Quando Cavour convinse il parlamento a costruire la TAV

Riportiamo il discorso parlamentare tenuto dal Presidente della Camera Camillo Benso di Cavour il 27 Giugno 1857; all’opposizione, contrari al Traforo del Moncenisio (esattamente dove oggi sarebbe il traforo per la TAV), molti parlamentari guidati dal Deputato Moia, che sia per assonanza sia per l’ideologia si potrà scambiare per qualche politico odierno.

« Signori, l’impresa che noi vi proponiamo, non vale il celarlo, è impresa gigantesca; la sua esecuzione dovrà però riuscire a gloria e a vantaggio del paese.
Ma se le difficoltà che si debbono incontrare sono molte, non è meno grande la speranza che abbiamo di poterle vincere. Le grandi imprese non si compiono, le immense difficoltà non si vincono che ad una condizione, ed è che coloro a cui è dato di condurre queste opere a buon fine, abbiano una fede viva, assoluta, nella loro riuscita.

Se questa fede non esiste, non bisogna accingersi a grandi cose né in politica, né in industria; se noi non avessimo questa fede, non verremmo ad insistere avanti a voi chiamando sul nostro capo una così grave responsabilità.

Se fossimo uomini timidi, se ci lasciassimo impaurire dal pensiero della responsabilità, potremmo adottare il sistema del deputato Moia [=rinunciare per potenziare altre linee].

Voi mi direte, o signori, dove noi, che in qualità di uomini di Stato non dovremmo lasciarci dominare dall’immaginazione, dove abbiamo attinta questa fede, che in certo modo può, se non trasportare, almeno traforare i monti. Ve lo dirò.

Noi abbiamo fede nel giudizio di una Commissione la quale conta nel suo seno scienziati di prim’ ordine, ingegneri abilissimi, giovani professori di un tal merito, che in pochi anni sono passati dal banco della scuola al seggio dell’Accademia; uomini nei quali, prima dell’ esame dei metodi impiegati, regnava forse uno scetticismo pari a quello del deputato Moia. Ebbene, noi abbiamo fede in questo giudizio.

Finalmente lo dichiaro altamente, io ho fiducia negli ingegneri proponenti l’impresa, e l’ho perché conosco,  sia come ministro sia come privato,  la loro capacità e la loro onestà.
Io mi lusingo, o signori, che voi condividerete questa nostra fiducia. Io spero che darete un voto deciso. Se un dubbio vi tormenta che nelle viscere della montagna che si vuol squarciare si nasconda ogni maniera di difficoltà, di ostacoli e di pericoli, rigettate la legge; ma non ci condannate ad adottare una via di mezzo, che sarebbe in questa contingenza fatalissima.

Se voi ora adottaste la proposta di Moia, inaugurereste assolutamente un altro sistema; ed io ne sarei dolentissimo, non solo perché andrebbe perduta questa stupenda opera, ma perché un tale atto sarebbe un fatale augurio per il futuro sistema politico che sarà chiamato a seguire il Parlamento.

Noi avevamo la scelta della via; abbiamo preferito quella della risoluzione e dell’arditezza; non possiamo rimanere a metà; è per noi una condizione vitale, un’alternativa impreteribile : o progredire, o perire.

Noi non dubitiamo che, non solo la Camera e il paese nostro, ma l’Europa intiera condividerà la nostra fede nella riuscita dell’impresa.

Io nutro ferma fiducia che voi coronerete la vostra opera colla più grande di tutte le imprese moderne, deliberando il perforamento del Moncenisio. »

 

La Camera approvò il provvedimento con 98 voti favorevoli e 30 contrari. Alcune settimane dopo Cavour andò sul luogo dei lavori  «dove lo attendevano con le rappresentanze delle Camere e dell’ esercito gli ingegneri e i direttori dell’ impresa, il principe Napoleone ed una folla di popolo festante».

