Perché volere prodotti stranieri sui nostri scaffali?

In Italia c’è un’ossessione per il Made in Italy agroalimentare, ovviamente sfruttata da vari politici. Se una persona vuole mangiare solo made in Italy, posto che ciò sia possibile, è una sua libertà fondamentale e inviolabile.

Tuttavia molti, dalla casalinga di Voghera al deputato, non si accontentano di scegliere legittimamente per la propria vita ma vorrebbero imporre la propria visione a tutti.

L’idea per cui il mercato cattivo uccide il Made in Italy contribuisce non poco all’atteggiamento anti-mercatista italiano: per la Lega, il libero mercato è un caos totale, una visione simile a quella di Fratelli d’Italia che contrappone l’apertura del mercato alla tutela del Made in Italy; il M5S vuole ogni tanto i dazi e, inoltre, condivide con Forza Italia un’idea fortemente dirigista dove si deve avere un sistema statale preposto all’esportazione del Made in Italy nel mondo. Il PD, spesso accusato di svendere il Made in Italy perché solitamente meno scettico della media sul libero commercio, purtroppo segue questo copione virandolo un po’ a sinistra e mettendoci di mezzo le multinazionali.

Ma per quali ragioni, fermo restando gli standard sanitari e l’onestà comunicativa, dovremmo importare prodotti stranieri? Ecco cinque ragioni.

Libertà individuale

Magari voi volete mangiare solo Made in Italy, è una scelta legittima. Ma magari c’è chi preferisce prodotti stranieri e questa preferenza non danneggia nessuno. Non è moralmente corretto, quindi, ostacolarla.

Dobbiamo abituarci ad una semplice idea: il mercato è democratico e ogni acquisto è un voto. Si può fare propaganda per la propria parte ma sopprimere un prodotto per favorirne un altro non è troppo diverso dal sopprimere un partito politico.

Di solito chi porta argomenti contro il libero commercio parla di “nostre tavole”. Niente di più sbagliato: la tavola è la mia, pago io, e vorrei decidere cosa metterci sopra.

Aiuta i più poveri

Magari per noi i trenta centesimi che ci possono essere di differenza tra un prodotto straniero e uno italiano sono poca cosa. Preferiamo un prodotto più buono spendendo di più, è la natura umana. Lo faccio anche io, quando prendo la pizza la prendo sempre con la bufala perché mi piace di più.

Ma per gli italiani più poveri quei trenta centesimi sono tanto. Sono soldi che potrebbero usare per comperare altro, per risparmiare, per realizzare un sogno o per investire e accrescere il proprio reddito.

Chiaramente di per sé trenta centesimi sono pochi ma sul totale il peso è considerevole. Un esempio abbastanza noto è quello del tanto odiato olio tunisino: costa significativamente meno rispetto all’equivalente italiano. Magari un signore anziano con la pensione minima preferirà condire la propria insalata con quest’olio, che a detta degli esperti non è affatto male, e avere più soldi per comperare altro, ossia abbiamo aumentato il suo potere d’acquisto.

Togliere la libertà di scelta danneggia soprattutto le fasce più deboli della società, ossia quelle che più beneficerebbero da prodotti a basso prezzo, nonché quelle a cui nominalmente i partiti si appellano di più.

Aiuta i Paesi lontani a svilupparsi

Si parla tanto di “aiutarli a casa loro”. E comperare i loro prodotti è il miglior modo di farlo. Gli aiuti continuati, come ben fa notare il buon Stossel in questo video, uccidono l’imprenditoria e quindi rendono, alla lunga, sempre più dipendenti dagli aiuti stessi.

Comperando, invece, si muove l’imprenditoria locale. Magari l’agricoltore che raccoglie a mano e fa un buon raccolto, riuscendolo a vendere in Occidente, potrà coi ricavi comperare nuovi strumenti e accrescere ulteriormente il proprio benessere economico e quello della propria comunità, in un ciclo virtuoso.

Mette in moto la concorrenza

C’è chi definisce l’Europa un ideale, chi un male necessario e chi come Satana. Io la definisco un’enorme organizzazione dedicata al limitare la concorrenza dell’agricoltura: infatti il 40% del bilancio europeo è destinato alla PAC, ossia la Politica Agricola Comunitaria. Il risultato? Meno del 2% del PIL europeo deriva dall’agricoltura.

