere, stipulare contratti, e così via, è essenziale per la libertà economica. Si riduce quando la libertà di scambio non include imprese e individui in altre nazioni .
  5. Regolamentazioni – I Governi non solo utilizzano una serie di strumenti per limitare il diritto di scambio a livello internazionale, ma possono anche sviluppare regolamenti che limitano il diritto di scambiare, ottenere credito, assumere, lavorare per chi desideri o gestire liberamente la propria attività.

Adesso che abbiamo una misura della libertà economica ovvero del grado con cui uno stato attua politiche socialiste o capitaliste, possiamo metterlo in relazione agli indici che misurano il benessere.

 

I numeri

Gli stati sono divisi in quattro gruppi dal meno libero al più libero economicamente.
Il prodotto interno lordo pro capite aggiustato per potere d’acquisto è drasticamente più alto nei paesi economicamente liberi:

 

Anche la crescita del reddito è più alta.

Che dire dell’aspettativa di vita?

 

E dei diritti politici e libertà civili?

 

 

Qualcuno di voi starà pensando “Va bene, va bene, il capitalismo è efficiente, crea ricchezza, aumenta l’aspettativa di vita e assicura diritti politici e libertà civili, ma i ricchi diventano più ricchi e i poveri diventano più poveri, c’è troppa diseguaglianza”.
Legittimo. Andiamo a vedere come se la cavano i poveri.
Questo è il grafico della percentuale di reddito detenuto dal 10% di popolazione più povero:

 

Ci aspetteremmo che nei paesi capitalisti i poveri non abbiano niente perchè “privati della ricchezza dalle fasce di popolazione più alte” mentre nei paesi socialisti, dove c’è una maggiore ridistribuzione della ricchezza, i poveri detengano una percentuale di reddito maggiore.
Come si può osservare dal grafico notiamo che non c’è correlazione tra libertà economica e divario tra ricchi e poveri.
Se andiamo a vedere in che condizioni si trova questo 10% di popolazione il trend è evidente:

 

Nei paesi economicamente liberi i poveri hanno un reddito decisamente maggiore.
Questo grafico rappresenta il tasso di povertà estrema e moderata:

 

 

I poveri se la cavano decisamente meglio nei paesi capitalisti sotto ogni punto di vista e sono anche in numero decisamente minore.
Quante volte si sente dire che le tasse, le regolamentazioni e i gioverni servono per aiutarei poveri?
Quante volte si sente dire che la ridistribuzione della ricchezza è necessaria per diminuire la povertà e aiutare le classi più disagiate?
Quante volte si sente dire che il capitalismo è disumano perchè sfrutta e non aiuta i poveri?
I dati parlano chiaro. Il modo migliore per aiutare i poveri non è togliere ai ricchi ma liberalizzare l’economia.

Visto che non siamo persone superficiali e “i soldi non fanno la felicità” confrontiamo anche un indice non strettamente economico.
Il World Happiness Index delle Nazioni Unite misura la felicità chiedendo alle persone di valutare la loro vita su una scala da 0 a 10 dove 0 è la peggiore vita possano avere e 10 la migliore.
Anche in questo caso il trend è evidente:

 

 

Ma parliamo di ambiente. Quante volte sentiamo dire che il capitalismo distrugge il pianeta.
Mettiamo in relazione l’EFW con l’Enviromental Performance Index (2006):

A quanto pare le economie più liberalizzate sono anche quelle che rispettano maggiormente l’ambiente.
Sia perchè sono più ricche, sia perchè la proprietà pubblica è, per sua natura, più soggetta all’abuso e al danneggiamento rispetto alla proprietà privata.

 

Conclusione

La libertà economica è vincente sotto ogni punto di vista.
E’ incredibile che a più di cent’anni dalla morte di Karl Marx si parli ancora di socialismo e che molti lo considerino un sistema economico e sociale superiore, da attuare e diffondere.

 

Fonte: www.fraserinstitute.org

 

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Privatizzazioni e monopoli: a sbagliare è sempre lo Stato

Nazionalizziamo!1!!111!

Il tragico avvenimento del crollo del ponte Morandi a Genova si è purtroppo trasformato nel pretesto ideale per la boriosa massa degli statalisti feroci per chiedere a gran voce la nazionalizzazione delle autostrade italiane.

Il presunto fallimento del gestore privato è dunque la riprova definitiva del fallimento del liberismo, del regime di concorrenza perfetta, delle privatizzazioni. Il mercato ha fallito e lo Stato deve tornare ad essere proprietario e gestore delle infrastrutture nazionali (cosa che detta dai fautori del NO categorico ad ogni investimento per le grandi opere fa già abbastanza ridere).