Cina e la libertà: una strada senza ritorno

Quando pensiamo alla Cina come Paese, due immagini subito ci vengono in mente: lo stato totalitario e la superpotenza economica. Ed è questa doppia dimensione che continua a sconcertare politici e intellettuali in tutto l’Occidente, abituati a vedere unite libertà e progresso economico. E ad inquietare molti di noi, davanti alla prospettiva di uno Stato ricco e autoritario come mai si è visto prima.

Quando 40 anni fa la Cina decise di aprirsi progressivamente al libero commercio e alla proprietà privata, molti analisti pensarono che fosse solo questione di tempo prima che l’Impero di Mezzo diventasse una democrazia. La repressione operata dopo le rivolte di piazza Tienanmen raffreddò gli animi, ma a lungo restò un ottimismo di fondo. Eppure, con il passare degli anni il controllo del Partito Comunista Cinese (PCC) restò saldissimo e l’entusiasmo si affievolì fino a spegnersi, anche tra i sinologi più esperti.

Cosa pensare dunque? La Cina sembra sfuggire alle nostre categorizzazioni e alle nostre idee preconcette; siamo di fronte a un nuovo modello politico, in grado di coniugare stabilmente autoritarismo politico e libertà economica? Nel mondo accademico molti ne sono oramai convinti; la Cina, dicono, non può essere analizzata con le nostre categorie “occidentali” e deve essere considerata un modello a parte. Si parla delle specificità cinesi, della sua cultura millenaria, per spiegare come mai non segua i comportamenti attesi; e ci si chiede se lo stesso valga per i Paesi arabi e africani. Siamo, insomma, di fronte alla relativizzazione della democrazia e della libertà. Il punto è che tutto questo è completamente errato. Oltre ad essere molto pericoloso.

La visione che in Occidente si ha della Cina è falsata da due pregiudizi: il primo è che in Cina non esista alcuna libertà personale, o comunque che sia molto limitata; il secondo è che il PCC abbia un controllo totale sul Paese. Entrambe queste idee sono infondate.

Partiamo dalla prima: nel 1976, alla morte di Mao, la Cina era uno stato totalitario, dove non esisteva neanche il concetto di libertà individuale o proprietà privata. Oggigiorno, è un Paese con una classe media in forte espansione, dove le persone possono vivere e lavorare in maniera del tutto analoga a quanto facciamo noi; per molti occidentali che vi si trasferiscono, la differenza con gli Stati Uniti o l’Europa è trascurabile. La ragione è che da molti anni a questa parte il Partito Comunista ha rinunciato all’idea di dominare ogni aspetto della vita dei propri cittadini, puntando invece a mantenere un saldo controllo sul potere politico. I cittadini cinesi sanno che non saranno disturbati in alcun modo fintanto che si terranno fuori dall’agone politico, ma che subiranno pesanti conseguenze se dovessero violare questo “patto[1].

Le stesse strategie di repressione si sono evolute e sono diventate molto più raffinate: i dissidenti affrontano esili, incarcerazioni, licenziamenti, ostracismo sociale, con l’obiettivo di isolarli e renderli inoffensivi; ma non sono più fucilati in massa, né vi sono stragi di piazza come nel 1989. Il regime permette e incoraggia anzi un certo livello di confronto sui media e nell’opinione pubblica, fintanto che non si mettono in discussione il sistema stesso o i massimi esponenti del Partito: in questo modo offre una valvola di sfogo ai critici e ottiene una migliore comprensione su dove intervenire nel Paese.

Passiamo ora al secondo punto. Come detto, il PCC ha affrontato una profonda trasformazione negli ultimi 40 anni e ha totalmente cambiato fisionomia, dimostrando la propria flessibilità. Non controlla più direttamente tutto il sistema economico, ma si accontenta di influenzarlo cooptando dirigenti e imprenditori e imponendo membri del partito in punti chiave delle grandi aziende. Il sistema giudiziario è teoricamente indipendente, ma i giudici possono essere rimossi o spostati a piacimento dal regime, che indirizza come vuole le sentenze. I media sono pesantemente censurati, un esteso sistema di sorveglianza fisico e digitale monitora la cittadinanza e tutti i membri del Partito stesso sono a loro volta controllati da un onnipotente organismo chiamato Dipartimento Organizzazione, che ne valuta la fedeltà e dispone ricompense e punizioni.

