Dicevamo del paese dei due pesi e delle due misure. In quest’orizzonte rientra il nuovo libro di Marcello Musto,Karl Marx. Biografia intellettuale e politica.[1] Lui, come molti altri fanno ogni giorno, si è chiesto se “la dottrina marxista non fosse salvifica e geniale e se non siano stati certi uomini nella storia ad averla mal interpretata se non addirittura usata come scudo dietro cui nascondere i propri progetti perversi e violenti”.
Lenin e Stalin sono stati due attenti discepoli di Marx oppure si è trattato solamente di due criminali che avrebbero potuto utilizzare le idee partorite anche da Tizio o Caio? “È doveroso distinguere la concezione di Marx da quelle dei regimi che, nel XX secolo, dichiarando di agire in suo nome, perpetrarono, invece, crimini ed efferatezze”.
L’operazione, sebbene intrigante, è già vista e rivista, e vuole in ogni modo operare arbitrariamente una scissione tra il marxismo e i circa cento milioni di morti che vengono addebitati ai regimi comunisti più noti. Sebbene il comunismo continui a mietere vittime, prosegua nel generare miseria, perpetui nell’annientamento dell’individuo: sembra essere oggi ancora in voga; non mancando di protoumani che, con le terga a mollo nelle acque occidentali, si sgolino nel tesserne le lodi.
Nonostante questo, il tentativo di edulcorarne i difetti, risulta del tutto velleitario: per ogni ideologia, l’unico giudizio possibile è quello riguardante la sua concreta applicazione nella realtà e sugli individui in un dato momento storico. Non esiste altra possibilità per giudicare le idee di qualcuno, altrimenti useremmo lo stesso criterio con cui si tende ad ignorare i risultati referendari: inaugurando nuovi referendum, sin quando non uscirà il risultato desiderato, come per la Brexit. Ecco, il marxismo ha generato i regimi comunisti, e questo è per adesso l’unico dato possibile cui dobbiamo attenerci.
La dottrina marxista è accentratrice, fortemente statalista e interventista nell’economia e, dunque, nelle vite dei cittadini. I prncipi fondamentali del Marxismo, ossia l’accentramento dei mezzi produzione nelle mani dello Stato e l’abolizione della proprietà privata, prevedono il ruolo preponderante dello Stato che sarà chiamato a regolamentare ciò che -nella società capitalistica- sorge spontaneo.
Il marxismo è difatti anti-mercatista, nega la libertà di scambio degli individui, e sopperisce a questa mancanza con l’interventismo dello Stato centrale, che dovrà pianificare la creazione dei beni e il loro successivo movimento nelle mani dei cittadini.
Inoltre, l’assunto “Il lavoro crea valore”, ossia “il mero lavoro conferisce valore ai beni prodotti” è errato, ed è evidente, poiché sono i movimenti insiti nel mercato ad aumentare o diminuire il valore di un bene, ossia la maggiore o la minore domanda da parte dei consumatori, i quali, fuori dalla logica marxista, potranno liberamente chiederne e acquistarne nelle quantità desiderate conferendogli inevitabilmente maggior valore.
In Unione Sovietica difatti è stata creata una quantità enorme di lavoro, ma chissà come mai la miseria rimaneva preponderante e invincibile. Il marxismo, e la sua mania accentratrice, va di pari passo col giacobinismo noto nella Rivoluzione francese, e chiediamoci come mai noi oggi viviamo in un Paese fondato su decentramento dei poteri alle autonomie locali.
Lenin, in Stato e rivoluzione, scrisse che “il socialismo consiste nella distruzione dell’economia di mercato. Se rimane in vigore lo scambio, è persino ridicolo parlare di socialismo”.[2] E poi, da altri testi fondanti, ricordiamo che “la società va concepita come un grande ufficio e una grande fabbrica, dove vi sarà la sostituzione totale e definitiva del commercio con la distribuzione organizzata secondo un piano”, cosicché lo Stato sia in grado di “tutto correggere, designare e costruire in base a un criterio unico”, “giungendo in tal modo alla centralizzazione assoluta”.
E oggi dovremmo perder tempo nel ritenere che Stalin e i suoi colleghi non facessero riferimento a questa dottrina durante la creazione dei loro piani quinquennali? Si basavano forse sulla dottrina della favola di Cappuccetto rosso? Senza alcun tipo di rispetto per la realtà, e per ciò che quella realtà tragica racconta, Musto afferma che “molti dei partiti e dei regimi politici sorti nel nome di Marx hanno utilizzato il concetto di dittatura del proletariato in modo strumentale, snaturando il suo pensiero e allontanandosi dalla direzione da lui indicata. Ciò non vuol dire che non sia possibile provarci ancora[3]“. Il suo auspicio, dunque, è questo: tocchiamo ferro, sperando che tutto ciò rimanga un mero vaneggiare.
L’aspetto divertente del tutto, riallacciandoci con la premessa iniziale dei due pesi e delle due misure, consiste in un esercizio mentale che tutti noi dovremmo fare: proviamo a immaginare cosa sarebbe accaduto se un autore avesse scritto che il razzismo in sé è un valore da tenere in considerazione, e che la sua applicazione hitleriana fu un banale errore, se non una mistificazione della dottrina in sé. Beh, innanzitutto nessun editore lo avrebbe pubblicato. Se, poi, qualche coraggioso gli avesse concesso spazio avremmo assistito a uno stracciamento di vesti collettivo, con annessa discesa in campo di associazioni e politici in difesa della giustizia sociale.
Alcuni intellettuali, poi, ci avrebbero ammorbato, furoreggiando in diretta nelle tv nazionali, trovando inspiegabili nessi tra l’apologia del nazismo e la criminalità organizzata. Di Hitler sono innominabili anche i quadri (sì, disegnava e non era granché), altrimenti intervengono i guardiani sempre svegli del politicamente corretto, che sanzionano e puniscono; come alcuni insegnanti nelle scuole spesso già fanno, varcando i limiti della propria professione.
Perché, siamo chiari, anche Stalin era solo un incompreso.
Note: [1] Marcello Musto, Karl Marx, biografia intellettuale e politica, Einaudi.
[2] Lenin, Stato e Rivoluzione.
[3] Marcello Musto, Karl Marx, biografia intellettuale e politica, Einaudi.