No, Fidel Castro non ha migliorato sanità e istruzione a Cuba

In un’intervista di 60 minuti sulla CBS, il senatore Bernie Sanders ha recentemente elogiato i successi di Cuba comunista.

Un’intervistatrice gli ha chiesto dei suoi commenti del 1985 in cui affermava che i cubani sostenevano il dittatore comunista Fidel Castro perché «aveva educato i loro figli, aveva dato loro assistenza sanitaria, aveva completamente trasformato la società». In risposta, Sanders ha difeso quei commenti affermando che «quando Fidel Castro è entrato in carica, sai cosa ha fatto? Ha avviato un massiccio programma di alfabetizzazione».

Ma Castro non ha dato l’alfabetizzazione ai cubani. Cuba aveva uno dei più alti tassi di alfabetizzazione in America Latina già nel 1950, quasi un decennio prima che Castro assumesse il potere, secondo i dati delle Nazioni Unite (statistiche dell’UNESCO). Nel 2016, il fact-checker del Washington Post Glenn Kessler ha smentito la affermazione di un politico secondo cui il regno di Castro avesse significativamente migliorato l’assistenza sanitaria e l’istruzione a Cuba.

Nel frattempo, i paesi latino-americani che erano largamente analfabeti nel 1950, come il Perù, il Brasile, El Salvador e la Repubblica Dominicana, sono largamente alfabetizzati oggi, chiudendo gran parte del divario con Cuba. El Salvador aveva un tasso di alfabetizzazione inferiore al 40 percento nel 1950, ma oggi ha un tasso del 88 percento. Il Brasile e il Perù avevano un tasso di alfabetizzazione inferiore al 50 percento nel 1950, ma oggi il Perù ha un tasso del 94,5 percento e il Brasile un tasso del 92,6 percento. Il tasso della Repubblica Dominicana è passato da poco più del 40 percento al 91,8 percento. Mentre Cuba ha fatto significativi progressi nella riduzione dell’analfabetismo nei primi anni del potere di Castro, il suo sistema educativo è rimasto stagnante da allora, anche se gran parte dell’America Latina è migliorata.

Contrariamente alla affermazione di Sanders secondo cui Castro «ha dato» assistenza sanitaria ai cubani, questi già avevano accesso all’assistenza sanitaria prima che lui prendesse il potere. I medici fornivano spesso assistenza sanitaria gratuita a chi non poteva permettersela. Come ha osservato Glenn Kessler del Washington Post:

Per quanto riguarda l’assistenza sanitaria e l’istruzione, Cuba era già tra i primi della lista prima della rivoluzione. Il basso tasso di mortalità infantile di Cuba è spesso elogiato, ma già nel 1953-1958 era al primo posto nella regione, secondo i dati raccolti da Carmelo Mesa-Lago, esperto di Cuba e professore emerito all’Università di Pittsburgh.

Cuba guidava praticamente tutti i paesi dell’America Latina per quanto riguarda l’aspettativa di vita nel 1959, prima che i comunisti di Castro prendessero il potere. Ma nel 2012, subito dopo che Castro si è dimesso come leader del Partito Comunista, i cileni e i costaricani vivevano leggermente più a lungo dei cubani. Nel 1960, gli cileni avevano una aspettativa di vita di sette anni inferiore a quella dei cubani, e i costaricani vivevano in media più di due anni meno dei cubani. Nel 1960, i messicani vivevano sette anni meno dei cubani; nel 2012, il divario si era ridotto a soli due anni.

(Oggi, l’aspettativa di vita è praticamente la stessa a Cuba come nel più prospero Cile e Costa Rica – se si accettano le statistiche ufficiali ottimistiche diffuse dal governo comunista di Cuba, cosa che molti non fanno. A Cuba è stato accusata credibilmente di nascondere le morti infantili e di esagerare le aspettative di vita dei suoi cittadini. Se queste accuse sono vere, i cubani muoiono prima dei cileni o dei costaricani).

Cuba ha fatto meno progressi in termini di assistenza sanitaria e aspettativa di vita rispetto alla maggior parte dell’America Latina negli ultimi anni, a causa del suo decrepito sistema sanitario. «Gli ospedali della capitale dell’isola stanno letteralmente crollando». A volte, i pazienti «devono portare tutto con loro, perché l’ospedale non fornisce nulla. Cuscini, lenzuola, medicina: tutto».

Come ha osservato Glenn Kessler del Washington Post:

I giornalisti hanno anche documentato che gli ospedali cubani sono poco attrezzati. Una serie del 2004 sull’assistenza sanitaria a Cuba pubblicata dal National Post del Canada ha affermato che le farmacie hanno pochissimo in scorta e gli antibiotici sono disponibili solo sul mercato nero. «Uno dei miti che i canadesi hanno su Cuba è che le sue persone possano essere povere e vivere sotto un governo repressivo, ma hanno accesso a strutture sanitarie e scolastiche di qualità», ha affermato il Post. «È un ritratto incoraggiato dal governo, ma la realtà è radicalmente diversa».