Agli occhi dell’Occidente, sembra spesso un moloch impossibile da abbattere, un mostro tentacolare capace di controllare e soffocare ogni possibile rivale politico… ma non è così.

Il PCC ha invece diverse grosse difficoltà: la corruzione continua a essere molto alta ed è ormai impossibile fermare la diffusione di notizie sugli scandali; coniugare gli interessi divergenti di industrie e province è sempre più complesso ed è causa di forti dissidi interni; ultimamente, poi, è diventato complesso tenere a bada il nazionalismo dell’opinione pubblica. Ma, soprattutto, il Partito affronta una “crisi di vocazione” senza precedenti: coloro che entrano a farne parte e raggiungono posizioni di vertice provengono da classi sociali elevate, poco rappresentative della popolazione, e hanno scarsa fede nella dottrina socialista; alcuni hanno un generico nazionalismo, altri sono puramente interessati al potere e alla ricchezza che l’adesione al PCC offre.

Sotto il suo aspetto minaccioso, il regime cinese è molto fragile e si tiene in piedi grazie a due fattori: il favore popolare dovuto al continuo progresso economico e la paura – sia della repressione che della libertà. E tutto questo non può durare in eterno. Ad un certo punto vi sarà una crisi economica importante e il regime sarà messo in discussione; o forse crollerà dall’interno, a causa di lotte intestine ormai fuori controllo. Il fatto è che il PCC non può più ignorare le forze economiche e sociali all’interno del Paese, che sono cresciute grazie alla svolta di Deng Xiaoping: la strada verso la libertà è senza ritorno.

[1] Fanno eccezione le comunità religiose, che in molti casi continuano ad essere perseguitate.

Chiara Ferragni, nuova icona capitalista?

Nell’aprile 2018, la più famosa fashion blogger del mondo Chiara Ferragni, era valutata come nome-brand con il valore di oltre 36 milioni di euro. Ma chi è Chiara Ferragni?

Se il popolino di stampo socialista, quel popolino invidioso della ricchezza e dei profitti altrui, preferisce deriderla o prenderla in giro costantemente, ritengo che stiamo parlando di una nuova e vera icona del capitalismo, italiano e mondiale.

Chiara Ferragni nasce il 7 maggio 1987 in Lombardia, esattamente a Cremona e dal 2009 è un’imprenditrice. Dopo essersi resa conto che postare le sue foto con abbigliamenti vari producevano un buon riscontro, decide nel 2009 di avviare, insieme a Riccardo Pozzoli, un progetto, quasi rivoluzionario. Nasce nel 2009 il blog The Blonde Salad, il primo e vero autentico sito di fashion influencer. Pozzoli e Ferragni riescono a coniugare le esigenze delle aziende di abbigliamento, il produttore, con chi acquista e sceglie cosa indossare, il consumatore.

Il risultato è sconvolgente. Nel giro di pochi anni, Chiara Ferragni ottiene risultati straordinari. Tutto ciò che tocca, diventa fantastico per i suoi follower, diventa magico per i suoi sponsor. Nel giro di pochi anni, diventa Global Ambassador di prestigiose aziende mondiali, come la Pantene, Amazon Moda, Swarovski, Intimissimi.

Oltre ad aver creato un nuovo lavoro, quello della fashion blogger, Chiara Ferragni è riuscita a creare un’azienda intorno alla sua immagine. Il numero delle persone che lavorano per lei è sempre più alto. Non si limita solo a sponsorizzare un’azienda, ma le sue trovate imprenditoriali sono sempre più originali . Con la Mattel raggiunge l’accordo di creare una Barbie con la sua immagine. Recentemente, la ragazza cremonese raggiunge l’accordo con l’azienda Evian, famosa azienda francese di acque minerali, di creare un’edizione speciale di bottiglie di acqua, con il certificato “Chiara Ferragni edition“, dal costo speciale di 8 euro.

