Hitler, Mussolini e l’Islam

Non è un mistero che l’estrema destra non provi esattamente simpatia nei confronti dell’Islam. Anche senza contare i suoi esponenti più radicali (seguaci di teorie complottiste come il Piano Kalergi o l’Eurabia), i più considerano i musulmani come un corpo estraneo nel tessuto sociale dell’Occidente moderno, da isolare o estirpare.

Tutto ciò è assai curioso, se si considera che i padri ideologici dell’estrema destra, Hitler e Mussolini, avevano un rapporto per niente ostile nei confronti del mondo islamico. Anzi, non sarebbe esagerato parlare di un rapporto cordiale, che probabilmente spingerebbe i moderni neofascisti e neonazisti a dare dei “radical chic” ai loro eroi.

I neofascisti, per esempio, saranno sorpresi nello scoprire che il loro Duce si definiva pubblicamente “protettore dell’Islam”, e che avesse l’intenzione[1] di far costruire una moschea a Roma (anche se poi rinunciò per via dell’opposizione del papa).

Ma non è tutto. Mussolini, infatti, era un convinto sostenitore dell’integrazione dei musulmani all’interno della società italiana. A questo scopo in Libia vennero istituite la Gioventù Araba del Littorio, equivalente dell’Opera Nazionale Balilla, e l’Associazione Musulmana del Littorio, sezione locale del Partito Nazionale Fascista.

Mussolini, in effetti, aspirava ad essere non solo il Duce degli italiani, ma anche il Califfo dei musulmani, ed a tale scopo nel 1937 organizzò una cerimonia nel corso della quale ricevette la “Spada dell’Islam”, a simboleggiare la sua pretesa di essere l’erede dell’autorità dei Califfi.

Naturalmente, il Duce non fece tutto questo per soddisfare il suo spirito umanitario. Come il suo collega Hitler, infatti, Mussolini era innanzitutto un uomo pratico. Pertanto, egli sapeva che, dopo le barbarie del sanguinoso conflitto combattuto dall’Italia fascista nei primi anni Trenta per consolidare la sua colonia libica, era necessaria un’opera di pacificazione per trasformare la Libia nella “Quarta Sponda” italiana.

Ma le ambizioni di Mussolini non erano limitate alla Libia. Il suo sogno, infatti, era quello di espandere l’impero coloniale italiano in Nord Africa ed in Medio Oriente, a discapito di Francia e Gran Bretagna. Naturalmente, queste regioni erano a maggioranza araba e musulmana, ed i suoi abitanti erano già ostili al colonialismo anglo-francese.

Mussolini pertanto, mostrandosi come un amico degli Arabi, sperava di conquistarli come alleati, nella sua missione per trasformare il Mediterraneo in un “Mare Nostrum” come ai tempi di Augusto. Inoltre, dal punto di vista personale, l’idea di ottenere nuovi onori e titoli stuzzicava la sua vanità.

Se i neofascisti devono fare i conti con una scomoda verità, la pillola non è certo più dorata per i neonazisti. Questi certo resterebbero scioccati se scoprissero che uno dei più grandi fan del loro Führer era nientemeno che Amin Al-Husseini, Gran Muftì di Gerusalemme (massima carica religiosa dell’Islam) dal 1921 al 1948.

Tutte le amicizie, si sa, nascono da interessi comuni. In questo caso, gli interessi comuni che unirono il Führer ed il Gran Muftì furono l’antisemitismo più radicale ed il desiderio di porre fine al dominio anglo-francese sul Medio Oriente.

Amin Al-Husseini, che desiderava l’avvento di un grande Stato panarabo, temeva più di ogni altra cosa che gli Ebrei, con l’appoggio delle potenze europee, si ritagliassero un loro Stato nel mandato britannico della Palestina. Per questo, quando nel 1933 Hitler salì al potere, il Gran Muftì confidò ai suoi seguaci di “intravedere un nuovo, radioso futuro”, e predisse “l’avvento di una nuova era di libertà per i musulmani di tutto il mondo”[2].

D’altro canto, anche Hitler aveva le sue buone ragioni per apprezzare questo alleato ben poco ariano: per il Terzo Reich, il Medio Oriente significava petrolio, di cui la macchina da guerra nazista aveva disperato bisogno. Inoltre, il crollo delle posizioni britanniche in Nord Africa e Medio Oriente avrebbe potuto indurre la Gran Bretagna ad arrendersi.

Da un punto di vista personale, poi, Hitler non era affatto ostile alla religione islamica. Anzi, riteneva che l’Islam fosse ben più adatto alla natura guerriera dei popoli germanici, rispetto alla fiacca tolleranza del cristianesimo[3].

