Ridurre i parlamentari e non la democrazia

Poco tempo fa vi ho parlato dello Stato nel Terzo Millennio in questo articolo. Rileggendo il libro, per migliorare alcuni punti, mi è capitato sotto mano un paragrafo decisamente utile in questi giorni in cui si discute di taglio dei parlamentari, specie quando pochi giorni fa sono state presentate le firme per indire un referendum in materia, di fatto annullando una legislatura di risparmi a causa dei costi della consultazione.

I contrari al taglio fanno notare che ciò vorrebbe dire aumentare il numero di cittadini che eleggono un deputato, un taglio non giustificato dal leggero risparmio portato dalla misura. Da un punto di vista meramente teorico hanno ragione, ma all’atto pratico bisogna considerare due aspetti.

Il primo è che sono già applicate numerose misure per ridurre la rappresentanza democratica e un sistema tendenzialmente proporzionale non aiuta a creare un’identificazione tra deputato e territorio. Queste misure sono le preferenze bloccate o gli sbarramenti che nei sistemi maggioritari escludono le liste più piccole dal riparto dei seggi. In un sistema del genere, alla fine, poco cambia tra avere 630 o 34 deputati: la rappresentanza è solo marginalmente scalfita dall’avere pochi deputati.

Il secondo aspetto da considerare è che, ahinoi, da tempo il Parlamento è essenzialmente un passacarte del Governo, complici anche le alleanze sbilenche dove se non passa una legge si va tutti a casa determinando, di fatto, un ricatto per parlamentari (un bel direttorio servirebbe anche a questo).

Il Parlamento

Il Principe (nel libro Lo Stato del Terzo Millennio, ndr), in gioventù, lavorò nella segreteria di un senatore americano arrivando a conoscere abbastanza bene i meccanismi interni di un Parlamento. E fa notare principalmente due cose:

  • il Parlamento non può essere troppo piccolo, altrimenti i parlamentari non riescono concretamente ad analizzare le leggi e a fare il proprio lavoro. Proprio per questo motivo nel 1988 il Liechtensteien, che si apprestava ad entrare in varie organizzazioni internazionali, aumentò i propri deputati da 15 a 25;
  • un Parlamento troppo grosso è inefficiente: i deputati comunicano male, i dibattiti durano di più e non si elevano qualitativamente. Inoltre la collaborazione tra differenti parlamentari interessati al medesimo argomento diviene più difficile.

Per questa ragione Giovanni Adamo, pur non dandoci una misura di un parlamento giusto, ci dà un consiglio:

Nel dubbio, meglio scegliere il numero più basso.

Tuttavia viene da chiedersi: come si può risolvere il problema della democraticità, sia quella che manca oggi sia quella causata dalla eventuale riduzione? Basta continuare la lettura per avere un’idea: oggi lo Stato centrale fa molto, ma nello Stato centrale abbiamo poco potere decisionale! Il nostro voto conta poco, circa 1/51.000.000 con gli ultimi dati d’affluenza, ed è per un ente che pesa molto nella nostra vita. A queste condizioni è ovvio che nasca il populismo!

Più democrazia può voler dire democrazia diretta

Un giorno prometto che pubblicherò un bell’articolo sul tema, ma basti sapere che la democrazia diretta riduce il potere e il peso dei partiti. Ma senza correttivi, essa rischia di cadere nei due classici problemi della democrazia: quello dell’elevato costo (votare spesso a livello nazionale avrebbe costi molto alti) e quello della dittatura della maggioranza.

Una soluzione a questi problemi è il decentramento: governo di piccole unità locali, affiancate da altre più in alto secondo una logica di sussidiarietà. Questo almeno in principio e per quegli ambiti per i quali è difficile decentrare o privatizzare subito (come i trasporti, quasi sicuramente questi enti sopravviveranno successivamente come confederazioni). Ambiti dove esista democrazia diretta e che si occupino di cose come il welfare o la gestione di servizi pubblici come scuole. Questi rigorosamente in concorrenza.

Su questi enti i cittadini hanno più controllo ed è possibile usare la democrazia diretta in modo più estensivo. In questo modo si riduce la necessità della ben più costosa democrazia diretta nazionale, potendola accorpare ad esempio alle consultazioni nazionali. Sarebbe quindi possibile ridurre il numero dei parlamentari senza intaccare la democrazia, poiché essa sarebbe principalmente in mano alle comunità locali ed ai cittadini. E, inoltre, sarebbe possibile anche eliminare il Senato.

Formalmente, infatti, il Senato dovrebbe rappresentare le regioni. Ma, in pratica, non lo fa, tant’è che per differenziarlo dalla Camera ha un elettorato differente. E se le autonomie fossero responsabili per loro stesse e si fissasse un metodo di finanziamento unico per tutte come, per esempio, la distribuzione pro capite del surplus statale? L’utilità della Camera alta inizierebbe a scemare fino a scomparire.

Bisognerebbe, infine, superare l’idea per cui il Parlamento può modificare la Costituzione di sua sponte senza referendum: ogni modifica costituzionale deve richiedere un referendum confermativo e, per impedire colpi di mano, la maggioranza deve essere raggiunta non solo su base nazionale ma anche delle comunità locali, come accade in Svizzera con la famosa formula “maggioranza di popolo e cantoni“.

