Putin ed i suoi oligarchi: breve storia della cleptocrazia russa

La Russia di Putin, come qualsiasi altro Stato di polizia, è uno Stato governato da criminali. I crimini qui discussi, però, non sono quelli che stanno venendo alla luce in questi giorni a Bucha, Irpin, Hostomel.

Si tratta di crimini altrettanto disgustosi, ma un po’ meno sanguinari. Questa è la storia della cricca decadente, corrotta e megalomane di oligarchi che fa capo a Putin, e che ha reso possibile tutti gli orrori che vediamo oggi.

Le origini

Lo Stato ereditato da Putin vent’anni fa era una nazione in crisi. I cittadini russi non solo avevano visto il loro Paese ridotto da superpotenza a potenza regionale, si erano anche ritrovati grandemente impoveriti sotto Yeltsin.

Durante il suo governo, beni statali vennero privatizzati in massa, ufficialmente allo scopo di aprire la Russia all’economia di mercato e di generare fondi per il nuovo governo post-sovietico.

Quello che accadde in realtà, però, fu che pochi politici e burocrati si arricchirono, svendendo proprietà dello Stato ad una stretta cerchia di uomini politicamente ben collegati. Oggi li conosciamo come oligarchi.

Gli oligarchi ed i loro amici prosperarono, ma il cittadino russo medio rimase povero ed amareggiato. In questi anni, circa un terzo della popolazione russa viveva sotto la soglia di povertà[1].

Per via della carenza di fondi (dato che il ricavato delle privatizzazioni era andato perso in corruzione), il governo dovette tagliare pesantemente il welfare ed i servizi come scuola e sanità, esacerbando il malcontento popolare.

A tutto ciò bisogna poi aggiungere l’inflazione galoppante, che dopo il “martedì nero” del 1994 raggiunse livelli critici (in questo periodo, un dollaro americano valeva circa 4000 rubli)[2].

Per proteggersi da tale malcontento, gli oligarchi si affidarono al braccio destro di Yeltsin, favorendone l’ascesa. Costui era un politico fino a quel momento semi-sconosciuto, un certo Vladimir Putin.

Gli anni d’oro

La scommessa degli oligarchi si rivelò, all’inizio, un successo. Dal 1999 (inizio del primo mandato di Putin come presidente) al 2014 (annessione della Crimea), l’economia russa prosperò.

Questo soprattutto grazie ad un fattore esterno a Putin, cioè il massiccio aumento dei prezzi degli idrocarburi, che la Russia produce ed esporta in grandi quantità.

Fra il 1998 ed il 2008, l’economia russa crebbe del 7-8% ogni anno[3]. In seguito, con la grande recessione ed il conseguente crollo del prezzo di gas e petrolio, tale crescita rallentò, ma la Russia soffrì meno per la crisi rispetto ai Paesi occidentali.

Complessivamente, questo periodo fu molto piacevole per il cittadino medio russo, infatti il numero di persone sotto la soglia di povertà scese al 10%, ed il potere d’acquisto dei russi (malgrado l’inflazione) aumentò di quasi dieci volte[4].

Risulta facile capire come mai Putin non abbia avuto grandi difficoltà nel farsi rieleggere una volta dopo l’altra.

Certo, per andare sul sicuro il suo governo ha perseguitato, imprigionato o assassinato chiunque minacciasse il suo potere, ma in ogni caso i consensi necessari non mancavano.

Non bisogna però lasciarsi trarre in inganno da questa prosperità apparente. La vendita dei combustibili fossili russi ha generato enormi profitti, non c’è dubbio, ma di tali profitti ai cittadini sono andate solo le briciole.

La parte più consistente, infatti, è rimasta nelle mani degli oligarchi e dello stesso Putin, il quale ne ha approfittato, tra le altre cose, per farsi costruire una gigantesca villa sul mar Nero da 1.4 miliardi di dollari (a spese dei contribuenti)[5].

Le prime sconfitte

La luna di miele fra Putin e l’economia non durò a lungo. Dal 2014 in poi, per via delle sanzioni occidentali dovute all’annessione della Crimea e del calo nel prezzo degli idrocarburi, la Russia è entrata in una grave recessione, che ha spazzato via gran parte dei risultati economici conseguiti nei primi anni Duemila.

Come ai tempi di Yeltsin, il governo russo si è ritrovato a corto di fondi, e sempre come allora ha dovuto tagliare welfare e servizi.

La strategia di Putin per mantenere il consenso popolare, quindi, è cambiata. Per distrarre i cittadini dal peggioramento dei loro standard di vita, il governo si è affidato sempre di più ai successi militari[6].

