Più armi vuol dire più crimine?

Da quando in Italia si discute di modificare in senso leggermente meno restrittivo le norme sulla legittima difesa qualcuno strilla al far west, alle armi facili e dunque all’aumento delle morti, spesso citando statistiche americane, che includono i suicidi.

Ma è davvero così?

Le armi in America

Negli Stati Uniti d’America il diritto a portare e possedere armi è sancito dal secondo emendamento della Costituzione che stabilisce come sia necessario, per uno Stato, una milizia ben regolamentata.

I Padri Fondatori, ben memori dell’esperienza di guerra necessaria per liberarsi dal colonialismo inglese e dei pericoli presenti nel Continente, preferirono una nazione dove -potenzialmente – ogni cittadino avrebbe potuto avere un’arma, rispetto ad uno Stato dove solo l’Esercito è armato.

Si tratta di una finezza non avuta dai costituenti europei, nonostante vari Stati europei siano nati da esperienze di resistenza armata: In un certo senso i Padri Fondatori hanno avuto l’intuizione che il Popolo avesse la necessità di rescindere, anche tramite forze in armi, dall’adesione al governo; quelli italiani si sono detti “siamo una democrazia e lo saremo per sempre”.

I vari Stati dell’Unione, comunque, possono porre limiti al porto in pubblico e sottoporlo a licenze, che attendono a concessioni somministrate alla richiesta, se si posseggono determinate caratteristiche di legge o discrezionalmente.

Nessuno nega che in USA ci sia un problema di violenza. Tutti gli americani con cui ho parlato, dai sandersiani convinti ai trumpisti, passando per i libertarian: concordano sul fatto che le armi da fuoco siano semplicemente un mezzo di espressione, se non le avessero userebbero altre armi, ma al contempo sono anche un mezzo di difesa, infatti alcune importanti stragi sono avvenute in luoghi “gun-free”.

Le armi in Europa: Svizzera e Cechia

In linea di massima l’Europa ha leggi abbastanza restrittive in materia di armi. Questi due Stati, tuttavia fanno eccezione e hanno normative abbastanza liberali.

La Svizzera, di per se, ha una normativa non troppo speciale: Per comprare un’arma viene richiesto un permesso che si ottiene con relativa semplicità, se si hanno i requisiti, mentre per il porto in pubblico serve un ulteriore permesso, concesso con parsimonia.

Tuttavia in Svizzera esiste il servizio di leva, i cittadini portano a casa il fucile d’assalto e una volta terminata la leva possono acquistarlo.

Ciò porta a un ciclo virtuoso: Se avere un’arma in strada è relativamente raro, è però possibile difendersi nel proprio domicilio e, in caso, difendersi da un invasore armato o da una deriva dittatoriale del governo federale.

Sticker pro-armi ceco che recita “Vorresti davvero non aver nessun portatore di armi legale nelle vicinanze?”

 

In Cechia, invece, c’è un modello più individualista e la permissiva normativa – “diamo a Cesare quel che è di Cesare”, che è stata approvata persino dal socialdemocratico Zeman – permette il possesso e il porto a chi ha i requisiti di legge.

Inoltre, una volta ottenuto il permesso, è abbastanza semplice comprare pistole e fucili ad azionamento singolo, mentre è richiesto un ulteriore permesso per le armi semiautomatiche.

Questa volontà di mantenere le armi libere è stata una delle varie ragioni di contrasto tra il governo e il popolo ceco, inclusi i partiti più europeisti come TOP 09, e l’Europa unita: I Cechi credono che sia meglio avere una nazione armata, anche per combattere il terrorismo.

E, quando sentiamo in TV “le squadre anti-terrorismo posso intervenire in mezz’ora” dovremmo anche chiederci: quante persone disarmate può uccidere un terrorista in quel periodo di tempo?

E l’Italia?

In Italia è relativamente facile ottenere il permesso per tenere un’arma in casa, se si rispettano i requisiti di legge. La stessa cosa vale per le licenze di tiro sportivo e per la caccia.

Non vale per la difesa personale: Infatti è abbastanza difficile ottenere un permesso per difesa personale, che comunque vale solo un anno, e viene rilasciato tipicamente a gente che maneggia denaro o gioielli, o a medici notturni.