Sotto il comunismo, Cuba è anche indietro su misure generali di sviluppo umano. Come ha osservato l’economista progressista Brad DeLong:

Cuba nel 1957 era un paese sviluppato. Cuba nel 1957 aveva una mortalità infantile inferiore a quella della Francia, del Belgio, della Germania Ovest, di Israele, del Giappone, dell’Austria, dell’Italia, della Spagna e del Portogallo. Cuba nel 1957 aveva medici e infermieri: come molti medici e infermieri per abitante come i Paesi Bassi, e di più di Gran Bretagna o Finlandia. Cuba nel 1957 aveva come molti veicoli per abitante come l’Uruguay, l’Italia o il Portogallo. Cuba nel 1957 aveva 45 TV per 1000 abitanti, il quinto più alto al mondo… Oggi? Oggi le Nazioni Unite collocano l’IDU di Cuba [Indicatori di Sviluppo Umano] nella stessa categoria del Messico. (E Carmelo Mesa-Lago pensa che i calcoli delle Nazioni Unite siano gravemente difettosi: che i pari IDU di Cuba oggi sono posti come la Cina, la Tunisia, l’Iran e il Sud Africa.) Quindi non capisco i sinistri che parlano dei successi della Rivoluzione Cubana: «per avere una migliore assistenza sanitaria, alloggi, istruzione».

Come nota Michael Giere, Cuba era prospera prima che i comunisti di Castro prendessero il potere:

Un rapporto dell’ONU (UNESCO) del 1957 ha notato che l’economia cubana includeva una proporzione maggiore di lavoratori sindacalizzati rispetto agli Stati Uniti. Il rapporto afferma anche che i salari medi per una giornata lavorativa erano più alti a Cuba rispetto a «Belgio, Danimarca, Francia e Germania». La PBS ha spiegato in un riassunto del 2004 che

«L’Avana (prima di Castro) era una città brillante e dinamica. Cuba era al quinto posto nell’emisfero in termini di reddito pro capite, al terzo posto per l’aspettativa di vita, al secondo posto per la proprietà pro capite di automobili e telefoni, al primo posto per il numero di televisori per abitante. Il tasso di alfabetizzazione, il 76%, era il quarto più alto in America Latina. Cuba era al undicesimo posto nel mondo per il numero di medici per abitante. Molte cliniche e ospedali privati offrivano servizi ai poveri. La distribuzione del reddito a Cuba era confrontabile con quella di altre società latinoamericane. Una classe media prospera prometteva prosperità e mobilità sociale».

Ma dopo che Castro ha preso il potere, la prosperità è finita:

La distruzione di Castro di Cuba non può essere esagerata. Ha saccheggiato, assassinato e distrutto la nazione dalle fondamenta. Un solo fatto spiega tutto; una volta i cubani godevano di uno dei più alti consumi di proteine in America, eppure nel 1962 Castro dovette introdurre le tessere di razionamento (carne, 60 grammi al giorno), poiché il consumo di cibo per persona è crollato a livelli mai visti dall’800.

La fame si diffuse a tal punto che nel 1992 un medico svedese in visita a Cuba, Hans Rosling, dovette avvertire il dittatore della diffusa carenza di proteine tra i cubani. Circa 40.000 cubani avevano accusato «offuscamenti della vista e forte intorpidimento delle gambe». Rosling indagò su invito dell’ambasciata cubana in Svezia e con l’approvazione dello stesso Castro. Rosling si recò nel cuore dell’epidemia, nella provincia occidentale di Pinar del Río. Si scoprì che le persone colpite dal disturbo soffrivano tutte di carenza di proteine. Il governo stava razionando la carne e gli adulti avevano sacrificato la loro parte per nutrire bambini, donne incinte e anziani. Il dottor Rosling ne parlò a Fidel Castro.

Durante questo periodo di fame diffusa, Bernie Sanders diffondeva il mito che la fame a Cuba fosse inesistente. Nel 1989, pubblicò un articolo di giornale in cui affermava che la Cuba di Fidel Castro «non soffre fame, istruisce tutti i suoi figli e fornisce assistenza sanitaria gratuita e di alta qualità».

(Traduzione di Claudio Colonna dell’articolo “No, Fidel Castro Didn’t Improve Health Care or Education in Cuba” di Hans Bader pubblicato su FEE.org)

Lettura consigliata: Smascherare il Marxismo, L. von Mises

 

Yeti Carbon Footprint

Il termine Carbon Footprint è entrato nel linguaggio comune, evolvendosi da termine tecnico a parola di uso frequente nell’ambito delle tematiche ambientali. A partire dal 2020, i dati Google mostrano infatti un evidente incremento delle ricerche per queste keyword (Fig. a lato).

Quindi, è particolarmente curioso che ancora non vi siano metodi di calcolo e modelli che possano definirlo in modo semplice e preciso, nonostante ci siano enormi quantità di pubblicazioni che vantano calcoli “precisi” del CF.

Il Carbon Footprint (nel seguito CF) è, nella concezione comune, una quantità che indica l’impatto ambientale di un certo prodotto, servizio o attività. Una definizione che appare semplice e chiara, con valori facili da comprendere (quando posti in paragone: se il mio CF è doppio del tuo, allora “inquino” il doppio).

Questa semplificazione, che ne ha consentito la propagazione in quasi tutti gli ambienti della società (dai Consigli di Amministrazione alle scuole) è in realtà una grossolana sottostima della complessità di un indicatore che – se calcolato correttamente – potrebbe dare importanti informazioni sull’ottimizzazione dei processi produttivi e di smaltimento.

