Libere città private: il futuro del liberalismo

Con il supporto di Atlas Network, CapX sta pubblicando una nuova serie di testi sul tema dell’illiberalismo in Europa, guardando alle differenti minacce alle economie liberali e alle società in tutto il continente, dal populismo, al protezionismo, alla corruzione.

Con la rapida globalizzazione che è iniziata dopo il crollo del blocco sovietico, gran parte del mondo è diventata ricca velocemente. La parziale liberalizzazione di Cina e India ha sollevato più persone dalla povertà di qualsiasi altro evento nella storia. Nonostante la fede nel socialismo sia scemata, la maggior parte dei regimi era contraria a una liberalizzazione completa, pertanto un’economia ibrida divenne sempre più diffusa. L’impresa privata sarebbe anche tollerata infatti, ma non senza un considerevole intervento e una stretta regolamentazione da parte dello stato. Diversi gradi di corporativismo, impresa diretta e regolata dallo stato, hanno iniziato a dominare lo scenario globale.

Il lato negativo di queste economie ibride, presto battezzate come “neoliberali”, è stata l’inevitabile collusione tra impresa e stato, che aggrava l’ineguaglianza e porta alla corruzione. Ci si deve sempre però chiedere: “qual è il ritorno?”. Ovviamente, sono miliardi che risultano dalla povertà.

Ma a proposito dei supposti lati negativi?

“Il neoliberalismo non è in alcun modo la soluzione al problema” scrive Nancy Fraser, una studiosa della New School. “La sorta di cambiamento di cui si ha bisogno può venire solo da altrove, da un progetto che è estremamente anti-neoliberale, se non anti-capitalista”.

Eppure questo “cambiamento” che può solo nascere da un certo grado di intervento autoritario è esattamente ciò che ha messo il “neo” in neoliberalismo. I denigratori del liberalismo preferirebbero l’autoritarismo ad assicurare la povertà, piuttosto che la prosperità che deriva dal liberalismo distribuita inegualmente. Ciononostante, la maggior parte dei problemi che persistono con la liberalizzazione dei paesi in via di sviluppo, persistono nella misura in cui il fardello della regolamentazione continua a vessare il loro sistema economico, proprio come accadrebbe in qualsiasi paese anche economicamente più avanzato. Alex Tabarrok e Shruti Rajagopalan si riferiscono a questo come esempio dello “stato spasmodico“.

L’alternativa, sostengono, è un più alto livello di liberalizzazione; perché negli stati spasmodici, la limitata capacità dei regolatori dello stato significa che i classici problemi della ricerca del favore siano amplificati. I pubblici ufficiali vedono l’opportunità di prendere tangenti; il pubblico velocizza le cose pagandoli. La figura dell’imprenditore esperto è in grado di capire come gestire un sistema inadeguato, che gli permette di guadagnare un vantaggio sui concorrenti.

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L’interventismo statale genera clientelismo.

Ecco perché alcuni liberali stanno spingendo contro le cariche. Il filosofo Jason Brennan scrive:
“Vi lamentate, forse nel giusto, che le compagnie sono semplicemente troppo grandi. Beh, sì, vi abbiamo detto che sarebbe accaduto. Quando crei codici tributari complicati, difficili regimi regolatori e ardue regole per le licenze, queste restrizioni selezionano naturalmente le corporazioni più grandi. Vi abbiamo detto che sarebbe accaduto. Ovviamente queste sempre più vaste compagnie poi colgono queste regole, codici e regolazioni a svantaggio dei propri concorrenti e sfruttano tutti noi. Vi abbiamo detto che sarebbe accaduto.

In altre parole, è difficile biasimare gli effetti collaterali del neoliberalismo sul suo aspetto più liberale. Quando si mescola uno stato smodatamente regolatore con il capitalismo imprenditoriale, si ottiene il capitalismo clientelare e il corporativismo. Eppure, laddove il neoliberalismo è stato liberale, abbiamo potuto vedere traguardi nel benessere delle persone senza precedenti.

In primis c’è stata una straordinaria crescita economica mondiale, con India e Cina in testa, ma anche un incremento in altri paesi in via di sviluppo. Questo ha portato a un declino massiccio nella parte di popolazione che vive in estrema povertà, dal 35% nel 1987 a sotto il 10% nel 2015 (ultimo dato disponibile)

In secundis, l’aspettativa di vita globale sta aumentando. I parametri di vita media sono aumentati di più di 6 anni dal 1990 al 2016 sia per gli uomini che per le donne. Gli incrementi maggiori sono stati nei paesi più poveri. Adesso questo non dovrebbe essere niente di nuovo.