In Nuova Zelanda l’agricoltura fu liberalizzata durante un governo laburista. Si temeva la distruzione della locale agricoltura ma, invece, oggi conta il 7% del PIL e della forza lavoro. In sostanza non esiste alcuna contrapposizione tra ruralismo e liberismo, anzi, le liberalizzazioni portano di solito ad un’agricoltura migliore.

La concorrenza non porterebbe alla fine della nostra agricoltura ma, invece, ad un miglioramento tecnologico: se esiste il caporalato, oggi, è soprattutto a causa della necessità di provvedere ad una richiesta agricola di basso livello, alla quale solo lavoratori di basso livello e pagati poco possono rispondere.

Quindi, se ci fosse più concorrenza, si arriverebbe a mutamenti tecnologici e dimensionali dell’impresa agricola in un settore con una dimensione ideale dettata dal mercato e non dalla Commissione europea. In questo modo, ed anche grazie alla tecnologia, è ben probabile che il benessere prodotto dall’agricoltura aumenti.

Dà importanza alle eccellenze

Ormai cito Giovanni Adamo II del Liechtenstein così spesso che, informalmente, chiamo il suo pensiero “la scuola di Vaduz“; d’altronde non è colpa mia se ha detto qualcosa di buono su qualunque cosa io scriva.

In un sistema protezionista ci sarà sempre una certa tendenza all’autarchia. Se l’industria agricola deve provvedere a produrre anche beni che si potrebbero produrre all’estero con una spesa minore, sta di fatto distogliendo persone e soldi dall’economia produttiva ma sta anche togliendo spazio alle eccellenze nazionali.

Ma, come fa notare il Principe, nel mondo odierno i commerci la fanno da padrona. Conviene puntare ad eccellenze da vendere a caro prezzo e delegare la produzione di beni semplici al mercato aprendo anche al mercato internazionale, invece di arroccarsi sulle proprie produzioni.

Questa, tra l’altro, è una delle ragioni per cui nel pensiero del Monarca gli Stati piccoli tendono ad essere più prosperi rispetto a quelli grandi: commerciano su tutto, avendo poche risorse naturali.

L’esempio del riso

Si parla tanto del riso italiano, minacciato dalla concorrenza sudasiatica. Eppure, parlando con un imprenditore del settore alimentare, ho scoperto una realtà che mai avrei immaginato: l’eccellente riso italiano sta scomparendo.

Più del 60% della produzione nazionale è Indica, un riso ad alta resa usato soprattutto per sushi, contorni, e insalate di riso. E, come dice il nome stesso, è un riso tradizionale asiatico.

Trovare riso d’eccellenza come il Carnaroli (dev’essere un vero Carnaroli poiché la legge permette di chiamare Carnaroli un riso che vi è simile visivamente ma non organoletticamente) è diventato quasi impossibile.

Il riso italiano è diventato un riso cinese prodotto in Valpadana. Perché? Perché all’industria è stato chiesto di soddisfare la domanda di questo riso nel nome del nazionalismo alimentare, del “bisogna tutelare il riso italiano”.

Cosa potrebbe succedere se iniziassimo a importare il riso asiatico ad alta resa dall’Asia? Sicuramente libereremmo risorse per tornare a produrre il riso italiano d’eccellenza, quello che si vende a caro prezzo in tutto il mondo e permette di fare deliziosi risotti, invece di fare un riso normalissimo che chiunque può produrre senza particolare talento.

La solidarietà continua ad impoverire il terzo mondo

Durante la sua visita ufficiale in Tunisia lo scorso Ottobre, il presidente del Parlamento Europeo Antonio Tajani ha proposto di attivare un “piano Marshall” per l’Africa. Rievocando il piano di sussidi che gli Stati Uniti concessero ai Paesi dell’Europa occidentale dopo la Seconda Guerra Mondiale, Tajani ha stimato il costo di un analogo piano per l’Africa a 40 miliardi di €.

