Lady “TINA”, la donna di ferro che curò la Gran Bretagna

Speriamo possa ispirare qualcuno in Italia, dove la cultura liberalconservatrice è praticamente assente, la nuova biografia in italiano di Margaret Thatcher, Margaret Thatcher. La biografia della donna e della politica (Mondadori, 2019), firmata da Elisabetta Rosaspina. Che, nello stile delicato e documentato si conferma giornalista di pasta montanelliana. Nel corso dell’opera, la giornalista del Corriere della Sera fa compiere al lettore un viaggio di circa duecentocinquanta pagine nell’universo britannico del secolo scorso, partendo dagli occhi di una donna – la Lady di Ferro del mondo occidentale – che ha cambiato la Storia europea, nonché il suo paese e partito. L’intento di Rosaspina è quello di offrire un ritratto di Thatcher che vada oltre la sua mirabile carriera politica; banalmente, la leader dei Tory è stata la prima donna del mondo occidentale a ricoprire la carica di Primo Ministro, nonché la prima a giustificare le sue mosse politiche con la fortunata sigla “TINA”, “There is no alternative”.

Controversa, odiata e amata allo stesso modo sin dall’inizio della sua carriera politica, “TBW” – “That Bloody Woman” – non era arrivata a Downing Street tramite quote rose o atti compassionevoli: fiera lottatrice, determinata, ambiziosa, Thatcher – unica donna in un modo di uomini (quello di Westminster) – non godeva del supporto dei movimenti femministi. La Signora leggeva molto, amava strafare, essere protagonista, non le importava di essere impopolare; adorava imporsi e condurre battaglie di principio. Senza essere arrogante o presuntuosa, era competitiva, solitaria, decisionista e a tratti anche autoritaria (in molti hanno scritto a proposito di un autoritarismo-populista thatcheriano). La “figlia del droghiere” era un personaggio complesso: Rosaspina racconta con efficacia la donna oltre la feroce maschera della politica, quella che spaventava e assoggettava non solo gli avversari, ma anche i colleghi di partito.

Rosaspina ripercorre meticolosamente l’intera biografia di Thatcher: circa due terzi del libro sono dedicati alla scalata al potere della Lady di Ferro. L’ultima parte verte grosso modo sulla politica estera, che subì picchi nel primo mandato governativo con la battaglia delle Falkland e nel terzo mandato con la fine della Guerra Fredda, il crollo dell’URSS e la “costituzionalizzazione” dell’Unione Europea a Maastricht.

Alla seconda gravidanza della moglie, Beatrice Stephenson, Alfred Roberts – piccolo commerciante metodista, scampato alla Grande Guerra per via della miopia – sperava in un maschietto, ma il 13 ottobre 1925 a Grantham (paesino in seguito gravemente danneggiato dai bombardamenti tedeschi) era nata un’altra femmina. Con Margaret il padre aveva un rapporto speciale: a lui doveva moltissimo, tra cui l’amore per la politica che investì la giovane Roberts sin dalle riunioni rotariane degli anni Trenta, anche se furono le robuste letture a consolidare il legame tra padre e figlia. Amante di Rudyard Kipling, il padre «le insegnava il coraggio delle propri opinioni conservatrici», scrive Rosaspina. In gioventù, così come per il resto della vita, poche furono le amiche di Maggie (a scuola era nota come “snobby Roberts”, viste le attitudini da secchiona); decisivo fu il conflitto mondiale in cui la Gran Bretagna entrò alle 11:15 del 3 settembre 1939, «l’unica domenica della sua infanzia in cui fu autorizzata a disertare la messa».

Diciottenne squattrinata, nel 1943 Margaret studiò chimica ad Oxford senza borsa di studio e risultati eccelsi; il padre auspicava per lei un futuro da insegnante. Formativi nella sua adolescenza furono The Wealth of Nations (di Adam Smith) e The Road to Serfdom (di Friedrich von Hayek, del quale adotterà una volta al governo diverse politiche economiche, sventolando in faccia ai colleghi di gabinetto e all’opposizione l’altro grande successo dell’economista austriaco, The Constitution of Liberty). Quattro anni dopo entrò alla BX Plastics nell’Essex come ricercatrice, ma la sua passione era la politica. Alle riunioni cittadine del Partito Conservatore, la giovane Roberts si stava costruendo una certa visibilità.