Ironico il fatto, comunque, che armi non letali come il Taser o le pistole a proiettili di gomma non possano essere portate, mentre le pistole classiche sì: In Italia, in sostanza, non puoi difenderti in maniera non letale, nemmeno se vuoi farlo.

Nel nostro paese, comunque, questo approccio è dovuto anche ad un problema culturale: raro è infatti trovare un serio fronte in favore delle armi sicure e legali; si passa da chi ritiene necessario disarmare i cittadini, e per il quale è meglio un cittadino onesto morto e un ladro in vita, rispetto all’inverso – colpevolizzando la legittima difesa- e chi invece vuole le armi libere senza alcun criterio di regolamentazione.

Da liberali dovremmo porci contro chi ci vuole sudditi dello Stato, tutti disarmati e in balia del primo che si procura una Glock al mercato nero (perché le leggi non possono nulla contro chi già sta agendo illegalmente), ma anche contro chi pensa di risolvere le dispute a colpi di rivoltella.

Il possesso di un’arma dovrebbe essere un diritto che attiva di conseguenza una serie di un doveri civici. Ed, esattamente come la possibilità di guidare un veicolo, dovrebbero essere contemplate cause che lo limitino o lo impediscono totalmente, da certificarsi tramite un corso ed una visita medica, senza per questo limitare immotivatamente la libertà personale.

L’individualismo di genere

Il femminismo è un’arma per mantenere vivo il fantasma comunista: dal genericidio del voler rendere uomini e donne -due universi opposti e complementari- uguali è stata creata una lobby che crea una solidarietà volta al guadagno e al mantenimento dello status quo del politicamente corretto tra chi di questa lobby fa parte e ci guadagna e tra chi, tramite il lavaggio del cervello proposto dalla stessa, crede di fare una cosa giusta sentendovisi appartenente, così tanto da arrivare a straziare il proprio corpo de-generizzandolo pur di perpetrare il suo linguaggio.

Che il femminismo della quarta ondata sia cominciato e sia esploso con il #metoo a fini strumentali, come arma per nuocere ad un presidente che sta ottenendo consensi sempre maggiori, pare ovvio; sono i risvolti dello stesso a fare paura a chi del proprio pene o della propria vagina ne va fiero. Che sesso, soldi e politica vadano a braccetto è un’altra ovvietà, ma dirlo è una sconcezza. Da questo paradigma così ovvio ma così altamente politicamente scorretto ho fatto partire un’intera ideologia volta a difendere il maschio in un mondo dove le femmine sono scorrette a definirsi tali se non aggiungono quell’-ista finale che accompagna ogni aggettivo volto a definire una presa di campo.

Essere individualista comporta un -ista minore nella sua portata rispetto all’essere un’altra forma di -ista o un collettivista: l’individualista deve usare questa desinenza per aggettivarsi, ma è per definizione sé stesso.

Noi donne possiamo essere femministe, oppure si può pensare con la propria testa e con la propria vagina ed essere femmine individualiste accanto a maschi altrettanto fieri di esprimere la propria natura senza essere etichettati per forza come maschilisti.

I maschilisti prima, e le femministe poi, commettono terrorismo di genere escludendo il genere avversario da alcune forme della società civile. Se le donne erano prima escluse dalla vita politica e hanno ottenuto i diritti politici millenni dopo gli uomini, adesso si assiste alla versione opposta, o almeno al suo albore, con strumenti assurdi come le quote rosa, paragonabili ai gradi di invalidità civile.

Promuovendole come strumenti democratici e conquiste femminili, le femministe si sono auto-discriminate; praticamente ammettono di essere inferiori agli uomini e di non riuscire ad ottenere un posto di lavoro nel settore pubblico o una poltrona in parlamento per merito personale. Perfino l’Organizzazione delle Nazioni Unite in ogni offerta di lavoro ha bisogno di chiarire che in caso di parità di requisiti la donna è preferita; sia mai infatti che l’ONU risulti politicamente scorretta!

