“I liberali se ne fregano dei poveri”: un mito da sfatare

La retorica collettivista e socialista, che poggia sull’unico fondamentale pilastro del “o con noi o contro di noi”, va dicendo indisturbata da quasi un secolo una delle più grandi ed ingiuste menzogne, che gli ambienti liberali hanno, dalla fine dell’800, dovuto sopportare. E cioè che chi è liberale e, a maggior ragione, liberista non ha a cuore i meno fortunati e pensa più a tutelare la libertà dei ricchi che la dignità dei poveri.

Innanzitutto va detto che la politica è, per definizione, il perseguimento della maggiore felicità e del maggior benessere di quanti più cittadini possibile. E chiunque non abbia questo come suo unico obiettivo non fa politica: fa affari. In secondo luogo, si tende a riconoscere come amico dei meno abbienti chi propone misure immediate e, concedetemi, molto facili a dirsi, per dare più soldi a chi ne ha di meno. Dimenticando che il fine ultimo delle politiche di destra è lo stesso (sulla carta per ideologia e non in tutte le applicazioni storiche). Quindi i liberali non vogliono privare i più poveri di aiuti o di assistenza e non mancano di umanità, come viene loro spesso imputato.

Ma invece credono che, perché si possano aiutare i più deboli, sia necessaria un’economia forte, capace di sopportare quelle misure assistenzialistiche che sono degne di uno stato umano. Si è già visto in molti paesi socialisti come il collettivismo porti a grande povertà. Per dirla in maniera più spicciola: è inutile avere giustizia sociale se poi da spartire c’è una mela per ogni 10 cittadini.

Si è dimostrato che uno Stato forte e arricchito dall’economia liberista ha poi le risorse necessarie per poter far fronte a quelle riforme sociali che, altrimenti, o non sarebbero possibili o farebbero crollare l’economia nazionale.

E’ grazie al mercato libero e alla forte economia guadagnata nei lunghi anni di lavoro sui mercati che Paesi come la Germania, la Francia, l’Inghilterra e l’Italia stessa possono vantare uno stato sociale forte e che, per quanto poco ce ne si accorga in patria, ci rende un esempio nel mondo. Chi dubita di questo può consultare “Where to invade next”, l’ultimo film di Michael Moore, famosissimo regista americano d’inchiesta e socialista, che in viaggio in Europa ha dimostrato tutto ciò in cui secondo lui l’Europa è anni avanti agli Stati Uniti. Perchè solo un Paese forte può provvedere ai meno fortunati. Se Bismarck non avesse avuto alle spalle, a fine ‘800, un’economia potente come quella tedesca non gli sarebbero state possibili tutte quelle riforme socialiste che beffarono l’SPD. Il primo in Italia a parlare di riforme sociali al governo fu Giolitti, liberale, che migliorò le condizioni dei lavoratori grazie all’apertura italiana ai mercati europei operata dalla destra storica e da Crispi. Tanti sono gli esempi di misure sociali supportate da un’economia in grado di farvi fronte. Ed è molto facile riconoscerle: sono quelle che durano ancora oggi.

Quindi la si smetta di credere i liberali e i liberisti insensibili, classisti, cinici e dal cuore di pietra. L’obiettivo di chi si occupa di politica è quello di avere quanta più felicità possibile tra gli uomini. Il fatto di avere strade diverse secondo cui giungervi non rende né gli uni né gli altri meno determinati per quel fine.

1945-1955: Quando Einaudi impediva le riforme socialiste

11 maggio 1955. Apparentemente una data normalissima, priva di significato. In realtà, questo fu l’ultimo giorno da Presidente della Repubblica di Luigi Einaudi (1874-1961). In questa data, morì quel poco di liberalismo che influenzava, o almeno tentava, le politiche, che tentava di influenzare i governi. Quel Liberalismo che aveva fondato l’Italia, morì. Morì naturalmente, che sia chiaro. Il problema era – come accadde anche all’indomani della morte di Cavour – l’assenza di eredi che potessero mantenere alta la bandiera del liberalismo anche dopo l’uscita di un grandissimo come Einaudi. Per usucapione, l’Italia venne prese dai cattolici e dai comunisti.

La presenza di Einaudi fu fondamentale nel decennio 1945-1955, sia prima come Governatore della Banca d’Italia, sia come ministro del Bilancio e sia dopo come presidente della Repubblica. Non si trovava nel’ambiente adatto. Era il periodo della convivenza tra liberali, cattolici e comunisti; in particolare, i comunisti chiedevano procedimenti di epurazione per chiunque, Agnelli, Valletta e Pirelli in primis; gli stessi comunisti scioperano e chiedevano a gran voce, occupando le prefetture, le dimissioni e l’allontanamento dello stesso Einaudi. Se vogliamo essere chiari e onesti, potremmo dire che Einaudi è stato protagonista attivo fino al 1948 e fino al 1955 è stato protagonista passivo. Se prima di diventare presidente della Repubblica riusciva ad adottare misure liberali, durante la presidenza, almeno in parte, riuscì ad evitare qualche misura statalista di troppo.

La situazione migliorò nel 1947. Alcide De Gasperi, (1881-1954) nel suo quarto governo, decise di scaricare i comunisti e di coinvolgere i liberali. Luigi Einaudi diventò Ministro del Bilancio e Giuseppe Grassi Ministro Grazia e Giustizia. In meno di dodici mesi, Luigi Einaudi riuscì a salvare la Lira, grazie anche a misure anti-inflazionistiche e anche alla fiducia dei risparmiatori. E’ un momento straordinario per il liberalismo: lo stesso Einaudi è il simbolo della parsimonia ed è amato dai cittadini. Il lavoro compiuto da Einaudi era sostenuto da Donato Menichella, governatore di fatto della Banca d’Italia, e da Mario Scelba, ministro dell’Interno, che ebbe il merito di mantenere l’ordine pubblico.

Il 18 aprile 1948 ci fu la storica sconfitta elettorale dei socialisti e dei comunisti.  Luigi Einaudi diventò il presidente della Repubblica, il primo eletto dal parlamento repubblicano. Da questo momento in poi, per il liberismo di Einaudi iniziò il declino. Il keynesismo americano, come dimostrato dal Progetto di Salvataggio Marshall, era dominante negli ambienti del governo De Gasperi V. Proprio Roberto Tremelloni, esponente del Partito Socialdemocratico Italiano, venne nominato ministro delegato alla presidenza del Comitato Interministeriale per la Ricostruzione, nato per gestire e per ottimizzare il Piano Marshall.