Con le avventure militari in Crimea, Donbass e Siria, il presidente russo ha potuto “dimostrare” ai suoi concittadini di aver restaurato il prestigio nazionale all’estero. Grazie al controllo dei media da parte del governo, tale strategia si è rivelata complessivamente un successo nel preservare la popolarità di Putin.

Il suo regime, tuttavia, non è più stabile come una volta, e questo ha avuto profonde conseguenze. Negli ultimi otto anni, le ultime tracce di democrazia e legalità sono state spazzate via.

Nuove riforme autoritarie hanno indebolito il sistema giudiziario ed il Parlamento, concentrando il potere nelle mani del presidente. Emendamenti alla Costituzione hanno aperto a Putin la possibilità di restare al governo per altri due mandati, fino al 2036[7].

L’evoluzione sempre più marcatamente dittatoriale della scena politica russa non ha colpito solo i cittadini comuni. Stavolta, neanche gli oligarchi stessi sono stati risparmiati dal mostro che hanno contribuito a creare.

Quale futuro?

Un esempio di come il rapporto fra Putin e gli oligarchi sia cambiato è dato dal “caso Bashneft”.

Nel 2014 l’oligarca Vladimir Evtushenkov venne inaspettatamente arrestato, e la sua compagnia petrolifera (Bashneft) venne statalizzata[8].

Tempo dopo, il governo russo mise in vendita la compagnia, e molti oligarchi si mostrarono interessati ad acquistarla. Tra questi spiccava Igor Sechin, CEO di Rosneft (la più grande compagnia petrolifera russa), probabile istigatore della caduta in disgrazia di Evtushenkov.

Sechin, però, era già considerato da molti come il secondo uomo più potente in Russia dopo Putin, di conseguenza il presidente intimò a Sechin di rinunciare ai suoi progetti.

Inizialmente Sechin si rifiutò, ed arrivò perfino a cercare il sostegno di altri oligarchi, ma venne ben presto messo all’angolo.

Nel 2015, di punto in bianco, Putin obbligò il potente Vladimir Yakunin, oligarca a capo delle Ferrovie dello Stato russe, a dimettersi. In questo modo, gli altri oligarchi capirono che nessuno di loro era intoccabile. Sechin tornò sui propri passi e rinunciò ai suoi piani[9].

Questa storia, come tante altre, mostra come il rapporto di potere fra Putin e la sua vecchia cerchia si sia capovolto nel corso degli anni.

Un tempo, lui era il politico semi-sconosciuto, scelto dagli oligarchi come burattino per proteggere i loro interessi. Oggi, lui è lo zar indiscusso di tutta la Russia, davanti al quale perfino i più ricchi fra loro devono piegarsi.

Come accadde in Germania all’epoca di Hitler, i ricchi e potenti che ne hanno appoggiato l’ascesa al potere sono stati messi da parte e ora non possono più contrastarlo, neanche quando i suoi piani vanno contro i loro interessi. La guerra criminale in Ucraina è solo l’ennesima dimostrazione della loro impotenza.

Quale futuro attende Putin, i suoi oligarchi e la cleptocrazia che hanno creato? Difficile da prevedere. Una cosa, però, è certa: ancora una volta, il russo medio finirà per pagare gli errori e gli eccessi dei suoi governanti.

[1][2] https://www.crf-usa.org/bill-of-rights-in-action/bria-8-1-c-on-the-road-to-revolution-with-boris-yeltsin

[3][4] https://www.youtube.com/watch?v=2F4x2-rVkIk&t=585s

[5] https://fortune.com/2022/03/02/vladimir-putin-net-worth-2022/

[6] https://www.youtube.com/watch?v=ZAMz5kgb7V4

[7] https://www.institutmontaigne.org/en/blog/putins-grip-power-beginning-end

[8][9] https://www.youtube.com/watch?v=BT4sK36cU3Y&t=598s

La guerra può salvare un’economia in crisi?

Si sente dire spesso che la Seconda Guerra Mondiale abbia fatto uscire definitivamente dalla Grande Depressione gli Stati Uniti, o che il riarmo bellico promosso da Hitler abbia risollevato l’economia tedesca dopo la caduta della Repubblica di Weimar. In generale, è un’idea piuttosto diffusa quella secondo cui la guerra possa salvare un’economia in crisi.

Del resto, perché non dovrebbe essere così? Guerra significa distruzione, seguita da ricostruzione, e quindi da aumento del PIL. Guerra significa occupazione, giacché l’esercito costituisce una forma di welfare, che fornisce un salario a chi altrimenti sarebbe disoccupato. Guerra significa innovazione, dato che molte scoperte sviluppate per il campo di battaglia possono trovare applicazioni in campo civile.

