L’unico buon socialismo è quello del potere: la decentralizzazione

Benché i liberals (nell’accezione americana) ed i socialisti suonino insieme il tamburo dell’abbattimento della disuguaglianza economica, spesso finiscono per voler togliere il vero potere a tutti gli individui, cioè quello di poter partecipare al processo decisionale più attivamente. Questo potere si ha solo ottenendo la più alta decentralizzazione possibile, redistribuendo quindi non la ricchezza, ma il potere.

La decentralizzazione è la distribuzione di competenze e potere decisionale dal blocco principale ad organi periferici. In questa configurazione quindi un’organizzazione (come un’impresa od un governo) delega alcune materie ai livelli più bassi e in un’ottica governativa si traduce nella maggior autonomia in materia decisionale degli enti locali (comuni, province e regioni).

Ad una maggior decentralizzazione corrisponde dunque una maggior autonomia ai livelli più bassi (dal governo nazionale al comune). Esempi di paesi ad alto livello di decentralizzazione sono Svizzera, Stati Uniti, Canada, Australia e Germania, dove paesi come Regno Unito, Francia, Italia e Cina mostrano un basso livello di decentralizzazione, attribuendo un numero elevato di competenze al governo nazionale.

Il motivo per cui preferire la decentralizzazione è semplice: avvicinando il potere ai cittadini essi possono controllare meglio l’operato dei loro rappresentanti che vicini alle persone che influenzano con le loro decisioni sono soggetti a maggior scrutinio ed un malgoverno si traduce in effettive punizioni o ricompense.

Non solo: cittadini insoddisfatti del governo in una zona possono facilmente trasferirsi rafforzando il cosiddetto “voto con i piedi”, dove i contribuenti cambiano zona geografica in base alla miglior offerta non solo fiscale (tasse più basse) ma anche di costumi (per esempio leggi più o meno restrittive sull’aborto), innescando un vero e proprio processo di concorrenza tra apparati governativi che, come tutto ciò che è in competizione, si traduce in miglior offerta a costi più bassi.

Nel mondo di oggi, complesso e poco standardizzabile, le soluzioni che implicano centralizzazione hanno sempre meno spazio, limitandosi solo a casi di necessità di scalabilità (come difesa) e/o a basso contenuto di informazioni (come scegliere il tipo di presa elettrica). Dove queste condizioni non si verificano un approccio top-down si traduce in enorme perdita di informazioni e quindi alla creazione di sacche di inefficienza.

Vi è anche una forte correlazione tra decentralizzazione e prosperità, come evidenziato da un paper dell’OCSE, ma non solo: paesi più decentralizzati resistono meglio alle crisi economiche, con l’esempio di Svizzera e Stati Uniti, paesi altamente decentralizzati che durante la grande recessione in Occidente del 2009 hanno registrato bassa decrescita in percentuale e riprendendosi rapidamente.

Questi ritrovamenti sono confermati anche da un paper nel CESifo Economic Studies, che sottolinea anche la minor tendenza a fare deficit per spesa improduttiva, tendenza, ahinoi, tristemente comune in Italia. Quindi non solo paesi decentralizzati sono più resilienti e prosperi, ma anche più virtuosi e riescono ad allocare meglio le risorse.

Non è quindi un caso che i paesi più poveri siano non solo poco liberi economicamente, ma anche più centralizzati: socialismo ed accentramento del potere vanno a braccetto, con la scusa di livellare la disuguaglianza economica ma dimenticandosi di aggiungere che l’equalizzazione volge verso il basso, dando vita a paesi fragili e ricchi esclusivamente di tensioni sociali. E non serve nemmeno citare i soliti paesi comunisti che sono ormai un fallimento conclamato: la centralista Francia è infinitamente meno efficiente e desiderabile della più decentralizzata Germania.

In questo l’Unione Europea gioca un ruolo cruciale: la promozione del decentramento e l’idea di confederazione devono prevalere sul desiderio di centralizzazione e di Stati Uniti d’Europa, che riporterebbero l’Europa indietro in tutte le dimensioni di libertà, con l’armonizzazione fiscale come concetto più pericoloso in assoluto.