Sfortunatamente per il Führer, e fortunatamente per l’umanità, il Gran Muftì fallì nel suo tentativo di scatenare una jihad contro gli Alleati. Questo però non significa che Amin Al-Husseini non abbia dato alcun contributo alla causa nazista.

Il Gran Muftì, infatti, fu un grande propagandista del Terzo Reich, tanto che già nel settembre 1939, all’indomani dell’invasione della Polonia, Amin al Husseini volle dichiarare pubblicamente il suo sostegno al “meritevole e coraggioso condottiero Adolf Hitler”, incitando “i musulmani a prendere le armi a fianco della Germania nazista”[4].

Sul piano prettamente militare, poi, il Gran Muftì fu attivamente coinvolto nel reclutamento di musulmani nelle armate di Hitler, come nel caso della 13ma Divisione da montagna SS Handzar e della 21ma Divisione da montagna Skanderbeg.

Ai volontari di queste due divisioni venne concesso di praticare una dieta particolare vincolata ai precetti musulmani, di pregare pubblicamente secondo la ritualità, e di festeggiare e osservare le feste e i digiuni imposti dal Corano[5].

Naturalmente, la sconfitta dell’Asse rende impossibile sapere come si sarebbe evoluto il rapporto fra i totalitarismi di destra e l’Islam se l’Italia fascista e la Germania nazista avessero vinto la guerra.

Hitler e Mussolini, infatti, già nella storia reale hanno dimostrato più volte di essere spregiudicati opportunisti (patto Molotov-Ribbentrop docet), usi a tradire o abbandonare gli alleati diventati inutili o scomodi.

Dopotutto, non bisogna dimenticare che anche gli Arabi, con buona pace del Gran Muftì, sono semiti come gli Ebrei. Per questo, è possibile che, una volta vinta la guerra, i nazifascisti avrebbero semplicemente spedito i loro vecchi alleati a raggiungere gli odiati Ebrei nei campi di sterminio.

Tuttavia, è divertente pensare che, in alternativa, se l’Asse avesse vinto la guerra oggi a Roma e a Berlino, dove neofascisti e neonazisti lottano intrepidi per “combattere l’invasione” e “difendere la nostra civiltà, come faceva il Duce/il Führer”, forse si vedrebbero uomini delle SS e gerarchi vestiti di tutto punto pregare in direzione della Mecca al richiamo del muezzin.

[1] https://youtu.be/vHvvuPCHlfo

[2][4][5] https://www.ilvangelo-israele.it/approfondimenti/Hitler-Mufti.html

[3] Albert Speer, “Memorie del Terzo Reich”

I finanziatori di Hitler: una storia di “crony capitalism”

Molto è stato detto ed è stato scritto sui rapporti fra le alte gerarchie del Partito Nazista ed i grandi industriali tedeschi. Che tali legami siano effettivamente esistiti, e che siano stati essenziali per l’ascesa di Hitler, è un fatto storico innegabile.

I seguaci dell’ideologia marxista, quindi, sono soliti considerare questa verità storica come la prova schiacciante della compatibilità del capitalismo con il fascismo, o perfino dell’inevitabile tendenza di una società capitalista a degenerare nel fascismo.

In realtà, la collaborazione fra nazisti ed industriali non fu altro che un ennesimo esempio di quello stretto rapporto fra potere politico e potere economico che oggi viene definito come “crony capitalism”, o capitalismo clientelare.

Il “crony capitalism” è un sistema che in apparenza si basa sul libero mercato, ma che in realtà è dominato dalle leggi e dalle regolamentazioni statali, che vengono usate per promuovere gli interessi di un piccolo gruppo di magnati industriali e politici compiacenti.

Un sistema simile, in teoria capitalista, in pratica corporativista e statalista, era quello esistente in Germania durante il regime nazista. Grandi nomi dell’industria tedesca, come Gustav Krupp e Fritz Thyssen, finanziarono generosamente la causa di Hitler.

In cambio, una volta conquistato il potere assoluto, i nazisti non persero tempo per ripagare i favori dei grandi industriali. Le industrie Krupp, per esempio, specializzate nella produzione di acciaio, beneficiarono delle enormi commesse statali di armi e munizioni, facenti parte del programma di riarmo tedesco.

Ad ottenere ricchezza e successo, quindi, erano solo gli imprenditori con le dovute conoscenze nelle alte sfere del Partito. I piccoli e medi imprenditori, privi di legami privilegiati con il potere politico, non traevano vantaggi significativi dal sistema, spesso anzi il contrario.