Chiara Ferragni è una vera e propria capitalista, una vera e propria icona del capitalismo tanto odiato dai socialisti. Basta vedere nei luoghi socialisti, quanta invidia, quanto disprezzo verso una donna che è riuscita a creare un nuovo modo di fare business e arricchirsi con questo business. Ogni suo gesto, ogni suo accordo commerciale, riesce sempre a far discutere, nel bene e nel male. Il suo matrimonio con Fedez, l’acqua con il costo di 8 euro, la Barbie con le sue fattezze, sono solo una parte del genio di Chiara Ferragni.

Se i socialisti preferiscono parlare di cose tristi, facciano pure. Loro amano la povertà, noi amiamo la ricchezza e l’accumulo di essi. Non solo non siete in grado di capire che cosa voglia dire “fare profitto”, ma disprezzate chi riesce a farlo in modo straordinario.

Voi, popolino socialista, preferite denigrare chi si arricchisce, ma vi dimenticate che sono proprio le persone come Chiara Ferragni che, ingiustamente, vi permettono di vivere di assistenzialismo. Ogni cosa che tocca la Ferragni diventa oro per tutti, ogni cosa che toccate voi socialisti diventa debito e tasse per tutti gli altri.

In questo caso, desidero concludere con una citazione della nostra cara Margaret Thatcher:

“Non si può costruire una grande nazione spargendo invidia e odio verso il prossimo, come fanno i socialisti. Noi siamo per una politica sulla libertà del cittadino, cercando di incoraggiarlo e di incoraggiare l’energia e l’iniziativa. Ci appelliamo alla libertà e all’autodeterminazione”

Quante bugie sullo sfruttamento dei lavoratori

Si è detto e ridetto di tutto sul tema dello sfruttamento. Ieri come oggi si tende a parlare di numerose tematiche in riferimento al lavoratore sfruttato sul posto di lavoro. In particolare, viene associato il tema sullo sfruttamento alle politiche neoliberiste che sarebbero state attuate dai governanti, in Italia e in Europa. Ne parlò Marx rispetto alle condizioni in cui vivevano i lavoratori durante il boom della rivoluzione industriale, ne parlano oggi i socialisti e i collettivisti quando pensano a certe realtà, come Amazon.

Per il socialista, sfruttamento del lavoratore vuol dire che siamo in un’economia capitalista e liberista. Una sentenza del genere, ritengo sia una sentenza molto illusoria e molto ingenua. Ma andiamo per ordine.

Innanzitutto, in un’economia liberista e capitalista si presuppone che chiunque sia un lavoratore, a prescindere dal suo ruolo all’interno dell’azienda. Il capitalista o l’imprenditore di turno, non solo gestisce l’azienda, non solo è il proprietario dell’azienda, ma è anche un lavoratore. Non solo, ma in un’economia liberista e capitalista, si presuppone che chiunque sia un capitalista. Basti pensare a quante persone, nonostante non abbiano mai gestito un’azienda, si ritrovano in situazioni in cui si comportano come dei capitalisti, vedi Subito.It.

[…] lo sfruttamento quale “essenza” dell’economia borghese è un vuoto assoluto circondato di chiacchere
Sergio Ricossa

Diceva molto bene Sergio Ricossa. Alla sua citazione, aggiungerei, anche di ipocrisia. Nonostante l’Italia sia stata dominata, nel corso della sua storia repubblicana, dal pensiero socialcomunista e cattolico, chi si lamenta dello sfruttamento dei lavoratori in Italia, sono proprio i socialcomunisti e i cattolici.