L’unica redistribuzione morale, efficace ed efficiente è quella del potere.

Riferimenti:
https://data.worldbank.org/indicator/ny.gdp.mktp.kd.zg?end=2009&name_desc=false&start=2009&view=map&year=2009

https://www.oecd.org/regional/regional-policy/Decentralisation-trends-in-OECD-countries.pdf

https://academic.oup.com/cesifo/article-abstract/64/3/456/4080209?redirectedFrom=fulltext

Perché il liberismo, all’inizio, rallenta l’economia?

È abbastanza comune come pattern delle riforme liberiste vedere un iniziale periodo di rallentamento dell’economia e di aumento della disoccupazione, salvo avere una crescita negli anni successivi, quasi sempre superiore a quanto perso nel periodo precedente.

Invece il socialismo è differente: Quasi sempre c’è un periodo di relativo benessere seguito, poi, da un periodo di depressione economica.

Come mai? Vediamolo con una storiella:

Il villaggio dei 10.000 lavoratori

Immaginiamo un villaggio con 10.000 abitanti, tutti in grado di lavorare. Nel tempo i politici, per ingraziarsi le persone, hanno iniziato un piano di assunzioni pubbliche e si è passati, nel corso degli ultimi 20 anni, da avere 100 dipendenti pubblici a 1.000. Queste persone sono felici, hanno una casa, uno stipendio ma non producono benessere: vivono grazie al benessere prodotto dai 9.000 lavoratori reali.

Arriva un politico che propone di tornare ai 100 dipendenti pubblici e vince: in un momento 900 persone si trovano senza stipendio, magari con la necessità di cambiare casa verso una più economica e diminuendo i propri consumi vivendo di risparmi: l’economia si contrae.

Tuttavia col tempo 800 dei 900 licenziati riescono a entrare nel sistema produttivo e a produrre benessere: i loro consumi riprendono e, nel mentre, tutta la comunità beneficia di ciò, tant’è che si riesce ad istituire un aiuto per chi non ha trovato il lavoro.

Perché, alla fine, il socialismo fallisce

I motivi del fallimento del socialismo sono vari e variegati, troppi per essere sintetizzati in un pezzetto di testo, ma sintetizzabili in un fatto: la crescita economica è minima e i soldi da redistribuire finiscono.

All’inizio il socialismo piace perché prende ai ricchi per dare ai poveri, ma quando finiscono i soldi dei ricchi non offre un modello di sviluppo economico coerente senza introdurre elementi capitalisti. E quindi ciò che in Occidente è un minimo sindacale per non essere considerati in totale povertà, cioè un tetto, dei vestiti e qualcosa in tavola, in molti paesi socialisti è un considerevole beneficio.

Il problema si pone, in misura minore, anche nelle forme di forte statalismo come quello italiano: c’è sì un settore privato capace di restare in piedi ma lo Stato drena centinaia di migliaia di persone dal settore produttivo pagandole coi soldi di chi produce.

La lezione da imparare

Il liberismo, riformando nettamente il ruolo dello Stato, non può non creare disagio nel primo periodo, tanto più grandi tanto più è grande il ruolo dello Stato.

Eliminare lavori sussidiati, enti, regolamentazioni, licenze toglie sicurezza a molte persone che per un periodo, quindi, consumeranno meno rallentando l’economia. E, sempre nel breve periodo, non è detto che il risparmio economico dovuto alla riduzione delle spese possa controbilanciare il tutto.

Ma sul lungo periodo ciò libera energie per i settori che veramente producono benessere e ciò porta ad una crescita economica maggiore, capace di poter coprire un moderato welfare per chi non ha competenze spendibili nel mondo del lavoro e non può apprenderle, come persone vicine alla pensione.

Il modello di sviluppo statalista, infatti, mostra spesso i propri limiti e ci obbliga spesso a fare manovre di austerità per renderlo sostenibile. Ma non sarebbe meglio fare le riforme liberiste e avere, finalmente, settori funzionanti e produttivi