Deve essere detto che, per quelli che hanno perso il lavoro a causa della delocalizzazione, l’astrattismo di un miglioramento delle condizioni globali non è in grado di bilanciare il dolore acuto della dislocazione regionale. Ma anche quelle regioni del mondo che hanno faticato a competere hanno giovato di un aumento generale del proprio potere di acquisto. Aree divenute “arrugginite” che hanno diversificato la loro economia sono tornate forti: come Pittsburgh negli U.S.A. o Manchester nel Regno Unito.

Qualcuno facente parte della sinistra accademica potrebbe ribattere che i guadagni globali tra i più poveri del mondo siano una mera correlazione, o che siano primariamente una conseguenza della filantropia e degli aiuti esteri. Qualcuno addirittura suggerisce che le nazioni più ricche del mondo siano diventate tali solo grazie al colonialismo sfruttatore. Anche se la riduzione della povertà e l’aumento dell’aspettativa di vita fossero stati il risultato della filantropia e degli aiuti, questi settori esisterebbero comunque grazie alle aziende orientate verso il profitto. E, ovviamente, ci sono diversi esempi di tigri economiche che non hanno utilizzato il colonialismo per ottenere il loro successo economico, dall’Estonia post-sovietica a una qualsiasi delle Tigri asiatiche.

No, l’aumento nella crescita globale è primariamente dovuto a un incremento di produttività ottenuto dal liberalismo. Una Bibbia antecedente a Gutenberg che necessitava di 136 giorni per essere stampata può ora essere prodotta in migliaia di unità in minuti. “Il capitale è diventato produttivo perché necessitava di idee per il miglioramento“, scrive lo storico dell’economia Deirdre McCloskey, “le idee applicate da un carpentiere di provincia, da un ragazzo telegrafista o da un genio del computer di Seattle”, come direbbe Matt Ridley, sono tutte idee che fanno l’amore in un fertile suolo imprenditoriale. La produttività aumenta seguendo regole e procedimenti migliori: le regole sono le istituzioni più accoglienti verso gli imprenditori e i procedimenti sono la conoscenza che permette ai produttori di generare maggiore abbondanza con meno risorse. La domanda è ora, come tenere in moto questa crescita?

L’evoluzione del liberalismo: la nicchia

Solo trentacinque anni fa, 350.000 persone vivevano in una città costiera sul Golfo persico. Oggi, quella popolazione è lievitata a 3 milioni. Con una così sbalorditiva prosperità, Dubai ha cambiato la sua costa e ha aggiunto terra artificiale, edifici e porti. Un’immediata implicazione del successo? Fare di più

Costituire nicchie è sempre stata una delle vie più proficue per portare a una crescita economica mai concepita. I critici sostengono che l’ordinamento liberale sia stato guidato principalmente da una setta politica chiamata “Washington Consensus”. Tuttavia, risulta che molti dei cambiamenti siano stati presi da saggi competenti internamente a paesi in via di sviluppo, probabilmente meravigliati dal fantastico rendimento di economie di nicchia come Hong Kong. Quella città-stato, costruita su un’isola rocciosa, è stata lasciata a prosperare in una struttura di ottime regole gestita dal Segretario delle finanze britannico, Sir John Cowperthwaite.

“Sono arrivato a Hong Kong e ho trovato un’economia che funzionava correttamente. Perciò l’ho lasciata com’era”, ha detto prima della sua morte. Le semplici regole del governo disinteressato di Cowperthwaite al tramonto dell’Impero britannico hanno dato origine a una splendente città-stato che il mondo oggi ammira.

Da quando la piccola città irlandese di Shannon ha istituito la prima speciale zona economica (SEZ) del mondo nel 1959, altri paesi hanno seguito adattandosi. La Cina sotto Deng Xiaoping ha istituito alcune tra le più profittevoli SEZ del globo, includendo la sua prima, Shenzhen, nel 1979. Altri hanno copiato. La loro prestazione ha trainato più persone fuori dalla povertà di qualsiasi altra riforma nella storia dell’uomo.

Il lato negativo delle SEZ tradizionali, tuttavia, è che la maggior parte permettono solamente un’esenzione da tasse e dazi. Per tutti gli altri problemi maggiori, includendo la risoluzione di dispute commerciali, si necessita ancora di aver a che fare con stati agitati e a volte corrotti. (Dubai ha evitato questo problema stabilendo un sistema di risoluzione delle dispute commerciali chiamato DIFC, che sostanzialmente importa la Common Law del Regno Unito).

