Quando il femminismo è illiberale e totalitario: una critica “thatcheriana”.

Visto il tema delicato una premessa è di dovere: il tema della parità di genere è forse uno dei più scottanti che possiamo affrontare. È importante però capire che la critica non è qui rivolta alle donne, ma al movimento femminista, e alle sue politiche che, per quanto possano apparire “nobili”, se guardate in modo razionale come cercheremo di fare in questa riflessione risultano deleterie per le donne stesse.

“Ma cara, lo sai che la pubblica amministrazione è un mondo per soli uomini”. Questa la dura e ingiusta verità che Dorothy Gillies, direttrice della Kesteven and Grantham Girl’s School non poté negare alla sua giovane alunna Margaret Roberts, che le aveva confidato la propria ambizione ad entrare nell’Indian Civil Service, efficiente ed esclusivo organo dell’amministrazione imperiale britannica in India. “Tanto meglio, se ci riuscirò il mio successo sarà ancora più meritorio!”, si sentì rispondere. (1)

Ovviamente la direttrice non poteva sapere di avere davanti la futura signora Thatcher, prima donna britannica ed europea a diventare capo del governo del proprio Paese, ma noi oggi possiamo dire che senza una simile mentalità, senza un metodo per farsi valere davvero con le proprie forze, probabilmente la giovane figlia del droghiere non sarebbe mai arrivata al Numero 10 di Downing Street.

L’esempio di Margaret Thatcher è uno tra i tanti che potremmo rievocare, ma serve a tutti noi per ricordarci quanto siano inutili e addirittura pericolose nel metodo le rivendicazioni del movimento femminista, e quanto soddisfare le loro richieste comporterebbe atti ingiusti e violenti nei confronti della libertà degli individui e della proprietà privata.

Andiamo quindi ad analizzare il perché un liberale non può che guardare con sospetto a questi movimenti e alle loro richieste assurde.

Innanzitutto: cosa chiede il movimento femminista? È una bella domanda, nel senso che in genere chiede uguaglianza, ma cosa è l’uguaglianza? Un liberale, quando si parla di uguaglianza, può al massimo concordare sull’ uguaglianza nella libertà, come affermata da Herbert Spencer con la sua Legge dell’Uguale Libertà secondo cui “ogni uomo ha la libertà di fare tutto ciò che vuole finché non violi luguale libertà di ogni altro uomo”. Le donne e gli uomini godono in modo uguale di questa legge che, lasciandoli liberi, non li condiziona nella loro complessità lasciando a ognuno la propria unicità.

Fatto salvo l’aspetto della libertà, qualsiasi tentativo di portare uguaglianza per un liberale altro non è un tentativo di togliere unicità, e tutti possiamo capire quanto poco sia umano tutto ciò.

Questa contraddizione delle uguaglianze e dei diritti ci richiama un po’ la differenza, pienamente espressa nel pensiero di un grande liberale padre del conservatorismo come Edmund Burke, tra i diritti naturali riconosciuti nelle leggi inglesi e quelli artificiali come les droits de l’homme affermati con la Rivoluzione Francese. I primi, incentrati sull’habeas corpus, sulla libertà individuale, il diritto di proprietà e la libertà di espressione si sono affermati in un primo momento per la loro validità e secondo natura grazie alla consuetudine, e casomai in un secondo momento molto più tardo sono stati affermati dal diritto positivo. I secondi invece, in quanto artificiali, protettori di certe classi contro altre, non erano forti nella consuetudine né presenti in natura: era un costrutto artificiale e metafisico presente nella mente di qualche intellettuale che per affermarlo ha dovuto prima usare carta e penna e poi la ghigliottina. (2)

La forza di questi due diritti, la loro resistenza al tempo, è evidente nel corso della storia: tutti conosciamo la prosecuzione e l’evoluzione delle istituzioni liberali e democratiche che ha visto la Gran Bretagna dai tempi di Burke, senza bisogno di nuove costituzioni fondamentali, mentre non si contano i morti, le rivolte, i cambi di costituzione e di regime che la Francia ha affrontato anche dopo la Rivoluzione. (3)

Se scendiamo però più nel concreto la contraddizione del movimento femminista non si ferma qui. Sia donne che uomini possono essere nella società lavoratori, produttori e consumatori, e il movimento femminista ha due suoi chiodi fissi che, attuando distorsioni nel mercato, andrebbero a colpire queste tre categorie senza guardare al sesso. Stiamo parlando ovviamente delle quote rosa e delle leggi per colmare il gender pay gap, il divario salariale tra uomini e donne.

Riguardo alle quote rosa, l’assenza di donne in determinati ruoli non può essere risolta se non con l’impegno delle donne stesse per avere successo, basti pensare appunto alla Thatcher diventata Primo Ministro in una società che allora era interamente in mano agli uomini. Imporre delle quote rosa vorrebbe dire dare a una categoria, in questo caso le donne appunto, il monopolio di una fetta di mercato, perché i posti di lavoro sono a tutti gli effetti soggetti a regole di mercato.

Gli effetti deleteri del monopolio e le distorsioni che esso crea a lungo andare danneggiano tutti. Qualsiasi atto che vada contro il merito e a favore della “nomina” e del “posto riservato”, qualsiasi atto che restringa il mercato del lavoro non solo danneggia e usa violenza su chi non ne beneficia (tutti gli altri individui) ma anche su chi parrebbe in un primo momento beneficiarne: senza lo stimolo della concorrenza, senza quella lotta per il merito di thatcheriana memoria saranno le donne stesse a perdere competitività. Il mercato e i prezzi nel settore produttivo ne subiranno le conseguenze e queste scelte a lungo andare danneggeranno tutti: lavoratori, produttori e consumatori. Tra i quali, lo ricordo ancora , ci sono anche le donne.