Le definizioni politiche o manageriali di CF erano estremamente vaghe fino a quando Thomas Wieldmann e Jan Minx (Wieldmann and Minx, 2008) ne proposero una definizione accademica, il più precisa possibile: “Il Carbon Footprint è una misura completa dell’ammontare totale di emissioni di biossido di carbonio che sono direttamente o indirettamente causate da una attività o si sono accumulate durante gli stati di vita di un prodotto.”

Il significato, qui riformulato non tanto per renderlo più comprensibile quanto per mettere in evidenza la complessità del concetto, è il seguente: per ogni attività, prodotto, servizio o persona, il CF rappresenta la quantità totale di CO2 (biossido di carbonio, espressa in Kg o comunque in peso) emessa in atmosfera da tutte le fasi di creazione e di smaltimento, considerando ogni aspetto del processo, sommato sul tempo totale di vita del prodotto.

Questa definizione ci fornisce le indicazioni di base, ma restano aperti i problemi di calcolo effettivo, che sono estremamente complicati. Ad esempio, la CO2 non è l’unico gas-serra (GHG, GreenHouse Gas): includere altri gas (tipo il metano) implica aumentare la complessità del calcolo; d’altra parte, escluderli ne diminuisce la precisione.

Altro esempio: nel definire le emissioni di produzione devono essere incluse anche le emissioni dovute al personale coinvolto, ma in misura adatta a non sovrastimare l’emissione (il lavoratore non arriva in azienda per produrre esclusivamente quel prodotto).

Il problema è che a volte le aziende non sono disposte a rivelare i dettagli del loro sistema di produzione (per motivi di brevetto o di segreto industriale), così come i governi non forniscono tutti allo stesso modo i parametri necessari alla valutazione della fase di trasporto internazionale.

Le complessità citate sopra (solamente indicative) hanno portato manager pubblici e privati ad adottare sistemi meno complessi (quali il @UK PLC), basati semplicemente sul costo di un prodotto e su un database di categorie preordinate.

Il risultato di questa semplificazione è però una forte riduzione della precisione, che può arrivare a rendere inadeguato il risultato. In un lavoro di Barnett et al (2013) è mostrato come utilizzando due metodologie diverse nel calcolo del CF di 365 prodotti, i risultati sono completamente scorrelati (vedi fig. sotto).

Ecco il motivo per cui nel titolo compare lo Yeti come paragone per il Carbon Footprint: tutti lo conoscono, nessuno l’ha realmente visto.

Valori di CF ottenuti con due diverse metodologie. Se i due metodi fossero affidabili, i punti si sarebbero allineati sulla linea rossa.

Il CF ha quindi un grave difetto di precisione, che (a seconda del metodo utilizzato) pregiudica i risultati per le categorie di prodotti/ servizi più piccoli (una persona, un oggetto od una famiglia) oppure per le grandi realtà pubbliche e private.

Con queste premesse, ci si aspetterebbe che l’utilizzo del CF sia confinato ad ambiti ristretti, dove il detto “meglio una misura qualunque che nessuna misura” ha più senso.

Troviamo invece il CF citato e preso in considerazione in ambienti in cui il risultato non può che essere impreciso, se non completamente inattendibile, come il CF di una casa, di una famiglia o di un’auto.

Basarsi su indicatori che sono fondamentalmente imprecisi è un grave rischio. Il burocrate o parlamentare medio, che ha scarse conoscenze ma ampi poteri legislativi, proverà a convertire i buoni propositi ambientali in leggi, regolamenti e divieti che gravano pesantemente sulla vita dei cittadini, senza essere efficaci nel contrasto al cambiamento climatico.

La PCA, o Personal Carbon Allowance, è stata già pensata nel 2008 nel Regno Unito, come misura per contrastare l’aumento delle emissioni di gas serra. In pratica si sarebbe stabilito un tetto massimo alle emissioni (quindi il CF) che una persona poteva utilizzare per scaldare la propria casa, comprare cibo, andare al lavoro, ecc.; cioè, semplicemente, vivere.

Il progetto non è stato messo in pratica perché ritenuto politicamente inammissibile, ma le recenti misure fortemente coercitive legate alla pandemia hanno rivalutato la possibilità che il PCA possa essere, ora, socialmente accettabile.

Su Nature, la prestigiosa rivista scientifica inglese, un articolo di Fuso Nerini et al. (2021) discute come la PCA sia ora potenzialmente ammissibile e, anzi, auspicabile. Senza segnalare l’inaffidabilità del calcolo del CF, e con solo un fugace riferimento ai problemi di privacy, l’articolo ipotizza il modellamento dei comportamenti individuali, dai viaggi alla scelta del cibo, utilizzando come sensori le tecnologie già presenti (controllo degli spostamenti tramite cellulare-GoogleMap, verifica dei consumi tramite apparecchiature Smart Home). 

Riassumendo in modo estremo, possiamo dire che le nostre libertà individuali potrebbero essere revocate sulla base di misure di Carbon Footprint la cui attendibilità è praticamente nulla. Non possiamo lasciare che avvenga qualcosa del genere; è importante discutere del Carbon Footprint e del cambiamento climatico in maniera seria, senza semplificazioni e senza coercizioni dall’alto. 