In un sistema del genere potremmo accontentarci di una camera di due o trecento persone e la democrazia, infine, ne uscirebbe rafforzata.

Conoscere Einaudi: Rappresentanze di interessi e Parlamento (1919)

Questo articolo di Luigi Einaudi fu pubblicato da parte del Corriere della Sera il 29 novembre 1919.

In questo articolo, il presidente della Repubblica denuncia la tendenza italiana di far decidere su alcune tematiche che appartengono alla politica solo coloro che lui denomina gli “interessati”, ossia coloro che hanno particolarmente a cuore, come i socialisti per disciplinare sul lavoro, come gli industriali sulle tariffe doganali. Questo è un grave problema per l’Italia, come sostiene lo stesso autore.

Dare alle rappresentanze professionali una funzione deliberativa è voler mettere gli interessi particolari al posto di quelli generali, è compiere opera per lo più sopraffattrice ed egoistica. Gli “interessi” debbono esser ascoltati e consultati. Ma qui finisce la loro sfera di azione.

Questo perché secondo Einaudi è opportuno distinguere i competenti dell’azione politica dai competenti dei singoli rami, poiché non coincidono.

I “competenti” dell’azione politica non sono e non debbono essere i “competenti” nei singoli rami di industrie o di commercio o di lavoro o di professione. Da qui inizia un elenco con tre critiche nei confronti delle rappresentanze di interessi presenti in Parlamento.

Essi non rappresentano normalmente neppure la generalità degli interessi presenti.

Come si può affermare che la confederazione generale dell’industria, che le camere di commercio, che il segretariato agricolo nazionale siano le vere, genuine rappresentanze di tutti gli interessi industriali, commerciali ed agricoli d’Italia? Non lo sono neppure per burla. Questi corpi rappresentano quei gruppi, rispettabilissimi sì, ma pochi, che avevano appunto un forte interesse da far valere e da patrocinare. Chi ci dice che altri non vi sia che abbia un interesse contrario; che coloro i quali hanno interessi diversi si siano accorti di ciò che si sta combinando ai loro danni da parte di coloro che dicono di rappresentarli?

Non rappresentano certamente gli interessi futuri, che è compito principalissimo essenziale dello stato difendere contro gli interessi presenti. Riferendosi alle richieste, da parte degli industriali potenti, di avere maggiore protezionismo, penalizzando le nuove ed emergenti industrie che sono il futuro del Paese. Il compito dell’Uomo di Stato, secondo Einaudi, è quello di eliminare gradualmente qualsiasi aiuto nei confronti dei potenti e di aiutare provvisoriamente coloro che stanno emergendo.

Non difendono l’interesse generale.

Non da oggi, non da quando è cominciata la guerra, ma da ben prima gli economisti insegnarono che potevasi dare protezione ad industrie essenziali per la difesa militare dello stato. Anche a ciò sono disadatte le rappresentanze degli interessi. Oggi queste chiedono protezioni per le industrie-chiavi, per le industrie che furono essenziali durante la guerra passata: siderurgiche, chimiche, ecc. Se si ascolta il loro voto, noi difenderemo industrie che hanno guadagnato moltissimo, che, se fossero state bene amministrate, avrebbero dovuto in molti casi ridurre a valore zero i loro impianti e trovarsi ora agguerritissime contro la concorrenza estera. Invece, col pretesto delle industrie essenziali per la guerra, si vogliono mantenere i prezzi ad un livello tale da remunerare gli impianti al valore bellico, come se non fossero stati o non avessero dovuto essere ammortizzati. Vi è una grande probabilità che in tal modo si proteggano industrie diverse da quelle che saranno essenziali nella futura guerra. Io non so quali possano essere queste future industrie chiavi; ma nego nel modo più assoluto la validità della indicazione fatta dai rappresentanti delle industrie che hanno maggior voce nei loro consessi sedicenti rappresentativi.

In sostanza, quelli che vengono definiti come competenti interessati, in realtà sono coloro che tendono a consolidare quegli interessi forti e antichi. Viene escluso il nuovo. Da badare che in questo articolo Luigi Einaudi parla di Industria e dei vari settori – d’altronde siamo nel 1918, l’Italia è in guerra e siamo in un contesto storico molto diverso da quello attuale, però credo che questo articolo sia molto attuale se facciamo caso a chi si è occupato del lavoro, dell’economia, dell’Industria ecc. in questi decenni. Mi sentirei di dire, e scusate se non siete d’accordo, che questo problema delle Rappresentanze di Interessi sia ancora palesemente presente. D’altronde, oltre ad essere un paese collettivista, statalista e socialista, l’Italia è anche uno Stato nettamente sindacalista, nel senso che è soffocata dai vari interessi dei Sindacati che riescono a prendere il potere, direttamente con il voto o indirettamente con le pressioni politiche.

Si consultino dunque gli interessati, tutti gli interessati. […] Prima di concedere ad un privato industriale di tassare gli altri industriali ed i consumatori in genere a proprio beneficio sicuro ed a beneficio preteso della collettività, bisogna far conoscere pubblicamente le ragioni del privilegio. Chiedesi soltanto di non brancolare nel buio e di non essere messi dinnanzi al fatto compiuto ed irrevocabile.