Lo stesso vale per il gender pay gap: purtroppo se da un lato è innegabile che i salari delle donne siano in media più bassi di quelli degli uomini, l’intervento statale anche in questo caso non è una soluzione auspicabile.

L’intervento dello Stato nella questione dei salari è classificato da Rothbard come intervento triangolare, cioè come quell’intervento in cui lo Stato coinvolge non il cittadino in quanto singolo ma almeno due attori, in questo caso il datore di lavoro e il dipendente. Con le leggi per contrastare la disparità salariale lo Stato sta semplicemente andando contro il mercato ed esercitando una proibizione nell’ambito della produzione. Bisogna ricordare però che, come dice lo stesso Rothbard, con una proibizione “entrambe le parti dello scambio (…) perdono invariabilmente”. (4)

L’uguaglianza dei salari affermata artificialmente comporta degli squilibri e delle distorsioni in campo economico, e il suo primo e più diretto risultato è quello di condurre portare disoccupazione, colpendo proprio la categoria che con lo stesso intervento si voleva tutelare. Rothbard analizzando le leggi sul salario minimo ci ricorda dei concetti importanti:“Sul libero mercato il salario di ognuno tende a essere fissato al valore scontato della sua produttività marginale (VSPM).” (5)

In parole povere e semplificando al massimo, i salari sono quanto un imprenditore è disposto a dare in base al profitto che un lavoratore gli porta. Dimenticandoci per un attimo la questione uomo/donna, per qualsiasi fattore discriminante (non in senso razzista, ma come contrario di accomunante), imporre all’imprenditore di turno di pagare colui che secondo lui meriterebbe di meno come quello che secondo lui meriterebbe di più non significa affatto fare l’interesse della vittima, significa impedirgli di avere l’assunzione.

Agire con delle leggi contro il divario salariale tra uomini e donne imposto dal mercato significherebbe quindi aumentare la disoccupazione femminile, poiché allontanerebbe il tasso salariale legale da quello di mercato generando in automatico la non convenienza ad assumere. E il discorso vale non solo per le donne, ma per qualsiasi tentativo di introdurre salari minimi, intendiamoci.

Abbiamo visto che l’uguaglianza per un liberale non è auspicabile se non come uguaglianza nella libertà, ma scendendo nello specifico perchè quote rosa e leggi contro il divario salariale, al di là della loro stupidità a livello economico, sono da ritenersi sbagliate in quanto violente e totalitarie? Perchè entrambe violano la proprietà privata, uno dei concetti sacri per un liberale.

Proprietà privata vuol dire distinzione tra mio e tuo, vuol dire che quello che è mio non può essere tuo contro la mia volontà, e concetti come carità e condivisione perdono il loro nobile significato se è lo Stato a imporli con la forza facendogli assumere il valore di furto e coercizione.

Hans Hermann Hoppe, nell’attaccare i “libertari” di sinistra, che molto spesso hanno battaglie comuni e si identificano nella lotta delle femministe, li bolla come falsi libertari, perché chiedono interventi e coercizione dello Stato per attuare un loro fine, una loro visione delle cose. “Il moderno Stato sociale ha in gran parte sottratto ai proprietari privati il “diritto ad escludere” insito nel concetto stesso di proprietà privata” (6) dice Hoppe, e quando la tutela della proprietà privata viene meno e si attua l’integrazione forzata non si fa altro che accentuare la spaccatura, aumentare il contrasto e rendere necessarie forme sempre peggiori di coercizione per condurre il mondo verso un progresso che in realtà è un ritorno alla barbarie.

Il movimento femminista è illiberale perché non si accontenta dell’eguaglianza nella libertà, ma vuole imporre un livellamento anche dove questo non esiste. La storia ci insegna che quando lo Stato inizia con il proteggere questa o quella categoria, con il mettersi dalla parte di qualcuno non fa altro che inasprire i toni, attuare violenza e coercizione, minacciare la proprietà privata. Tutti questi elementi sono un freno alla crescita economica e motivi di recessione, e la recessione colpisce anche chi inizialmente andava protetto.

Un’ultima citazione dal forte senso pratico di Margaret Thatcher potrà riassumere tutto il mio ragionamento, e ci tengo particolarmente a riportarla perché di solito viene tagliata a metà. Al bambino che le chiese se le sarebbe piaciuto vedere una donna al posto di Primo Ministro disse “Non credo che vedrò, nella mia vita, una donna diventare Primo Ministro della Gran Bretagna”. Al vero liberale però interessa la seconda parte, che riassume tutto il senso di questo articolo: Non importa che sia un uomo o una donna a svolgere quel lavoro, importa che sia la persona giusta in quel momento”.

NOTE

  • 1) Come tutti gli aneddoti su Margaret Thatcher in questo articolo, vedi “Margaret Thatcher, biografia della donna e della politica” di Elisabetta Rosaspina, Mondadori 2020.
  • 2) e 3) Vedi ” Riflessioni sulla Rivoluzione Francese” di Edmund Burke, di particolare interesse e rilievo l’introduzione di Marco Gervasoni all’edizione Giubilei Regnani 2020.
  • 4) e 5) “Potere e Mercato – lo Stato e l’economia” di Murray Rothbard, Istituto Bruno Leoni IBL libri – collana Mercato Diritto e Libertà.