Con la SEZ tradizionale, non si è sullo stesso piano per vedere i tipi di sperimentazione necessari per scoprire nuove idee di governo. La maggior parte delle SEZ ha modelli che, nonostante funzionino, mantengono alcuni dei più corrosivi aspetti del neoliberalismo ibrido, la cui corruzione (ancora una volta) è stata predetta dai liberali.

Libere città private: il prossimo passo

Nell’interesse della piena divulgazione, non sono solo un appassionato difensore delle giurisdizioni speciali, sto dirigendo un’organizzazione che aiuterà a portare queste libere città private alla luce. E sì, le negoziazioni con i governi interessati sono già cominciate.

Perciò, cos’è una libera città privata? Si immagini una compagnia privata che offre gli stessi servizi di base di uno Stato, come la protezione della vita, della libertà e della proprietà all’interno di un territorio. Viene pagato una certa spesa per quei servizi. I diritti e gli obblighi sono stabiliti in un contratto con il fornitore. I conflitti sulla sua interpretazione vengono gestiti da una mediazione indipendente. Così, in quanto parte del contratto, si è sullo stesso piano del fornitore di servizi governativo. La propria posizione legale è assicurata, piuttosto che essere soggetta ai capricci della politica.

Perché le Libere città private a fronte di un classico modello di governo? Ci sono 6 ragioni:

  1. Certezza. L’operatore cittadino non può stabilire il contratto unilateralmente. Le chiare, stabili e comprensibili regole del gioco (risultato di un contratto stilato tra il cittadino e la città) si riducono a quello che l’economista Robert Higgs ha definito “incertezza del sistema politico“. Una tale chiarezza e stabilità rende più facile che gli investitori mandino capitali a supporto delle nascenti imprese.
  2. Ricorso. Sotto la condizione di “immunità sovrana” i cittadini hanno poco ricorso quando la polizia o le autorità abusano del loro potere. Il governo giustifica la sua autorità appellandosi a un astratto “contratto sociale“. Nuovi governi rivendicando mandati per il cambiamento, possono rendere la vita difficile alle persone ordinarie e alle aziende. La loro unica rivalsa è pregare per il cambiamento al prossimo ciclo di elezioni, se ce n’é uno. In una Libera città privata, il contratto è reale.
  3. Grandezza. Qual è la dimensione ottimale dell’ordinamento? Quanto dovrebbero essere estese demograficamente le Libere città private? Le risposte a queste domande sono dibattibili, ma quando si considera che alcune tra le società più stabili e prosperose sono piuttosto ristrette, come Hong Kong, Dubai e il Lussemburgo, c’è un grande sbilanciamento anedottico in favore di governi bottom-up e sviluppati specificatamente per il luogo.
  4. Competizione: la differenza tra un insieme di piccoli ordinamenti e uno massiccio e monolitico è che, nel primo, si ottiene il pluralismo, la sperimentazione e la competizione. In breve, se non ti piace Hong Kong puoi scegliere di cambiare rotta.
  5. Sperimentazione. Il premio Nobel laureato in economia Douglass North ricorda che “l’organizzazione che nasce rifletterà le opportunità date dalla matrice istituzionale”. A seconda delle regole, è più facile ottenere più pirateria o più produttività. Ma per trovare quella che funziona meglio è necessario provare diversi esperimenti.
  6. Responsabilità. Gli incentivi per gli operatori delle Libere città private sono radicalmente differenti dagli stati ereditari. Per prima cosa, l’operatore ha interessi economici diretti nel successo della comunità. Secondo, l’operatore può essere ritenuto responsabile per gli errori e non può nascondere la responsabilità o i costi di spostamento. Alla fine, i clienti insoddisfatti se ne andranno.

Non mi illudo che le parole “libero” e “privato” portino con sé certi stigmi. Tuttavia, quando si considera che il privato in questo contesto significa fornitura su base contrattuale sia di beni privati che locali, molti pregiudizi dovrebbero sparire.

Fattibilità

Alcuni potrebbero dire che tutto questo sia solo un desiderio. Dopotutto, perché dovrebbero voler essere coinvolti gli stati esistenti, il cui consenso è necessario? Come con le Libere città imperali nel Medioevo, c’è una sola ragione: l’interesse personale. Gli stati potrebbero anche accettare di cedere parte (non tutta) della loro sovranità su un determinato territorio se ne traessero beneficio. E ne trarrebbero.