Per esempio, nel 1933, venne creata la “Adolf Hitler Spende der deutschen Industrie”, una cassa intitolata ad Adolf Hitler alla quale gli imprenditori vennero obbligati a versare elargizioni “in segno di riconoscenza per il boom economico reso possibile dal Fuhrer”[1].

Gli ingenti fondi della Adolf Hitler Spende erano gestiti da Martin Bormann, segretario del Fuhrer, il quale poteva disporne a piacimento, per ricompensare i funzionari del Partito più servili e fanatici.

Quindi gli imprenditori tedeschi, per un boom economico fittizio, limitato a pochi grandi gruppi industriali, furono costretti ad autotassarsi per mantenere nel lusso Hitler e gli alti gerarchi dell’NSDAP.

A lungo termine, tuttavia, anche i magnati dell’industria, che avevano scelto di voltare le spalle al libero mercato per fare soldi facili con la protezione e la complicità delle autorità statali, arrivarono a pentirsi della loro scelta.

Dopo il 1942, con la situazione bellica che diventava sempre più critica, lo Stato (e quindi il Partito) iniziò ad esercitare un controllo più diretto sull’apparato produttivo tedesco. Aziende ed industrie private, progressivamente, passarono dalle mani dei loro proprietari in quelle dei funzionari nazisti.

Questo processo di centralizzazione delle attività produttive sotto il controllo del Partito, allo scopo di massimizzare l’efficienza dello sforzo bellico, fu dovuto tanto alle circostanze quanto ad una precisa volontà politica.

Da un lato, infatti, i bombardamenti sempre più devastanti costrinsero i proprietari delle fabbriche ad accettare l’aiuto dello Stato per trasferire la produzione sotto terra. In cambio, però, furono costretti a cederne il controllo alle autorità politiche locali.

Dall’altro, si fece progressivamente spazio nella mente di molti funzionari del Partito l’idea di una specie di “socialismo di Stato”[2]. In quest’ottica la nazionalizzazione dell’industria, che venne descritta agli imprenditori come una misura temporanea, sarebbe continuata anche in tempo di pace.

Naturalmente, la sconfitta della Germania rende impossibile sapere come si sarebbe evoluto il rapporto fra imprenditori e funzionari nazisti, o se il progetto di un “socialismo di Stato” di questi ultimi avrebbe avuto successo o meno. Tuttavia, dalla storia dei finanziatori di Hitler è possibile ricavare delle lezioni, per il passato e per il presente.

La prima è che, sul lungo termine, capitalismo e dittatura non possono coesistere: o il primo viene soffocato dalla seconda, o la seconda viene abbattuta dal primo.

Il primo caso è quello della Germania di Hitler, che progressivamente ha abbandonato il libero mercato ( adottando misure protezionistiche e politiche economiche quasi keynesiane per il riarmo bellico), per sostituirlo con il corporativismo e lo statalismo.

Il secondo caso, invece, è quello del Cile di Pinochet. Senza negare il carattere autoritario di tale regime, non si può non concordare con Milton Friedman nel riconoscere il ruolo centrale delle riforme economiche liberiste del regime nel porre fine alla dittatura stessa.

La seconda lezione, che riguarda da vicino il nostro presente, ma anche il nostro futuro, è che il “crony capitalism” inevitabilmente conduce, se non alla dittatura vera e propria, ad un accentramento del potere che è comunque inaccettabile per un liberale.

In un circolo vizioso, imprenditori corrotti finanziano politici compiacenti, che ripagano tali favori con i soldi dei contribuenti o con leggi a loro vantaggio, il tutto con il risultato di rendere sempre più ricchi e potenti sia i primi che i secondi, a discapito del resto della popolazione e della libertà. Ma è possibile contrastare il “crony capitalism”?

Forse, restando pragmatici, un modo c’è. Naturalmente, imprenditori corrotti e politici compiacenti sono sempre esistiti e sempre esisteranno. Quindi, cercare di rimuoverli interamente dalla società e dalla storia è impossibile.

Tuttavia, è possibile impedire loro di fare gravi danni, privandoli delle loro armi più potenti, quelle dello Stato. Il “crony capitalism”, infatti, esiste grazie al Big Government. Se lo Stato ha funzioni limitate, se politici e funzionari non hanno a disposizione grandi poteri e grandi quantità di denaro pubblico, allora l’incentivo a corrompere viene meno.

In uno scenario simile, molti lobbisti si ritroverebbero disoccupati, molti monopoli svanirebbero dall’oggi al domani e molti imprenditori si vedrebbero costretti a tornare all’unico sistema in grado di garantire prosperità economica individuale e collettiva, il libero mercato.

 

[1]Albert Speer, “Memorie del Terzo Reich”, capitolo VII

[2]Albert Speer, “Memorie del Terzo Reich”, capitolo XXIV