L’obiettivo di questi investimenti sarà la costruzione di nuove infrastrutture, il supporto alle piccole e medie imprese (SME in inglese), l’incoraggiamento all’imprenditoria giovanile e all’occupazione, nelle nazioni del continente africano.

Inoltre, Tajani ha sottolineato come senza una soluzione a questi problemi “migliaia, e in futuro saranno milioni, di persone potrebbero lasciare il proprio Paese.”

Nondimeno, il fine del libero mercato non giustifica i mezzi del trasferimento di risorse da parte del governo. La mia natia Spagna, che ha il secondo tasso di disoccupazione più alto fra i 28 Paesi della UE, lo prova.

Fra le regioni europee con maggior disoccupazione e minor PIL, ce ne sono due spagnole: Estremadura e Andalusia. Ma nonostante i sussidi del governo nazionale e regionale per “promuovere la creazione di nuove imprese”, la Spagna pone più ostacoli a fare impresa di tutti gli altri Paesi OCSE, secondo il Fondo Monetario Internazionale.

L’Africa è ancora il continente più povero al mondo. Il suo PIL pro capite è di quasi 8.500 $ inferiore alla media mondiale. Ma ci sono segnali di speranza: le carestie sono quasi scomparse al di fuori delle zone di guerra; l’aspettativa di vita è cresciuta dai 50,3 anni del 2000 ai 50,9 del 2015. Tutto questo progresso si è verificato grazie a riforme economiche pro-mercato.

Secondo la Heritage Foundation, lo score complessivo in libertà economica dell’Africa sub-Sahariana è pari al 55%, quasi 3 punti più alto che al principio del secolo. La libertà di commercio, in particolare, è cresciuta di 18 punti; il carico fiscale sembra essere in diminuzione.

Eppure, nessun Paese africano si posiziona fra le 20 economie più libere al mondo. Lo Stato di diritto latita e la repressione del dissenso prevale troppo spesso.

Nel lungo periodo, riforme economiche in direzione laissez-faire sono l’unica strada per la prosperità. Allo stesso tempo, la corruzione deve essere combattuta efficientemente. Il Botswana è un modello, in questo senso: è uno dei Paesi più ricchi in Africa, il meno corrotto, e fra le 34 economie più libere del pianeta (nonché la seconda più libera nel continente).

Non esistono, invece, casi di Paesi usciti dalla miseria grazie ad aiuti umanitari e sussidi allo sviluppo. I fondi di questo tipo sono solo trasferimenti da un apparato di governo ad un altro.

La Singapore post-coloniale era ben lungi dall’essere un Paese ricco pochi decenni fa, ma è oggi un caso di studio per i sostenitori di economie aperte. Politiche orientate verso il libero mercato e l’attrazione di investimenti esteri l’hanno aiutata a crescere e prosperare.

Il Parlamento Europeo non ha alcuna competenza, né responsabilità, al di fuori della propria giurisdizione. Ma questo non significa che non possa fare nulla per migliorare la condizione economica dell’Africa.

Più nello specifico, vi sono alcune politiche Europee che stanno ponendo ostacoli allo sviluppo degli imprenditori e commercianti del Terzo Mondo. La famosa Politica Agricola Comune (PAC) rende più complicato per i Paesi in via di sviluppo esportare i propri prodotti verso la UE, perché applica una discriminazione economica particolarmente rilevante verso gli agricoltori non Europei.

Queste politiche protezioniste non hanno portato l’agricoltura a diventare una forza economica trainante per la UE. Nonostante un budget annuale di 59 miliardi di euro (utilizzato per supportare il reddito dei contadini e finanziare programmi di sviluppo rurale, che Paesi meno sviluppati non possono permettersi), l’agricoltura contribuisce a meno del 2% del PIL della UE.

Esiste un modello per il tipo di transizione che la UE dovrebbe avviare, per concedere un accesso più libero ai mercati europei da parte dell’Africa: La Nuova Zelanda, il cui settore rurale era simile a quello Europeo 3 decenni fa, ha condotto un processo di liberalizzazione economica.

C’erano diffusi timori sul rischio di vedere molte aziende agricole fallire, ma alla fine solo circa 800 dovettero chiudere. Gli agricoltori che speravano di competere cominciarono a cooperare in maniera più efficiente e innovativa sulla base di condizioni di mercato. Ad oggi, l’agricoltura contribuisce ancora per il circa 7-10% al PIL della Nuova Zelanda.