Pur di rientrare nell’ambito della legalità si scaglia infatti contro qualsiasi reale ingiustizia, o almeno non è capace di mettersi nei panni di chi realmente ha bisogno di difendersi: vengono create convenzioni per le donne ma intanto in alcuni paesi mussulmani queste vengono ancora lapidate per adulterio; Hamas spende i pochi soldi dei palestinesi per creare armi fai-da-te e li manda a morte sicura, ma gli assassini sono gli israeliani che non possono dire di difendersi davanti ai media in quanto si parlava di manifestazioni pacifiche, nonostante ci fossero telecamere a dimostrare il contrario.

La versione dell’ONU è una e l’aggettivo pacifista nasconde forse quel comunista che racchiude il femminismo stesso. Del resto se l’ONU fosse così pacifica e democratica un contraltare per gli uomini vittime di violenza domestica sarebbe già stato creato, o almeno nella CEDAW (Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione della donna) sarebbe stata aggiunta una clausola per scrutare la realtà dei fatti. Per non parlare di oggi, un tempo in cui gli uomini meritano una convenzione per il loro genere che li protegga da accuse di violenza non dimostrabili ed assurde per il fatto che spesso tali accuse piovono su relazioni comprovate nel tempo.

Queste accuse, raccolte sotto l’hashtag #metoo, fanno passare la donna come perenne vittima abusata in un momento di fragilità psichica. Queste femministe saranno contente di aver trovato un modo di guadagnare ulteriore una volta finito di beneficiare dagli uomini che prima di denunciare amavano, ma devono solamente vergognarsi di non ammettere fieramente di essersi prostituite allora e di persistere in tale nobile lavoro castrando il genere maschile. (La prostituta è la più antica lavoratrice del mondo, è una professionista del sesso e viene pagata per dare piacere e non problemi. È notorio che andare a puttane salva tanti matrimoni e dovremmo incentivare questo costume anche legalizzando il settore, piuttosto che giustificare il divorzio.)

In sostanza il mondo non è mai stato così polarizzato su due estremi, e non è mai stato così evidente il contrasto tra ipocrisia e sincerità.

La Natura è varia nelle sue manifestazioni, ma per quanto riguarda il genere dovremmo essere grati di come siamo nati, e ricordarci che siamo anatomicamente fatti per ricevere un solo altro. Siamo individualisti amandoci, perché solo amando sé stessi possiamo amare ed accogliere dentro di noi l’altro. Questa forma di collettività non può essere aggettivata con la desinenza  -ista perché può essere chiamata solamente Amore.

L’individualismo di genere è amore: vi sono coinvolte più persone, ma ne deriva un nucleo unico, chiamato famiglia. E del resto parliamo di due pianeti diversi a comporla, Marte e Venere, azione e compassione (da cum e patior, capacità di sentire insieme); questi restano tali anche nelle coppie omosessuali per i ruoli che vengono presi nella dinamica della coppia. L’amore è tale, trascende, non ha connotazioni etero/omosessuali, rimanendo innegabile che la vita biologicamente nasca da uno spermatozoo e un ovulo.

La difesa della proprietà è sempre legittima: impariamo dagli U.S.A.

Essendo necessaria, alla sicurezza di uno Stato libero, una milizia ben regolamentata, il diritto dei cittadini di detenere e portare armi non potrà essere infranto”, ed è il caso di rileggerlo bene così da assimilarne il contenuto.

Ditemi quale altro esempio di libertà dovremmo avere oltre a questo: ad uno Stato nato dalla ribellione agli imperi britannico e spagnolo. Una condizione, questa, per la quale viene riconosciuto il diritto al cittadino di armarsi in difesa della propria libertà, garantendogli il diritto anche di uccidere in caso di necessità. 

Oggi le esigenze sono mutate ma i principi rimangono solidi: la libertà è un bene supremo che deve esser difeso costi quel che costi. Non esistono imperi che, colonizzando territori, sottomettono popoli interi. O meglio: non avviene certamente nel modo classico che tutti noi immaginiamo, e dell’avanzata dell’islam in Europa parleremo in un’altra occasione. La minaccia alla libertà individuale, e alle sue colonne portanti come la proprietà privata, è sempre in agguato ed è nostro dovere essere sempre vigili, accorti, pronti a reclamare uno dei pochissimi diritti di cui pretendiamo di godere: quello alla libertà.