Referenze

Wiedmann,T., Minx,J. (2008). A Definition of Carbon Footprint, in C.Pertsova(ed.) Ecological Economics Research Trends, Nova Science Publisher, Chapter 1, pp.1-11

Barnett, A. J., Barraclough, R. W., Becerra, V. and Nasuto, S. (2013). A comparison of methods for calculating the carbon footprint of a product.

Kruger, J., & Dunning, D. (1999). Unskilled and unaware of it: how difficulties in recognizing one’s own incompetence lead to inflated self-assessments. Journal of Personality and Social Psychology, 77(6), 1121.

Defra, UK, 2008, Synthesis report on the findings from Defra’s pre-feasibility study into personal carbon trading, Department for Environment, Food and Rural Affairs, https://www.teqs.net/Synthesis.pdf

Fuso Nerini, F., Fawcett, T., Parag, Y. et al. Personal carbon allowances revisited. Nature Sustain 4, 1025–1031 (2021).

Keynes e la falsa fine del laissez faire – di Ludwig von Mises

Questo testo critica un discorso tenuto dall’economista inglese John Maynard Keynes il 23 giugno 1926 all’Università di Berlino. Egli faceva una tagliente critica al liberalismo e al capitalismo; rifiutava la libera proprietà privata dei mezzi di produzione, pur non volendo essere socialista. Raccomandava invece, come soluzione, una via di mezzo tra proprietà privata dei mezzi di produzione, da un lato, e proprietà sociale, dall’altro; che non è altro che la proprietà privata regolata attraverso il controllo sociale. Non sarebbe lo Stato ad assumersi questo controllo; lo farebbero invece ‘organismi societari semi-autonomi inseriti nel sistema statale’, da cui si arriverebbe ad ‘un ritorno ad autonomie indipendenti di stampo medievale’.

Keynes non propone altro che ciò che per decenni, soprattutto in terra tedesca, è stato promosso dalla scienza ufficiale e da tutta l’opinione pubblica come “soluzione alla questione sociale”. Non ci sarebbe motivo di preoccuparsi di questo piccolo opuscolo, perché tutto ciò che presenta è già stato trattato nella letteratura tedesca centinaia di volte, e, se non in miglior modo, sicuramente non peggiore, e comunque più approfonditamente. Ma il titolo che Keynes ha dato alla sua opera (La Fine del Laissez Faire) e le sue seccature epigrammatiche necessitano di una nota critica.

La famosa massima recita, per esteso, laissez faire et laissez passer. Essa si riferiva quindi – innegabilmente senza una coincidenza totale fra esperienza storica e massima – al “faire” (fare) per quanto riguarda la gestione delle merci, ad eccezione del loro spostamento fisico, e al “passer” (passare) per quanto riguarda la libera circolazione di uomini e di merci. In realtà questi due tipi di impresa sono inscindibili, e non è legittimo separarli a piacimento, essendo queste le ramificazioni della stessa ideologia sociale.

Keynes, tuttavia, parla deliberatamente solo di laissez faire. Egli menziona il protezionismo solo di sfuggita (p. 26); sorvolando interamente sulla libera circolazione. È facile capire le basi per una tale autolimitazione. La protezione e l’intralcio al libero scambio internazionale sono, sicuramente, graziosamente medievali, ma i loro pessimi effetti sono oggigiorno così chiari che un riformatore sociale, nel combattere il liberalismo, fa solo che bene a tacere su di essi. Specialmente un anglosassone, che vuole opporsi al liberalismo a Berlino, deve evitare di sollevare tali delicate questioni.

Certamente si trovavano tra coloro che lo hanno ascoltato alcuni che negli ultimi anni sono stati cacciati dalle terre in cui questi avevano vissuto e lavorato; ed altri che desiderano emigrare da un’Europa centrale sovrappopolata e non possono perché i lavoratori delle terre meno popolose si difendono dall’arrivo di concorrenti. E Keynes saprà inoltre certamente che è proprio il protezionismo ad aver messo la Germania e l’Inghilterra in una situazione economica di tale difficoltà.

Se Keynes avesse parlato (veramente) della fine del laissez faire et laissez passer, allora non avrebbe potuto non vedere come il mondo di oggi è malato proprio perché, per decenni, le cose non sono state regolate da questa massima. Chi si rallegra che i popoli si allontanino dal liberalismo, non deve dimenticare che la guerra e la rivoluzione, la miseria e la disoccupazione di massa, la tirannia e la dittatura non sono compagni casuali, ma sono i risultati necessari dell’antiliberalismo che oggi governa il mondo.

Traduzione a cura di Marco Bares

Fonte: https://mises.org/library/mises-keynes-1927

Il flagello dell’Africa: breve storia del socialismo africano

Negli anni Sessanta, milioni di africani guardavano con ottimismo al loro futuro: erano gli anni della decolonizzazione, dell’indipendenza, della libertà. Dopo aver conquistato il diritto all’autogoverno, una nuova generazione di leader africani guardava fiduciosa verso l’avvenire, certa di poter costruire un’Africa migliore, in grado di relazionarsi da pari a pari con il resto del mondo.

Così non è stato. Mezzo secolo dopo, molte nazioni africane si presentano persino più povere di quanto non lo fossero sotto il dominio europeo. Violenza, corruzione, instabilità, miseria, morte: per milioni di africani, è questa la realtà della loro vita. La domanda quindi sorge spontanea: cosa è andato storto?