Inoltre, è di questi giorni la notizia che il Regno Unito, dopo le privatizzazioni “selvagge” operate dal governo Thatcher, sta riconsiderando la nazionalizzazione del sistema ferroviario britannico. Non è forse questa la prova definitiva del fallimento del privato? Non è forse questo il segno definitivo della necessità dell’intervento dello Stato nella gestione delle infrastrutture (prima) e dell’economia (dopo)?

Beh, no.

Il principale errore dello statalista (o del socialista/comunista) medio è credere questo: gli infami Liberali sono per la privatizzazione indiscriminata a prescindere. Tutto questo nel nome del guadagno indiscriminato, senza alcuna preoccupazione per le conseguenze che il povero cittadino dovrà subire (i.e. il crollo di un ponte). Se potessero infatti privatizzerebbero anche l’aria.

Niente di più sbagliato.

Cosa dice il Liberalismo classico

Ogni Liberale classico crede che lo Stato debba avere un ruolo minimo nell’economia. Deve infatti garantire che le infrastrutture fondamentali per lo sviluppo del tessuto economico nazionale siano costruite. Poi lo Stato deve delegarne la gestione a più privati (come non è stato fatto in Italia). Tutto questo all’interno di un regime di concorrenza perfetta (come non è successo in Italia) per garantire la possibilità di scelta e il miglior servizio possibile al cittadino (certamente non in Italia).

Basta guardare la concessione firmata nel 2007 dal governo Prodi, che ha dato ad Autostrade per l’Italia la gestione delle infrastrutture nazionali, per capire che di tutto si è trattato, tranne che di libero mercato. Il regime creato è stato un monopolio a gestore unico, senza concorrenza. La revisione del contratto è praticamente impossibile. Insomma, è stata l’ennesima porcata all’italiana che ha visto il trionfo di un capitalismo marcio di Stato, cosa che susciterebbe giustamente la più assoluta indignazione di ogni Liberale.

Per spostarci all’estero, andando a guardare all’iter di privatizzazione delle ferrovie britanniche negli anni ’80, si può riscontrare un fenomeno analogo. Si è privatizzato, ma non si è liberalizzato.

Ora, lo sciacallaggio di governo ha approfittato di questa tremenda tragedia per lanciare una proposta dal sapore di IRI 2.0 (tra l’altro proprio l’IRI costruì il ponte Morandi nel ’67). La risposta al fallimento del concordato Stato – industriali (che ripetiamo non ha niente a che vedere con un regime di libero mercato) non sta nel nazionalizzare. Riuscite ad immaginare l’intera rete autostradale nazionale gestita dall’ANAS come la Salerno-Reggio Calabria? Trent’anni di cantieri? Continui ritardi? Disagi inimmaginabili? Miliardi di euro dei contribuenti sacrificati sull’altare dell’inefficienza pubblica? Ma manco per sogno.

Liberalizzare per il bene del cittadino

La soluzione è unica ed evidente, ma questo paese la rifiuta categoricamente sin dall’era giolittiana. Deve finalmente cessare lo sporco connubio tra Stato e industria. Privatizzando un settore dell’economia senza liberalizzarlo si finisce semplicemente per passare dal monopolio statale a quello privato. Solo un regime di perfetta concorrenza, con lo Stato relegato alla giusta dimensione di arbitro, può garantire uno sviluppo efficiente delle infrastrutture nazionali. Vogliamo un sistema efficiente e che funzioni, al servizio del cittadino. Non vogliamo che il contribuente venga sfruttato come finanziatore né dello spreco statale né di accordi secretati e monopolistici.

 

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Libertà personale e libertà economica

Nella nostra società diamo grande importanza alla nostra libertà personale e ai nostri diritti: dalla libertà di parola a quella di movimento, fino al poter esprimere la nostra sessualità liberamente. Molto più dura è la vita per la libertà economica. Ad ogni angolo, dai talk show alle interviste di politici e intellettuali ai discorsi da bar che si possono fare con i nostri amici, si sente invocare la necessità di difenderci dalla concorrenza straniera, di porre limiti all’avidità degli imprenditori, di combattere il “liberismo selvaggio” o la “finanziarizzazione dell’economia”. In sostanza: di limitare la libertà economica. Quello che non è chiaro a molti, però, è che la libertà personale e quella economica non sono separabili.

Partiamo dai dati: il Cato Institute, un istituto di ricerca americano, pubblica ogni anno un indice sulla libertà umana, che è a sua volta suddiviso nelle dimensioni di libertà personale ed economica (con scala da 1 a 10); anche da un’occhiata veloce si nota facilmente quanto le due dimensioni siano collegate fra loro[1]. Se si prendono ad esempio tutti i Paesi “sufficienti” (quindi con score dal 6 in su) sul piano della libertà economica, solo 16 su 122[2] sono insufficienti sul piano della libertà personale. E risultati analoghi si ottengono facendo la prova inversa[3].