Si dice che un cittadino abbia tra i suoi più pericolosi nemici lo Stato, il quale, in virtù del suo potere, si impone prescrivendo condotte e rendendone illecite altre. Tutto normale, vien da dire, a meno che non si sfoci nell’esagerazione e nell’eccesso di norme, classica situazione in cui troppe sfaccettature della vita dei singoli vengono regolamentate sottraendo a questi ultimi la possibilità di autodeterminarsi completamente.

Torna utile quanto enunciato dal secondo emendamento: uno Stato libero, per esser veramente tale, deve proteggersi anche da sé stesso e dall’andazzo maldestro che può intraprendere. E lo Stato siamo tutti noi, altroché vittimismo, ed è dunque nostro dovere la civile ribellione di cui parlava Henry David Thoreau nella sua Disobbedienza civile. Non possiamo delegare a qualcun altro la tutela delle nostre libertà, perché ne siamo noi e soltanto noi i titolari. 

Prima che la collettività, deve essere tutelato l’interesse dei singoli, essendo la collettività stessa formata da gruppi di persone che decidono di associarsi. È dunque più che ragionevole pretendere di poter difendere la proprietà privata dalle incursioni dei malintenzionati che affliggono le nostre città. La pretesa di obbligare i cittadini a non difendersi, e con sé stessi anche le proprie famiglie, per la supposta tutela della collettività, snocciolando le statistiche per le quali la legittima difesa finirebbe per ledere anche gli innocenti, è folle perché in virtù di certe astratte previsioni verrebbe menomata una libertà concreta.

Quest’ultima consiste nel difendere la abitazione ove ognuno di noi vive e gli affetti che tale immobile contiene, intendendo con ciò prima di tutto le persone, la famiglia, e poi i beni materiali ivi contenuti. La possibilità di essere proprietario di un immobile, ottenuto tramite una trattativa culminata in una acquisto, si svuota di significato se diviene alla mercé di chiunque voglia usufruirne abusivamente, intendendo implicitamente con ciò che la proprietà privata è un furto.

Ed è ancor più grave che sia un organo dello Stato, quello legislativo, che legiferando in tal senso inibisce i suoi cittadini dal difendere le proprie abitazioni da ladri e malfattori garantendogli sanzioni di enorme portata. Addirittura essi passano dalla parte del torto, pur avendo subito una violenza grave, nel momento in cui si trovano obbligati da una sentenza a risarcire la famiglia del delinquente dalla cui aggressione si sono difesi. 

Siamo pieni di buontemponi che, parlando di un non meglio diritto alla casa, difendono coloro che occupano gli immobili altrui, accampando a difesa di questo abominio l’utilità sociale che deve avere tale immobile. Utilità sociale che, per definizione, non esiste e quindi può essere tirata da una parte all’altra in base alle esigenze momentanee, finendo inesorabilmente col menomare la proprietà privata di un soggetto qualunque. Da questo concetto malsano a giustificare i ladri perché magari indigenti, il passo è breve. Ed è già accaduto che qualche sociologo da serie C lo affermasse tanto per garantirsi qualche minuto di applausi in più.

Ce lo insegna la più grande democrazia del mondo che per esser liberi si deve, spesso, anche essere armati. E se qualche buonista ritiene che casa propria debba essere a disposizione di chiunque voglia depredarla o bivaccarci, non saremo certo noi a ledere questa sua libertà di scelta.

Conoscere Adam Smith: La Ricchezza delle Nazioni (Libro Primo-1^ parte)

In questo articolo parleremo della prima parte del Libro Primo dell’Opera La Ricchezza delle Nazioni (1776) scritto da Adam Smith (1723-1790), filosofo ed economista scozzese, padre dell’economia politica ed il fondatore della prima vera “scuola economica”, quella classica.

Il titolo è “Cause che migliorano la capacità produttiva del lavoro e ordine secondo il quale il suo prodotto si distribuisce naturalmente tra le diverse classi sociali“.