 

Damnatio memoriae

Naturalmente, non esiste una risposta semplice: questo fallimento è il risultato della combinazione di diversi fattori (i danni a lungo termine del colonialismo, tensioni etniche e religiose, ingerenze delle potenze straniere), ma uno spicca su tutti gli altri: l’abbandono, da parte delle élite al potere nei diversi Paesi africani, dei principi del libero mercato e della democrazia liberale.

Una volta conquistata l’indipendenza, molti dei nuovi leader africani decisero di voltare le spalle a qualsiasi testimonianza del passato coloniale. Ad essere rimossi, modificati o distrutti, però, non furono solo edifici ed emblemi: anche le idee furono sottoposte alla damnatio memoriae.

Per questi leader africani capitalismo, libero mercato e democrazia liberale erano idee degli odiati ex-padroni, quindi intrinsecamente malvagie[1]. Pertanto, era inevitabile che questi politici, nello scegliere secondo quali principi guidare lo sviluppo delle loro nazioni, venissero attratti dall’ideologia della potenza che, negli anni Sessanta, si presentava come l’antitesi dell’Occidente imperialista: l’URSS, e quindi il socialismo sovietico.

 

Un’Africa socialista

Sarebbe riduttivo affermare che il socialismo sovietico abbia attecchito bene nelle nuove nazioni africane: piuttosto, sarebbe più corretto dire che è divampato come benzina sul fuoco dell’indipendenza.

In Tanzania, Julius Nyerere fondò lo sviluppo del Paese sulla dottrina della “Ujamaa”(famiglia estesa), un misto di socialismo sovietico e valori tradizionali africani[2]. In linea con questi principi, la prima Costituzione della Tanzania affermava che “lo Stato ha il compito d’impedire l’accumulo della ricchezza, incompatibile con una società senza classi”.

In Ghana, il Presidente Nkrumah fissò come obiettivo ultimo del suo governo il controllo totale dell’economia da parte dello Stato[3]. Per raggiungere tale scopo, le imprese private vennero nazionalizzate, perfino prezzi e salari vennero stabiliti a tavolino dal governo centrale.

In Guinea, per realizzare il “marxismo in panni africani”, il governo di Sékou Touré varò misure estremamente severe, tra cui: divieto di qualsiasi attività commerciale non approvata dal governo, monopolio statale del commercio con l’estero, pena di morte per il contrabbando[4].

Questi sono solo alcuni esempi. Infatti, vicende simili riguardarono anche lo Zimbabwe di Mugabe, il Mali di Keita, l’Etiopia di Mengistu e tante altre nazioni africane. Perfino in quelle dichiaratamente “capitaliste”, come la Nigeria, uno Stato forte, che quindi interviene pesantemente in economia, venne considerato come uno strumento utile all’indipendenza nazionale[5].

 

Il socialismo africano fra teoria e pratica

Il socialismo africano, sebbene si proponesse come una “Terza via” alternativa non solo al capitalismo, ma anche al socialismo di stampo sovietico[6], nei fatti riprendeva gli aspetti fondamentali di quest’ultimo, in particolare il sistema politico monopartitico e l’economia pianificata.

In tutte le nuove repubbliche socialiste, pertanto, non esistevano né partiti di opposizione né vincoli al potere del governo: tanto nel Ghana di Nkrumah quanto nello Zimbabwe di Mugabe, l’unico partito legale era quello del Presidente, che governava con pieni poteri.

Come in ogni Stato socialista che si rispetti, poi, l’economia era pianificata: com’è stato già detto in precedenza, i leader socialisti africani fecero grandi sforzi per eliminare qualsiasi impresa privata, e quindi autonoma rispetto al governo centrale.

Tutto questo ebbe due gravi conseguenze: in primo luogo, stroncò nei cittadini di questi Paesi qualsiasi aspirazione imprenditoriale, sostituendola con una mentalità che vede lo Stato come l’unica istituzione in grado di creare ricchezza (mentre in realtà può solo ridistribuirla, di solito male).

In secondo luogo, l’accentramento del potere: in ognuno di questi Stati, il regime socialista al potere favorì lo sviluppo di una burocrazia pesante ma influente, la cui prosperità crebbe in modo inversamente proporzionale a quella della nazione. Ancora oggi, in gran parte del continente, sono solo pochi funzionari politici e militari a beneficiare delle ricchezze dell’Africa, mentre ai loro concittadini restano le briciole.

 

Quali risultati?

Bisogna precisarlo: Nkrumah, Nyerere, Touré e gli altri leader della loro generazione, con tutta probabilità, erano (almeno all’inizio) in buona fede. Probabilmente, prima che subentrasse l’attaccamento agli agi ed ai vantaggi del potere, erano sinceramente spinti dal desiderio di aiutare i loro concittadini e migliorare i loro Paesi d’origine. Ma, come diceva Karl Marx stesso, la strada per l’inferno è lastricata di buone intenzioni.

La Tanzania, quando Julius Nyerere salì al potere, aveva un PIL paragonabile a quello della Corea del Sud di allora. Negli anni seguenti, la fallimentare collettivizzazione dell’agricoltura, imposta secondo i principi della Ujamaa, ha condannato il Paese a decenni di stagnazione economica[7]. Oggi, la Tanzania è uno dei Paesi africani più poveri.