Alcide De Gasperi non era un liberale, ma nemmeno il classico statalista puro. Da denunciare, almeno da parte di noi liberali, l’istituzione del Piano Cassa del Mezzogiorno (1950). Con la Cassa del Mezzogiorno, lo stato italiano inizia con lo spreco di miliardi e miliardi di lire, ingrassando i notabili presenti nei territori meridionali. In ogni caso, l’inizio spropositato e inefficiente dello Stato inizierà proprio dopo la fine del Governo De Gasperi del 1953, ma soprattutto dopo la fine della presidenza di Einaudi del 1955. Chiuso il capitolo Einaudiano, iniziò il capitolo di Giovanni Gronchi, nuovo presidente della Repubblica. Questo nuovo capitolo è l’inizio del dominio delle politiche stataliste e socialiste, che prevede uno Stato super-interventista, dando massimo sviluppo e sfogo al Piano IRI, fregandosene di eventuali debiti. Con lui inizia il motto “Privatizzare gli utili, Socializzare le perdite“.

D’altronde, riferendosi all’Industria Pubblica, il presidente della Repubblica Gronchi ebbe il coraggio di dire:

L’industria privata non sopravvive senza profitti, l’industria pubblica sì

Più chiaro di così…

Un meridionale contro il Parassitismo Sociale

In questo articolo parlerò di Antonio Genovesi (1713-1769), considerato uno dei principali illuministi meridionali del Settecento. Perché parlarne? Partiamo dal presupposto che stiamo parlando di un contesto storico, nel quale il liberalismo, come filosofia politica, era ancora acerbo, soprattutto dal punto di vista economico. Probabilmente era una filosofia maggiormente sviluppata sul piano delle libertà individuali.

Questa premessa era d’obbligo se consideriamo che lo stesso Genovesi, nelle sue opere, alterna idee liberiste con idee mercantiliste. In questo articolo evidenzierò gli elementi liberali più importanti.

Antonio Genovesi è nato nel salernitano ed era una persona piena di speranze, ambizioni e forza di volontà. Viveva in un contesto, come quello del Regno delle Due Sicilie, ostacolato dal connubio tra il feudalesimo radicato sul territorio e la volontà di rinnovamento dello Stato Moderno. Delle sue opere principali, consiglio la lettura dell’opera “Delle lezioni di commercio o sia d’economia civile” (1766-67).

Nell’opera affronta il rapporto opulenza privata rispetto alla società, sostenendo che gli eccessi non erano un bene per la società. Lui era per un lusso moderato, poiché era non solo importante per il singolo cittadino, ma anche utile per la società stessa.

Con questo Genovesi entra sul dibattito dell’eguaglianza affrontato da Rousseau. Per il meridionale, l’idea dell’eguaglianza era una strada utopistica perché l’uguaglianza non è un processo naturale. Infatti Genovesi si poneva due domande: gli uomini ne sono più felici? E la seconda; lo Stato ne diviene più grande e ricco?

Dalle parole di Genovesi emerge l’intenzione di distinguere l’uguaglianza dalla povertà. Quindi se il primo è utopia, il secondo era più facile da percorrere. Pertanto, lo Stato aveva il compito di correggere le situazioni più gravi e vistose.

Altro aspetto interessante, se consideriamo quel contesto storico e quello attuale, era l’intenzione del meridionale di combattere il Parassitismo Sociale. Perché? Perché Genovesi partiva dal presupposto che il compito principale dell’uomo fosse quello di lavorare per sé, per la propria famiglia e per l’utile comune. Proprio perché era favorevole ad un diffuso medio benessere, il lavoro era la strada per raggiungere tale obiettivo. Per questo motivo, i “privilegi irrazionali” presenti nel territorio e gli abusi feudali erano anacronistici e paralizzavano l’economia. Spettava allo Stato preoccuparsi di rimuovere questi ostacoli e di combattere qualsiasi forma di parassitismo per permettere all’agricoltura, all’industria e al commercio di operare nelle migliori condizioni possibili. Il feudalesimo non era il solo ostacolo dell’economia, ma anche il Clero che, con le sue vaste proprietà immobiliari, con gli ordini religiosi che favorivano il parassitismo e il suo potere giurisdizionale, contribuivano a paralizzare l’economia nel suo complesso.

Per concludere, aggiungo che quando si vuole mettere in discussione un sistema “rognoso e tosto” come quello italiano o come quello meridionale, la prima caratteristica fondamentale è l’ottimismo. Chi pensa che non ci sia alcuna speranza convive con un Pessimismo Cronico, ma chi pensa che ci sia un’alternativa alla realtà in cui viviamo, vuol dire essere ottimisti, proprio come Antonio Genovesi.

Concludo con una citazione, di Winston Churchill.

“L’ottimista vede opportunità in ogni pericolo, il pessimista vede pericolo in ogni opportunità.”

 

5 punti contro quelli che “lo Stato deve pensare ai poveri”

Chiarisco fin dalla prima linea che uno Stato Liberale ha il compito di appianare la strada verso l’autorealizzazione a ogni individuo, ricco o povero che sia. Ovviamente, i poveri hanno un occhio di riguardo perché talvolta per loro è più difficile accedere al merito.

Tuttavia, chi dice “lo Stato deve pensare ai poveri” semplicemente non vuole assumersi la responsabilità di aiutare i poveri e chiede che ciò venga fatto con i soldi di qualcun altro; tale persona commette non so quanti errori, ne elencherò cinque che mi sono balenati per la mente:

  1. Il primo è che lo Stato non può pensare, perché non è un ente autocefalico;
  2. Il secondo è che dare a un individuo da mangiare tutti i giorni è diseducativo (al contrario dell’educazione di cui lo Stato Etico si dichiara difensore), rimarrà perennemente nel suo status e tenderà ad impigrirsi poiché non dovrà far nulla per raggiungere il benessere;
  3. Il terzo è la pretesa di redistribuzione della ricchezza, un atto che diventa tanto più dannoso quanto più denaro si preleva dalle tasche dei cittadini, aggiungendo al danno il “consumo” dell’apparato incaricato di gestire tale redistribuzione;
  4. Il quarto è che si punterà sempre il dito su chi sta meglio, tanto che oggi i socialisti sono prevalentemente appartenenti al ceto medio e non hanno alcuna voglia di condividere maggiormente la loro ricchezza, ma preferiscono guardare ai portafogli di quei pochi che – per merito o per il caso- hanno più denaro di loro, ma non solo, talvolta questi borghesi socialisteggianti pensano di non avere abbastanza privilegi economici, il cui carico dovrebbe gravare sulle spalle dei contribuenti più virtuosi di loro;
  5. Il quinto, come già accennato, è che si demanda ad altri il proprio dovere morale di aiutare chi è in difficoltà, secondo le proprie regole da imporre a quegli altri che si vuole paghino. Diranno “lo Stato non fa abbastanza per combattere la povertà”, la verità è che seguendo le loro istruzioni lo Stato non potrà far altro che generare ulteriore povertà.