Di lì a poco Margaret conobbe Denis Thatcher, l’amore di una vita (“amico”, come lo chiamò in diversi interventi). «Denis era un uomo fuori dal comune. Sapeva di politica quasi quanto me, e di economia molto di più», avrebbe detto. A trentasette anni, ricorda Rosaspina, il signor Thatcher «aveva fretta di diventare padre. Desiderava tanto prima un maschio e poi una femmina», solo che due gravidanze erano davvero troppo per la giovane Lady, che comunque – già all’epoca recordwoman, con sei settimane d’anticipo – «raggiunse lo stesso risultato con un parto gemellare, il 15 agosto 1953.» Allevare i figli non pregiudicò il conseguimento di una seconda laurea, ma negli anni, con rammarico, la Signora di ferro avrebbe riconosciuto di aver messo in disparte i figli per perseguire la carriera politica.

In seguito, si presentò al collegio di Finchley, «una roccaforte dei conservatori una dozzina di chilometri a Nord di Londra, […] indebolita dalla reputazione antisemita di alcuni di loro, implicati nell’esclusione di soci ebrei dal club di golf locale». Margaret – ora “la” Thatcher – vinse con distacco un seggio alla Camera dei Comuni. Per la neo-Onorevole era il sogno di una vita: a trentatré anni, ricorda Rosaspina, «era una delle venticinque deputate, tra cui dodici conservatrici, che entravano a Westminster». Contrariamente a molti parrucconi (tra laburisti e conservatori) dell’epoca, sin dal 1966 Thatcher «era a favore della depenalizzazione dell’omosessualità […] e per l’autorizzazione dall’aborto, se il feto fosse stato a rischio di sviluppare malformazioni o problemi mentali […] Sul divorzio era possibilista, ma prudente.» Il tutto al netto della rigorosa educazione metodista. Insomma, Thatcher era molto più progressista di tanti progressisti.

Junior Minister all’Istruzione dal 1970 al 1974 nel governo di Edward Heath, che conosceva sin dai tempi di Oxford («dieci anni dopo sarebbe diventato in nemico dichiarato»), Thatcher si costruì la fama di “ladra di latte” (“milk snatcher”), visti i tagli dell’emissione gratuita della bevanda dalle scuole pubbliche. In quell’occasione, Heath non difese la ministra, «la donna più odiata del regno», secondo The Sun, che guardava divertito le manifestazioni anti-thatcheriane dei primi anni Settanta, leggerissimo antipasto di quello che sarebbe arrivato dopo l’ingresso della Lady al numero 10 di Downing Street. Il taglio del latte portò ad un risparmio di appena nove milioni di sterline, mossa chiaramente di facciata che le sarebbe stata rinfacciata anche da Primo Ministro dagli avversari politici, tra sarcasmo e sdegno. Nonostante questo, Thatcher continuava a mantenere il filo diretto con i propri elettori «scriveva e rispondeva personalmente a centinaia di lettere, partecipava a tutte le riunioni pubbliche, visitava mercati e fabbriche», ricorda Rosaspina.

Poi la lobby dei minatori dichiarò sciopero per cinquanta giorni: e il Governo Heath si piegò alle richieste; ennesimo smacco per il fragile Esecutivo conservatore.  A parte l’entrata nella Comunità Economica Europea (CEE), «Heath e i suoi ministri avevano raggiunto ben pochi […] obiettivi». Perse le elezioni del 1974, il Partito Conservatore, che non era riuscito a trovare un’intesa elettorale con i liberali, passò all’opposizione. «Margaret nutriva un genuino rispetto il capo del governo in carica, Harold Wilson [Primo Ministro dal 1964 al 1970 e dal 1974 al 1976]. Ma detestava i principi del Socialismo e del collettivismo; e azzannare ai polpacci il Cancelliere dello Scacchiere, il laburista Jim Callaghan […] si rivelò un’occupazione molto più piacevole del previsto.»

