Lo sciopero politico è nemico della democrazia e della libertà

Non me la sento di condannare totalmente gli scioperi, se usati come mezzo di contrattazione col datore di lavoro. Se, ad esempio, il datore di lavoro non paga, non fa lavorare in sicurezza o non rinnova i contratti, ritengo comprensibile il protestare astenendosi dal lavoro.

Tuttavia, ultimamente, lo sciopero è fin troppo spesso usato come strumento politico. Basta leggere le ragioni degli ultimi scioperi nella scuola, nelle poste o nel trasporto pubblico per leggere cose come:

  • Sciopero contro la regionalizzazione della scuola
  • Sciopero del TPL contro la liberalizzazione
  • Sciopero del TPL contro l’austerità e per il diritto alla casa
  • Sciopero delle Poste contro le politiche neoliberiste

Sia chiaro, le persone hanno diritto di credere in ciò che vogliono e di manifestare collettivamente. Non hanno tuttavia il diritto di interrompere un servizio pubblico quale la scuola o il trasporto pubblico per le proprie idee.

È infatti assurdo che, se i professori sono contro la volontà della maggioranza dei cittadini in tema d’autonomia, possano tranquillamente bloccare la scuola in tutta Italia quando, se la stessa cosa fosse fatta dagli studenti di una singola scuola anche per ragioni pratiche (si pensi alle scuole in pietose condizioni, grande successo della nostra scuola pubblica), si configurerebbero gli elementi per un’accusa di Interruzione di Pubblico Servizio.

Non si può, tuttavia, pensare di risolvere il tutto limitando il diritto di sciopero. Se Reagan ci insegna che ogni tanto andare di forza può aver senso, è chiaro che se categorie protette e lobbistiche come quelle dei dipendenti pubblici possono avere così tanto potere è per connivenza della politica e, soprattutto, perché c’è troppo Stato nell’economia.

Se iniziamo a mischiare economia e lavoro, esattamente come fin troppo spesso accade in questo Paese dove essere “pubblico” -anche se spesso corrisponde a malagestione- è sinonimo di “bello”, è chiaro che stiamo dando un enorme potere ad una categoria singola a discapito delle scelte democratiche e individuali degli altri, cioè a chi può garantirsi il supporto della politica proprio scioperando. Ed è un circolo vizioso che solo una presa liberale di coscienza potrà evitare.

Perché è semplicemente discriminatorio che il cittadino comune, se ha un problema, debba agire secondo la legge mentre il membro della casta possa semplicemente interrompere il proprio servizio, imponendo la propria idea a tutti. Occorre dunque eliminare la mano dello Stato in settori dove non è essenziale, come l’istruzione o il trasporto pubblico, e fare in modo che diventino delle normali società private, con responsabilità chiare, e dove lo sciopero non è un’arma elusiva della democrazia e delle scelte individuali.

Nelle società necessariamente pubbliche, invece, si può mantenere un’autorità di garanzia che si occupi di impedire gli scioperi meramente politici permettendo, invece, quelli non politici.

Liberismo: male assoluto, da sinistra a destra

Mai come in questi anni si è assistito a così tanti attacchi al liberismo e ai suoi principi, veri e propri assalti condotti con una ferocia pari soltanto alle disarmanti mancanze dei loro autori, un carnevale di carenze i cui deleteri effetti spingono molti a cercare rifugio nella vera minaccia al nostro sistema economico e sociale: il collettivismo.

Gli eventi globali dell’ultimo biennio confermano tale trend (dalle distorsioni dei seguaci di Greta Thunberg, alle guerre commerciali, dalle recenti sommosse in Cile, all’ancor più recente vittoria peronista in Argentina) e l’Italia – ahimè – non è tutt’altro che estranea a ciò: siamo letteralmente ostaggio di un’allucinante propaganda anti-liberale portata avanti con ogni mezzo.

I nostri social network sono invasi da soggetti che – senza arte né parte – attaccano la libertà in qualunque sua fattispecie, ignoranti del fatto che se essi possono esprimere le loro opinioni – configurandosi talvolta in un vero e proprio abuso di tale possibilità – lo devono proprio a quella libertà che tanto odiano e contestano; e attenzione: non finisce qui.

Infatti, a tale problema se ne aggiunge ben presto un altro: la disinformante propaganda politica di partiti provenienti da ogni schieramento. Eh già figlioli: oggi non abbiamo più soltanto la storica sinistra collettivista ad attaccarci, bensì vi è anche la c.d. destra sovranista e populista a farsi avanti, con i suoi rappresentati e sostenitori che – utilizzando un linguaggio di meri slogan e distorsioni della verità – si riempiono tanto la bocca con la parola libertà, pur non potendosi neanche vantare di saper scrivere questo termine, che – in caso sia sfuggito – è il fondamento della nostra stessa civiltà.

A riprova di ciò, proprio stamattina mi è stato girato il link di un “articolo/opinione” redatto da uno di tali sostenitori, un testo così mal scritto e ricco di menzogne sul conto di noi liberali (per non parlare poi degli errori in ambito economico, sociologico e storico) che mi sono sentito in dovere di smontare ognuna di esse, ma attenzione: questo articolo non rappresenta (almeno direttamente) la mia risposta alle accuse mosse da tale individuo (infatti, per quello ho scritto un apposito articolo nel relativo blog), ma bensì è la risposta a 5 delle principali menzogne sul liberismo che ci vengono costantemente propinate dalla propaganda politica sia essa di destra che di sinistra.

1) il liberismo è un tipo di economia basato esclusivamente sul mercato, senza alcun intervento statale

Se la persona con cui parli parte con questa affermazione, stai certo che sa meno di 0 di questa “ideologia”, poiché:

  • il liberismo non riguarda solo la dimensione economica della società, ma anche quella dei diritti e delle libertà individuali e sociali

La distinzione tra liberismo e liberalismo è un errore prettamente italiano, dovuto a Croce e corretto già all’epoca da Einaudi, poiché senza libertà economica non vi sono libertà sociali e viceversa; a tal proposito, tra noi liberali si è soliti dire che chi vuole solo le libertà economiche (leggasi minor pressione fiscale) è un “fascista che si crede liberale solo perché vuole pagare meno tasse”, mentre chi vuole solo le sociali (leggasi legalizzazione delle sostanze stupefacenti) è un “socialista che si crede liberale solo perché vuole legalizzare la ganja”, sebbene la differenza tra le due categorie è nulla, come ci ricorda il nostro caro Hayek.

2) il liberismo esclude a priori l’intervento statale

Non molti lo sanno (il che comunque non giustifica tali soggetti), ma i liberali si dividono in più correnti di pensiero che vanno dal liberismo sociale (su di essa l’opinione non è unanime perché fa riferimento al pensiero di gente come Keynes) all’anarco-capitalismo.

Ebbene, l’assenza di intervento statale è una caratteristica proprio di quest’ultima corrente, mentre i liberali classici (tra i quali il sottoscritto) riconosco la necessità di un intervento statale in ambito economico, sebbene ridotto al minimo e di tipo negativo, visto che lo Stato è sì un male necessario, ma resta pur sempre un male ed in quanto tale si presenta come una tendenza masochista, la quale può essere solo personale, non un “gusto” da imporre a tutti.

3) il fallimento del modello liberale di Stato in questi anni è palese

La risposta più diretta a questa affermazione è in realtà una domanda: dove è mai stato veramente attuato il liberismo in questi anni?

Questo ricorda molto i comunisti quando affermano che il vero comunismo non è mai stato attuato (mai che riconoscano la realtà laddove i casi storici, o quelli odierni di Venezuela e Corea del Nord, hanno certificato il loro fallimento), ma da dottore e studente di economia io sono abituato a ragionare sui dati e basandoci sull’Index of Economic Freedom, sono 4 i Paesi più liberali al mondo: Hong Kong, Singapore, Nuova Zelanda e Svizzera.

Ora, domanda: siamo tutti per caso come Hong Kong o la Svizzera? Come si fa a parlare del trionfo del liberismo in un periodo storico ove lo Stato interviene massicciamente nel sistema economico?

E attenzione: non mi si venga a dire che è proprio colpa del fallimento del liberismo.

Infatti, per chi come me è cresciuto e ha studiato durante la Crisi, sa che essa è stata originata – manco a farlo apposta eh – proprio dallo Stato e dalle sue Istituzioni, con politiche monetarie espansive fuori controllo (leggasi FED), legislazione inadeguata (leggasi normativa finanziaria) e una socialistica gestione delle politiche fiscali.