Capitolo I – La Divisione del Lavoro

La divisione del lavoro è la grande causa della sua maggiore produttività. Essi è facilmente comprensibile se consideriamo un esempio particolare, come quello della fabbricazione degli spilli.
Come stesso racconta Adam Smith:

“Un operaio non addestrato in questa attività, né abituato all’uso delle sue macchine, potrebbe forse a malapena, impegnandosi al massimo, fare uno spillo al giorno, e certamente non potrebbe farne venti. Ma nel modo in cui ora viene svolta, non soltanto questa attività è un lavoro specializzato, ma è divisa in molti rami, la maggior parte dei quali parimenti specializzati. Un uomo svolge il filo metallico, un altro lo drizza, un terzo lo taglia, un quarto lo appuntisce, un quinto lo arrota nella parte destinata alla capocchia; […] La fabbricazione di uno spillo è così divisa in circa diciotto distinte operazioni, che in talune fabbriche sono eseguite da mani distinte, sebbene in altre lo stesso uomo ne esegua talvolta due o tre.”

L’effetto è analogo in tutte le attività anche nelle divisione delle occupazioni. La divisione del lavoro provoca un grande incremento della quantità. Perché? Per tre circostanze: la maggior destrezza dell’operaio che incrementa necessariamente la quantità di lavoro che esso può eseguire;  il risparmio del tempo che comunemente viene perso nel passare da una specie di lavoro all’altra; l’impiego di macchine inventate da operai, da costruttori di macchine e filosofi.
Da qui deriva l’opulenza generale di una società ben governata, presso la quale anche l’abito del lavorante a giornata è il prodotto di un gran numero di operai.

Capitolo II – Il principio che determina la divisione del lavoro

La divisione del lavoro deriva dalla propensione della natura umana a scambiare. Solo nell’uomo esiste questa propensione, poi ché è incoraggiata dall’egoismo, come testimonia la celebre frase:

“Non è dalla benevolenza del macellaio, del birraio o del fornaio che ci aspettiamo il nostro desinare, ma dalla considerazione del loro interesse personale”

Tutto ciò porta alla divisione del lavoro, determinando così differenze di talento più rilevanti delle differenze naturali, rendendoli utili.

Capitolo III – La divisione del lavoro è limitata all’estensione del mercato

La divisione del lavoro è limitata dalla capacità di scambio. Alcune attività possono essere svolte soltanto nelle città. Il trasporto per via d’acqua espande il mercato, come testimoniano i primi progressi che si sono verificati sulle coste o lungo i fiumi navigabili, come fra gli antichi popoli sulle coste del Mediterraneo.
I progressi si sono verificati in Egitto, Bengala (tra il Bangladesh e India) e Cina; mentre l’Africa, la Tartaria (Russia) e la Siberia come pure la Baviera, l’Austria e l’Ungheria sono arretrate.

Capitolo IV – Origine e uso della moneta

Una volta affermata la divisione del lavoro, ognuno vive di scambio. Le difficoltà del baratto hanno portato alla scelta di una merce come moneta, rispetto al passato in cui venivano adottate come strumento di commercio merci come il bestiame, sale, conchiglie, merluzzo, tabacco, zucchero, cuoio e chiodi. Infine furono preferiti i metalli perché durevoli e divisibili. Ferro, rame, oro e argento, furono dapprima usati in barre non impresse e in  seguito marcati perché portassero impressa la quantità e finezza del metallo; prima fu introdotta la marcatura per certificare la finezza, e in seguito la coniazione per certificare il peso. Inizialmente la denominazione delle moneta ne esprimeva il peso.
Adam smith indagò sulle regole che determinano il valore di scambio. Con valore si può intendere sia l’utilità di qualche particolare oggetto, detto valore d’uso e sia il potere di acquistare altri beni che il possesso di questo oggetto conferisce, detto valore di scambio. Il filosofo scozzese si pose tre quesiti.
In che cosa consiste il prezzo reale delle merci?
Quali sono le diverse parti di questo prezzo?
Perché talvolta il prezzo di mercato differisce da questo prezzo?
Le risposte saranno nei prossimi tre capitoli.