In Ghana, quasi tutte le imprese nazionalizzate dal governo di Nkrumah fallirono sotto il peso della corruzione e della gestione inefficiente[8], il che portò l’economia del Paese al collasso. Alla fine, Nkrumah stesso venne deposto.

Lo Zimbabwe, un tempo noto come “il granaio dell’Africa”, sprofondò in una grave crisi alimentare quando Robert Mugabe espropriò le terre dei contadini bianchi (che vennero espulsi dal Paese) per ridistribuirle fra i suoi sostenitori (che di agricoltura ne sapevano poco o niente)[9].

Quando i leader che hanno fatto la storia del socialismo africano salirono al potere, ai loro concittadini promisero indipendenza, prosperità e progresso. Invece, quando se ne sono andati, hanno lasciato loro in eredità Paesi dipendenti dagli aiuti internazionali, caduti in miseria e con poche prospettive per il futuro.

 

Quale futuro per l’Africa?

Quando (o meglio, se) i Paesi devastati dal socialismo africano riusciranno a recuperare decenni di sviluppo perduti, è impossibile dire con certezza. Tuttavia, ci sono segnali incoraggianti.

Innanzitutto, fra il 1996 ed il 2016, il numero di Paesi africani dichiaratamente socialisti è calato drasticamente, mentre il grado di libertà economica è aumentato in tutto il continente (da 5.1 su 10 a 6.15 su 10, secondo il Fraser Institute)[10]. Tutto questo soprattutto perché, dopo il crollo dell’URSS, i regimi socialisti in Africa hanno perso gli aiuti economici sovietici, crollando a loro volta.

Gli effetti benefici della liberalizzazione dell’economia non hanno tardato a manifestarsi: negli ultimi vent’anni, nell’Africa subsahariana, il PIL è triplicato (quello per capita è raddoppiato), la mortalità infantile si è dimezzata e la vita media si è allungata di dieci anni[11].

Una nuova era per l’Africa, di vera prosperità e di vera pace, potrebbe essere aperta dalla nascita dell’African Continental Free Trade Area (AfCFTA). Si tratta di un’area di libero scambio creata nel 2018 che, ad oggi, comprende 29 dei 55 membri dell’Unione Africana.

Secondo le stime dell’ONU, l’AfCFTA potrebbe potenzialmente incrementare di oltre il 50% il commercio fra i diversi Paesi africani in soli pochi anni, generando ricchezza che andrebbe a sollevare dalla povertà estrema milioni di africani[12].

Naturalmente, niente è scolpito nella pietra. Il 21esimo secolo potrebbe essere il secolo della riscossa dell’Africa, in cui i danni inflitti dal colonialismo e dal socialismo verranno superati ed il continente potrà finalmente relazionarsi da pari a pari con il resto del mondo, come si sperava già nel 1960.

Oppure, al contrario, i progressi degli ultimi vent’anni potrebbero essere solo temporanei, e questo sarà il secolo in cui si compirà la tragedia finale dell’Africa, un continente reso sterile dalla sua stessa mentalità collettivista.

Una sola cosa è certa: qualsiasi sarà il futuro dell’Africa, esso è nelle mani degli africani. Nelle mani dei suoi politici, che dovranno essere lungimiranti. Nelle mani dei suoi imprenditori, che dovranno affrontare mille ostacoli per riportare la prosperità. Nelle mani dei suoi elettori, che non dovranno ripetere gli stessi errori già ripetuti ormai fin troppe volte.

[1]https://www.africanliberty.org/2019/03/14/how-socialism-destroyed-africa/

[2][3][4][5]https://youtu.be/ZUBXW6SjuQA

[6]https://www.britannica.com/topic/African-socialism

[7][8]https://mises.org/wire/africas-socialism-keeping-it-poor

[9]https://youtu.be/XB9vMcMXs6s

[10][11][12]https://fee.org/articles/what-can-we-expect-from-africa-in-the-2020s/

 

Chi è il liberalconservatore di oggi?

Oggi il termine “conservatore” è diventato quasi una parolaccia, “liberale” è un insulto, “liberista” non ne parliamo; al contrario “nazionalista” viene percepito come un titolo di encomio. Che fine hanno fatto però i liberalconservatori? Chi è il liberal conservatore?

Oggi il termine sembrerebbe una contraddizione, ma in realtà non lo è. Minoranza di una minoranza (i liberali), i liberalconservatori sono ritenuti ambigui proprio per la loro attitudine positiva verso il laissez-faire in economia e il conservatorismo relativo in alcuni cosiddetti valori, sebbene siano aperti alla cosiddetta “nuova generazione” dei diritti, senza dimenticare la centralità e l’unicità dell’individuo.

Nell’economia e nella società, il mercato è la loro guida. Sono tante le sfumature di liberalismo; le versioni occidentali non-anglosassoni, come evidenziato da Friedrich von Hayek, cercano disperatamente di tenersi alla larga dal liberalism, a cui si ispirano i movimenti del centrosinistra (e dalla ex Terza Via, in voga negli anni Novanta), che con John Locke o Adam Smith hanno poco a che fare.