4) l’Europa è un leviatano liberale e l’austerity, con conseguente aumento delle tasse, tagli della spesa pubblica e incremento dei prezzi ne è la sua massima emanazione

Ora, tralasciando l’ultimo punto che è palese ignoranza economica (l’aumento dei prezzi nel corso del tempo è detta inflazione. Se essa vi fosse veramente, com’è allora che la BCE continua a drogare il sistema a suon di QE e altre politiche espansive?), dobbiamo chiarire due cose in materia di austerità:

  • il liberismo – nel voler un minor ruolo dello Stato nella società sul fronte economico – richiede due politiche congiunte: minor spesa e MENO TASSE!
  • l’austerità non è colpa del liberismo, bensì (indovina un po’) dello Stato.

Infatti lo Stato – al pari di famiglie, imprese e terzo settore – è un’azienda soggetta al funzionamento delle leggi dell’economia, tra le quali quelle del mercato e se esso spreca i soldi dei cittadini (N.B.: ricordatevi gli insegnatemi di Margaret Thatcher: non esistono i soldi dello stato, ma solo quelli dei contribuenti), violando ogni principio di sana e prudente gestione, non c’è da meravigliarsi se con la crisi salta ogni senso di stabilità e i finanziatori richiedono di conseguenza un maggior tasso d’interesse.

Infatti, giusto per fare un po’ di sana cultura economico-finanziaria, una delle leggi alla base del funzionamento del sistema economico è quella della relazione positiva tra rischio e remunerazione; della serie, non mi si venga a dire che se Tizio è un pessimo debitore e vi chiede dei soldi, voi non glieli concedete senza chiedere una maggior tutela a fronte del rischio che correte nel privarvi della possibilità di usare tale denaro per altre attività più sicure?

5) la globalizzazione e il libero commercio sono un cancro liberista che uccide le nostre imprese

Questa è una delle affermazioni che personalmente mi dà più fastidio, tant’è che sul punto sto scrivendo un articolo di risposta su chi festeggia i dazi e per questo, qui mi limiterò a fare alcune riprese fondamentali, partendo da un caloroso invito: leggetevi La verità, vi prego, sul neoliberismo di Mingardi.

Infatti egli – in vari paragrafi – affronta proprio il tema della globalizzazione, dei trattati internazionali e della suddivisione del lavoro, smontando ogni fake news con un linguaggio che non richiede altre capacità se non quelle basilari di lettura (e comprensione) dell’italiano.

Detto ciò, a chi invoca il “protezionismo intelligente” (espressione a dir poco ossimorica), io sollevo qui le seguenti osservazioni:

  • principio cardine dell’economia: i bisogni dell’uomo sono illimitati, mentre le risorse sono scarse;
  • la specializzazione nella produzione risale alla Preistoria, tant’è che è da qui che nasce il mercato e i vantaggi derivanti dalla specializzazione e commercio fra paesi, sia per il sistema produttivo che per i consumatori, sono stati dimostrati mica l’altro ieri, ma bensì da Ricardo nei Principi di Economia Politica (1817) con la legge dei vantaggi comparati;
  • il liberismo non solo è a favore del libero commercio, ma è contrario allo sfruttamento dei lavoratori e a un sistema produttivo che danneggia l’ambiente; infatti, lo sfruttamento danneggia tanto la libertà sociale quanto quell’economica.

5) il liberismo privilegia i poteri forti

Senza scomodare la scuola austriaca sul ruolo dell’individuo e il funzionamento del sistema economico, mi limito a citare i ragionamenti di un altro economista classico, il padre dell’economia moderna (tanto contestato da Rothbard per la sua teoria del valore) Adam Smith.

Infatti egli, nella sua “Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni”, afferma che la condizione per il corretto funzionamento del mercato è la libera concorrenza, con un processo di formazione dei prezzi che non deve subire ingerenza da attori esterni (leggasi Stato), salvo nel ridurre ciò che ostacola ciò, IVI INCLUSI I POTERI MONOPOLISTICI & C.

Con quest’ultimo punto, termino qui questa prima analisi dei luoghi più comuni sul liberismo affermati tanto dalla sinistra quanto dalla sedicente destra.

Ad oggi, più che mai bisogna ricordare un principio fondamentale che io stesso ripresi nell’introduzione alla mia tesi di laurea triennale: la libertà e l’agire dei singoli individui è ciò che storicamente ha fatto crescere ed evolvere la nostra società.

Oggi ciò viene costantemente disconosciuto e il nostro sistema socio-economico viene azzoppato dall’agire fuori controllo di quel Kraken che è lo Stato e a fronte di ciò, la domanda è sempre quella: perché dare credito a chi invoca maggiore intervento statale? Perché ad oggi molti invocato l’intervento di una destra sovranista e antiliberista, usando quella stessa libertà che tanto detestano?

Per rendere a pieno la gravità di tale agire, vedete questo Paese come la propria casa che va in fiamme: al posto di metterti al sicuro e chiamare i pompieri, ti ci chiudi dentro inneggiando ai piromani.

Della serie, liberi di farlo ma senza imporre i vostri errori agli altri.

Rider, perché con “le tutele” saresti sfruttato di più

I rider sono sfruttati. Questa è la narrazione mediatica derivata dai sindacalisti, eppure anche persone di sinistra che conosco e conoscono a loro volta dei rider concordano con il rider che abbiamo intervistato: fanno una vita dignitosa e non sono sfruttati.

Non sappiamo perché ci sia un movimento sindacale così radicale nonostante, tutto sommato, si stia bene. Sappiamo, però, che deriva dall’antico vizietto statalista italiano, quello per cui “lo Stato siamo noi tutti quindi possiamo imporre a loro, i padroni cattivi, le condizioni”

Personalmente ritengo sensate alcune richieste dei rider. Tutte hanno, in comune, di essere seguite da almeno una compagnia del settore. Per esempio è, a mio parere, giusto che quando si prenota un’ora e ci si presenta vi sia un minimo orario anche in caso di assenza di ordini, così come ogni libero professionista fa pagare l’uscita, al pari, non essendo un rapporto di lavoro dipendente, la possibilità di accettare e rifiutare ordini a sua volontà.

Le rivendicazioni medie, tuttavia, vanno ben oltre e sono completamente folli.

 

Lavori, lavoretti e pretese

Quello del ragazzo delle consegne è uno dei lavoretti tipici per guadagnare qualcosa durante gli studi. Prima dell’arrivo delle piattaforme organizzate era quasi sempre un lavoro in nero, senza tutela alcuna.

Oggi, invece, la situazione è migliore: se si sceglie di lavorare con Partita IVA è un lavoro come un altro, con contributi versati (possiamo discutere sull’INAIL, quella assicurativa è una questione sensata, essendo prevista per i parasubordinati), solo chi lavora come prestazione occasionale, regime limitato a guadagni inferiori a 5000€, non ha accesso a contributi e simili.

Quindi, già oggi, la normativa italiana offre una situazione positiva: chi vede nel rider un lavoretto per arrotondare può sfruttarlo a pieno in tal modo mentre se vuole che diventi un lavoro userà la Partita IVA.

Sta di fatto che il contratto firmato è un contratto a cottimo, e nessuno è stato costretto con una pistola puntata a firmare quel contratto. Se i contrari al cottimo amano chiamare i rider che lavorano veramente che sono favorevoli al cottimo “krumiri” mi permetto di dire che loro, che firmano contratti senza leggerli per poi chiedere allo Stato di cambiare le carte in tavola, sono dei “cretini”.

Le richieste dei sindacalisti-rider sono assolutamente fuori dal mondo: Assunzione, pagamento orario, ferie, malattia, bici pagata e chi più ne ha più ne metta. Visto che com’è ben noto i lavoratori dipendenti non si scelgono gli orari né cosa fare sarebbe la fine del ragazzo delle consegne come lavoretto dove ti scegli l’orario in base alle tue necessità, oltre che un discreto incentivo al dolce far nulla, poiché se il pagamento è orario puoi anche fare la pedalata panoramica a passo d’uomo e consegnare un ordine l’ora (e guai a licenziare!) per prendere il medesimo stipendio di chi fa 6 consegne l’ora.