Si guardi Hong Kong, Singapore o Monaco. Vicino a ciascuna è cresciuta una cintura di prosperità negli stati confinanti. I loro abitanti pagano le tasse negli stati confinanti. Le città-stato creano posti di lavoro anche per i pendolari dagli stati confinanti che magari rimarrebbero disoccupati. Se una Libera città privata è creata in un’area precedentemente inabitata o strutturalmente debole, allora lo stato ospite non ha nulla da perdere e tutto da guadagnare.

Ci potrebbero essere circostanze in cui le Libere città private siano una soluzione credibile, come l’istituzione di zone di sicurezza o città per i rifugiati in zone di precedente guerra civile. In quei casi potrebbe essere ancora meglio affidare l’amministrazione della zona a un’entità imparziale e responsabile.

Il liberalismo sotto assedio

Sembrerebbe che oggi l’ordine liberale sia assalito dai lupi. Premature reminiscenze del ventesimo secolo, autoritari sia nazionalisti che socialisti che attaccano da tutti i lati. Ma l’evoluzione del liberalismo può bilanciare i problemi di entrambi, lasciando spazio sia alla autodeterminazione culturale che al comsmopolitismo; una robusta vita commerciale e protezione per i deboli.

Lo scrittore Zach Beauchamp difende l’ordinamento liberale abilmente a Vox:

“Appurato che le persone saranno sempre in disaccordo sulla politica, l’obiettivo principale del liberalismo è di creare un meccanismo generalmente accettabile per risolvere le dispute politiche senza l’uso di coercizione non necessaria. Dare a tutti la possibilità di esprimersi nel governo per mezzo di procedure giuste, per fare in modo che i cittadini acconsentano all’autorità dello stato anche quando non sono d’accordo con le sue decisioni”.

E questo modo di affrontare il pluralismo è sempre stato una forza dell’ordinamento liberale, finché quelle procedure giuste non sono state accantonate. Il prossimo passo dell’evoluzione liberale arriverà migliorando le procedure.

In questo modo, la privatizzazione della legge, per piccole e sperimentali giurisdizioni come le Libere città private, sarà l’ultimo passo del liberalismo. La legge verrà testata all’interno di un paesaggio idoneamente evolutivo, cosicché solo le leggi buone sopravvivano.

Alcuni direbbero che questa forma di liberalismo sarebbe utile solo a frammentare ulteriormente le società. Io rispondo che nel processo di creazione di nuove nicchie, stiamo cercando forme di governo che daranno alla luce società stabili che accolgano differenti concezioni del bene. Dopotutto, nessuna soluzione è quella corretta per tutti. Ed è precisamente per questo che il liberalismo diventa quella sovrastruttura che unisce le diverse comunità, culture e relazioni commerciali.

Nessun’altra forma di governo può pretendere ciò. Ed ecco perché nessun’altra forma trionferà nel lungo termine.

 

Traduzione a cura di Francesco Dalla Bona

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Dati vs socialismo: la sanità privata non è il problema

Quante volte in questi giorni avrete letto commenti del tipo: “La Lombardia è l’esempio del fallimento della sanità privata e del problema dei tagli alla sanità pubblica”. Sarei pronto a scommettere €100 che almeno uno di questi criticoni una visita in un ospedale privato lombardo se l’è fatta: centri d’eccellenza come l’Humanitas, i vari ospedali del Gruppo San Donato, la Columbus, l’Auxologico, il Monzino e lo IEO sono privati e vedono un ampio via vai anche dalle altre Regioni quando non dall’estero.

Si imputa al privato la scarsità di terapie intensive in Lombardia. Ma, in realtà, i posti letto in Lombardia sono in linea con quelli italiane e sono di più di quelli di certe regioni del Meridione. Solo il Friuli Venezia Giulia si allontana significativamente, in meglio, dalla media italiana.

Parlando di terapie intensive, se è vero che esistono regioni con più terapie intensive per abitante della Lombardia (ma spesso nelle piccole regioni meridionali è relativamente più facile vista la scarsa densità di abitanti, bastano due ospedali, come in Molise), è anche vero che anche i privati hanno le terapie intensive e che alcune sono ampiamente specialistiche. Ma, come ben spiega Elisa Serafini, di media il servizio privato costa meno di quello pubblico. Quindi, paradossalmente, se avessimo voluto quei posti nel pubblico con la stessa spesa, beh, ne avremmo di meno.