Ovviamente ci sono Paesi riescono a scindere le due dimensioni, ma di solito non per lungo tempo. Nel 2008, ad esempio, vi erano 18 Stati che avevano libertà economica positiva e personale negativa: nel 2015 tutti quei Paesi tranne 4 avevano o incrementato il proprio score sulla libertà personale o diminuito la libertà economica[4].

Abbiamo dunque visto che una correlazione c’è, e molto forte, ma perché è così? Cosa lega il peso della burocrazia su un’attività imprenditoriale a, per esempio, la censura della libertà di parola? La prima ragione, più immediata, è che la libertà economica è il singolo fattore più importante per la crescita economica di una nazione.

Opprimerla significa mandare in crisi l’economia e in nessun posto i cittadini premiano i governanti che peggiorano le loro condizioni di vita. I potenti che vogliono mantenere il controllo su un Paese che si sta impoverendo devono necessariamente farlo con la forza: se si vuole un esempio recente, basti pensare al Venezuela.

Ma la libertà economica ha anche un valore meno astratto, più pratico. Pensiamo a una storia semplice, ma possibile. Un giorno, leggendo un articolo su un blog, un ragazzo si imbatte in una meravigliosa descrizione dell’antica arte della miniatura in legno; subito decide che gli piacerebbe saperne di più impararla e piano piano, a forza di tutorial su YouTube e di ore e ore di esercizi, diventa un maestro in questa difficile disciplina. Ormai ha scoperto che nulla gli darebbe più soddisfazione che fare solo questo lavoro tutto il giorno, e già alcuni suoi amici e conoscenti gli hanno chiesto di poter comprare una sua creazione.

A quel punto, l’idea: aprirà un piccolo negozietto e venderà lì quello che crea; vivrà della mia arte, facendo ciò che ama. Ora poniamo che il nostro povero artista viva in uno Stato in cui la libertà economica è calpestata. Appena comincia a mettere in pratica la sua idea, subito è travolto da mille regole e restrizioni, mentre fisco e burocrati continuano a chiedergli sempre più soldi in tasse e balzelli di vario genere; alla fine, scoraggiato, decide di abbandonare il suo sogno. Lavorerà per il resto della sua vita in un ufficio o fabbrica, dopo aver detto addio alle sue speranze.

Non è questa una privazione della libertà? Non si prova a leggere una storiella come questa una sensazione di ingiustizia fortissima? Certo, questa storiella è inventata, ma ha basi reali, è la realtà quotidiana in molti Paesi dove la libertà economica è repressa e dove chi vuole realizzare i propri sogni è spesso obbligato a corrompere e scendere a compromessi con burocrati e agenti del fisco.

Reprimere la libertà economica significa distruggere le nostre possibilità di realizzare ciò che sogniamo. Certo, non tutti vogliamo aprire un negozietto per vendere miniature di legno; ma tutti sogniamo di migliorare la nostra vita ed è questo che ci tolgono i governi oppressivi: la possibilità di costruirci un futuro migliore.

[1] Per gli amanti della statistica, l’indice di correlazione è 0,64 per gli indici del 2015

[2] Dati del 2015

[3] Per la precisione, 8 su 119

[4] Tutti i dati sono disponibili al sito https://www.cato.org/human-freedom-index

Le Olimpiadi? Un successo solo se private

[vc_row][vc_column][vc_column_text css=”.vc_custom_1631343510631{margin-bottom: 0px !important;}”]Nell’organizzare le Olimpiadi si pongono due problemi: quello del rapporto costi benefici e quello della provenienza degli investimenti.

Per offrire una panoramica della prima questione, prendiamo a modello l’ultima manifestazione a cinque cerchi svoltasi in Italia, le olimpiadi di Torino 2006. Per anni si è ripetuto, specie nel capoluogo sabaudo, che l’evento fu occasione di rilancio turistico sulla scena nazionale e internazionale per la città. Ed è vero: Torino ha senza dubbio beneficiato dei giochi, in termini di immagine. Il problema risiede nel fatto che per conseguire tali benefici, si è dovuta investire una non indifferente quota di denaro pubblico.

Circa 1.200, i milioni di euro destinati alla gestione dell’evento (si va dalla gestione degli impianti, alla tecnologia necessaria, alle trasmissioni TV e altro ancora). La quota maggioritaria dei costi riguarda però gli investimenti indirizzati al territorio, 2.119 milioni così ripartiti: 376 per gli impianti di gara, 260 per gli impianti di risalita, l’innevamento artificiale, la manutenzione delle piste, 316 per interventi destinati allo sviluppo turistico, 419 per villaggi olimpici, sale conferenza, alloggi per giornalisti, 643 per la costruzione o revisione di strade e parcheggi, 63 per sistemi fognari e acquedotti, 42 destinati infine a mezzi di soccorso e controllo pubblico.