Poi il grande salto: dopo il flop dei Conservatives, la Lady (non ancora di “ferro”) avrebbe tentato la scalata al vertice del partito, provocando i malumori di Heath («Se proprio devi …») e l’incredulità del marito («Devi essere impazzita»). L’ex Primo Ministro mobilitò mari e monti per scalzare l’avversaria, che lo batté di undici preferenze al congresso per la leadership, dove la neoeletta proclamò: «Il nostro sistema capitalista produce standard di prosperità e di felicità ben più alti, perché è un sistema che crede negli incentivi e nelle opportunità e perché si fonda sulla dignità e sulla libertà dell’uomo». Era l’inizio della stagione thatcheriana, cosa che, innanzitutto, avrebbe richiesto anche un cambio di look della Lady: se le perle che le aveva regalato Denis in occasione della nascita dei figli «non erano negoziabili», il filtro tra vita pubblica e vita privata venne apposto nel campo dell’alimentazione e del vestiario. La pettinatura venne ulteriormente studiata, il colore degli abiti doveva sempre richiamare al colore dei Tory.

Callaghan – successore di Wilson dal 1976 al 1979, «apprezzato perfino da una parte dell’elettorato conservatore» – venne sconfitto alle urne da Thatcher e dal fortunato slogan «Labour isn’t working» (i disoccupati erano oltre un milione e mezzo). Con quarantatré seggi di maggioranza a Westminster, quando Thatcher arrivò a Downing Street nel maggio 1979, la Gran Bretagna – il gran malato d’Europa – era costellata da scioperi selvaggi, scontri, blackout, crisi energetiche, razionamenti scolastici, sindacati e minatori onnipotenti. Puntualissima, come d’abitudine, venerdì 4 maggio Elisabetta II la ricevette a Buckingham Palace. L’anomalia – per il tempo – di una donna Primo Ministro attirò l’attenzione di tutta la stampa occidentale. Scrive Rosaspina: «E chi le domandava come ci si stesse “a essere un Primo Ministro donna” era freddamente liquidato in automatico: “Non so, non ho mai sperimentato l’alternativa”, nella speranza di far sentire l’interlocutore almeno un po’ stupido.» There was no alternative.

Difatti, la politica interna di Thatcher fu caratterizzata dal(la scusa del) “TINA”. Al governo del paese per oltre un decennio, Thatcher diede pesanti sforbiciate alla spesa pubblica improduttiva: l’inflazione – che era in doppia cifra e penalizzava i meno abbienti – venne abbassata. In seguito, dopo tre mesi di sciopero, fece chiudere gli stabilimenti improduttivi di acciaio in Galles; «lo Stato non poteva farsi più carico delle aziende in perdita.» Il Governo Thatcher fu il primo ad uscire vincitore dal braccio di ferro contro i minatori e la questione dei pozzi di carbone. Secondo la Lady, l’abbandono dei pozzi improduttivi era d’obbligo. Ricorda Rosaspina che «in nove anni dal suo insediamento a Downing Street, Mrs Thatcher sarebbe riuscita a ridimensionare l’aliquota massima sui redditi dall’ottantatré al quaranta per cento, senza aumentare il deficit.» L’amministrazione americana dell’epoca condusse sì la medesima politica, «ma raddoppiò il deficit di settantanove miliardi.» E ancora oggi c’è chi accusa Thatcher di populismo, quando la demagogia populista impone l’uso smodato della spesa pubblica per comprarsi il consenso elettorale.

Difetti tanti, pregi altrettanti. Margaret Thatcher era intransigente, una grande lavoratrice: amava lo studio, simbolo del merito. «Non sono stata fortunata, me lo sono meritato», disse più volte. Negli anni, Thatcher aveva stretto e rafforzato un patto implicito con gli elettori: risanare l’economia britannica, whatever it took.

Tratto distintivo della sua azione politica era l’assoluta indifferenza all’impopolarità che le scaturiva dai tagli dell’enorme spesa sociale. In altri termini, Thatcher non si curò dell’abbattimento del welfare e dell’enorme impopolarità che questo comportava: gli scioperi erano all’ordine del giorno, ma col tempo i suoi tre governi riuscirono a ristabilire il law and order, condizione che in primis aiuta i lavoratori. Thatcher sembrava completamente disinteressata ai disagi sociali che diverse sue politiche provocarono: piaccia o non piaccia, la cura da cavallo imposta alla Gran Bretagna degli anni Ottanta era parte necessaria (“TINA”, ancora).

Amedeo Gasparini

www.amedeogasparini.com

Chi è il liberalconservatore di oggi?