Indubbiamente, la soppressione delle misure agricole protezioniste condurrebbe a feroci proteste a Bruxelles e nelle altre capitali: gli Europei sono abituati all’interventismo statale.

Perfino gli Euroscettici mostrerebbero la propria indignazione. Nonostante tale rischio, però, i politici dovrebbero cercare di spiegare questi cambiamenti di policy in una maniera più precisa, tale che sia più efficace, tanto da far presa da un punto di vista sia morale che logico.

In una ipotetica campagna per la liberalizzazione del mercato agricolo, i politici e i sostenitori della libertà non dovrebbero focalizzarsi solo su statistiche del PIL e altri dati macroeconomici.

Dovrebbero invece sottolineare che i cittadini europei potranno comprare prodotti più economici, dato che al momento pagano i costi dei sussidi e delle regolamentazioni, e che potranno effettuare scambi commerciali con un numero più ampio di Paesi non Europei.

Ancora più importante, da un punto di vista etico così come nella vita reale, è facile comprendere come il commercio sia un modo per beneficiare sé stessi e i propri vicini: prezzi più bassi lasciano alle famiglie più risorse a disposizione per le loro altre priorità.

Allo stesso tempo, gli Africani possono cominciare a espandere i loro mercati di esportazione e avere più denaro per le loro necessità di base. Ognuno ne trae beneficio: il commercio è un modo di donare vita ad altri. Dall’altra parte, i boicottaggi commerciali sono invece un modo per eliminare i punti di vista che non vogliamo riconoscere.

I miei compatrioti Europei devono giungere a vedere la liberalizzazione del commercio come un modo di esprimere solidarietà ai lavoratori del Terzo Mondo, di risollevare la parte di Africani in miseria e di ottenere benefici per se stessi grazie a prezzi più convenienti e mercati più ampi.

Devono vedere questa decisione come giusta e morale perché “Quando l’etica è messa in primo piano, l’umanità fiorisce”. [1]

[1] Traduzione dall’inglese dell’articolo apparso di recente su Acton.org, a firma di Ángel Manuel García Carmona, cfr.: https://acton.org/publications/transatlantic/2017/11/20/marshall-plan-africa-wont-help-africans-free-trade-will

Cina e la libertà: una strada senza ritorno

Quando pensiamo alla Cina come Paese, due immagini subito ci vengono in mente: lo stato totalitario e la superpotenza economica. Ed è questa doppia dimensione che continua a sconcertare politici e intellettuali in tutto l’Occidente, abituati a vedere unite libertà e progresso economico. E ad inquietare molti di noi, davanti alla prospettiva di uno Stato ricco e autoritario come mai si è visto prima.

Quando 40 anni fa la Cina decise di aprirsi progressivamente al libero commercio e alla proprietà privata, molti analisti pensarono che fosse solo questione di tempo prima che l’Impero di Mezzo diventasse una democrazia. La repressione operata dopo le rivolte di piazza Tienanmen raffreddò gli animi, ma a lungo restò un ottimismo di fondo. Eppure, con il passare degli anni il controllo del Partito Comunista Cinese (PCC) restò saldissimo e l’entusiasmo si affievolì fino a spegnersi, anche tra i sinologi più esperti.

Cosa pensare dunque? La Cina sembra sfuggire alle nostre categorizzazioni e alle nostre idee preconcette; siamo di fronte a un nuovo modello politico, in grado di coniugare stabilmente autoritarismo politico e libertà economica? Nel mondo accademico molti ne sono oramai convinti; la Cina, dicono, non può essere analizzata con le nostre categorie “occidentali” e deve essere considerata un modello a parte. Si parla delle specificità cinesi, della sua cultura millenaria, per spiegare come mai non segua i comportamenti attesi; e ci si chiede se lo stesso valga per i Paesi arabi e africani. Siamo, insomma, di fronte alla relativizzazione della democrazia e della libertà. Il punto è che tutto questo è completamente errato. Oltre ad essere molto pericoloso.