Innanzitutto, quando si tenta di identificare i liberalconservatori c’è storicamente un’enorme confusione nei termini da utilizzare per definire la categoria. «Moderati, liberali, centristi: non sono sinonimi» ha scritto Angelo Panebianco (Corriere della Sera, 26 giugno 2019). Inoltre: «Un moderato è uno che non sopporta né le urla né le semplificazioni/banalizzazioni» (in questo senso, è avversario supremo dei demagogo-populisti di destra e di sinistra); «un moderato non è necessariamente un liberale: erano moderati (ma non liberali) quegli elettori della Democrazia Cristiana […] che accettavano come normale un livello di intrusione statale nella vita economica tale da suscitare la ripulsa dei (pochi) liberali allora in circolazione.»

In Italia il liberalismo non ha attecchito granché (non stupisce dunque l’assenza o quasi dei liberalconservatori), ma sebbene la cultura liberale sia poco studiata e applicata in diversi campi sociali, questo non vuol dire che non sia presente.

Ai margini della vita politica ed economica del paese, i liberalconservatori vanno distinti categoricamente dalla destra sociale (quella sì ben presente in Italia), che a livello economico ha sempre promosso ricette e formule, semplificando, para-socialiste. La destra (più o meno sociale) non è affatto mancata nell’Italia repubblicana e non è stata neppure tanto una minoranza (sebbene mai maggioranza).

Solo nella cosiddetta Seconda Repubblica ce ne sono state addirittura tre: una postfascista, corporativista, antiliberale, nazional-statista (l’ex Movimento Sociale, poi Alleanza Nazionale, oggi Fratelli d’Italia); una leghista, protezionista, localistica, secessionista, anti-nazionalistica prima (Lega Nord 1987-2012) e nazionalista e a tratti xenofoba poi (Lega 2013 oggi); una berlusconiana, confusamente colbertista, a parole liberale, vagamente post-democristiana, antistatalista, affaristica (Forza Italia 1994-2008, Popolo della Libertà 2008-2013, Forza Italia 2013-oggi?).

A sua volta, la destra (di nuovo, più o meno sociale) va distinta dal “conservatorismo”. Secondo Ernesto Galli della Loggia (Corriere della Sera, 1° ottobre 2016), «cultura conservatrice vuol dire identificazione ragionata con il lascito del passato, con gli edifici, il passaggio e i costumi di un luogo, l’attaccamento ai valori ricevuti […]; e poi senso delle istituzioni, considerazione non formale per i ruoli, i saperi, le competenze, rispetto delle regole.»

In tutto questo, c’è poco di liberale, ma un ponte primordiale con tale micro-universo politico lo aveva gettato nel 1972 nel Manifesto dei Conservatori Giuseppe Prezzolini, secondo cui «il Vero Conservatore si guarderà bene dal confondersi con i reazionari, i retrogradi, i tradizionalisti, i nostalgici, perché il Vero Conservatore intende “conservare mantenendo”, e non tornare indietro a fare esperienze fallite». In questo paradossale “progressisimo”, è vicino al liberale. Il conservatore può essere moderno e molto vicino a quest’ultimo (come ha spiegato proprio von Hayek). I due non sono incompatibili.

Una figura controversa nel mondo tradizionalista come Giovannino Guareschi scrisse ad Alcide De Gasperi sintetizzando bene alcuni elementi liberal-conservatori: «Siamo noi, […] noi cittadini liberi […] Noi che siam […] cristiani pur rifiutando sdegnosamente di metterci in testa papaline colorate, noi che sentiamo la necessità di una migliore giustizia sociale ma che mai accetteremo di fare alcunché di demagogico. Noi che per vivere dobbiamo lavorare duramente come l’ultimo dei proletari ma abbiamo l’orgoglio di essere borghesi. Noi che siamo per l’ordine ma che odiamo ogni tipo di dittatura. Noi che siamo per il trionfo dell’individuo ma non ammettiamo il divismo. Noi che abbiamo orrore della guerra ma che non ci siamo mai sottratti […] ai nostri doveri di cittadini […] Noi che sosteniamo il diritto di scioperare ma che non abbiamo scioperato mai […] Noi che vogliamo il trionfo dei nostri diritti ma ci preoccupiamo, prima di ogni altra cosa, di fare il nostro dovere.» (Il Candido, 1948, riportato da Bombardate Roma! di Mimmo Franzinelli).

Interessanti considerazioni su cosa sia un conservatore oggi – e quest’ultimo va conosciuto e studiato per differenziarlo dal liberale – le ha fatte Gian Enrico Rusconi nel suo Dove va la Germania?, in cui ha stabilito chiaramente le differenze tra il mondo conservatore e quello della destra (sociale): «Il conservatore sa che il cambiamento generale non può essere impedito: vuole dare forma a questo cambiamento. Il tradizionalista decide che tutto deve rimanere com’è. Il reazionario vorrebbe far tornare indietro la ruota del cambiamento. Il conservatorismo non conosce verità eterne, al contrario: […] difende oggi quello che ieri ha combattuto». Cosa che non è del tutto estranea all’immoderatezza, all’anticonformismo e all’effervescenza liberale.

A dispetto di quanto afferma chi lo identifica come populista, «il conservatore accetta la pluralità delle culture e la loro coesistenza. Quello di destra invece è un modo di pensare che mette al primo posto la (presunta) omogeneità del proprio gruppo, ed è indifferente verso le altre culture e forme di vita finché non interferiscono con la propria»; parliamo dei nazionalisti-populisti, o altrimenti detti, sovranisti. Profondamente collettivisti e, come tutti i collettivisti (di destra e di sinistra) – seguendo Ayn Randrazzisti.