Quest’ultimo è il più grave sintomo dovuto a una società collettivista di individui deresponsabilizzati.
Ironia del caso, persone che non vogliono prendersi la responsabilità di aiutare dei poveri che loro credono abbiano bisogno di un ben specifico aiuto (davvero sono sicuri che i loro provvedimenti aiuteranno le persone?), chiedono di aiutare tali poveri deresponsabilizzandoli dall’autorealizzazione, dalla ricerca di un lavoro o di un lavoro migliore, dal miglioramento del proprio status e delle proprie competenze.

A riguardo, voglio raccontare un aneddoto: c’è un mio carissimo amico, il quale ha oramai 70 anni, ma lavora ancora con enorme passione, legge libri e giornali, segue corsi per aggiornarsi e molto altro; non ha un lauto stipendio da poter fare lo spendaccione, eppure ogni volta che vede un mendicante gli prende qualcosa al supermercato, quando sa di un padre di famiglia che ha perso il lavoro si fa in quattro per chiedere a chiunque nella sua rete di contatti se ci sia la possibilità di trovargli una mansione.

Una volta mi disse che dovrei considerare uno strano paradosso: se lo Stato abbassasse la tassazione, lui avrebbe più soldi per aiutare il prossimo, ma che se la tassazione dello Stato fosse più bassa e dunque la presenza dello Stato minore, non ci sarebbe alcun bisognoso da aiutare.

Certo, io non so se avrei mai lo spirito per aiutare così tanto il prossimo come fa lui, eppure non è ipocrita come chi chiede di aiutare gli altri con soldi di altri ancora, è un altruista vero e non si sognerebbe mai di imporre la sua idea di solidarietà a nessuno.

Il vero punto a favore dello Stato Liberale è che riesce a fare del bene agli individui educandoli all’autorealizzazione, all’indipendenza, al miglioramento di sé pur senza dare un indirizzo morale o etico, fattore tipico del fallimentare Stato Etico.

Dunque, ricapitoliamo: uno Stato che dimora in un Sistema Liberale non crea cittadini di serie A e di serie B, bensì garantisce il rispetto della legge e favorisce i processi meritocratici. Per tutti.

La libertà personale secondo M.N. Rothbard (For a New Liberty, analisi 2^ parte)

In questa seconda parte dell’articolo su M.N. Rothbard, e nelle seguenti, tratteremo della seconda parte di “For a New Liberty”. Cominciamo dalla visione sulla libertà personale.

Libertà Personale:

In questa sezione del manifesto libertario, Rothbard prende tutti quei diritti, dalla libertà di parola al possesso delle armi, che possono essere collocate sotto il nome di libertà personali. Innanzitutto, il pensatore newyorkese prende in esame le “libertà civili” (diritto di parola, stampa, espressione) facendo notare il carattere assoluto che deve essere loro conferito. Ogni libertario deve sostenere strenuamente la libertà di parola e tutti i suoi derivati.

Inoltre, cosa molto importante, Rothbard fa notare come queste libertà siano inestricabilmente legate con i diritti di proprietà: esse derivano dalla proprietà privata (ad esempio: possibilità di stampare), ma allo stesso tempo devono rispettare la proprietà (egli cita come esempio della violazione della proprietà altrui con la parola la situazione in cui qualcuno urli “al fuoco!”, all’interno di un cinema, senza che vi sia realmente un incendio creando una perdita al proprietario del cinema).

Un caso molto particolare è quello del ricattatore o del diffamatore in a cui Rothbard giunge ad una conclusione molto particolare. Secondo lui, un blackmailer non può essere considerato un invasore di diritti altrui: egli esercita il suo diritto alla parola o calunniando o minacciando il rilascio di informazioni intime e non interferisce coi diritti di nessuno. Infatti, non si può dire che una persona abbia un “diritto di proprietà” sulla propria reputazione, essa è una funzione soggettiva dei sentimenti degli altri. Calunniare e ricattare è immorale, ma, per Rothbard, moralità e legalità sono due categorie diverse.

Altro punto su cui le libertà civili si intersecano con i diritti di proprietà sono le manifestazioni in luoghi pubblici. Secondo Rothbard, il problema di quali manifestazioni sono da autorizzare e quali da bandire è un problema che lo Stato non potrà mai risolvere senza danneggiare qualcuno e avvantaggiare qualcun altro. Infatti, essendo le strade pubbliche, tutti possono fare richiesta per manifestare, anche gruppi “estremisti” di qualsiasi tipo, poiché essendo contribuenti ne avrebbero diritto. Ma, se le strade fossero private sarebbero i proprietari a decidere chi potrebbe usufruirne e chi no, evitando conflitti tra contribuenti.

La posizione libertaria in merito alla legislazione sessuale e la pornografia è molto chiara e semplice. Infatti, poiché si tratta di interrelazioni tra adulti consenzienti e la donna o l’uomo possiedono il loro corpo, lo Stato non può proibire degli atti solo perché immorali, i cosiddetti “crimini senza vittime”, né mettere fuori legge tali comportamenti solo perché potrebbero essere dannosi e pericolosi. Agli occhi di un libertario la prostituzione è una vendita volontaria di lavoro. Inoltre, così facendo, lo Stato legifera su una delle sfere più private dell’uomo, impedendogli di comportarsi come vuole nel rispetto dei diritti altrui. Essere favorevoli alla prostituzione non significa volerla diffondere né essere favorevoli alla prostituzione in sé. Significa solo riconoscere che è una attività lecita e che come tale non può essere impedita per questioni morali.