La guerra come alleata del PIL

Innanzitutto, quindi, la guerra sostiene la crescita del PIL, su questo non c’è dubbio. Il problema è che non necessariamente la crescita del PIL è sinonimo di maggiore prosperità e più elevati standard di vita. Per spiegare questo apparente paradosso, bisogna parlare della “fallacia della finestra rotta”[1].

In poche parole, la “fallacia della finestra rotta”, tratta da una lezione dell’economista Frédéric Bastiat, spiega come un evento distruttivo, per esempio una catastrofe naturale o una guerra, possa paradossalmente portare alla crescita economica, la quale però è solo fittizia.

Si consideri quindi un evento distruttivo, come un bombardamento durante una guerra, che distrugge delle infrastrutture, o il lancio di una pietra da parte di un teppista, che rompe una finestra.

Dopo la guerra, per ricostruire quelle infrastrutture, verranno impiegate molte persone, dai muratori agli ingegneri, che quindi guadagneranno in questa situazione, così come il vetraio che verrà pagato per riparare la finestra rotta. Il guadagno dei muratori, degli ingegneri e del vetraio, quindi, farà crescere l’economia.

Il paradosso è evidente: in entrambi i casi, non c’è stato un guadagno netto per la società, nel ricostruire quello che è andato distrutto la società nel suo complesso non è diventata più prospera rispetto alla situazione precedente l’evento distruttivo[2].

Nel caso della finestra rotta, infatti, i soldi intascati del vetraio sono soldi che, senza l’evento distruttivo, sarebbero potuti andare, per esempio, ad un calzolaio in cambio di nuovo paio di scarpe. Il guadagno del vetraio, pertanto, è la perdita del calzolaio, e l’economia generale perde un nuovo paio di scarpe per acquistare qualcosa (la finestra integra) che già aveva.

Quindi, per quanto riguarda il “boost” economico dovuto alla guerra, bisogna ricordare la formula del PIL, pari ad Y = C + I + G + NX, dove C sta per consumi, I per investimenti, G per spesa pubblica, NX per esportazioni nette.

Ora, con la guerra G, cioè la spesa pubblica, aumenta enormemente, in quanto il governo non si fa scrupoli per finanziare lo sforzo bellico prima e la ricostruzione dopo[3]. Inoltre, tornando all’esempio precedente, tutti coloro che vengono pagati per ricostruire ciò che è andato distrutto spendono a loro volta i soldi guadagnati, quindi aumenta C, cioè i consumi[4].

Certo, con la guerra si ha un certo calo di I (investimenti) ed NX (esportazioni nette), che però è largamente superato dall’aumento di C e G, quindi complessivamente il PIL aumenta[5].

Tuttavia, vale sempre la fallacia della finestra rotta: finita la guerra, ultimata la ricostruzione, il PIL è aumentato, ma la società è tornata al punto di partenza, ed i cittadini medi (chi è sopravvissuto) non sono affatto più ricchi di prima.

La guerra come sostegno all’occupazione

Forse la crescita economica dovuta alla guerra è solo fittizia, ma se non altro la guerra può risolvere il problema della disoccupazione, giusto? Dopotutto, lo sforzo bellico richiede decine o addirittura centinaia di migliaia di soldati ed altrettanti operai nelle fabbriche, persone che senza la guerra sarebbero prive di un salario.

Tutto questo è vero, il problema è che si tratta di una prospettiva assai miope. Per capire quanto sia miope, basta guardare alla situazione degli Stati Uniti durante la Seconda Guerra Mondiale. Per sostenere lo sforzo bellico, il governo statunitense reclutò 16 milioni di uomini[6], ma questo, lungi dall’avere ricadute economiche positive, provocò due gravi problemi.

Innanzitutto, bisogna ricordare che l’esercito, sotto diversi aspetti, è una forma di welfare[7]. Questo non significa che i militari siano inutili, o che il loro lavoro sia inutile, ma significa che, dal punto di vista economico, essi vengono mantenuti dalla società ma non contribuiscono a quest’ultima.

Se, invece di pagare milioni di disoccupati per combattere in un Paese straniero, il governo americano si fosse limitato a pagarli e basta (come avviene con i normali programmi di welfare), l’effetto sull’economia sarebbe stato lo stesso (e si sarebbero evitate le morti).

In entrambi i casi, però, non si è davvero risolto il problema della disoccupazione. I disoccupati che ricevono un sussidio non forniscono beni e servizi utili alla società (e questo è normale, si tratta di welfare), ma allo stesso modo i soldati che ricevono un salario dal governo per combattere all’estero non contribuiscono (dal punto di vista economico) alla società, pertanto (sempre dal punto economico) è come se fossero disoccupati[8].