Ribadisco, alcune questioni – già citate – sono sensate e vanno sollevate nei modi opportuni: chiedere benefici degni di un dirigente di medio livello per un lavoro autonomo, non specializzato e tutto sommato pagato dignitosamente è il miglior modo per farsi prendere per scemi da chiunque abbia visto il mondo del lavoro.

 

Cosa succederebbe con le tutele?

Tutto il discorso delle tutele presuppone che le aziende accettino. Il problema è che così non è: l’Italia è un mercato marginale, tant’è che Foodora l’ha lasciato poco tempo fa, e alcune aziende hanno già ventilato l’opzione di andarsene se passasse l’obbligo di contratto da dipendenti.

Se se ne andassero le imprese straniere resterebbero alcune aziende locali marginali, alcune già con lavoratori dipendenti e simili. Ma per riuscire a soddisfare tutta la domanda lasciata dalle grandi aziende dovrebbero assumere altro personale, aumentando i costi. In sostanza, quasi sicuramente, le app di consegna sarebbero un qualcosa da benestanti, disposti a pagare una consegna 8 o 10 Euro.

La maggioranza dei locali, per non perdere la clientela a domicilio, semplicemente tornerebbe allo “status quo ante bellum”: studente assunto in nero, pagato 7 Euro l’ora (anche meno, per esperienza personale – ndr), scooter-munito e se fai ritardo ti chiamano lamentandosi e minacciandoti di licenziarti.

E considerando che chi si lamenta non è il rider ma gente che spesso parla di “welfare” o di “aiuti a chi non riesce a lavorare”, ricordiamo che per chi non ha particolari doti lavorative quello del rider può essere un modo semplice di portare a casa la pagnotta. Per questa persona sarebbe una clamorosa perdita passare da “non particolarmente fortunato” a “sottopagato a zero tutele”. O peggio, disoccupato.

 

Scioperi? Buffonate, l’unica è cambiare lavoro

Quando ho, provocatoriamente, barrato quel “che lavorano veramente” non l’ho fatto a caso: pochi giorni fa c’è stato uno sciopero nazionale dei rider. È miseramente fallito: nessun disservizio degno di nota. Nonostante solitamente le app per compensare quei pochi scioperanti offrano un incentivo per quelle ore, in questo caso nemmeno è servito e il parlottare ha spinto molti nuovi rider a partire o i più pigri a prenotarsi e lavorare, come confermatomi da un “krumiro” che ha incontrato vari novellini durante la giornata di sciopero.

In ogni caso, trattandosi di lavoro autonomo e non specializzato – ergo facilmente sostituibile – lo sciopero è una buffonata e l’ultimo l’ha dimostrato. Se lo sfruttamento esistesse veramente si combatterebbe lasciando le aziende sfruttatrici senza lavoro, ossia licenziandosi e andando da un’altra azienda – non tutte hanno le medesime condizioni – o cambiando proprio lavoro e non facendo casino un giorno per poi farsi sfruttare gli altri 364.

Se poi l’azienda sfruttatrice trova 50 persone disposte a prendere di buon grado il vostro posto come “sfruttati” forse siete un pelo, ma giusto un pelo eh, troppo esigenti.

 

Cile: davvero l’istruzione va a rotoli?

In questi giorni di proteste cilene alcuni media di sinistra citano tra le cause l’istruzione cilena, che sarebbe non solo tra le peggiori al mondo, ma anche tra le più costose.

Per chi non lo sapesse il Cile ha introdotto durante la dittatura di Pinochet un modello a voucher universale. Ciò ha causato uno spopolamento delle scuole pubbliche, rese poi quasi tutte municipali, che accolgono solo il 40% degli alunni. Questo è il motivo per cui, se cercate informazioni su Internet, troverete titoli acchiappaclic come “la riforma che ha distrutto l’istruzione cilena”: si riferiscono a quella pubblica e basta. Ma sarebbe come titolare un articolo sul predominio della medicina occidentale in Africa sugli sciamani con “la riforma che ha distrutto la sanità africana”.

Circa 10 anni fa il governo si è reso conto che i risultati non dipendono solo dalla bontà della scuola ma anche da situazioni sociali ed essendo il Cile, come praticamente tutti i paesi del Sud America, un Paese con forti disuguaglianze economiche, ha dunque deciso di introdurre misure economiche e sociali a vantaggio degli studenti più deboli, portando sia vantaggi, come un effettivo aumento della presenza di studenti a rischio nelle scuole migliori, ma anche svantaggi, come l’uscita di alcune scuole dal programma.

Ma davvero questa istruzione è così brutta come viene descritta? Vediamolo con una cosa che tendenzialmente triggera molto chi sostiene le tesi di cui sopra, portandoli a ahah react indiscriminate: i dati. Infatti esistono dati sia sulla qualità che sul costo dell’istruzione. Vediamoli insieme.

L’economia dell’istruzione cilena

Per prima cosa conviene farsi una domanda: a quale economia europea possiamo paragonare il Cile? I nostri lucidissimi esperti di Sud America mi suggeriscono la Croazia.

Parlando di scuole e non di università il Cile spende poco meno del 3,5% del proprio PIL nel settore, un dato di poco inferiore alla media OECD e a quella italiana ma superiore, ad esempio, rispetto alla Spagna.

Annualmente uno studente cileno costa allo Stato circa 4000$ adeguati al potere d’acquisto, meno della media OECD ma circa la metà dell’Italia, che spende circa 9000$ l’anno ad alunno ma, scandalosamente, vede i privati offrire il medesimo servizio al prezzo cileno.

Non è di certo un’istruzione ipercostosa, né per chi la frequenta né per lo Stato, ma nemmeno un’istruzione sottofinanziata, bensì è la meglio pagata del continente sudamericano.

Con questo non si nega che il sistema cileno abbia delle criticità, vi consiglio di leggere il report linkato, e infatti il nostro progetto di sistema a voucher ne tiene conto e corregge queste problematiche. Non è, tuttavia, un sistema decadente come viene descritto, e basta guardare ai dati per capirlo.

I risultati? Apprezzabili e promettenti

Certo, a livello economico regge, ma magari per colpa delle privatizzazioni la scuola fa schifo!

Solitamente per misurare la qualità di un sistema di istruzione si usa un test denominato PISA, sempre dell’OECD. Tiene conto praticamente solo di questioni didattiche e viene effettuato a studenti tra i quindici e i sedici anni. Il minimo è 5’000 studenti, eccetto per gli Stati piccoli, ma spesso gli Stati grandi fanno test su larga scala per fare comparazioni regionali. Gli studenti scelti, comunque, non prendono parte a tutte le prove, che sono di matematica, lettura e scienza.

Gli ultimi dati PISA a disposizione sono del 2015. Da questi dati vediamo una realtà semplice: l’istruzione cilena non è un’eccellenza ma è la migliore dell’America latina. Infatti i cileni non hanno risultati eccellenti e sono, per quanto riguarda la scienza e la lettura, nella parte media della classifica giungendo, però, in quella bassa in matematica.

Vediamo tuttavia un trend positivo sull’istruzione cilena: se il trend mondiale vede un calo di competenze in matematica, una stabilità sulla lettura e un calo nelle scienze il Cile è invece, con diversi indici, sempre cresciuto.

Sia chiaro: l’utilità di test come questi è contestata dal punto di vista educativo. Si tratta, tuttavia, dell’unico sistema che abbiamo per fare paragoni diretti tra istruzioni diverse.

Qualche dato dal Cile

Esattamente come in Italia abbiamo le INVALSI in Cile esiste un complesso sistema di valutazione dell’istruzione che include almeno tre livelli di prova: sulle capacità dell’alunno, sui risultati e sulla qualità dei docenti.

Vi è un corposo studio che ha delle conclusioni interessanti: la stragrande maggioranza delle diversità nell’istruzione cilena è dovuta proprio a differenze socioeconomiche, quindi lo Stato dovrebbe usare il proprio potere per favorire l’ingresso degli studenti più a rischio negli ambienti migliori. In tutto ciò, comunque, il problema della “segregazione scolastica” esiste in tutta l’America Latina ma solo due Stati, Cile e Argentina, sono riusciti a lenire il problema, come mostra questo report di EdChoiche.

Nessuno nega che vi siano studenti scontenti del sistema d’istruzione, ma quelli esistono in tutto il mondo. Raramente, infatti, gli studenti analizzano le questioni con razionalità e usando i dati a disposizione, limitandosi spesso a ripetere slogan semplicistici e populisti, chiedendo soluzioni che, economicamente parlando, non hanno senso.