Un altro caso particolare è quello dell’aborto. Rothbard lo risolve in maniera molto cruda ma coerente con la sua impostazione di base. Infatti, il problema cruciale è se l’aborto deve essere considerato un omicidio. Prescindendo da tutte le considerazioni mediche su quando inizi la vita e da quelle religiose, Rothbard mostra che se consideriamo un feto come avente tutti i diritti di un qualsiasi essere umano, tra cui il diritto di non essere ucciso, allora dobbiamo trovare una risposta alla seguente domanda: quale essere umano ha il diritto di rimanere, non invitato come parassita indesiderato all’interno del corpo di un altro essere umano? Per Rothbard ogni donna può decidere in quale momento quando disfarsi di quello che è un “parassita” indesiderato dal suo corpo.

Per quanto riguarda le droghe Rothbard è molto chiaro: il proibizionismo non ha funzionato nella pratica e nella teoria non è ammissibile. Infatti, lo Stato non può negare a nessuno di assumere quali sostanze preferisce solo perché fanno male o possono portare a compiere atti criminosi nei confronti di altri individui. Oltretutto si sta negando la libertà di un individuo di fare ciò che vuole del proprio corpo. Lo Stato proibisce l’utilizzo delle droghe “per il nostro bene” e per il bene degli altri; ma, se il ragionamento è questo, allora dovremmo poter ammettere anche l’incarceramento preventivo di tutte le persone potenzialmente aggressive e violente e dovremmo altresì proibire tutte le sostanze e i comportamenti rischiosi (ad esempio sostanze come il burro e il gelato) poiché potrebbero far male. La costatazione finale di Rothbard è che alla fin fine, se il ragionamento è questo, sarebbe meglio «mettere la gente in gabbie, in modo che possa ricevere la giusta quantità di luce solare, una dieta corretta, scarpe comode, e così via».

Infine, il classico argomento libertario è quello sulle armi e Rothbard non si esime dal dire la sua. Innanzitutto, poiché ogni persona possiede il suo corpo e le sue proprietà allora ha anche il diritto di difenderla come meglio crede. Però, lo Stato ha eroso continuamente questa prerogativa, non solo negando l’utilizzo di armi da fuoco come armi da difesa, ma anche impedendo di avere con sé coltelli o altri oggetti da difesa. Secondo il pensatore newyorkese, ciò impedisce alle potenziali vittime di disporre di un loro diritto e di essere alla mercé dei potenziali aggressori. Inoltre, poiché nessun oggetto fisico è di per sé aggressivo e qualsiasi oggetto può essere usato per aggredire qualcuno «non è più logico proibire l’acquisto di pistole di quanto lo è proibire il possesso di coltelli, mazze, spilloni e pietre».

(continua nella parte 3 che uscirà nei prossimi giorni)

Conoscere Einaudi: Rappresentanze di interessi e Parlamento (1919)

Questo articolo di Luigi Einaudi fu pubblicato da parte del Corriere della Sera il 29 novembre 1919.

In questo articolo, il presidente della Repubblica denuncia la tendenza italiana di far decidere su alcune tematiche che appartengono alla politica solo coloro che lui denomina gli “interessati”, ossia coloro che hanno particolarmente a cuore, come i socialisti per disciplinare sul lavoro, come gli industriali sulle tariffe doganali. Questo è un grave problema per l’Italia, come sostiene lo stesso autore.

Dare alle rappresentanze professionali una funzione deliberativa è voler mettere gli interessi particolari al posto di quelli generali, è compiere opera per lo più sopraffattrice ed egoistica. Gli “interessi” debbono esser ascoltati e consultati. Ma qui finisce la loro sfera di azione.

Questo perché secondo Einaudi è opportuno distinguere i competenti dell’azione politica dai competenti dei singoli rami, poiché non coincidono.

I “competenti” dell’azione politica non sono e non debbono essere i “competenti” nei singoli rami di industrie o di commercio o di lavoro o di professione. Da qui inizia un elenco con tre critiche nei confronti delle rappresentanze di interessi presenti in Parlamento.

Essi non rappresentano normalmente neppure la generalità degli interessi presenti.

Come si può affermare che la confederazione generale dell’industria, che le camere di commercio, che il segretariato agricolo nazionale siano le vere, genuine rappresentanze di tutti gli interessi industriali, commerciali ed agricoli d’Italia? Non lo sono neppure per burla. Questi corpi rappresentano quei gruppi, rispettabilissimi sì, ma pochi, che avevano appunto un forte interesse da far valere e da patrocinare. Chi ci dice che altri non vi sia che abbia un interesse contrario; che coloro i quali hanno interessi diversi si siano accorti di ciò che si sta combinando ai loro danni da parte di coloro che dicono di rappresentarli?

Non rappresentano certamente gli interessi futuri, che è compito principalissimo essenziale dello stato difendere contro gli interessi presenti. Riferendosi alle richieste, da parte degli industriali potenti, di avere maggiore protezionismo, penalizzando le nuove ed emergenti industrie che sono il futuro del Paese. Il compito dell’Uomo di Stato, secondo Einaudi, è quello di eliminare gradualmente qualsiasi aiuto nei confronti dei potenti e di aiutare provvisoriamente coloro che stanno emergendo.

Non difendono l’interesse generale.

Non da oggi, non da quando è cominciata la guerra, ma da ben prima gli economisti insegnarono che potevasi dare protezione ad industrie essenziali per la difesa militare dello stato. Anche a ciò sono disadatte le rappresentanze degli interessi. Oggi queste chiedono protezioni per le industrie-chiavi, per le industrie che furono essenziali durante la guerra passata: siderurgiche, chimiche, ecc. Se si ascolta il loro voto, noi difenderemo industrie che hanno guadagnato moltissimo, che, se fossero state bene amministrate, avrebbero dovuto in molti casi ridurre a valore zero i loro impianti e trovarsi ora agguerritissime contro la concorrenza estera. Invece, col pretesto delle industrie essenziali per la guerra, si vogliono mantenere i prezzi ad un livello tale da remunerare gli impianti al valore bellico, come se non fossero stati o non avessero dovuto essere ammortizzati. Vi è una grande probabilità che in tal modo si proteggano industrie diverse da quelle che saranno essenziali nella futura guerra. Io non so quali possano essere queste future industrie chiavi; ma nego nel modo più assoluto la validità della indicazione fatta dai rappresentanti delle industrie che hanno maggior voce nei loro consessi sedicenti rappresentativi.