Non solo, i militari costituiscono anche un peso economico, in quanto chi effettivamente fornisce beni e servizi economicamente utili è costretto a lavorare anche per loro, per consentire al governo di pagare i loro salari.

Tuttavia, osservando i dati, emerge anche un secondo problema. Com’è stato già detto, 16 milioni di uomini sono stati reclutati nelle Forze Armate statunitensi durante la guerra. Però, stando alle statistiche, la disoccupazione calò solo di 7.45 milioni di persone, il che significa che la maggior parte delle persone arruolate nell’esercito degli Stati Uniti non era affatto disoccupata[9].

Questo vuol dire che, nelle fabbriche dove venivano prodotti beni di consumo per la popolazione (e non bombe o carri armati), operai specializzati (ora impiegati dal governo per produrre bombe e carri armati) vennero rimpiazzati da personale meno efficiente o con meno esperienza (donne, anziani, etc…).

Di conseguenza, la produzione di beni di consumo declinò, e con essa gli standard di vita dei cittadini, perché aerei da caccia e corazzate hanno molti usi, ma nessuno di essi incrementa la prosperità del cittadino medio.

La guerra come stimolo per l’innovazione

Infine, resta l’ultima tesi a sostegno dei benefici economici della guerra, la più facile da smontare: la guerra è alleata del progresso tecnico e scientifico, perché niente stimola il genio umano più del campo di battaglia.

Del resto, senza la pressione dei governi sugli scienziati durante le due Guerre Mondiali e la Guerra Fredda oggi non esisterebbero gli aerei, gli antibiotici, l’energia nucleare, i satelliti o Internet. Ma è davvero così?

Si pensi a due aziende, entrambe nel campo dell’high-tech, in particolare nel campo dell’ingegneria genetica. Queste due aziende hanno lo stesso numero di dipendenti, i loro ricercatori sono paragonabili per quantità e qualità, ed entrambe le aziende dispongono dello stesso capitale.

La prima è un’azienda privata, che sviluppa beni e servizi rivolti alla società civile, mentre la seconda è un’azienda pubblica appartenente alle Forze Armate, che sviluppa nuove tecnologie a scopo bellico.

La prima azienda compete con le altre del settore per conquistare il maggior numero possibile di clienti, e la sua attività di R&D è improntata direttamente a soddisfare le esigenze dei consumatori, i quali vogliono terapie mediche per vivere più a lungo, cibi più sani per mantenersi in salute e, perché no, terapie ringiovanenti per conservare la bellezza.

Anche la seconda azienda subirà la spinta della competizione, ma dato che il suo unico cliente sono le Forze Armate la sua attività di R&D avrà un target ben diverso: sviluppare nuove armi tali da ottenere un vantaggio strategico sugli altri Paesi. Se mai da queste ricerche dovesse uscire fuori qualcosa di utile alla società civile, sarebbe solo una fortunata coincidenza.

Risulta quindi evidente che la pressione esercitata dalla società civile sugli scienziati è di gran lunga più efficiente rispetto a quella dei militari nel favorire lo sviluppo di tecnologie in grado di portare prosperità.

Non solo, dato che la quantità di risorse e di persone necessarie per il progresso tecnico-scientifico è soggetta a scarsità, ogni provetta, ogni tecnico di laboratorio che invece di andare alla prima azienda va alla seconda rallenta l’innovazione a scopo commerciale, vero motore della crescita economica[10].

Conclusioni

In ultima analisi, quindi, la guerra può salvare un’economia in crisi? La risposta è no. Gli unici a trarre vantaggio materiale dalla guerra sono i politicanti guerrafondai, gli alti vertici militari e i grandi industriali affamati di commesse statali, in altre parole i componenti di quello che Eisenhower definiva “il Complesso Militare-Industriale”.

Al contrario, il cittadino medio diventa più povero, meno libero e, nel peggiore dei casi, è chiamato a morire in un Paese straniero o sotto le rovine della propria città distrutta in nome del potere dei politicanti, della gloria dei militari e del profitto degli industriali collusi con entrambi.

[1][2] http://vonmises.it/2012/12/12/la-fallacia-della-finestra-rotta/

[3][4][5] https://youtu.be/mU6pHvpc3TY

[6][7][8][9] https://youtu.be/JzEK5yd2kLw

[10] https://www.google.com/amp/s/tseconomist.com/2018/12/27/is-war-good-for-the-economy-the-example-of-the-united-states-of-america/amp/