La perfetta scuola per comunisti, spiegata da un liberale

Vi stupirà sapere che un liberale classico come me, quando legge i post del Fronte della Gioventù Comunista, non resta amareggiato, almeno fino ai tre quarti del post.

Infatti il FGC ha varie volte fatto notare problemi palesi dell’istruzione italiana, l’ultimo in ordine temporale quello dei problemi dell’edilizia scolastica. Giusto per capirci: c’è un crollo nelle scuole pubbliche ogni tre giorni e, aprendo un giornale a caso della provincia lombarda, il dato è confermato empiricamente: A distanza di due giorni è crollato l’intonaco in una scuola di Caravaggio, appena costruita, e in un’altra di Treviglio. E sono due paesi confinanti.

Ma ciò che mi lascia sempre l’amaro in bocca è vedere questi giovani disposti a mettersi in gioco per cambiare le cose dare la colpa a chi non c’entra nulla: il liberismo.

La scuola pubblica italiana è quanto più lontano esista dal liberalismo economico. E’ gestita dallo Stato, in un regime di quasi-monopolio: essendo l’alternativa a pagamento, nonostante si sia già pagata la propria parte con la tassazione, la concorrenza è disincentivata. E in certe regioni del Sud, più disagiate economicamente, è un monopolio totale (in Calabria solo l’1% frequenta scuole non statali, infatti è la peggiore istruzione d’Italia), senza cura per alcuna logica di costi, tant’è che spende 3000€ in più ad alunno rispetto ad un largo e generoso sistema a voucher.

Ed è da ciò, dall’essere statale, che derivano questi problemi.

Pensateci: gli studenti, per la scuola statale, sono di fatto un peso. Non apportano alcun contributo tangibile, a parte accrescere le spese di gestione.

Ma, al contempo, queste spese non hanno bisogno di un vero controllo, non c’è un vero e proprio bilancio da rispettare. Risultato? Lo Stato ha trasformato l’istruzione pubblica in un gran poltronificio e, siccome i ragazzi non votano per praticamente tutto il proprio percorso scolastico, ai politici non interessano.

Loro puntano ai voti di chi aspetta il concorsone per entrare in ruolo.
Quando chiedete più soldi, di fatto, state facendo il loro gioco, perché così potranno assumere più persone per scopi clientelari. Non useranno mai quei soldi per voi, perché non votate.

Ma arriviamo al vostro istituto, una piccola periferia dello Stato. Questo sistema clientelare l’ha essenzialmente lasciato con pochi soldi, quindi non può fare cose come: rendere sicuro l’edificio, sistemare il riscaldamento, comperare la carta igienica o effettuare interventi ecologici. Cosa potete fare voi?

Oh, nulla, perché la scuola è pubblica e voi siete solo un numero in un database del MIUR. Non è come qualunque altro business dove, se non soddisfatti, avreste la possibilità di spostare altrove il vostro capitale.

Non siete in possesso di alcun peso contrattuale da poter usare contro una dirigenza negligente, una minaccia simile a “se non sistemi il riscaldamento vado dalla concorrenza” non avrebbe alcun effetto.

Anche perché, nascosti dietro una coltre di vittimismo, o dirigenti potranno fare poco: è Roma che ha deciso di assumere più gente del dovuto, lasciando voi e la vostra scuola in braghe di tela.

Provate a pensare ad una cosa: concorrenza nelle scuole. Scuole di enti locali, scuole sociali (potreste aprirne una anche voi!) e scuole private per profitto che competono per avervi come studenti. Lo Stato, invece di provare a fare il tuttologo fallendo miseramente paga l’istituto di vostra scelta per istruirvi e certifica, con degli esami, i vostri progressi. Questo è il sistema a voucher.

Ah, l’orribile logica del profitto! Ma chi ha un profitto dalla vostra istruzione sarebbe incentivato ad offrirvi un buon servizio, sapendo che potete cambiare istituto e che creare nuovi istituti non richiede un lungo processo. Anzi, potrebbe essere tranquillamente la società civile di un luogo ad aprire una scuola. In sostanza una riforma del genere toglierebbe allo Stato per dare a noi cittadini.

Gli istituti sarebbero incentivati non solo ad offrirvi una buona didattica, cosa che spesso l’attuale scuola statale non fa, ma anche ad offrire un ambiente positivo, sicuro, dignitoso e anche ecologico, dato che pagherebbero le bollette e una scuola coibentata spende meno di una con spifferi in ogni dove. In sostanza, un sistema che risponde a voi. Chi andrebbe mai in una scuola con risultati negativi e che cade a pezzi?

La gran parte di coloro che frequentano la scuola pubblica. Perché essa non lascia libertà di scelta e risponde ai politici. E, come già detto, a loro voi non interessate.

Quindi, ascoltate un liberale: volete un’istruzione dove siate persone e non numeri, dove non dovete aspettare mesi per un prof, dove non rischiate che vi crolli in testa mezza scuola, dove tutti, dal figlio dell’operaio a quello del dirigente di banca abbiano le medesime opportunità? Bene, la voglio anche io.

Ma lo Stato non ce la darà mai. Solo un sistema dove noi, non un burocrate, scegliamo può darcelo. Un cambiamento reale arriverà solo in questo modo.

Qualcuno vorrà credere nella favoletta che l’istruzione in Italia sia schiava del neoliberismo, dei tagli per colpa delle private e che sia necessario più Stato per cambiare le cose. Ebbene, costoro sono liberissimi di coltivare questa opinione; ma abbiano almeno la decenza di non scendere in piazza a chiedere proprio ciò che ha rovinato l’istruzione italiana, almeno per rispetto di chi ha vissuto sulla propria pelle i disagi di essere un numero in una scuola che non si cura degli interessi dei suoi studenti.

Evasione fiscale? La colpa è dello Stato

In questa settimana è tornata, direi con prepotenza, il tema dell’evasione fiscale. Oltre ai soliti slogan “se finalmente pagano tutti, potremo abbassare le tasse”, arrivano nuovi slogan e, soprattutto, nuove proposte.

Il Movimento 5 Stelle è giunto a proporre il carcere per chi non paga le tasse. Non si tratta di qualcosa di basso rilievo, ma di carcere fino a 8 anni con possibilità di confiscare i beni. Quest’ultima misura, oggi, è prevista solo per reati di Mafia. Ma l’interesse di Luigi Di Maio è di estenderlo anche a coloro che non pagano le tasse.

La battaglia all’evasione fiscale è dunque iniziata. Lo dimostrano le stesse parole dell’attuale Presidente del Consiglio:

“Stiamo mettendo a punto gli ultimi dettagli della manovra, le ultime misure, non voglio anticipare ovviamente i dettagli ma ci sta molto impegnando il piano anti-evasione”.

Le cifre dell’evasione fiscale sono spaventose per dimensioni. Si parla di circa 100 miliardi di euro. Le principali evasioni provengono dall’IVA e dall’IRPEF.

Sempre secondo il presidente Conte:

“Essere onesti conviene, recuperare un euro dall’economia sommersa significa poter investire nella scuola pubblica, poter investire negli ospedali, significa poter ridurre le tasse a tutti”.

Eccolo quà. Si torna sempre al punto di partenza. L’immancabile slogan “pagare tutti per pagare meno” è ormai roba diffusa tra i lottatori contro l’evasione fiscale.

Peccato però che questo slogan sia più falso di una banconota di 15 euro. L’impressione è che anche stavolta, il governo di turno, è cieco rispetto all’attuale scenario. Cieco, o meglio, finto-cieco? Forse non è nemmeno corretto definirli ciechi. Forse questa strategia di comunicazione è particolarmente efficace per il socialista di turno.