Oggi il termine “conservatore” è diventato quasi una parolaccia, “liberale” è un insulto, “liberista” non ne parliamo; al contrario “nazionalista” viene percepito come un titolo di encomio. Che fine hanno fatto però i liberalconservatori? Chi è il liberal conservatore?

Oggi il termine sembrerebbe una contraddizione, ma in realtà non lo è. Minoranza di una minoranza (i liberali), i liberalconservatori sono ritenuti ambigui proprio per la loro attitudine positiva verso il laissez-faire in economia e il conservatorismo relativo in alcuni cosiddetti valori, sebbene siano aperti alla cosiddetta “nuova generazione” dei diritti, senza dimenticare la centralità e l’unicità dell’individuo.

Nell’economia e nella società, il mercato è la loro guida. Sono tante le sfumature di liberalismo; le versioni occidentali non-anglosassoni, come evidenziato da Friedrich von Hayek, cercano disperatamente di tenersi alla larga dal liberalism, a cui si ispirano i movimenti del centrosinistra (e dalla ex Terza Via, in voga negli anni Novanta), che con John Locke o Adam Smith hanno poco a che fare.

Innanzitutto, quando si tenta di identificare i liberalconservatori c’è storicamente un’enorme confusione nei termini da utilizzare per definire la categoria. «Moderati, liberali, centristi: non sono sinonimi» ha scritto Angelo Panebianco (Corriere della Sera, 26 giugno 2019). Inoltre: «Un moderato è uno che non sopporta né le urla né le semplificazioni/banalizzazioni» (in questo senso, è avversario supremo dei demagogo-populisti di destra e di sinistra); «un moderato non è necessariamente un liberale: erano moderati (ma non liberali) quegli elettori della Democrazia Cristiana […] che accettavano come normale un livello di intrusione statale nella vita economica tale da suscitare la ripulsa dei (pochi) liberali allora in circolazione.»

In Italia il liberalismo non ha attecchito granché (non stupisce dunque l’assenza o quasi dei liberalconservatori), ma sebbene la cultura liberale sia poco studiata e applicata in diversi campi sociali, questo non vuol dire che non sia presente.

Ai margini della vita politica ed economica del paese, i liberalconservatori vanno distinti categoricamente dalla destra sociale (quella sì ben presente in Italia), che a livello economico ha sempre promosso ricette e formule, semplificando, para-socialiste. La destra (più o meno sociale) non è affatto mancata nell’Italia repubblicana e non è stata neppure tanto una minoranza (sebbene mai maggioranza).

Solo nella cosiddetta Seconda Repubblica ce ne sono state addirittura tre: una postfascista, corporativista, antiliberale, nazional-statista (l’ex Movimento Sociale, poi Alleanza Nazionale, oggi Fratelli d’Italia); una leghista, protezionista, localistica, secessionista, anti-nazionalistica prima (Lega Nord 1987-2012) e nazionalista e a tratti xenofoba poi (Lega 2013 oggi); una berlusconiana, confusamente colbertista, a parole liberale, vagamente post-democristiana, antistatalista, affaristica (Forza Italia 1994-2008, Popolo della Libertà 2008-2013, Forza Italia 2013-oggi?).

A sua volta, la destra (di nuovo, più o meno sociale) va distinta dal “conservatorismo”. Secondo Ernesto Galli della Loggia (Corriere della Sera, 1° ottobre 2016), «cultura conservatrice vuol dire identificazione ragionata con il lascito del passato, con gli edifici, il passaggio e i costumi di un luogo, l’attaccamento ai valori ricevuti […]; e poi senso delle istituzioni, considerazione non formale per i ruoli, i saperi, le competenze, rispetto delle regole.»

In tutto questo, c’è poco di liberale, ma un ponte primordiale con tale micro-universo politico lo aveva gettato nel 1972 nel Manifesto dei Conservatori Giuseppe Prezzolini, secondo cui «il Vero Conservatore si guarderà bene dal confondersi con i reazionari, i retrogradi, i tradizionalisti, i nostalgici, perché il Vero Conservatore intende “conservare mantenendo”, e non tornare indietro a fare esperienze fallite». In questo paradossale “progressisimo”, è vicino al liberale. Il conservatore può essere moderno e molto vicino a quest’ultimo (come ha spiegato proprio von Hayek). I due non sono incompatibili.