Del secondo blocco di costi analizzato, è il contributo del Governo a essere predominante: il 75,7% degli investimenti ha infatti origine nazionale (circa 1.600 milioni). Seguono gli enti locali, contribuenti per il 18,0% (400 milioni), e infine soggetti privati hanno immesso nel circuito il restante 6,3% (cento milioni).

Non altrettanto imponenti i ricavi del comitato organizzatore, che vede gli incassi fermarsi a 974 milioni (420 provenienti da sponsor, 470 da diritti TV, 15 da licenze e 69 dalla vendita di biglietti). Condizione che ha reso necessario un secondo intervento statale per un valore di 200 milioni, denaro che ha permesso di non mandare in negativo il bilancio dei costi di gestione dell’evento.

Per quanto concerne gli investimenti sul territorio, studi della Confesercenti e dell’Osservatorio Turistico della Regione Piemonte stimano in 1.528 milioni di euro i benefici derivati dal riutilizzo dei villaggi olimpici, maggiori flussi turistici e impiego delle nuove infrastrutture pubbliche. Tutto denaro che, tuttavia, è andato a beneficio quasi esclusivamente di Torino e parte della provincia (le due valli interessate dai giochi), con il resto del Piemonte che ha beneficiato ben poco dell’effetto olimpico.

L’analisi costi-benefici ci conduce quindi al secondo problema posto: chi si fa carico dei giochi? Nel caso di Torino 2006, si è visto come la percentuale maggiore di finanziamento sia stata erogata dal governo, che ha provveduto a recuperare il denaro tramite un aumento della pressione fiscale. Ma, pur avendo tutti gli italiani pagato una media di 35 euro a testa per lo svolgimento dei giochi, l’85% dei finanziamenti è stato dirottato nella provincia di Torino (il restante 15% in altre aree del Piemonte, al fine di ammodernare le strutture di ricettività turistica).

È utile ricordare come, trent’anni prima, in occasione dei giochi di Montreal 1976, il Governo del Canada diede l’avallo allo svolgimento dei giochi solo dopo aver firmato con la città e la relativa regione un contratto che impegnava gli enti locali a farsi carico interamente dei costi. Contratto che portò le amministrazioni di Montreal e del Quebec a indebitarsi per una cifra prossima a 2.500 milioni di dollari. Debito ripianato solo trent’anni dopo.

Secondo questo modello, ripartendo i costi della manifestazione torinese ai soli cittadini della provincia sabauda, i 35 euro pro capite diverrebbero 1.000. I costi previsti per i giochi 2026 non sono ancora delineati: ma, se si interpellassero i cittadini delle comunità interessate alla candidatura, chiedendo loro se siano disposti a tollerare un aumento del carico fiscale tanto ingente (senza contributi statali), difficilmente vi sarebbero città pronte a presentarsi di fronte al CIO. Motivo, peraltro, che ha portato ad affossare quest’anno le due candidature austriache, entrambe bocciate da referendum consultivi.

Per trovare l’unico modello di gestione olimpica efficiente bisogna risalire a Los Angeles 1984. Proprio sulla scia di Montreal otto anni prima, la metropoli statunitense approvò una risoluzione in base alla quale nessun contributo pubblico avrebbe potuto essere utilizzato per il finanziamento delle olimpiadi. Si trattò allora di reperire ingenti risorse private.

Finanziatori che ebbero tutto l’interesse a ricavare profitto dall’evento, vincolando così il comitato direttivo a un impiego oculato delle risorse, scartando l’approccio del “valore aggiunto” (tanto caro alle nostre amministrazioni) che avrebbe condotto a stime improbabili riguardo il rapporto costi-benefici. Il bilancio? Profitti per 225 milioni di dollari, ripartiti tra soggetti privati e comitato organizzatore, in larga parte reinvestiti in progetti sul territorio, che ebbe così modo di beneficiare a lungo termine dell’effetto olimpico.

L’assenza di finanziamenti pubblici permette di escludere che vi siano stati soggetti danneggiati coercitivamente per via della tassazione, al contrario l’impiego di capitale privato ha fatto coincidere la ricerca del profitto del singolo con una serie di vantaggi per la collettività.

Un dibattito si potrebbe aprire per definire la candidatura migliore tra Torino, Milano e Cortina, con la prima già in possesso della quasi totalità delle strutture necessarie ai giochi. Ma, qualsiasi sia l’esito delle riunioni del CONI, la storia insegna che l’unico modello vincente è rappresentato dalla gestione privata.[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row]