Attualmente, la realtà italiana è ben diversa da quella raccontata da Conte:

  • Spesa Pubblica: +2.4% rispetto al 2018
  • Pressione fiscale generale pari al 55% (550€ ogni 1000 di PIL finiscono allo Stato)
  • Abbiamo lo stesso PIL pro capite di 15 anni fa
  • Non si riscontrano aumenti significativi di produttività negli ultimi 25 anni
  • Un dipendente costa all’azienda quasi il doppio (rispetto all’effettivo stipendio ricevuto dal lavoratore – ndr)
  • La quota di profitto – che riguarda le società non finanziarie e il reddito da capitale ottenuto sul valore aggiunto prodotto – è al 40,7%, cifra più bassa dal 1999
  • Molti servizi pubblici sono del tutto inefficienti

(Dati raccolti Da Institute Heritage, OCSE, CGIA di Mestre, 2019)

Questi dati, seppur non esaustivi, devono invitarci a fare una riflessione molto seria. Ci sono delle differenze sostanziali tra i dati reali dell’economia italiana rispetto al racconto del Governo. Il Governo di turno racconta l’evasione fiscale come una “mancata solidarietà”, “i cattivi che non vogliono pagare le tasse”, “l’avidità dei ricchi”. In realtà il quadro italiano racconta tutt’altro. Racconta un Paese in estrema difficoltà economica. Le aziende non vanno avanti, ma si trascinano avanti. La produttività è appena sufficiente, i profitti sono appena sufficienti, i redditi degli italiani sono gli stessi.

Il Governo e la stessa OCSE (documento aprile 2019) spiegano come i sussidi alla povertà dovrebbero stimolare la ripresa economica. Allora, Vi pongo una domanda: se in Italia gli occupati sono il 59% (dati ISTAT), il reddito pro capite allo stesso livello del 2004, con una spesa pubblica che nel 2004 incideva del 15% e nel 2019 incide del 26%, con una pressione fiscale generale che nel 1999 era al 49.7% e oggi al 55%, come possiamo pretendere che gli italiani possano resistere economicamente?

Questo è un torto incredibile, perché gli italiani hanno lo stesso guadagno ma sono più poveri per colpa dello stesso Stato. Ma la beffa è presto vicina. Dagli annunci di Conte e Di Maio, l’impressione è che non solo manca l’intenzione di abbassare le tasse, ma prevale quella di aumentare l’interventismo statale (estendendo il reddito di cittadinanza) e quella di istituire uno Stato di Polizia Tributaria.

L’assistenzialismo e i servizi offerti dallo Stato, secondo i socialisti, nascono per “governare e redistribuire la ricchezza”. Ma con questo ritmo rischiamo seriamente di rendere gli Italiani con una ricchezza tra le mani sempre più misera.

Ed è qui che entriamo nel paradosso. Se l’assistenzialismo è per chi non detiene reddito, e chi lo detiene è in ginocchio perché non può più pagarlo, come ne usciamo?

Professore, perché dovresti volere il voucher scuola

Il voucher scuola, ossia il modello che prevede scuole in competizione, pagate su base individuale con un buono statale, sembra come fumo negli occhi per i sindacati dei professori, che parlano di più scuola pubblica, più Stato e meno mercato e di no imperativi a qualsiasi ipotesi di regionalizzazione o privatizzazione dell’istruzione.

Eppure, da un punto di vista individuale, i professori avrebbero grandi benefici da un modello del genere. Probabilmente chi insegna, ormai abituato all’attuale sistema, nemmeno arriva a immaginare un’alternativa, e se la immagina crede che sia una totale distruzione della professione di docente.

Ma così non è, e in questo articolo mostreremo come il sistema a voucher sia benefico, oltre che per gli alunni, anche per gli insegnanti.

Più dignità

Sarebbe stato troppo semplice iniziare con discorsi economici individuali. Iniziamo parlando di dignità.

Parliamo un secondo di costi standard, in sostanza quanto costa istruire uno studente nel modo in cui lo si fa nella scuola italiana. In una scuola paritaria tale costo è solitamente di poco inferiore ai 5000€, mentre nelle scuole pubbliche è di poco più di 8000€.

Eppure la scuola pubblica, nonostante abbia di più in termini economici rispetto al privato deve contare non solo sui contributi volontari dei propri alunni ma, spesso, sulla carità di aziende private come i supermercati.

Tutto ciò non è dignitoso. Né per l’istituzione in sé né per chi vi insegna all’interno. La domanda è: come si arriva alle migliori pratiche nel settore in modo da spendere meno e usare meglio?

In fin dei conti la scuola privata può offrire un servizio identico a quello della pubblica spendendo meno. Come mai?

Perché, anche quando non profit, hanno un bilancio e devono ragionare come un’impresa. La scuola pubblica non lo fa e quando si inizia a non seguire la miglior pratica dal punto di vista economico spesso si tende a non farlo anche negli altri campi. Così, negli anni, siamo arrivati al paradosso di una scuola pubblica che deve puntare sui voucher dell’Esselunga per poter accedere a dotazioni tecnologiche.

In un sistema a voucher il costo standard stesso sarebbe il voucher. Le scuole avrebbero più responsabilità economica e dovrebbero iniziare ad adottare le migliori pratiche che andrebbero, alla fine, a favorire chi nella scuola insegna e chi la frequenta.

Basta incubo graduatorie

Le graduatorie scolastiche sono un incubo. Non scherzo, sono così complesse che ricordano una matrioshka: graduatorie nazionali che costituiscono in parte graduatorie d’istituto che servirebbero a coprire le supplenze, che però restano scoperte rendendo necessario l’istituto della messa a disposizione.

Le graduatorie, oltre a non funzionare, portano i docenti ad assurde manovre per salire di posto: la già citata messa a disposizione, che servirebbe per sopperire a qualche supplenza non programmata è divenuta un vero e proprio business, con siti e aziende che si occupano di spedire le richieste dei docenti alle scuole di tutta Italia, ovviamente dietro compenso.

Ancor peggio, alcune scuole paritarie con pochi scrupoli sottopagano i docenti, arrivando addirittura a pagare loro solamente i contributi pensionistici. Tutto ciò per permettere a questi docenti di ottenere posti in questa graduatoria.

Ma il meccanismo della graduatoria è profondamente ingiusto ed obbliga i docenti ad una vera e propria prostituzione professionale per salire in questa mitologica lista.

In un sistema a voucher tutto ciò non accadrebbe. Essendo ogni scuola libera nelle assunzioni non esisterebbe una lista dove si pesca chi insegna ma, come per ogni altro lavoro, ci sarebbero colloqui, prove e libertà di scelta anche per il docente, che potrebbe scegliere dove candidarsi e, poi, scegliere in quale scuola effettivamente insegnare, con una competizione anche su stipendi, orari e autonoma d’insegnamento.

Cattedra? Meglio il tempo indeterminato

La cattedra, alias il ruolo, obiettivo di ogni docente. In un sistema a voucher non sarebbe più un cammino fisso e determinato ma un cammino individuale, che riflette le qualità individuali del docente.

Una scuola, infatti, ha beneficio nell’avere un buon docente, sia in termini di fama diretta – un buon professore può presentare ad eventi e open days – sia indiretta, ossia nel miglioramento dei risultati.

Immaginate di essere a capo di una scuola e di trovarvi davanti un giovane docente molto talentuoso. Vi rendete conto che può fare carriera e che può portare beneficio averlo nella scuola.

Cosa fate? Beh, un contratto a tempo indeterminato! Non ha senso aspettare se c’è il concreto rischio che ti soffino il docente.

Nella scuola pubblica invece la rapidità di carriera dipende poco dalla competenza quanto da meri numeri ottenuti in un concorso. Una cosa che può andar bene nell’esercito, forse, ma non dovrebbe essere lo standard nell’istruzione.

Certificazione migliore

Avrete sentito, qualche volta, in TV proteste in materia di abilitazione. In sostanza lo Stato, per dare il ruolo, chiede delle abilitazioni, che tuttavia cambiano ogni tanto. Quindi, chi ha i vecchi criteri e accede a un nuovo concorso rischia di venirne escluso, da qui le proteste.

Se le scuole fossero libere le certificazioni conterebbero, ma fino a un certo punto. Chiaramente le scuole tenderebbero ad assumere persone con buone credenziali, ma non sarebbero le uniche cose a contare. Quindi un buon docente non dovrebbe preoccuparsi di un pezzo di carta che diviene improvvisamente carta straccia a causa di un aggiornamento di normativa, quanto di restare effettivamente aggiornato per restare appetibile per le scuole.

Nuovi orizzonti: Aprire una scuola

Un docente, oggi, non ha molte opzioni oltre al lavoro dipendente. Può dare ripetizioni, certo, ma c’è chi preferisce insegnare in classe. Ebbene, in un sistema a voucher nulla vieta di aprire una scuola.