Una figura controversa nel mondo tradizionalista come Giovannino Guareschi scrisse ad Alcide De Gasperi sintetizzando bene alcuni elementi liberal-conservatori: «Siamo noi, […] noi cittadini liberi […] Noi che siam […] cristiani pur rifiutando sdegnosamente di metterci in testa papaline colorate, noi che sentiamo la necessità di una migliore giustizia sociale ma che mai accetteremo di fare alcunché di demagogico. Noi che per vivere dobbiamo lavorare duramente come l’ultimo dei proletari ma abbiamo l’orgoglio di essere borghesi. Noi che siamo per l’ordine ma che odiamo ogni tipo di dittatura. Noi che siamo per il trionfo dell’individuo ma non ammettiamo il divismo. Noi che abbiamo orrore della guerra ma che non ci siamo mai sottratti […] ai nostri doveri di cittadini […] Noi che sosteniamo il diritto di scioperare ma che non abbiamo scioperato mai […] Noi che vogliamo il trionfo dei nostri diritti ma ci preoccupiamo, prima di ogni altra cosa, di fare il nostro dovere.» (Il Candido, 1948, riportato da Bombardate Roma! di Mimmo Franzinelli).

Interessanti considerazioni su cosa sia un conservatore oggi – e quest’ultimo va conosciuto e studiato per differenziarlo dal liberale – le ha fatte Gian Enrico Rusconi nel suo Dove va la Germania?, in cui ha stabilito chiaramente le differenze tra il mondo conservatore e quello della destra (sociale): «Il conservatore sa che il cambiamento generale non può essere impedito: vuole dare forma a questo cambiamento. Il tradizionalista decide che tutto deve rimanere com’è. Il reazionario vorrebbe far tornare indietro la ruota del cambiamento. Il conservatorismo non conosce verità eterne, al contrario: […] difende oggi quello che ieri ha combattuto». Cosa che non è del tutto estranea all’immoderatezza, all’anticonformismo e all’effervescenza liberale.

A dispetto di quanto afferma chi lo identifica come populista, «il conservatore accetta la pluralità delle culture e la loro coesistenza. Quello di destra invece è un modo di pensare che mette al primo posto la (presunta) omogeneità del proprio gruppo, ed è indifferente verso le altre culture e forme di vita finché non interferiscono con la propria»; parliamo dei nazionalisti-populisti, o altrimenti detti, sovranisti. Profondamente collettivisti e, come tutti i collettivisti (di destra e di sinistra) – seguendo Ayn Randrazzisti.

Non da ultimo, continua Rusconi, «una differenza fondamentale tra conservatori e destra sta nel linguaggio. I conservatori sanno che molte delle loro richieste […] non trovano consenso maggioritario, ma non per questo recriminano parlando di “terrorismo” nei loro confronti o di “stampa bugiarda”, quando le loro opinioni non sono accolte. Un vero conservatore considera l’ordinamento liberale della società un valore in sé e la difesa più grande contro i tentativi autoritari.» Un conservatore è moderato individualista (lo è anche il liberale); un nazionalista è un estremista collettivista. I ponti tra liberali e conservatori ci sono. I liberalconservatori esistono.

 

Capire il Libero Mercato: 10 aforismi di personaggi famosi

Immagina di essere con i tuoi amici e, ad un certo punto, come sempre, inizia il dibattito politico. Nessuno sa cosa sia il libero mercato, ma lo criticano tutti. Per te loro sono tutti socialisti, tu per loro sei uno strano egoista turbocapitalista che vuole la disumanizzazione totale.

Ecco 10 piccoli passi per capire e far capire il Libero Mercato ai profani:

  1. Condannare il libero mercato a causa di ciò che accade oggi non ha senso. Non ci sono prove che il libero mercato esista oggi. Siamo profondamente coinvolti in un’economia pianificata dall’interventismo, che consente ai partiti di ottenere importanti benefici dal punto di vista elettorale. Si può condannare la frode e il sistema attuale, ma devono essere chiamati con i loro nomi propri: inflazione keynesiana, interventismo e corporativismo. [Ron Paul]
  2. La generazione di oggi è cresciuta in un mondo in cui, sia tramite la scuola che nella stampa, l’imprenditorialità è stata rappresentata come attività disonesta e cercare il profitto è stato definito un atto immorale, e dare un lavoro a centinaia di persone è considerato sfruttamento, ma è considerato onorevole far dare ordini allo Stato ad altrettante persone. [Friedrich Von Hayek]
  3. La nostra libertà di scelta in una società competitiva si basa sul fatto che, se una persona rifiuta di soddisfare i nostri desideri, possiamo rivolgerci a qualcun altro. E non può avvenire con un monopolio statale. [Friedrich Von Hayek]
  4. La grande virtù di un sistema di libero mercato è che non importa di che colore siano le persone; non importa quale sia la loro religione; importa solo se possono produrre qualcosa che vuoi comprare. È il sistema più efficace che abbiamo scoperto per consentire alle persone che si odiano l’un l’altra di confrontarsi e aiutarsi a vicenda. [Milton Friedman]
  5. Tutti i sistemi sono capitalisti. È solo una questione di chi possiede e controlla il capitale – che sia un re, un dittatore o un privato. Dovremmo concentrarci sul contrasto tra un sistema di libero mercato, in cui gli individui hanno il diritto di vivere come re se hanno la possibilità di guadagnare quel diritto, e un sistema in cui l’economia è controllata dallo Stato, come nelle nazioni socialiste. [Ronald Reagan]
  6. Ci son 4 modi per spendere i soldi. Puoi spendere i tuoi soldi per te stesso: in tal caso, sarai davvero attento a cosa starai facendo e cercherai di avere la massima resa per la tua spesa. Oppure, puoi spendere i tuoi soldi per qualcun altro: per esempio, io ho comprato un regalo di compleanno per una persona; in realtà non ho grande interesse per il contenuto del dono, ma sono stato molto attento al costo. Altra possibilità, tu puoi spendere i soldi di qualcun altro per te: e allora se puoi spendere i soldi di qualcun altro per te stai sicuro che ci scapperà una bella mangiata al ristorante! Infine, io posso spendere i soldi di qualcuno per un’altra persona ancora; e se io dovrò spendere i soldi di uno per un altro, non sarò preoccupato a quanto ammontino, né sarò preoccupato su come li spendo. E questo è quel che fa lo Stato. [Milton Friedman]
  7. Il libero mercato è una rete di scambi volontari e gratuiti in cui i produttori lavorano, producono e scambiano i loro prodotti per i prodotti degli altri attraverso prezzi volontariamente raggiunti. [Murray Rothbard]
  8. Il benessere degli Stati Uniti non fu creato dai sacrifici pubblici per il bene comune, ma dal genio produttivo degli uomini liberi che perseguivano i propri interessi personali e la realizzazione del proprio destino. [Ayn Rand]
  9. Il fatto centrale più importante su un mercato libero è che nessuno scambio avvenga a meno che entrambe le parti non ne traggano vantaggio. [Milton Friedman]
  10. Più lo stato pianifica, più l’individuo si trova in difficoltà nell’organizzare la propria vita. [Friedrich Von Hayek]

Liberalismo e Anarchia: analogie e differenze

Negli ultimi anni si è potuto vedere come i movimenti per la libertà e quelli per l’anarchia si siano avvicinati, dando luogo a gruppi sempre più gremiti di libertari e simpatici anarco-capitalisti. Cosa li unisce? Cosa li differenzia?

Facciamo un passo indietro, perché è già avvenuto che il Liberalismo e un altro movimento si accostassero: in seguito alla Rivoluzione Francese il liberalismo si è trovato in stretto rapporto con il movimento per la democrazia ¹; entrambi chiedevano l’abolizione dei privilegi e lottavano per le costituzioni.

In quelle lotte i liberali e i democratici hanno condiviso il mezzo, tuttavia mantenendo due differenti fini da raggiungere: il liberalismo pone l’attenzione sulle funzioni del governo e sulla limitazione del potere, mentre per i movimenti democratici la questione centrale è quella di chi debba detenere il potere.

In parole povere: i democratici chiedevano che al Re si sostituisse il Popolo, conferendo alla volontà popolare la scelta dei governanti e, dunque, dei provvedimenti da adottare. Adatto alla situazione è Tocqueville, il quale ha egregiamente illustrato quali siano i problemi della democrazia pura e di come possa diventare facilmente una dittatura della maggioranza.