Ma concentriamoci a guardare le altre sanità con più letti in terapia intensiva delle nostre. Potremmo parlare anche di mondo, consiglio l’articolo, qui tradotto, di Mises.org sulla sanità Sudcoreana, ma parliamo di Europa. Questo studio ci offre una statistica interessante.

Fig. 1

I campioni sono Germania, Lussemburgo e Austria. Germania e Austria hanno una sanità modello Bismarck con molti ospedali privati, la sanità del Lussemburgo è in stile Bismarck, ma ha quasi solo ospedali pubblici, in Romania c’è il Beveridge come in Italia ma, va detto, il sistema soffre di enormi diseguaglianze – a Bucarest ci sono ospedali di enorme qualità mentre nella provincia sono substandard – in Belgio c’è un Bismarck con ospedali come enti no profit, in Lituania c’è una sanità largamente pubblica, la Croazia ha un modello similfrancese con assicurazione minima statale più assicurazione opzionale e simile è il modello ungherese, mentre l’Estonia ha un sistema Beveridge come il nostro.

Se non vedete una correlazione, tranquilli, è semplicemente perché non c’è. Nel contesto europeo avere un sistema Bismarck o un sistema Beveridge di per sé è completamente indifferente rispetto al numero di posti letto o dei posti in terapia intensiva. Contano altri fattori quali l’investimento specifico nel campo della terapia intensiva o nella gestione delle pandemie parainfluenzali.

Il dato specifico non premia, in sostanza, né Beveridge né Bismarck, né la sanità centralizzata né quella decentralizzata. Non esiste evidenza che tornando al caro SSN centralizzato tutto pubblico si possano aumentare i posti in terapia intensiva, seppur ciò farebbe quasi sicuramente calare la qualità generale visto che in termini qualitativi i sistemi Beveridge più sono accentrati più perdono in qualità e, inoltre, eliminerebbe gran parte delle eccellenze che effettivamente ci rendono concorrenziali nel mondo.

Che cos’è il Minarchismo: lo Stato Minimo e il Guardiano Notturno

Il minarchismo è una teoria politica libertariana che si fonda sull’esistenza di uno Stato Minimo, ridotto entro rigorosi limiti di legittimità, e che non presuppone la cessione di competenze allo Stato oltre a: ordine pubblico, giustizia e difesa del territorio.

Il termine è stato coniato da Samuel Edward Konkin III per distinguere, fra i libertari, gli anarco-capitalisti da quelli che parteggiano per la presenza di uno Stato con funzioni limitate.

Uno stato minimale, strettamente limitato alle funzioni di protezione contro la violenza, il furto, la frode e garante del rispetto dei contratti privati, è giustificato. Qualsiasi estensione di queste funzioni viola il diritto delle persone a non essere costrette, ed è quindi ingiustificata. 

(Robert Nozick, Anarchia, stato e utopia , 1974)

Quali sono le cose che gli uomini hanno il diritto di imporsi l’un l’altro con la forza? Ne conosco solo una: la giustizia. Non ho il diritto di costringere nessuno a essere religioso, caritatevole, educato, laborioso; ma ho il diritto di costringerlo ad essere giusto: questo è il caso dell’autodifesa. Ma nella comunità di individui non può esistere alcun diritto che non pre-esista negli individui stessi […] L’azione di governo è essenzialmente limitata all’ordine, alla sicurezza, alla giustizia. 

(Frederic Bastiat, Avviso alla Gioventù, 1830)

Parliamo quindi di un Guardiano Notturno. Talvolta, i minarchici assegnano allo Stato anche le infrastrutture essenziali, come le strade, ma altri ambiti molto preminenti come l’istruzione, la salute o il controllo della moneta continuano ad emergere come iniziativa privata.

I poteri dello Stato Minimo

Lo stato minimo è uno stato con poteri sovrani (tasse, polizia, giustizia, esercito) che si occupa di alcune funzioni aggiuntive quali la manutenzione delle reti stradale, elettrica, ferroviaria, ecc. La moneta e l’educazione sono gestite dal settore privato.

Concedere allo Stato un numero limitato di  funzioni non è sufficiente per parlare di stato minimo in senso stretto. In effetti, è anche importante che le prerogative dello Stato in ciascuno di questi ambiti decisionali siano severamente circoscritte.

Ad esempio, il ruolo di sicurezza del governo non può giustificare il monitoraggio dei suoi cittadini come potenziali sospetti. Superando questo limite, lo stato non è più uno stato minimo. Questo è il motivo per cui, per ragioni di accuratezza, lo stato minimo dovrebbe essere definito come uno stato con poteri sovrani limitati.