Non è chiaramente una cosa a costo zero, ma esistono numerosi casi in cui aprire una scuola può essere un qualcosa di utile alla comunità e di redditizio.

Steve Jobs, ad esempio, sosteneva che in un sistema a voucher sarebbero sorte scuole come sorgono start-up: egli, infatti, dovette pagare centinaia di migliaia di dollari per dare una buona istruzione alla figlia e riteneva fortemente ingiusto che ciò fosse riservato solo ai figli dei ricchi.

Sarebbe possibile, quindi, per dei professori consorziati aprire il proprio istituto sostenendo i propri metodi didattici appresi dall’esperienza, oppure per dei giovani neolaureati, ancora freschi d’apprendimento, provare ad aprire una scuola basata su ciò che ritengono le migliori pratiche nel settore.

In ogni caso, un sistema a voucher porta ad un certo decentramento dell’istruzione. Se detta così può sembrare una cosa negativa, beh, non lo è affatto. Né per gli studenti, che possono beneficiare di un’istruzione mirata – si pensi a quei quartieri che hanno sia zone benestanti sia zone povere e piagate dall’abbandono scolastico – né per i docenti, che hanno più libertà di scegliere dove, e quindi come, insegnare.

Lo Stato sociale distrugge la generosità

Lo Stato sociale europeo, oltre ad essere abbastanza vicino alla definizione di schema di Ponzi, ha un altro problema: uccide la generosità. Ma, piaccia o no, il nostro retaggio culturale è cristiano, quindi la generosità è vista come un bene positivo, portando la politica statalista ad aberrazioni enormi.

Ma lasciatemi spiegare: provate a chiedere all’americano medio chi deve pensare ai poveri e, se non vi trovate in qualche college particolarmente liberal o alla convention di Bernie Sanders è probabile che la risposta sia “la Chiesa/le fondazioni private/la famiglia e, solo in caso di fallimento di essi, il governo”. Fate la stessa domanda all’europeo medio e risponderà convinto “lo Stato”.

Quindi se in America, vedendo situazioni di disagio, viene spontaneo chiedersi “cosa posso fare IO“, in Europa invece “cosa può fare il governo” è il primo pensiero.

E, infatti, in USA si dona molto di più che in Europa. Sia perché in USA ci sono tasse minori e quindi fisicamente ci sono più soldi da donare sia per questo fattore sociale: in Europa ci aspettiamo che sia il governo a pensarci, non la comunità.

Eppure il welfare più è lontano meno è efficiente, oltre a risultare inviso alla popolazione che non ne fa uso. Cito Giovanni Adamo:

Lo Stato sociale prova ad applicare per vie legali il modello sociale tradizionale dei piccoli gruppi alla popolazione generale. Un’enorme burocrazia è necessaria per controllare e gestire il processo. Oltre all’alto costo, il sistema minaccia la libertà dell’individuo e in una democrazia dà ai partiti politici la possibilità di comperare voti con il danaro dei contribuenti.

Ed è verissimo. Sarà capitato ad ognuno di noi di vedere qualcuno trovare un lavoro ad un amico o parente in difficoltà ma di buona lena in pochi giorni e a spesa zero mentre lo Stato, per fare una cosa simile, ha dei costosissimi e poco efficienti centri per l’impiego. Ma gli esempi potrebbero andare avanti a lungo…

Questi sono i danni dello Stato sociale: smettere di farci contare l’uno sull’altro ma sperare che un’entità centrale faccia, con un grande sovrapprezzo, ciò che la società civile può fare con molto meno. E poi dicono che il liberalismo distrugge la società.

Con questo non diciamo che il governo non debba avere alcun ruolo, anzi, ma che debba essere o un garante (come nella scuola o nella sanità) o una risorsa alla quale ci si appella dopo che ogni altra possibilità è esaurita o impossibile, mentre oggi ci sono centinaia di migliaia se non di milioni di persone che vedono nello Stato il faro della propria vita.

E ciò, almeno nell’Italia culturalmente cattolica, porta ad una conseguenza particolare: i politici vorrebbero imporre questi valori per legge, dopo averli tolti sempre per legge. Quante volte, dalla “destra” alla “sinistra” passando per il “centrosinistra”, avete sentito volontà di misure coercitive per insegnare valori come la solidarietà o la generosità? Io fin troppe volte, direi.

Ecco, io credo che se i politici invece di pretendere che persone libere sacrifichino un tot della propria vita a nome del Dio Stato/Dio Europa/Dio Società iniziassero a limitare il peso dello Stato in questi campi dando più potere e possibilità all’individuo e alle relazioni volontarie tra di essi gli italiani diventerebbero più generosi.

Perché non lo fanno? Sarà perché fare l’asta al rialzo dei benefit coi soldi altrui è il loro lavoro?

Il lato oscuro di Salvador Allende. Perché il Cile con lui sarebbe diventato una nuova Cuba?

In una recente dichiarazione, l’attuale presidente del Brasile Jair Bolsonaro, rivolgendosi verso l’ex presidente del Cile Michelle Bachelet, attuale commissario ONU per i diritti umani, affermava: “Se non fosse stato per Augusto Pinochet, che ha sconfitto la sinistra nel 1973, incluso suo padre, oggi il Cile sarebbe come Cuba”. Nonostante un altissimo livello di scorrettezza politica, questa frase racchiude in sé una sacrosanta verità, celata agli occhi di molti (forse di troppi).

Lo scopo di questo articolo è quindi quello di dimostrare che se nel 1973, anno del colpo militare di Augusto Pinochet in Cile, Salvador Allende fosse riuscito a respingere i golpisti e a mantenere il potere, proseguendo nell’implementazione del suo modello politico-economico, il Cile oggi non sarebbe il paese più prospero dell’America Latina, bensì un paese molto più simile all’attuale Cuba o Venezuela.

L’intento ovviamente non è quello di giustificare la dittatura di Augusto Pinochet, della quale non tratteremo in questo articolo, ma di spiegare i lati oscuri del personaggio Allende e del suo governo, sul quale ancora oggi aleggia una certo alone di mitologia e disinformazione.

Chi era Salvador Allende?
Nato a Valparaíso il 26 Giugno del 1908, cresce in una famiglia benestante. Già all’università, dove si laureerà come dentista, comincia la sua militanza politica, che nel 1933 lo porterà ad essere uno dei cofondatori del partito socialista cileno, al quale resterà poi legato durante tutta la sua vita.

Nel 1952 si candida per la prima volta alla presidenza del Cile. Dovrà tuttavia aspettare ben 18 anni per riuscire nel suo intento di vincere le elezioni. Con un 36% dei voti, ed un risicatissimo margine di differenza rispetto al suo avversario politico Jorge Alessandri, nel 1970 Salvador Allende verrà nominato presidente dal parlamento Cileno, in seguito ad una lunga diatriba con l’opposizione della “Democracia Cristiana“, la quale deteneva la maggioranza nel parlamento.

Allende Presidente

Salvador Allende è una figura estremamente popolare in tutto il mondo, quasi mitizzata, e non solo a sinistra, ma da quasi tutto l’arco politico.

Egli è stato, con distacco, il personaggio sul quale la sinistra è riuscita a creare il maggior consenso. Altre personalità similari, come ad esempio Che Guevara o Fidel Castro, non sono mai riuscite a creare un tale livello di accettazione trasversale, rimanendo relegate quasi esclusivamente nella sfera socialista.

Il mito di Allende è probabilmente legato ad un’intensa attività di “PR” portata avanti dalla sinistra, che ha ben sfruttato – in senso propagandistico – la sua morte, avvenuta il 11 Settembre 1973, in seguito al golpe militare, ed è riuscita a far passare nell’immaginario collettivo l’idea che egli sia stato un martire politico.

Tuttavia, questa visione ignora il fatto che la sua fine sia in larga misura legata al pessimo disimpegno in materia economica e politica e al totale disprezzo del suo governo verso le istituzioni democratiche, il quale portò tra le altre cose, il Cile ad una catastrofe economica e praticamente sull’orlo di una guerra civile.

Ad Allende va almeno riconosciuto il “merito” storico di essere stato l’unico leader apertamente Marxista, ad aver raggiunto il potere in modo democratico e non violento (e questo dovrebbe far riflettere non poco i sostenitori di questa ideologia). Vedremo in seguito, come questa attitudine democratica non fu poi in realtà mantenuta durante la sua presidenza.