Capitolo V – Prezzo reale e nominale delle merci, ossia loro prezzo in termini di lavoro e di moneta

“Ogni uomo è ricco o povero nella misura in cui è in grado di concedersi i mezzi di sussistenza e di comodo e i piaceri della vita. Ma una volta volta affermatasi la divisione del lavoro, con il proprio lavoro si può ottenere soltanto una parte piccolissima di questi. La parte di gran lunga maggiore deve essere tratta dal lavoro degli altri, e quindi uno è ricco o povero secondo la quantità di lavoro di cui può disporre o che è in grado di acquistare”

Il lavoro è da considerare la misura reale del valore di scambio, in quanto è il primo prezzo pagato per ogni cosa. La ricchezza  è il potere di acquistare lavoro. Ma il valore non è generalmente stimato in base al lavoro in se perché il lavoro è difficile da misurare; le merci sono più frequentemente scambiate con altre merci, specialmente con moneta, che è perciò più frequentemente usata nella stima del valore. Ma il valore dell’oro e dell’argento varia; talvolta costano più e talaltra meno lavoro, nonostante il lavoratori lavori ugualmente e si sacrifica ugualmente.
Ma sebbene uguali quantità di lavoro siano sempre uguali per il lavoratore, il datore di lavoro considera il lavoro di valore variabile. Quindi possiamo dire che il lavoro, come le merci, ha un prezzo reale e un prezzo nominale.

“Il suo prezzo reale si riferisce alla quantità di mezzi di sussistenza e di comodo che vengono cedute per esso; il prezzo nominale si riferisce alla quantità di moneta. Il lavoratore è ricco o povero, bene o mal remunerato, in proporzione al prezzo reale non al prezzo nominale del suo lavoro”

La distinzione fra reale e nominale è talvolta utile nella pratica, poiché la quantità di metallo nei conii tende a diminuire, e lo stesso discorso vale per il valore dell’oro e dell’argento.
Dal 1586 le rendite inglesi stipulate in moneta si sono ridotte a un quarto, le rendite in Scozia e in Francia la perdita è spesso maggiore. Le rendite in grano sono più stabili di quelle in moneta, ma sono soggette a variazioni annuali molto maggiori. Per cui il lavoro è l’unica misura universale.
Ma nelle situazioni o transazioni ordinarie la moneta è sufficiente, essendo una misura assolutamente esatta nello stesso tempo e luogo, è da considerare la sola cosa nelle transazioni fra luoghi distanti. Non c’è quindi da meravigliarsi se al prezzo nominale è stata data data maggiore attenzione. Sono stati coniati parecchi metalli, ma solo uno viene usato come base e questo è generalmente quello usato per primo in commercio, come i romani usarono il rame, e le nazioni europee moderne l’argento. Originariamente il metallo base era l’unica moneta legale, più tardi il rapporto fra il valore dei due metalli viene dichiarato per legge ed entrambi sono moneta legale e la distinzione fra di essi diventa irrilevante, tranne quando il rapporto stabilito viene cambiato.
Rimanendo un rapporto fisso, il valore del metallo più prezioso regola il valore di tutto il sistema monetario, come in Gran Bretagna, dove la riforma della moneta di oro ha aumentato il valore della moneta di argento. In Inghilterra l’argento è valutato al di sotto del suo valore. L’argento dovrebbe essere valutato di più e non dovrebbe essere moneta legale per più di una ghinea. Se fosse valutato adeguatamente, il prezzo dell’argento in lingotti si ridurrebbe al di sotto di quello di zecca senza bisogno di una riforma monetaria. Un diritto di coniazione impedirebbe la fusione e scoraggerebbe la esportazione.  Le fluttuazioni del prezzo di mercato dell’oro e dell’argento sono dovute a normali cause commerciali, ma una costante differenza dal prezzo di zecca è dovuta allo stato della moneta. Il prezzo delle merci si adegua al contenuto effettivo della moneta.