Lo sfruttamento dei lavoratori è un fenomeno che esiste, ma che esisterebbe in qualsiasi sistema politico. Se non vi convince abbastanza saper che l’Italia non è un paese liberista e capitalista (lo dimostrano gli indici di libertà economica), vi consiglierei di leggere alcuni pensieri politici, prevalenti anche negli ambienti del governo. Mi riferisco al pensiero socialnazionalista, nel quale l’individuo si deve “sottomettere” per il bene della nazione. Più sfruttato di così. Allo stesso tempo, ritengo che sia fisiologico e normale che esistano dei capitalisti sfruttatori.

Quindi, se è un dato di fatto che lo sfruttamento del lavoratore è possibile in qualsiasi sistema politico, è opportuno capire come mai i socialcomunisti non abbiamo mai smesso di denunciare le fantomatiche politiche neo-liberiste. Non si dovrebbe mai fare di tutta l’erba un fascio, ma direi che i politici socialcomunisti siano delle persone pessimiste e diffidenti nei confronti del prossimo. Amano il collettivismo, ma diffidano del comportamento di uno dei membri del collettivo.

Lo sfruttamento dei lavoratori viene considerato un fenomeno figlio dell’iniziativa privata, della voglia di profitto, della voglia di fare imprenditoria, proponendo come soluzione finale, la fine della proprietà privata e l’intervento sempre più decisivo dello Stato sulle dinamiche di mercato. Non possiamo pensare di bloccare un processo naturale di progresso economico per un fenomeno che è sempre esistito e che sempre esisterà. Le politiche di flessibilità del lavoro non sono un apriporte allo sfruttamento del lavoratore. Non possiamo pensare di tutelare un lavoratore, indebolendo il processo decisionale del datore di lavoro.

Individuare il capitalismo e il libero mercato come responsabili dello sfruttamento presente in Italia oppure nel Terzo Mondo è davvero una perdita di tempo, oltreché pura ingenuità. Una volta, un socialista di nome Tinbergen, premio Nobel per l’economia, affermò:

” Una filosofia (quella socialista) fondata sull’invidia non è l’atteggiamento più saggio né più comprensivo da avere nella vita”

Inutile dire che questa frase calzi davvero “a pennello“.

Se il pensiero socialista si fonda soprattutto sull’invidia, il pensiero liberista si fonda sulla competizione, sulla meritocrazia, sul riconoscimento. Essere sfruttati non è obbligatoriamente un fenomeno negativo. Se io vengo sfruttato perché ho dei valori da esprimere, ritengo sia una cosa positiva. Se io lavoratore vengo sfruttato a dovere dal datore di lavoro perché quest’ultimo è convinto che io un potenziale da esprimere, perché dovrei provare invidia, odio per chi crede in me?

Ma chi propugna politiche socialiste non lo capirà mai. Forse, perché non ha mai lavorato in vita sua e non sopporterebbe di essere alle dipendenze di qualcuno, specie per lavorare.

Liberismo e Liberalismo: Benedetto Croce si sbagliava

Nel 1927 Benedetto Croce pubblicò alcuni scritti, fra cui il noto Liberismo e Liberalismo, nel quale non negava certamente la necessità del libero mercato, ma asseriva che non fosse condizione necessaria per giungere ad una società capace di mantenere salde le libertà politiche e individuali.

Nel corso del lungo dibattito, che spaziava dalla filosofia alla sociologia, sostenuto con l’amico e avversario Luigi Einaudi, altri autori e ricercatori hanno detto la propria, con alcune basi storiografiche e scientifiche talvolta più solide: parliamo di Karl Polanyi (il quale nonostante fosse ostile al libero mercato, diede un contributo positivo al dibattito), Eduard Meyer, Karl Popper e Friedrich Von Hayek.

Il metodo da loro utilizzato è consistito nell’osservare l’evoluzione delle società del passato, traendone i caratteri che potessero rivelare informazioni sulla correlazione fra libertà individuali e libertà economiche [1] ; è chiaramente un metodo induttivo e in quanto tale non se ne può dedurre una legge universalmente valida, tuttavia i risultati hanno portato ad evidenze interessanti: la libertà individuale si è presentata in modo indipendente dal sovrano solamente quando si è potuto contare sul libero scambio di merci e idee.