La presidenza Allende e i pilastri della sua politica economica
Come prima menzionato, Salvador Allende inizia la sua presidenza il 4 Novembre 1970. Egli non fu solamente il primo presidente comunista ad essere stato democraticamente eletto, ma anche il primo a tentare di istituire il socialismo in modo non violento, attraverso quella che chiamò “la seconda via” o “la via Cilena al socialismo”.

In fin dei conti però, il suo piano di governo non variava molto da quello di altri governi di stampo comunista in giro per il mondo. L’implementazione di un regime tipo Marxista-leninista restava l’obiettivo principale, e quindi idee come “dittatura del proletariato”, “soppressione delle classi sociali” e “l’abolizione della proprietà privata” assumevano un ruolo di estrema di centralità.

Secondo il libro “Populismo macroeconomico in Latino America” di Rudiger Dornbusch e Sebastian Edwards, le riforme di tipo strutturale adottate dal governo del Unidad Popular (UP), la coalizione di governo che portò al potere Salvador Allende, sono riassumibili nei seguenti cinque punti:

  1. Nazionalizzazione delle principali risorse economiche del paese, che consistevano principalmente in risorse minerarie, tra cui rame, salnitro, carbone, ferro e acciaio;
  2. Espansione dell’area di proprietà sociale attraverso la nazionalizzazione delle imprese di maggiori dimensioni;
  3. Intensificazione della riforma agraria;
  4. Nazionalizzazione del sistema bancario;
  5. Controllo statale delle principali imprese distributrici e grossisti.

Il disastro economico del governo della Unidad Popular
Ovviamente, come molti dei nostri lettori potranno anticipare, i risultati economici del governo del UP furono tutt’altro che soddisfacenti. Li potremmo anzi classificare come una vera e propria catastrofe macroeconomica.

Vediamo di seguito i numeri principali.

Spesa pubblica e deficit fiscale
Come immaginabile, la spesa pubblica aumentò in modo stratosferico, cosi come il deficit fiscale.
Partendo da una spesa pubblica del 26.4% del PIL nel 1970, questa passò nel 1973 ad essere il 44.9%. Ma il dato forse più incredibile è legato al deficit fiscale, passato dal 2.1% nel 1970, ad un incredibile 24.7% nel 1973. Tutto questo deficit finanziato con emissione monetaria, come vedremo in seguito, portò l’inflazione a livelli record.

Crescita economica
Per onestà, dobbiamo dire che Allende ricevette una economia stagnante, con una crescita economica praticamente nulla. Dopo alcuni successi nel primo anno di governo, di tipo totalmente artificiale e legati ad i classici effetti iniziali dell’emissione monetaria, già verso la fine del governo Allende si iniziò a notare una fortissima caduta del PIL, che nel 1973 registrò un drammatico -5.6%.

Inflazione
A riprova che i primi successi in termini di crescita economica del governo Allende furono principalmente legati ad una forte iniezione di liquidità nell’economia, possiamo analizzare l’evoluzione dell’inflazione durante i tre anni di governo.

Come possiamo vedere dal grafico di seguito, nel 1971 l’inflazione si mantenne ai livelli dell’anno precedente, intorno al 35%. Ma già dal 1972 si incominciarono a notare gli effetti della massiva emissione monetaria, con un conseguente forte aumento dell’inerzia inflazionaria, culminata nel 1973 in uno strabiliante 605.9%.

Diventa quindi evidente la correlazione inversa tra crescita economica ed inflazione. Con l’aumento di quest’ultima, la crescita economica seguì un netto percorso inverso.

Salari reali
I salari reali seguirono anche essi la stessa direzione degli altri indicatori macroeconomici. Dopo un aumento abbastanza forte dei salari nel 1972, con una crescita media intorno al 40% rispetto al 1971, nel 1973, la diminuzione fu nettissima, con una variazione del -47% rispetto all’anno precedente, e -24% rispetto alla situazione iniziale del 1971.

Anche questa diminuzione netta del salario reale, era legata all’aumento repentino della pressione inflazionaria, che finì per erodere fortemente il potere di acquisto dei Cileni.

Tra le altre cose, il ceto sociale che forse più fortemente risenti della caduta dei salari, fu proprio quello della classe operaia e dei lavoratori dipendenti, i quali Allende diceva di rappresentare.

Di seguito possiamo vedere l’evoluzione del salario minimo e medio di operai e lavoratori in Cile dal 1970 a 1973.

Come vediamo, tutte le categorie di lavoratori subirono perdite consistenti nel loro potere acquisitivo. Nei tre anni, gli operai persero circa un 20% dei salari medi e un 24% nei salari minimi, mentre che i lavoratori dipendenti videro addirittura il loro salario minimo più che dimezzato e il loro salario medio scendere del 22%.

Carenza di prodotti basici

La presidenza di Allende si caratterizzò anche per la scarsità di prodotti di prima necessità come latte, zucchero, pane, the, olio etc. Ovviamente la colpa di questa carenza generalizzata, cosi come anche in altre esperienze socialiste, fu data ai produttori e ad una fantomatica guerra economica perpetrata dagli Stati Uniti, che furono accusati di tentare di sabotare il governo Cileno.

Tuttavia, dal punto di vista economico, la causa di questo problema è semplicemente da attribuire agli serrato controllo dei prezzi, adottato dal governo del UP per combattere la crescente inflazione.

Come in ogni caso in cui un governo decide di impostare dei livelli di prezzo massimo al di sotto del prezzo di mercato, si crea allo stesso tempo un aumento della domanda, legato al fatto che i prodotti che prima erano più cari diventano improvvisamente più accessibili, e una riduzione dell’offerta, data dal fatto che per molti produttori diventa meno conveniente vendere determinati prodotti.

Tutto questo crea un gap tra offerta e domanda, che porta ai fenomeni di scarsità riscontrati in ogni esperienza storica in cui un governo abbia tentato di controllare i prezzi.

La fine del governo Allende

L’inizio della fine del governo del “Unidad Popular” avvenne il 22 Agosto 1973, quando la camera dei deputati Cilena si riunì per “analizzare la situazione politica e legale del paese“.

Da questa sessione si decretò un accordo votato da quasi i 2/3 della camera, nel quale si accusava il governo di 20 violazioni concrete alla costituzione e alle leggi del Cile. Tra le più importanti accuse mosse nei confronti del governo, troviamo:

  • La protezione di gruppi paramilitari;
  • Detenzioni illegali;
  • Attacchi alla libertà di stampa;
  • Manipolazione del sistema educativo;
  • Confisca arbitraria della proprietà privata.

Questo accordo formato da 15 articoli, costituiva un vero e proprio “accordo contro la tirannia” ed un appello disperato al presidente della repubblica e alle forze armate a mettere fine a queste gravi violazioni.

Lo stesso Allende aveva più volte attaccato nei suoi discorsi la costituzione cilena, definendola una “costituzione borghese” e proponendo un cambio costituzionale verso una “costituzione del popolo”. Possiamo immaginarci cosa esso potesse significare in termini pratici.

Anche la corte suprema Cilena, si confrontò svariate volte con Allende e integranti del suo governo, accusandoli ripetutamente di non rispettare il potere giuridico.

Con il paese ormai gettato nel caos più totale e praticamente sull’orlo di una guerra civile, la mattina del 11 Settembre 1973 vide l’intervento delle forze armate, guidate dal generale Augusto Pinochet, il quale rimosse Allende dal suo incarico.

In un interessante articolo del 13 Settembre 1973, “The Economist” analizza proprio la sua destituzione di Allende, avallando la tesi secondo la quale fu proprio il suo pessimo disimpegno politico e l’erosione del potere costituzionale, la causa della sua caduta. L’articolo apre con questa emblematica frase:

The temporary death of democracy in Chile will be regrettable, but the blame lies clearly with Dr Allende and those of his followers who persistently overrode the constitution.

The Economist, “The End of Allende”, 13 Settembre 1973

I paralleli con Cuba e Venezuela

Possiamo quindi asserire che senza un intervento delle forze armate, il Cile avrebbe seguito le orme di Cuba o del Venezuela?

Secondo la nostra opinione, molto probabilmente si.

Ci sono vari elementi che ci fanno pensare che se ci fosse stata una continuità del modello proposto da Allende, il Cile avrebbe preso una deriva molto simile a quella Cubana/Venezuelana, sia in termini economici, che dal punto di vista autocratico.