In sostanza, quelli che vengono definiti come competenti interessati, in realtà sono coloro che tendono a consolidare quegli interessi forti e antichi. Viene escluso il nuovo. Da badare che in questo articolo Luigi Einaudi parla di Industria e dei vari settori – d’altronde siamo nel 1918, l’Italia è in guerra e siamo in un contesto storico molto diverso da quello attuale, però credo che questo articolo sia molto attuale se facciamo caso a chi si è occupato del lavoro, dell’economia, dell’Industria ecc. in questi decenni. Mi sentirei di dire, e scusate se non siete d’accordo, che questo problema delle Rappresentanze di Interessi sia ancora palesemente presente. D’altronde, oltre ad essere un paese collettivista, statalista e socialista, l’Italia è anche uno Stato nettamente sindacalista, nel senso che è soffocata dai vari interessi dei Sindacati che riescono a prendere il potere, direttamente con il voto o indirettamente con le pressioni politiche.

Si consultino dunque gli interessati, tutti gli interessati. […] Prima di concedere ad un privato industriale di tassare gli altri industriali ed i consumatori in genere a proprio beneficio sicuro ed a beneficio preteso della collettività, bisogna far conoscere pubblicamente le ragioni del privilegio. Chiedesi soltanto di non brancolare nel buio e di non essere messi dinnanzi al fatto compiuto ed irrevocabile.

Il Fronte dell’Uomo Qualunque: un liberalismo dimenticato

Dedichiamo questo articolo al Fronte Dell’Uomo Qualunque, movimento e, successivamente, un partito politico italiano sorto attorno all’omonimo giornale (L’Uomo qualunque) fondato a Roma nel 1944 dal commediografo e giornalista Guglielmo Giannini. Perché? Perché ritengo che egli abbia lasciato – almeno per noi liberali – un’eredità culturale importante. Un’eredità, probabilmente, considerata troppo povera. In questo articolo proverò a mettere l’accento su tantissimi contenuti liberali liberisti presenti nei saggi politici del commediografo italiano.
Siamo nel periodo 1943-44, l’Italia Fascista è in grave declino e Mussolini si rifugia al Nord con lo Stato Fantoccio della Repubblica Sociale, dopo l’esperienza di Salerno e con la successiva liberazione di Roma si tenta lentamente di creare un Governo e i partigiani e gli americani tentano di liberale il territorio dal dominio nazifascista. In tutto questo caos istituzionale arriva nelle edicole di Roma, mercoledì 27 dicembre 1944, il primo numero della testata giornalistica denominata «L’Uomo Qualunque». Il fondatore era Guglielmo Giannini (1891-1960), giornalista, scrittore e regista italiano. Il primo elemento che colpisce in modo particolare è il simbolo della testata.
Una delle coppie di mani appartiene alla tassazione, l’altra alla statizzazione che schiacchia una persona. Chi è questa persona? Vi rispondo con le stesse parole di Guglielmo Giannini.
Il borghese, il lavoratore onesto che lascia le sue ultime monete, schiacciato sotto il torchio
Lo scopo di Giannini era quello di dare voce alle opinioni dell’uomo della strada, contrario al regime dei partiti e ad ogni forma di statalizzazione. Fin da subito la posizione è chiarissima: abbasso tutti. Si considera antifascista e anticomunista e porta avanti una linea editoriale pungente e satirica. Il fenomeno avviato da Guglielmo Giannii fu erroneamente associato all’etichetta di Qualunquismo, che vuol dire “atteggiamento, morale e politico, polemico nei confronti dei partiti politici tradizionali in nome di una gestione tecnocratica e non ideologica del potere, assunto dai promotori e sostenitori del movimento qualunquista” (fonte Treccani).
In realtà dietro questa etichetta, il pensiero politico di Giannini e del Fronte dell’Uomo Qualunque, era molto più profondo e articolato. Proprio per questo ho deciso di parlare degli aspetti liberali che, a mio parere, sono stati poco analizzati e discussi nel corso della storia.
Il principio ispiratore è la libertà.
nella formula con cui fu enunciata dai Fondatori delle Nazioni Unite, Franklin Delano Roosevelt, Winston Churchill, Libertà di parola — Libertà di Religione — Libertà dal bisogno — Libertà dalla paura
Nello specifico, era un convinto sostenitore dello Stato Minimo. Non era d’accordo con il motto statalista mussoliniano “tutto nello Stato niente contro, al di fuori o al di sopra dello Stato”, ma era favorevole allo Stato Minimo (o Stato Amministrativo). La citazione dello storico Dino Cofrancesco (1942) penso sia la più adatta per descrivere l’idea di Stato di Giannini.
Uno Stato che si tiene lontano dal farsi attore sociale
Nel saggio di teoria politica scritto da Giannini, La Folla, insiste molto sulla questione del rapporto tra il cittadino e il governo statale, facendo vari esempi, dalla visione dello stato come «una scrivania alla quale sta seduto un impiegato che con un campanello può chiamare un poliziotto», all’idea di Stato al servizio del cittadino e non paternalista, all’opposizione allo «Stato scocciatore». Il suo obiettivo è quello contrastare la presenza dello stato nella vita sociale italiana, in quanto l’unica cosa di cui ha bisogno il cittadino qualunque (o l’uomo qualunque) è quello di essere amministrato. Di conseguenza, egli nonostante sia opportuno contrastare il comunismo e sia il capitalismo della grande industria, il suo programma politico era incentrato su un liberismo economico individuale.
Il tiranno c’è sempre, la rottura di coglioni c’è sempre; e sia l’uno che l’altra si valgono dello Stato e della forza oppressiva dello Stato per fare il proprio comodo e i propri interessi
Lui si ispirava all’idea libertaria di Henry Thoreau (1817-1862), filosofo e scrittore americano, nel quale nella sua opera Disobbedienza Civile, esprime la sua contrarietà nei confronti del governo invadente.
Il governo migliore è quello che governa di meno
A tal proposito, Giannini era favorevole ad un certo turnover della classe politica.
Vogliamo invece mettere i governanti nell’impossibilità di far male, o quanto meno, nelle condizioni di fare il minor male. […] Nessuno dovrebbe occupare una carica per più di due volte di seguito, nessuno dovrebbe essere presidente della Repubblica per più di due anni consecutivi, nessuno dovrebbe essere Capo del Governo per più di un anno, nessuno dovrebbe essere eletto deputato per più di due volte senza intervallo e via discorrendo.
Inoltre, lo Stato pretende di comportarsi come se fosse un privato cittadino, quindi pretende di fare commercio. Proprio le tasse vengono adottate per fare il “mestiere altrui” di imprenditore, per coprire le perdite economiche. Come dice anche lo stesso Giannini.
Lo Stato considera il Paese come una miniera da sfruttare i suoi abitanti come un gregge da tosare, scuoiare, squartare, cucinare, mangiare.
Quindi insisteva nel fare propaganda contro lo Stato Azienda, promosso dai comunisti, in particolare con Nikita Krusciov nel 1956.
la Ford e la Fiat, la Montecatini e la Standard saranno lo Stato, miei datori di lavoro e maestri, direttori di coscienza e confessori. Se un amministratore delegato s’incapriccerà di una donna di casa mia dovrò dargliela o finire in galera. È questa la perfezione che mi si promette con lo Stato Azienda che assorbe ogni iniziativa privata? Se è questa sono Contro questo Stato e ritengo più civile e progredita l’Età della Pietra, con tutti i suoi disagi compensati però dalla sua impagabile libertà.
Dal rifiuto al modello teorico di organizzazione statale proposto dai comunisti, Giannini è favorevole ad affidare l’economia nazionale nella sua totalità, ai privati.
Angelo Imbriani, autore del testo Vento del Sud : moderati, reazionari, qualunquisti, 1943-1948 (1996), spiega che l’idea di Stato di Giannini era:
un modello organizzativo dello stato estremamente suggestivo per il ceto medio dell’impiego e delle professioni, perché basato sulla valorizzazione delle competenze individuali e capace quindi di restituire a queste fasce sociali quel ruolo che esse temono di poter perdere o immaginano di aver già in parte perduto.
La visione di Stato di Giannini prevedeva il matrimonio tra Politica e Tecnica, in quanto dividerli vorrebbe dire:
vuol dire soltanto favorire la peste del politicantismo puro, astratto, metafisico, inutile e anzi dannoso; vuol dire Mussolini. ministro della guerra, Togliatti ministro della giustizia, Scoccimarro ministro delle Finanze, e quindi Mussolini, Togliatti, Scoccimarro alla perpetua ricerca di tecnici che attuino la loro politica (pericoloso doppione) con il risultato che o la tecnica si debba mettere al servizio della politica contorcendosi ai suoi voleri, o la politica debba cedere il posto alla tecnica snaturandosi fino al
proprio annullamento.
Guglielmo Giannini e il Fronte dell’Uomo Qualunque non aveva un rapporto buonissimo con il Partito Liberale Italiano. I contrasti con Benedetto Croce erano evidenti e difficili da risolvere. Il problema era soprattutto organizzativo e di comunicazione, in quanto Croce era per una politica di élite e Giannini era per una politica di massa. Lo stile populista di Giannini non era particolarmente ben visto, dunque, dagli ambienti liberali del Partito Liberale Italiano.
Il successo del Fronte dell’Uomo Qualunque fu tanto breve tanto quanto intenso. Ritengo per l’Italia che sia stata una grande occasione liberale mancata. Forse con un pizzico di lungimiranza, adottare una linea politica liberale di massa, probabilmente avrebbe evitato il declino del Partito Liberale Italiano che, a mio parere, si è sempre “intestardito” (e tuttora insiste) con la politica dei pochi o di élite.
Sarà bellissimo un domani raccontare e diffondere le opere di Guglielmo Giannini..