La visione che in Occidente si ha della Cina è falsata da due pregiudizi: il primo è che in Cina non esista alcuna libertà personale, o comunque che sia molto limitata; il secondo è che il PCC abbia un controllo totale sul Paese. Entrambe queste idee sono infondate.

Partiamo dalla prima: nel 1976, alla morte di Mao, la Cina era uno stato totalitario, dove non esisteva neanche il concetto di libertà individuale o proprietà privata. Oggigiorno, è un Paese con una classe media in forte espansione, dove le persone possono vivere e lavorare in maniera del tutto analoga a quanto facciamo noi; per molti occidentali che vi si trasferiscono, la differenza con gli Stati Uniti o l’Europa è trascurabile. La ragione è che da molti anni a questa parte il Partito Comunista ha rinunciato all’idea di dominare ogni aspetto della vita dei propri cittadini, puntando invece a mantenere un saldo controllo sul potere politico. I cittadini cinesi sanno che non saranno disturbati in alcun modo fintanto che si terranno fuori dall’agone politico, ma che subiranno pesanti conseguenze se dovessero violare questo “patto[1].

Le stesse strategie di repressione si sono evolute e sono diventate molto più raffinate: i dissidenti affrontano esili, incarcerazioni, licenziamenti, ostracismo sociale, con l’obiettivo di isolarli e renderli inoffensivi; ma non sono più fucilati in massa, né vi sono stragi di piazza come nel 1989. Il regime permette e incoraggia anzi un certo livello di confronto sui media e nell’opinione pubblica, fintanto che non si mettono in discussione il sistema stesso o i massimi esponenti del Partito: in questo modo offre una valvola di sfogo ai critici e ottiene una migliore comprensione su dove intervenire nel Paese.

Passiamo ora al secondo punto. Come detto, il PCC ha affrontato una profonda trasformazione negli ultimi 40 anni e ha totalmente cambiato fisionomia, dimostrando la propria flessibilità. Non controlla più direttamente tutto il sistema economico, ma si accontenta di influenzarlo cooptando dirigenti e imprenditori e imponendo membri del partito in punti chiave delle grandi aziende. Il sistema giudiziario è teoricamente indipendente, ma i giudici possono essere rimossi o spostati a piacimento dal regime, che indirizza come vuole le sentenze. I media sono pesantemente censurati, un esteso sistema di sorveglianza fisico e digitale monitora la cittadinanza e tutti i membri del Partito stesso sono a loro volta controllati da un onnipotente organismo chiamato Dipartimento Organizzazione, che ne valuta la fedeltà e dispone ricompense e punizioni.

Agli occhi dell’Occidente, sembra spesso un moloch impossibile da abbattere, un mostro tentacolare capace di controllare e soffocare ogni possibile rivale politico… ma non è così.

Il PCC ha invece diverse grosse difficoltà: la corruzione continua a essere molto alta ed è ormai impossibile fermare la diffusione di notizie sugli scandali; coniugare gli interessi divergenti di industrie e province è sempre più complesso ed è causa di forti dissidi interni; ultimamente, poi, è diventato complesso tenere a bada il nazionalismo dell’opinione pubblica. Ma, soprattutto, il Partito affronta una “crisi di vocazione” senza precedenti: coloro che entrano a farne parte e raggiungono posizioni di vertice provengono da classi sociali elevate, poco rappresentative della popolazione, e hanno scarsa fede nella dottrina socialista; alcuni hanno un generico nazionalismo, altri sono puramente interessati al potere e alla ricchezza che l’adesione al PCC offre.

Sotto il suo aspetto minaccioso, il regime cinese è molto fragile e si tiene in piedi grazie a due fattori: il favore popolare dovuto al continuo progresso economico e la paura – sia della repressione che della libertà. E tutto questo non può durare in eterno. Ad un certo punto vi sarà una crisi economica importante e il regime sarà messo in discussione; o forse crollerà dall’interno, a causa di lotte intestine ormai fuori controllo. Il fatto è che il PCC non può più ignorare le forze economiche e sociali all’interno del Paese, che sono cresciute grazie alla svolta di Deng Xiaoping: la strada verso la libertà è senza ritorno.

[1] Fanno eccezione le comunità religiose, che in molti casi continuano ad essere perseguitate.