Ho letto molto su Marchionne e ho letto parole confuse e confusamente gettate sui fogli dai suoi detrattori. E poi mi chiedevo, “ma che cavolo si deve avere nel cervello per affermare che lui ha fatto del male all’azienda o all’Italia o ai famigerati operai?”. Una risposta tecnica non esiste, perché l’unico motivo di tanto astio e di tante parole al vento riguarda la genialità di Marchionne: personaggi come lui, unici nel suo genere, attirano per forza di cose critiche insensate e rancori ideologici.
Un quotidiano che riporta sulla sua testata la scritta “quotidiano comunista” non potrà che detestare uomini come lui, i quali hanno fatto dell’esaltazione dell’individualismo e dell’economia di mercato i propri caratteri distintivi. Raggiungendo obiettivi insperati, ottenendo successo, vincendo su larga scala, evidenziando ancora una volta come questa sia l’unica strada che conduca al benessere collettivo.
In pratica, si deve partire dagli individui e dalla tutela riconosciuta alla loro libertà per tentare di raggiungere il benessere della collettività. Il processo contrario, il voler porre l’accento sui così detti diritti sociali, porta soltanto miseria e povertà poiché non tiene conto del fatto che il mucchio è composto da singoli. Ed è questa una realtà innegabile.
Chi la nega annaspa nella burrasca della faziosità ideologica. Chi la nega vorrebbe negare la possibilità delle azienda di spostare le proprie sedi in paesi meno avversi all’imprenditoria, sostenendo al contempo che una tassazione progressiva (non proporzionale eh) e un bastonamento continuo della ricchezza debbano essere i tratti distintivi di un paese ove “la forbice della disuguaglianza di allarga sempre più”. Ed è evidente che in un paese intrappolato in questa giungla di pregiudizi e corporativismi un’azienda non possa sperare di prosperare.
La tassazione progressiva non si limita a far pagare più tasse a chi guadagna di più, ma lo punisce imponendogli di pagare in modo sempre maggiore fino a togliere la voglia a chicchessia di impegnarsi in un’attività che generi ricchezza. La burocrazia, assieme alle tasse, rende la vita tecnicamente difficile e in salita per gli adempimenti e le scadenze da rispettare. Il modello è quello secondo cui è lo Stato a fare un favore all’imprenditore, concedendogli il permesso di lavorare sul proprio territorio, e non il contrario.
E i diritti richiesti ogni giorno a gran voce renderanno sempre più angusto lo spazio concesso alla libertà, perché i diritti di cui cianciano sindacati e sinistri non sono quelli di cui parla la dichiarazione d’indipendenza americana, ovvero quelli che vivono in noi sin dalla nostra nascita, bensì quelli che verrebbero creati artificialmente dallo Stato tramite decretino.
Oggi, come abbiamo letto tutti, viene richiesto a gran voce anche il diritto di togliere a Cristiano Ronaldo la possibilità di guadagnare quanto il mercato gli offre. Hanno scioperato gli operai Fiat per i 30 milioni di euro che Ronaldo percepirà dalla Juventus, ritenendo che anche loro abbiano diritto ad un trattamento migliore e non si spiega su quale base. La verità è che questo è un paese ove il messaggio sottile veicolato dice che siccome non si può esser tutti ricchi, allora è meglio esser tutti poveri, ignorando le caratteristiche di ognuno di noi, degli individui, che comporteranno retribuzioni e riconoscimenti diversi ottenuti tramite la libera pattuizione tra le parti in gioco.
È chiaro perché il concetto di diritti non va di pari passo con quello di libertà? La rigidità dietro a questa mentalità era sconosciuta a Sergio Marchionne il quale, laureato in filosofia, affermava che “non so se la filosofia mi abbia reso un avvocato migliore o un amministratore delegato migliore, ma mi ha aperto gli occhi. Ha aperto la mia mente ad altro”. La flessibilità non è solo quella del dipendente licenziabile, ma anche della mente di tutti noi e riguarda la nostra capacità di movimento all’interno del paese e del mondo, delle aspirazioni e delle inclinazioni personali.
La flessibilità che ha portato il laureato in filosofia Marchionne a divenire uno dei più grandi manager della storia è la medesima per la quale ognuno di noi, in Occidente e in Occidente soltanto, può svegliarsi la mattina, rinfrescarsi la faccia e guardare il tizio allo specchio per comprendere quali siano i suoi sogni nel cassetto. Lavorare, adoperarsi, ascoltare testa e anima per rincorrere quell’entità astratta di cui sentiamo parlare sin da bambini che si chiama “sogni”.
La sfida, l’impronta personale lasciata, la responsabilità per ciò che si fa, dirigere gli eventi anziché lasciare che si producano e sfuggano dalle nostre mani. E poi la mischia, la concorrenza, creare ogni mattina qualcosa di nuovo o migliorare ciò che precedentemente era stato fatto. Non vivere mai due giorni allo stesso modo perché è sempre possibile innovare quel che era stato creato il giorno prima. Marchionne era un manager innovatore, che è una rarità.
Marchionne non dirigeva alcunché: Marchionne distruggeva per ricreare qualcosa di nuovo e di accattivante, e difatti affermava sempre che la caratteristica del suo modo di lavorare era sempre e immancabilmente una: rispondere alle esigenze del mercato, e produrre le Ferrari per gli emiri e la Panda per il ceto medio. Vi è qualcosa di eroico e di grandioso in questa predisposizione dell’uomo di azienda di capire quali siano le esigenze e le necessità della clientela, elaborando proposte nuove, mettendo in gioco quanto già fatto in passato, col dubbio che i bisogni mutino e che quindi anche le sue proposte debbano seguire quel tracciato.
Marchionne non sarebbe mai sceso in politica perché diceva che il suo mestiere era il metalmeccanico. Mi domando cos’abbia pensato negli ultimi mesi dell’impronta assistenzialistica che il Movimento 5 stelle vuol dare alle politiche del governo in carica. Penso alle sue esortazioni a crearsi le opportunità, a partecipare alla rissa, partecipando attivamente al gioco senza sostare in panchina. Un pezzo di questo paese, quel pezzo che ha voluto garantirsi la paghetta mensile denominata reddito di cittadinanza, non cambierà mai.
Per troppo tempo sono mancate al governo persone come lui capaci di pronunciare quelle parole. Per troppo tempo è stata utilizzata la pubblica amministrazione come ammortizzatore sociale, creando la famosa situazione paradossale dei forestali calabresi che raddoppiano i ranger di tutto il Canada. Quel Canada di Marchionne, appunto.
Ma vivrà anche una fetta d’Italia che per istinto, prima che per sopravvivenza, rimarrà aggrappata al ricordo dei grandi capitani d’industria di questo secolo e del secolo scorso, garantendo col proprio lavoro e le notti insonni all’altra parte sfaccendata di proseguire nella sua indolenza improduttiva.
Si finisce per fare del bene quando non si ha intenzione di farne. In un paese in cui la ricchezza e gli utili sono visti come furti, questo è un doveroso elogio della cattiveria e un abbattimento della bontà imposta. Forse questa è una delle lezioni più importanti. La beneficenza coattiva genera mostri. Perseguire il proprio interesse, al contrario, genera benessere. Sergio Marchionne è stato uno dei nostri più cari amici, ed è per questo che dobbiamo dirgli “grazie mille”!