Torniamo al presente. Ora inizia ad essere più semplice riconoscere i liberali dai democratici, oggi conosciuti -causando molta confusione- come “liberals“; e quasi per ironia c’è la compensazione dall’altro lato, dove si iniziano a confondere i confini fra liberalismo e anarchia, causando non pochi problemi a chi si approccia al mondo della Libertà.

Chi mi sta leggendo ed è libertario sino all’estremo probabilmente storcerà il naso a questa citazione di Hayek ²:

Il liberalismo si distingue nettamente dall’anarchismo e riconosce che, se tutti devono essere quanto più liberi, la coercizione non può essere eliminata, ma soltanto ridotta al minimo indispensabile, per impedire a chicchessia di esercitare una coercizione arbitraria a danno di altri.

I movimenti anarchici tendono all’annullamento di tutte le leggi statali, mentre i liberali chiedono la loro minimizzazione a quelle necessarie e fondamentali. Ora sorgerebbe un’affermazione in contrasto alla mia nel lettore anarchico o volontarista: se si inizia a fare leggi in maniera arbitraria, benché minime, non si finisce più! E invece non è così o, meglio, sono sbagliate le premesse: le norme volute dal liberalismo non sono decise in maniera arbitraria o costruttivista, bensì sono suscettibili di essere scoperte, così come ogni legge nella Natura.

Il NAP (Non-Aggression-Pact: Principio di Non Aggressione) non è abbastanza per mantenere in piedi il comune vivere degli individui, è dunque necessario cercare le leggi intrinseche nelle relazioni degli esseri umani intraprese con altri o con l’ambiente circostante.

Un suggerimento, geniale ma al contempo evidente in sé, arriva sempre da Hayek³:

La fede nell’esistenza di norme di mera condotta, suscettibili di essere scoperte (e quindi non frutto di una costruzione arbitraria) poggia sul fatto che la grande maggioranza di queste norme è sempre assolutamente accettata.

Ovviamente ci si riferisce a norme individuali, sulle quali siamo veramente tutti abbastanza d’accordo: chi potrebbe ritenere lecito uccidere, rubare il frutto del lavoro di un altro o infrangerne le libertà?

Invece, quando si passa dal particolare (l’Individuo) all’universale (l’umanità, la collettività) il discorso si complica per ciascuno, poiché quel che si chiede sarà sovente in contrasto con le norme di mera condotta individuali: come si potrebbe sostenere la redistribuzione della ricchezza, l’espropriazione, l’imposizione di una volontà sulle altre?

Ecco, dunque, che se il lettore anarchico o estremamente libertario mi stava leggendo storcendo il naso, ora è probabile che guardi con meno diffidenza la mia posizione. Indubbiamente per molti anni, forse per qualche secolo, liberali e anarchici lotteranno fianco a fianco per il raggiungimento di fini comuni: la diminuzione della burocrazia, l’abbassamento del carico fiscale, l’emancipazione dallo Stato.

Alcuni sostengono che il liberalismo possa essere un passo verso l’anarchia, non ne escludo la possibilità, ma reputo sia altamente improbabile: per evitare la coercizione altrui sarà sempre necessaria una minima coercizione che imponga il rispetto delle norme di mera condotta.

Pertanto, se le differenze si fondano sia sui principi sia sugli obiettivi, l’applicazione dei principi di ambe le parti conduce ad una strada che pare essere la stessa lungo una buona parte del tragitto: oggi la libertà del cittadino è talmente limitata, sia nell’ambito civile sia in quello economico, ma persino in quello privato, che non si possono ignorare il positivismo giuridico, il dirigismo, il capitalismo di Stato, le sovvenzioni per categorie, il protezionismo, la diversificazione del trattamento fiscale a seconda di chi si è o cosa si fa e… la lista potrebbe continuare per altre centinaia di righe.

Alla luce di ciò, è indiscutibile e insindacabile la tacita alleanza fra liberalismo e anarchia, purché rimanga chiaro il confine fra i due campi d’idee, per dar semina della cultura insieme e cogliere i frutti da scagliare contro il collettivismo prima che questi distrugga definitivamente le nostre libertà.

1: Liberalismo, p.54, Friedrich Von Hayek
2: ibidem
3: ibidem