Eduard Meyer fu uno dei primi a mettere in discussione l’idea -rafforzatasi nel periodo hegeliano- che l’economia greca fosse ristretta a quella dell’Oikos ( οἶκος ), ossia un’economia di tipo familiare, di auto-sussistenza. Sostenne che quando Atene incominciò «a partecipare sempre più vividamente alla lotta della concorrenza»[2] ed i capitali e le idee di diversi popoli iniziarono ad affluire nella città, la popolazione riuscì ad emanciparsi dalla sussistenza e dai privilegi, entrando in un clima di benessere economico e libertà politica, quest’ultima sviluppatasi attraverso la democrazia.

La democrazia greca, però, era di una forma molto particolare: essa «richiedeva salvaguardie materiali per impedire ai ricchi di mantenere quella parte di popolo politicamente attiva»[3] in modo tale da evitare il clientelismo, ma imponeva anche che la polis si facesse carico della distribuzione degli alimenti per il popolo, seppur senza burocrazia; sembrerebbe un paradosso, eppure i greci trovarono una soluzione geniale: il mercato, il quale distribuiva gli alimenti molto meglio dei pianificatori, dei burocrati e degli aristocratici desiderosi di corrompere gli elettori. Ovviamente, ciò poteva funzionare per via della ricchezza fornita dal fiorente commercio, grazie alla quale ogni cittadino poteva emanciparsi dai lavori di sussistenza per poter guadagnare molto di più servendo le necessità altrui tramite il mercato.

Karl Popper, noto per lo studio della Società Aperta e i suoi nemici, individuò anche i nemici della società chiusa: «l’instaurazione di contatti culturali diede vita a quello che è forse il peggior nemico per la società chiusa, cioè il commercio» [4]. Ecco a noi il punto cruciale del discorso: il commercio favorisce l’incontro fra culture, l’apertura verso di esse e la loro accettazione, lo scambio commerciale diventa uno scambio filosofico, come fece notare anche Nicola Abbagnano, il quale sosteneva che la Filosofia sia nata nelle isole ioniche[5] (e non nella Grecia continentale!) proprio per mezzo del commercio, che ha favorito il logos, il discorso, fra popoli.

Constatato che anche Popper riconosce e sottolinea il legame fra libertà economiche e libertà individuali, troviamo una formulazione ancor più puntuale grazie ad Hayek [6]: «L’autorità che dirige l’intera attività economica non controllerebbe semplicemente un settore della vita umana, che possa essere separato dal resto; controllerebbe l’allocazione di mezzi limitati per tutti i nostri fini. E chiunque abbia l’esclusivo controllo dei mezzi determina quali fini debbano essere perseguiti, quali valori debbano essere considerati superiori e quali inferiori: in breve cosa gli uomini devono credere e a che cosa aspirare.»

Una società in cui vengano garantite le libertà individuali da un ente superiore (e, dunque, privilegiato) che ha il potere discrezionale di decidere come allocare le risorse, avrà direttamente e conseguentemente il potere di decidere cosa è giusto e cosa è sbagliato; pensare che ci si possa affidare ad un buon legislatore, un Messia politico, o alla burocrazia,  è ingenuità o pura illusione.

Note:

[1]: alcune citazioni di autori in questo articolo sono tratte da Ignoranza e Libertà, 1999, Lorenzo Infantino

[2]: L’evoluzione economica dell’antichità, 1905, Eduard Meyer

[3]: Traffici e mercati negli antichi imperi, 1957, Karl Polanyi

[4]: Le fonti della conoscenza e dell’ignoranza, 1960, Karl Popper

[5]: Storia della Filosofia, 1946, Nicola Abbagnano

[6] Liberalismo, 1973, Friedrich Von Hayek