Come abbiamo precedentemente visto, nonostante una superficiale maggior attitudine democratica da parte del governo di Allende, nel fondo la sua agenda politica non variava quasi di una virgola rispetto a quella di altri governi di stampo Marxismo-Leninista visti in altri paesi in giro per il mondo.

Per fare un paragone, il programma del Venezuela di Chavez o quello della Cuba di Castro, erano praticamente identici a quello del Cile di Allende.

Anche essi includevano la nazionalizzazione di gran parte delle principali risorse economiche del paese, tra cui ad esempio, nel caso del Venezuela, dell’industria petrolifera, con un parallelo molto simile con l’industria del rame Cilena.

Inoltre includevano anche una riforma agraria e la nazionalizzazione del settore bancario. Possiamo quindi asserire, date le similitudini dei programmi, che anche i risultati economici del Cile sarebbero stati piuttosto simili a quelli di Cuba e del Venezuela.

Tra l’altro, molte delle conseguenze delle misure economiche adottate in Cile durante l’epoca di Allende, come l’inflazione galoppante, la scomparsa di prodotti essenziali di ogni genere, la forte caduta dei salari reali etc.. sono tutte cose che hanno caratterizzato anche l’esperienza Cubana e Venezuelana.

In fine, ci spingiamo anche a concludere che la deriva del governo di Allende sarebbe stata molto probabilmente autocratica. E questo è legato alla stessa natura del modello comunista, il quale, in ogni esperienza storica, ha sempre necessitato di tutta una serie di violazioni dell’ordine democratico per poter essere applicato con successo.

Lo stesso Castro era perfettamente cosciente della cosa. Non è un caso che egli stesso abbia mostrato più volte scetticismo verso la fattibilità della seconda via e di una rivoluzione non violenta. Pare anche che Fidel abbia avvisato Allende del fatto che “senza tenere sotto controllo l’opposizione, la rivoluzione non avrebbe avuto successo”.

Oltre a tutto ciò, come abbiamo potuto vedere in precedenza, lo stesso governo Allende si è comunque contraddistinto fin dall’inizio per una serie di gravi violazioni alla costituzione e al potere giuridico, che molto probabilmente, con l’intensificarsi della crisi economica e sociale, non avrebbero fatto altro che peggiorare nel tempo.

L’unico dubbio su una possibile deriva autocratica, nasce dalla figura di Salvador Allende stesso, il quale viene spesso descritto come un uomo mite, e probabilmente privo dell’attitudine da dittatore sanguinario e senza scrupoli, che ha invece contraddistinto tutti i suoi omologhi Marxisti. In fin dei conti, potrebbe essere stata proprio questa “carenza”, la causa principale della sua capitolazione nel settembre del ’73.

Fonti:

https://www.bcn.cl/historiapolitica/resenas_parlamentarias/wiki/Salvador_Allende_Gossens

https://www.economist.com/news/2008/07/03/the-end-of-allende

http://www.memoriachilena.gob.cl/602/w3-article-31433.html

http://www.libertyk.com/blog-articulos/2016/4/16/la-poltica-econmica-de-salvador-allende-y-la-unidad-popular

https://www.libremercado.com/2016-06-22/asi-hundio-la-economia-chilena-salvador-allende-el-marxista-leninista-que-admira-iglesias-1276576804/

https://www.elcato.org/como-allende-destruyo-la-democracia-en-chile

https://es.panampost.com/nelson-albino/2016/09/19/chile-bajo-salvador-allende/

La violenza è l’ultimo rifugio degli incapaci

Perché socialismo, fascismo, comunismo e tutti gli altri statalismi, pur con le loro differenze, sono parimenti pessime idee? Cosa separa nettamente queste ideologie dal Liberalismo? Un socialista, certo, non ha esattamente gli stessi ideali ed obiettivi di un fascista, e lo stesso vale per un fascista ed un comunista.

Tutti e tre, però, condividono uno stesso principio chiave: il potere nelle mani giuste è il bene supremo, quindi anche la violenza è un bene se il suo scopo è dare potere a coloro che lo meritano.

Per il fascista, che vuole garantire il potere della sua nazione, la violenza è un legittimo strumento politico. Una nazione potente, infatti, non ha paura di combattere guerre per imporre la propria egemonia sulle altre nazioni. Allo stesso tempo, però, un forte esercito e grandi spese militari non bastano.

Una nazione potente, infatti, dev’essere anche una nazione unita e con una popolazione omogenea. Per questo, è necessario reprimere qualsiasi autonomia in favore di un governo centralizzato. Inoltre, bisogna eliminare fisicamente minoranze ed altri gruppi di potere al di fuori dell’autorità statale.

Per il comunista, che sogna la rivoluzione proletaria, la violenza è indispensabile ai fini del cambiamento. I porci capitalisti ed i loro lacchè, infatti, non metteranno mai volontariamente a disposizione dei proletari le risorse ed il potere necessari per realizzare il paradiso del lavoratore. Queste e quello, pertanto, devono essere strappati con la forza.

Ma la violenza non finirà una volta finita la rivoluzione. Una volta instaurata la dittatura del proletariato, infatti, c’è sempre il rischio che qualcuno non sia d’accordo con il nuovo corso, e che organizzi una controrivoluzione. Per questo, sono necessarie numerose purghe per estirpare il problema alla radice.

Fatta eccezione per i più radicali, i socialisti (specie quelli più vicini alla socialdemocrazia) di solito non si esprimono apertamente a favore della violenza fisica, piuttosto auspicano riforme graduali per raggiungere l’obiettivo della giustizia sociale. Ciononostante, anche i socialisti moderati sono favorevoli ad un certo tipo di violenza, più sottile ma non per questo inesistente.

Un socialista moderato certo non chiederà il sangue dei capitalisti e dei loro lacchè, ma chiederà politiche economiche redistributive. Non perseguiterà le minoranze, ma sarà a favore di leggi speciali per proteggere chi ritiene sia oppresso o discriminato, in antitesi con il principio liberale dell’isonomia (per intenderci, non esistono i diritti gay, esistono i diritti individuali).

Soprattutto, un socialista moderato sarà a favore della coercizione, e dell’accentramento del potere per creare un Leviatano statale strumento di tale coercizione. Questo perché, in quanto socialista, è convinto in buona fede che uno Stato che segue i cittadini dalla culla alla tomba sia un bene tale da giustificare la perdita di qualche libertà.

Così, anche il più mite e benevolo fra i socialisti moderati finisce, involontariamente, con l’aprire la porta ad i più radicali, ed infine ai violenti veri e propri. Se le cose stanno così per le varie forme di statalismo, qual è l’approccio liberale alla violenza?

Innanzitutto, bisogna dire che il pensiero liberale non è pacifista, cioè non cerca la pace ad ogni costo. A dispetto della bellissima citazione di Asimov che dà il titolo a questo articolo, i liberali sono pragmatici, pertanto riconoscono la necessità della violenza in determinate situazioni. Quindi, nessuna differenza con lo statalismo?

Quando gli statalisti ricorrono alla violenza, lo fanno come mezzo per acquisire più potere: il fascista combatte guerre per conquistare territori di altre nazioni, il comunista organizza una rivoluzione per sottrarre le ricchezze dei capitalisti, i socialisti fanno lo stesso ma in maniera più graduale.

I liberali, invece, sono disposti a ricorrere alla violenza per proteggere qualcosa che è l’antitesi del potere, qualcosa che tutti gli esseri umani possiedono come diritto di nascita: la libertà negativa.

La libertà negativa è, in poche parole, la libertà dallo Stato (contrapposta alla libertà positiva, libertà attraverso lo Stato), il quale non interferisce nella vita privata dei cittadini e garantisce il rispetto del loro diritto alla vita, alla libertà ed alla proprietà privata.

Quando lo Stato viola la libertà negativa dei cittadini questi, per dirla con i Padri Fondatori, hanno il diritto di rovesciare il governo, con le armi se necessario.

La differenza fra liberali e statalisti rispetto alla violenza, quindi, esiste, ed è vasta quanto la differenza fra i manifestanti di Hong Kong e le SS naziste. Mentre gli statalisti saranno sempre pronti a versare sangue per acquisire potere a danno dei loro nemici, il primo nemico dei liberali sarà sempre il potere stesso, i cui attacchi contro la libertà vanno respinti con tutto il vigore necessario, pena la rovina.