Prospettive di Libertà radicali: For a new Liberty, M.N. Rothbard ( Parte 1)

 

In questo articolo vogliamo offrirvi una diversa prospettiva sulla Libertà, ovvero il  punto di vista  di Murray Newton Rothbard (qui il link alla pagina Wikipedia a lui dedicata), considerato, a ragione, il “padre” del Libertarismo contemporaneo. Rothbard è stato un economista appartenente alla Scuola Austriaca e, partendo dalle premesse metodologiche individualistiche di Mises, di cui fu allievo, dal Giusnaturalismo proprietarista di matrice lockeana e dalla tradizione dell’anarchismo filosofico americano, giunse a dare corpo a quello che è il Libertarismo contemporaneo.

Questa breve premessa introduttiva serve per esplicitare qual è l’universo del discorso all’interno del quale si situa “For a new Liberty” (disponibile in italiano grazie a Liberilibri), il “manifesto libertario”. Questo manifesto venne scritto da Rothbard con un intento sia divulgativo, per raggiungere più persone possibili e metterle in contatto con le idee libertarie, sia per creare una sorta di punto di riferimento in cui più libertari potessero riconoscersi. Ovviamente, come ogni manifesto, ha intenzioni anche pratiche: nella parte conclusiva, Rothbard cerca di delineare strategie, modalità, temi e persone verso le quali il libertarismo si deve rivolgere per giungere a compimento. Il tutto rigorosamente nel rispetto dei diritti inviolabili delle persone e senza l’uso della violenza.

“For a new Liberty” si snoda attraverso tre parti – il credo libertario, soluzioni libertarie a problemi attuali e un epilogo – il tutto preceduto da una premessa storica che cerca di inquadrare il libertarismo in una tradizione ben precisa. Infatti, il libertarismo è una prospettiva radicale sulla libertà, figlia del continente americano – il manifesto si rivolge continuamente e assiduamente ai cittadini degli USA seppure è un manifesto per tutti gli uomini –  e continuatrice della tradizione del movimento liberale classico del XVIII e XIX secolo. Coloro che sono individuati come “antenati genetici” del libertarismo sono Locke, il cui contributo giusnaturalista è il cardine del libertarismo, i Livellatori della Rivoluzione inglese, John Trenchard e Thomas Gordon autori di Cato’s Letters, opera che fu molto letta nel periodo che portò alla Rivoluzione americana, Thomas Jefferson, Thomas Paine, autore di “Common Sense”, pamphlet decisivo per l’opinione pubblica nella Rivoluzione americana, Jackson, Lysander Spooner e molti altri.

Quello che Rothbard chiama il “credo libertario” è sostanzialmente la riproposizione del Giusnaturalismo di matrice Lockeana (diritti naturali, self-ownership, diritto all’homesteading) il tutto arricchito da quello che è denominato “non-aggression principle”, anche conosciuto come “assioma di non aggressione” (abbreviato NAP); l’assioma è così riassunto da Rothbard:

«Il credo libertario si basa su un assioma centrale: nessuno può aggredire la persona o la proprietà altrui. Lo si potrebbe chiamare “assioma della non aggressione”. L”‘aggressione” viene definita come l’uso o la minaccia della violenza fisica contro la persona o la proprietà di altri. Aggressione è quindi sinonimo di invasione.»