Non da ultimo, continua Rusconi, «una differenza fondamentale tra conservatori e destra sta nel linguaggio. I conservatori sanno che molte delle loro richieste […] non trovano consenso maggioritario, ma non per questo recriminano parlando di “terrorismo” nei loro confronti o di “stampa bugiarda”, quando le loro opinioni non sono accolte. Un vero conservatore considera l’ordinamento liberale della società un valore in sé e la difesa più grande contro i tentativi autoritari.» Un conservatore è moderato individualista (lo è anche il liberale); un nazionalista è un estremista collettivista. I ponti tra liberali e conservatori ci sono. I liberalconservatori esistono.

 

Fascismo ed antifascismo sono la stessa cosa?

Spesso, parlando di politica, si dice che “fascisti ed antifascisti sono la stessa cosa”. Fra chi abbraccia questo pensiero come fosse verità rivelata e chi lo rifugge vi è un dibattito interessante, ma che alla prova dei fatti dimostra come entrambi gli schieramenti abbiano torto.

In teoria sembra un ossimoro…

Ovviamente, verrebbe da dire, se si chiama “antifascismo” è ovvio che sia opposto al fascismo. Ma questo ragionamento aveva valore durante il regime, quando il fascismo era il male al governo e bisognava, uniti, sconfiggerlo.

Oggi le cose sono più complesse. Il fascismo è diviso in varie correnti e vi sono anche numerosi movimenti borderline, non chiaramente attribuibili ad esso.

Da ciò deriva una certa difficoltà a definire obiettivamente cosa sia il fascismo: ci sono fascismi che hanno accettato di buon grado la democrazia, fascismi dichiaratamente antirazzisti e pro-Islam e addirittura fascismi autonomisti!

Ovviamente sussistono alcuni elementi comuni quali la tendenza a volere un’economia socializzata, una proprietà privata che rispetti la funzione sociale e un certo nazionalismo.

…ma alla prova pratica è diverso

Piccolo problema: l’economia socializzata e la proprietà privata dalla funzione sociale mica la vogliono solo i fascisti, ma anche gran parte della sinistra. Quello del rossobrunismo, ossia superare le differenze tra rossi e neri per lottare assieme contro capitalismo e simili, non è di certo un fenomeno nuovo: Togliatti nel 1936 lodò la Rivoluzione Fascista e parlò di Mussolini come un traditore di tali ideali, Bombacci, un gran comunista che creò la propria edizione della Pravda dedicata a Mussolini, venne fucilato addirittura assieme a lui.

In sostanza definire un fascismo a cui opporsi è spesso difficile. Il modo migliore di farlo è sostenere un’ideologia che si opponga ai fondamenti del fascismo. Se si ritiene il fascismo fondamentalmente antidemocratico – quindi un metodo – è sufficiente sostenere qualsiasi ideologia democratica, mentre se si ritiene possibile un fascismo esistente in democrazia la cosa diviene più complessa.

Confusione tra antifascismo e antifa

Fin qui abbiamo, al massimo, mostrato come sia difficile essere antifascisti oggi, ma qualcosa deve aver originato l’equivoco di cui parliamo nel titolo. Questo qualcosa, naturalmente, è il movimento Antifa.

Trattasi di un movimento spontaneo composto principalmente da estremisti di sinistra, e questo movimento spesso adotta metodi e idee fasciste. Violenza – spesso associata a quella dei black bloc -, antisemitismo, rifiuto del capitalismo e della globalizzazione, minacce, distruzione di proprietà e anche peggio.

Non è certo strano che una persona normale e non troppo informata, quando sente per la decima volta in TV che gli Antifa hanno fatto squadrismo per distruggere qualche negozio random per diffondere le loro idee, pensi “sì ma certo, fascisti e antifascisti sono la stessa cosa”.

Ma, come abbiamo mostrato nel capitolo precedente, l’antifascismo non è un’ideologia a sé bensì l’adesione ad un’ideologia incompatibile col fascismo.

Per concludere

Naturalmente l’opposizione al fascismo non è rappresentata solo da qualche esagitato che si sarebbe trovato molto bene con le squadracce sansepolcriste. Affermare come l’antifascismo sia equivalente al fascismo, senza specificazione alcuna, è quantomeno ingenuo, se non addirittura in malafede.

Viene tuttavia da chiedersi, a più di settant’anni dalla fine del ventennio, se sia così importante la semplice etichetta di antifascismo. Onestamente credo che ormai sia più importante fare opposizione con la proprie idee ai residuati del fascismo piuttosto che opporsi ad un regime ormai morto e sepolto.

Perché sono tutti buoni a dire di voler togliere qualche fascio littorio in giro, ma quanti sarebbero disposti a rimuovere – o quantomeno a modificare radicalmente – i decreti fascisti ancora in vigore? Giusto per citarne alcune:

  • Il TULPS, sviluppato per far funzionare l’apparato di polizia fascista e in larga parte ancora in vigore
  • I vari reati di vilipendio
  • La regolamentazione della professione giornalistica
  • Vari altri decreti, leggi, enti e simili che servono solo a limitare la libertà economica e personale.