Capitolo VI – Le parti componenti del prezzo delle merci

La quantità di lavoro è originariamente l’unica norma del valore. Tenendo conto di fatiche particolari, se un tipo di lavoro è più pesante di un altro, si tiene naturalmente conto di questa superiore fatica; e il prodotto di un’ora di lavoro dell’uno può frequentemente scambiarsi per quello di due ore di lavoro dell’altro. O se un tipo di lavoro richiede un grado non comune di destrezza e ingegno, la considerazione che gli uomini hanno di queste capacità darà naturalmente al loro prodotto un valore superiore a quello che sarebbe dovuto al tempo impiegato in esso.
L’intero prodotto del lavoro appartiene al lavoratore, ma quando si parla di capitale, si deve dare qualcosa per i profitti dell’imprenditore e il valore del prodotto si compone di salari e profitti. Quindi, i profitti non sono soltanto salari per il lavoro di ispezione e direzione, poiché il lavoratore divide il prodotto col suo datore e il lavoro non basta più a determinare il valore.
Nel caso in cui la terra diventa completamente proprietà privata, la rendita costituisce una terza componente del prezzo della maggior parte delle merci. Il valore di tutte e tre le parti è misurata dalla quantità di lavoro.
In una società progredita tutte queste tre parti sono generalmente presenti, per esempio nel prezzo del grano, della farina di frumento o di altri cereali. Nelle merci che richiedono molta lavorazione, la rendita è in minor proporzione e il prezzo di alcune merci è costituito soltanto da due una delle tre parti componenti.
Ma il prezzo di tutte le merci è costituito per lo meno da una componente e il prezzo di tutto il prodotto annuale si risolve in salari, profitti e rendita, che sono le sole specie originarie di reddito. Quando queste tre differenti specie di reddito appartengono a persone differenti, è facile distinguerle; ma quando esse appartengono alla stessa persona sono talvolta confuse l’una con l’altra, almeno nel linguaggio corrente. Per esempio, la rendita di un coltivatore diretto viene chiamato “profitto”, il salario di un comune agricoltore viene chiamato “profitto” , il salario di un manifatturiere indipendente viene chiamato “profitto”, mentre la rendita e il profitto di un orticoltore che coltiva la sua terra sono considerati guadagni del lavoro.
Una gran parte del prodotto annuale va agli inattivi e la proporzione fra questa parte e il totale regola l’aumento o la diminuzione del prodotto.

Capitolo VII – Prezzo naturale e prezzo di mercato delle merci

In ogni società o luogo vi è un saggio ordinario dei salari, del profitto e della rendita. Questi saggi ordinari possono essere chiamati Saggi Naturali dei salari, del profitto e della rendita nel tempo e luogo. Quando il prezzo di una merce è sufficiente a pagare la rendita della terra, i salari del lavoro e i profitti del capitale, la merce viene venduta al suo prezzo naturale, ossia per ciò che costa realmente. Ma poiché nessuno continuerà a vendere senza profitto, il prezzo effettivo al quale comunemente si vende una merce è detto prezzo di mercato che è regolato dalla quantità portata al mercato e dalla domanda effettiva.
Quando la quantità portata sul mercato è inferiore alla domanda effettiva, il prezzo di mercato supera il prezzo naturale; quando supera la domanda effettiva il prezzo di mercato scende al di sotto del prezzo naturale. La quantità di ogni merce immessa nel mercato si adegua naturalmente alla domanda effettiva; quando essa supera questa domanda, alcune delle parti che compongono il prezzo sono inferiori al loro saggio naturale, quando è inferiore, alcune parti che compongono il prezzo superano il loro saggio naturale.

Il prezzo naturale è il prezzo medio intorno al quale gravitano i prezzi di tutte le merci. Il prezzo naturale è il prezzo medio intorno al quale gravitano i prezzi correnti. In questo modo tutta l’attività annualmente svolta per portare una merce sul mercato si adegua naturalmente alla domanda effettiva. Essa tende naturalmente sempre a portarvi quella esatta quantità che può essere sufficiente a soddisfare, e non più che a soddisfare quella domanda, ma la quantità prodotta da un dato ammontare talvolta fluttua.
Le fluttuazioni incidono più sui salari e sul profitto che sulla rendita, influenzandoli in proporzioni diverse secondo l’offerta di merci e di lavoro. Ma il prezzo di mercato può mantenersi per lungo tempo al di sopra del prezzo naturale perché non sono sufficientemente noti gli elevati profitti, o in conseguenza di servizi di fabbricazione, o in conseguenza della scarsità di particolari tipi di suolo.
Un monopolio ha lo stesso effetto di un segreto commerciale. Infatti il prezzo di monopolio è il massimo che si possa ottenere. Il prezzo naturale, o prezzo di libera concorrenza, è invece il più basso che possa darsi per un certo tempo. I privilegi delle corporazioni, fra i tanti, rientra anche il fatto che sia una sorta di monopolio allargato. Invece, raramente il prezzo di mercato si mantiene a lungo al di sotto del prezzo naturale. Questo almeno in situazione di perfetta libertà, poiché le corporazioni tendono a ridurre per un certo tempo i salari di molto al di sotto del saggio naturale. Il prezzo naturale varia al variare del saggio naturale dei salari, dei profitti e della rendita.