Questo assioma, che secondo Rothbard è una verità morale che si impone alla nostra ragione, mostra l’enorme valore attribuito alla libertà individuale dai libertari. Ma in questo contesto ci troviamo davanti ad una formulazione della libertà e dei diritti di carattere negativo; la libertà è sostanzialmente l’assenza di coercizione e l’uomo non possiede tutti quei diritti che possiamo definire di “seconda generazione”: diritto alla salute, istruzione, lavoro ecc. Il libertario difenderà quelle libertà che possiamo definire “civili”: libertà di parola, di assemblea, di stampa ecc. e il diritto di contrattare liberamente, di scambiare liberamente beni. Ovviamente alla base vi sono i diritti di proprietà.

A differenza degli anarco-collettivisti, dei marxisti e di tutte le possibili declinazioni dell’ideologia comunista, così come di Hobbes, l’antropologia alla base del Libertarismo è “neutra”: essa non ritiene che l’uomo sia nella sua essenza egoista, né che sia lupo ad ogni suo simile. Il libertario si limita a constatare che gli uomini a volte si comportano in maniera altruistica, altre volte in maniera egoistica, alcune volte sono “buoni” e altre “cattivi” ed evidenzia come la raggiera di comportamenti che un uomo può assumere sono molteplici e vari, ma il discrimine fondamentale è il rispetto del NAP. Cosa ancora più importante è la differenza con i comunisti: nell’idea libertaria non è contenuta nessuna pretesa di cambiamento radicale dell’uomo. Essa è una analisi realistica e come tale non prospetta né promuove un cambiamento nello spirito o nell’essenza dell’uomo, non prospetta l’avvento di nessun “Uomo Libertario”.

Per le loro posizioni, a volte i libertari sono etichettati come di destra, quando promuovo ad esempio il libero mercato, la libertà di contratto, i diritti di proprietà, e a volte come di sinistra come quando promuovo la libertà sessuale, l’aborto, libertà di stampa. Il fatto è che alla base di tutte queste prese di posizioni vi è il rispetto dei diritti di proprietà individuali, rimarcati dal NAP. Questa strenua difesa della libertà e dei diritti porta, se si vuol essere coerenti fino in fondo con i principi suesposti, ad una applicazione della legge morale a tutti, anche allo Stato, ricollegando quindi politica e morale. Per questo motivo libertario è sinonimo di anarchico.

Lo Stato è l’oggetto di critica di tutto il manifesto, l’obiettivo polemico verso cui Rothbard si scaglia continuamente: lo Stato è un ente che si basa sulla coercizione, sulla violenza, sulla minaccia, sul furto e sull’omicidio di massa. Infatti, se noi applichiamo coerentemente il NAP allora dovremmo considerare la tassazione un furto, la coscrizione obbligatoria un rapimento organizzato e la guerra un omicidio di massa.

Per Rothbard lo Stato è un prodotto storico ed umano che nel corso della storia si è imposto, apparentemente, come unica alternativa al “caos dell’anarchia dello stato di natura”, come unico ente razionale ordinatore della realtà. Ma esso non ha diritto di imporsi sulla libertà delle persone ed inoltre è anche causa di inefficienze e sprechi, per non parlar dell’incalcolabile numero di morti dovuti alle guerre condotte nel nome dell’interesse nazionale e del bene comune. La provocazione di Rothbard è questa: se un ladro vi dicesse che la rapina che sta commettendo su di voi è per il bene di molte altre persone, voi sareste portati a non ritenere ciò un furto? Non è forse così che funziona la tassazione?

Lo Stato viene paragonato ad una gang, ad un gruppo di banditi che si sono imposti su un territorio nel quale si sostentano con la rapina e l’estorsione sistematica, praticano la schiavitù (coscrizione obbligatoria) e l’omicidio di massa, ma il tutto è effettuato per il bene dei cittadini. Inoltre, Rothbard critica la propaganda, la manipolazione continua delle coscienze, perseguita grazie alle feste laiche e alle celebrazioni dell’ideale nazionale e patriottico che portano gli individui a ritenere che il potere dello Stato sia inevitabile, supremamente giusto e buono.

Ovviamente, come si può intuire dalle affermazioni precedenti, l’obiettivo del libertarismo è l’instaurarsi di una società libertaria, quindi anarchica, priva dello Stato, nella quale gli individui possano essere, finalmente, realmente liberi.

(continuerà nella Parte 2 che uscirà nei prossimi giorni)

Conoscere Thatcher: reagire al dominio socialista

Se un liberale non crede che la proprietà privata sia uno dei principali baluardi della libertà personale, farà meglio a creare un governo con i socialisti. In effetti uno dei motivi del nostro fallimento elettorale è che la gente pensa che troppi dei conservatori siano diventati dei socialisti.

Così scrisse nel suo libro autobiografico “Come sono arrivata a Downing Street” (1996) – all’indomani di una sconfitta elettorale dei primi anni settanta – , Margaret Thatcher o Maggie, Primo Ministro del Regno Unito dal 1978 al 1990, la prima donna della storia britannica, liberale liberista che rialzò una nazione collassata da Sindacalismo, Burocrazia, Tasse, Capitalismo di Stato, Assistenzialismo.

Una vera Rivoluzione se consideriamo che riuscì a realizzare delle riforme nella nazione nella quale i socialisti laburisti inventarono il Welfare State con il loro slogan “Dalla Culla Alla Tomba”. La citazione suddetta vuole essere la dimostrazione come Maggie volesse svegliare dal torpore una forza politica, come quella dei Conservative Party, incapace di reagire al dominio ideologico dei socialisti. La mediocrità, tipica della cultura socialista, aveva contagiato i conservatori che davano l’impressione di aver perso la loro identità.

Riprendendo il suo libro autobiografico, direi che sarebbe opportuno riprendere un altro passo importante.

La causa principale del crescente allentamento della gente dai partiti politici è il troppo governo. La competizione tra i partiti nell’offrire livelli sempre più alti di benessere, aveva diffuso la convinzione che il governo fosse in grado di fare qualsiasi cosa e aveva offerto ai socialisti l’opportunità di estendere massicciamente l’intervento statale.

In questo passo, è chiaro come Maggie sia del parere che la crisi del secondo dopo-guerra e la conseguente riforma del Welfare State, aveva favorito come risultato quello di convincere tutti che la politica dovesse essere l’unica voce in capitolo sulla quotidianità (e i vari problemi) delle persone. L’idea della Thatcher è che i partiti politici erano diventati quasi come dei portatori di soluzioni ai problemi, come Lei stessa diceva.

«Abbiamo attraversato un periodo in cui troppi bambini e troppi adulti facevano ragionamenti del tipo: “Ho un problema, ci deve pensare il governo a risolverlo!”, oppure “Ho un problema e ho il diritto di farmelo risolvere dal governo”, o “Sono senza casa, il governo me ne deve dare una”. E così affibbiavano i loro problemi alla società.

Anche i conservatori erano caduti in questa sorta di trappola che lo ha portato a tanti fallimenti durante i periodi al governo. Proprio per questo motivo è opportuno ritrovare quell’identità perduta, riportando il focus sulla libertà del cittadino, sulla famiglia. Non aveva timori nel portare avanti quei valori borghesi, che nessuno fino a quel voleva toccare, proprio perché erano diventate delle parole “intoccabili” secondo le regole del “politicamente corretto” del Regno Unito del ventennio 50′-70′.

Se nei valori borghesi rientrano l’incoraggiamento della diversità e della scelta personale, l’offerta di equi incentivi e ricompense per l’abilità e l’impegno nel lavoro, la conservazione di efficaci barriere contro l’eccessivo potere dello stato e la fede nella più ampia distribuzione della proprietà individuale, allora credo che siano valori da difendere.

Perciò quando decise di candidarsi per la leadership del Conservative Party, aveva l’intenzione di esaltare l’individualismo e le potenzialità del cittadino, senza che riceva alcuna aggressione fiscale da parte dello Stato.

Sono convinta che occorra giudicare una persone per i loro meriti e non per la loro provenienza. Credo che la persona che è pronta a lavorare più sodo è quella a cui spetta il compenso maggiore, un compenso che dovrebbe restargli anche dopo le tasse. Dobbiamo appoggiare i lavori e non gli imboscati: che non è solo lecito ma lodevole voler migliorare la propria famiglia con il proprio impegno.

Mettersi in gioco contro i socialisti è possibile anche in Italia. Noi de L’Individualista Feroce riteniamo che non sia giusto nascondersi e temere il giudizio di chi, con la forza, sia maggioritario. Non solo diffondendo le idee, ma anche impegnarsi sempre di più sul campo più importante, quello politico, poiché è l’unico in cui è possibile realizzare delle riforme – forse rivoluzionarie per noi liberali, chissà – per risvegliarci dall’incubo statalista-socialista. Riforme come quelle sul ruolo dello Stato, tanto desiderata dalla stessa Maggie.

«Lo Stato deve essere un servitore, non un padrone. Non ci devono essere tentazioni paternaliste. Il paternalismo è nemico della libertà e della responsabilità. Benché si mostri sorridente e umano, è come tutti gli altri tipi di governo interventista: soffoca gli sforzi di tutti, fiacca le imprese, incoraggia la dipendenza e promuove la corruzione».

Il posto pubblico non deve essere un posto “a vita”

Qualche giorno fa in Sicilia si è verificato uno scontro verbale tra politica e vescovi sulle retribuzioni dei funzionari della pubblica amministrazione della Regione Sicilia. A quanto pare, sarebbero molto più alte rispetto a quelle dei dipendenti pubblici degli Stati Uniti d’America. Questo “scontro” mi ha permesso di fare una riflessione sulla situazione dei dipendenti pubblici, non solo siciliani, ma direi di tutta Italia.

La sensazione è che i dipendenti pubblici vivono in una situazione di “paradiso consapevole ma giustificato”. Cosa vuol dire? Mi riferisco al fatto che, non tanto le forze dell’ordine, piuttosto i dipendenti della pubblica amministrazione e delle aziende statali, in quanto godono di generosi privilegi, hanno il posto a vita (il famigerato Posto Fisso), ma proprio perché tanti ex-politici vivono sulle spalle dello Stato (vedi vitalizi o nomine nei consigli d’amministrazione), si giustificano con il fatto che loro ricevono meno di quello che dovrebbero.

In tutta questa storia, buona parte delle colpe è dei sindacati che sono riusciti nel rafforzare la posizione dei dipendenti pubblici, favorendo lo sport nazionale dell’assenteismo. Infatti, licenziare è una pratica molto complessa.
Ma le colpe sono anche della cultura del welfare in Italia. Nel corso dei decenni, i governanti – nazionali o locali – hanno usato il posto da dipendente pubblico per due motivi. Il primo come “mancia elettorale“, quindi per premiare chi ti permetteva di vincere le elezioni. Il secondo come “rimedio alla disoccupazione”. Questo secondo aspetto non è da sottovalutare se consideriamo che lo Stato è il principale datore di lavoro proprio nelle regioni maggiormente in difficoltà.

Riepilogando, il rapporto governanti-dipendenti della pubblica amministrazione si basa su un reciproco “ricatto”, poiché il primo deve coccolare il secondo per evitare ripercussioni elettorali, perciò quest’ultimo si permette il “lusso” di poter fare tutto quello che vuole.

Chi ci rimette? Ci rimettono i cittadini che pagano le (altissime) tasse per ricevere uno scarso servizio da chi lavora nella pubblica amministrazione. Infatti, il dipendente pubblico non ha alcun incentivo a lavorare bene, se in ogni caso non ha il rischio di perdere il lavoro e riceverà un lauto compenso. E ci rimette anche quel dipendente pubblico onesto che si vergogna dei suoi colleghi.

Come rimediare a questa situazione? Partendo dal presupposto che molte aziende statali dovrebbero essere vendute, bisogna riformare la figura del funzionario nella pubblica amministrazione.

La mia proposta sarebbe quella, con il servizio civile nazionale, di dare la possibilità ai neolaureati in ambiti amministrativi di poter iniziare a fare esperienza sul campo per almeno 3 anni. Licenziare le figure lavorative poco utili e, per chi viene confermato, i contratti dovranno essere a tempo determinato di 3 anni con la possibilità di rinnovo automatico, per favorire il turnover. La retribuzione del dipendente pubblico avrà una parte fissa e una parte a provvigione sulla base delle pratiche gestite. Per qualsiasi pratica avviata dal cittadino, sarà designato un funzionario responsabile che dovrà occuparsi della conclusione della pratica, in modo soddisfacente e in tempi brevi.

Questo perché ritengo che la pubblica amministrazione non debba creare problemi per il cittadino e che il dipendente pubblico debba essere a sua completa disposizione. Non sarebbe malvagio dare l’opportunità di integrare la crescita professionale dei giovani con la possibilità di lavorare a servizio dei cittadini.