Breve apologia dell’individualismo

Sentir usare la parola individualismo in senso positivo fa storcere il naso a molti. Essa è una parola che ha assunto un valore negativo per la maggior parte delle persone, basti pensare alla dicotomia individuo-società, dove il polo positivo è rappresentato, nel senso comune, dal secondo termine. Per i più questa è una opposizione binaria perfetta che riesce a descrivere la realtà. Però, dal punto di vista liberale, le cose sono leggermente diverse.

Innanzitutto, partiamo dal presupposto che il termine individualismo può assumere diverse sfumature in base al contesto in cui è usata e da chi ne fa uso.  Queste sfumature sono molto diverse tra loro e parlare di individualismo senza aver ben chiaro di cosa si parla può portare a cadere in luoghi comuni e banalità.

Senza pretese di alcun tipo, questo articolo si propone di illustrare alcuni dei significati del termine individualismo, con l’auspicio di essere un incipit per una riflessione sul tema stesso.

In primo luogo, l’individualismo è un approccio metodologico ben preciso. Esso è il principio di indagine alla base della riflessione sulla società e l’economia di Mises, poi ripreso anche da Rothbard. Utilizzando le parole del pensatore newyorkese, questo approccio metodologico può essere così sintetizzato: «solo gli individui hanno fini e possono agire per perseguirli. Non esistono fini delle azioni imputabili a “gruppi”, “collettività” o “Stati” che non possano essere ricondotti ad azioni di specifici individui».[1] Ciò significa utilizzare un certo filtro nel leggere i fenomeni economico-sociali, nell’analisi del diritto e così discorrendo. In questa maniera è possibile vedere cosa c’è alla base della società: essa non è altro che l’insieme degli individui e delle loro relazioni reciproche.

Questa analisi può sembrare banale, ma essa demistifica una visione della società che ha avuto enorme fortuna, ovvero l’idea di una società organica che viene prima dell’individuo e anzi ne è il fondamento. È sostanzialmente la concezione platonico-aristotelica, ripresa poi da Hegel. La dicotomia individuo-società è importante, ma bisogna capovolgere il rapporto rispetto a come comunemente viene inteso. Inoltre, non si può attribuire un valore morale negativo o positivo ad uno dei due termini. Semmai sono le azioni degli individui a poter essere biasimate o lodate. La società, se intesa alla maniera comune, diviene una sorta di ente metafisico che “tiene all’essere l’individuo” il quale, fuori di essa, non può esistere. In realtà, quest’ultima affermazione non è del tutto sbagliata se si prescinde dall’utilizzo dei vari termini attinenti alla metafisica. L’individuo ha bisogno della società. Non può vivere senza di essa, è veramente animale sociale. Ma non è la società ad essere alla base dell’individuo, semmai è il contrario e questo è un punto fermo da tenere a mente.

Quindi, una volta preso atto di ciò, non si può rimproverare ad un individualista di voler essere contrario alla società, di essere una mina vagante. Un individualista non cerca di recidere i legami che tengono insieme il tessuto sociale, ha soltanto preso atto dell’importanza della sua posizione all’interno di quel reticolo.

Individualismo significa anche autonomia, ovvero la capacità di darsi fini liberamente posti e di perseguirli; significa scegliere liberamente cosa fare e come portare avanti le proprie iniziative; significa cercare di realizzarsi il più possibile. Tutto questo non può avvenire al di fuori della società.

Spesso si cerca di descrivere negativamente gli individualisti ricorrendo al concetto di monade o di atomo. Infatti, si rimprovera agli individualisti di essere chiusi in sé stessi, senza finestre sul mondo esterno, egoisticamente arroccati nel proprio rifugio mettendo a repentaglio la società. Ma, come insegna la chimica, gli atomi hanno delle configurazioni elettroniche che li portano a legarsi con altri atomi in maniera da avere una situazione più favorevole ad entrambi. Così si formano molecole via via sempre più grandi fino ad arrivare agli oggetti della quotidianità. Non è forse così che si forma una società? Sono gli interessi individuali ad essere la linfa della società stessa.

[1] Rothbard (1962), p.2.