Secondo Ayn Rand, un governo deve assumere solo tre funzioni: la polizia (per proteggere i cittadini dai criminali), la difesa (per proteggerli dall’invasione straniera) e la giustizia (per risolvere i conflitti in base a leggi oggettive). Qualsiasi altra funzione del governo richiederebbe l’uso coercitivo della forza e sarebbe quindi immorale. Anche secondo questa definizione, lo stato minimo implica necessariamente un governo limitato.

L’idea dello Stato Minimo dei Liberali Classici è, dunque, stata ereditata dai libertari minarchisti, il cui rappresentante più famoso, Robert Nozick, definisce due condizioni necessarie per l’esistenza dello Stato:

  1. Un monopolio di fatto sull’uso o l’autorizzazione dell’uso della forza in un dato territorio (stato ultra-minimo);
  2. Protezione estesa a tutti gli abitanti di questo territorio (stato minimo).

Per Frédéric Bastiat, lo stato minimo è una condizione imperativa per la salvaguardia dei diritti individuali:

Anche lo Stato è soggetto alla legge malthusiana. Tende a superare il livello dei suoi mezzi di esistenza, cresce in proporzione a questi mezzi. Guai a chi non saprà come limitare la sfera di azione dello Stato. Libertà, attività privata, ricchezza, benessere, indipendenza, dignità… tutto ciò finirà.

Contrariamente all’argomento di Locke che giustifica moralmente l’esistenza dello stato perché il mercato non potrebbe fornire i beni pubblici necessari per la sicurezza della società (polizia e giustizia), Hasnas[1] indica che il compito dello Stato non è quello di fornire questi beni pubblici, ma di garantire che tali servizi siano forniti, sostenendo che è impossibile giustificare un monopolio a priori, come la produzione di questi servizi da parte dello Stato.

Confronto con l’anarco-capitalismo

Mentre gli anarco-capitalisti credono nella possibilità di un mercato diversificato della sicurezza, i minarchisti credono che la sicurezza sia un monopolio naturale e che in una situazione di anarchia le agenzie di protezione in competizione finirebbero per federarsi in un’unica singola azienda dominante.

Secondo Nozick, tale agenzia dominante corrisponde a uno stato minimale prodotto dall’ordine spontaneo (senza un contratto sociale!). L’agenzia dominante riesce, grazie al suo monopolio di fatto, a far rispettare il divieto di utilizzare procedure legali non approvate da essa. L’agenzia dominante si trasforma in uno stato minimo offrendo protezione gratuita a coloro che sono svantaggiati dal suo monopolio di fatto sulle procedure giudiziarie.

Alcuni anarco-capitalisti come Murray Rothbard contestano questo tipo di scenario. Da un lato non vedono come possa nascere uno stato ultra-minimale (“concezione immacolata” dello stato, secondo Rothbard), né, d’altro canto, perché un’agenzia dominante emergerebbe necessariamente, e cosa impedirebbe in seguito l’emergere di concorrenti di questa agenzia. D’altra parte, gli anarco-capitalisti dubitano che lo stato minimo resti minimo all’infinito:

I fautori del governo limitato spesso difendono l’ideale di uno Stato di sopra della mischia che non prende le parti o che non ostenta il suo potere, un “arbitro” che potrebbe decidere in modo imparziale tra le varie fazioni della società. Ma per quale motivo gli uomini di stato dovrebbero comportarsi in questo modo? Dato il loro potere senza un contrappeso, lo Stato e i suoi leader agiscono per massimizzare il loro potere e la loro ricchezza, e quindi inevitabilmente tendono a superare i propri presunti”limiti”. Ciò che è importante è che l’utopia dello stato limitato e del liberalismo non fornisce alcun meccanismo istituzionale per contenere lo stato entro questi limiti. Eppure la sanguinaria storia dello Stato avrebbe dovuto dimostrare che tutti i poteri vengono necessariamente superati e abusati.

Murray N. Rothbard

Dal momento in cui ammetti che lo stato, in quanto monopolista territoriale con potere di tassazione e in grado di prendere decisioni definitive, è qualcosa di cui hai bisogno, non hai modo di limitare il suo potere affinché rimanga uno stato minimale. Supponendo semplicemente che i leader tendano a promuovere i propri interessi, è chiaro che qualsiasi stato minimo tende a diventare uno stato massimo, nonostante le disposizioni costituzionali che si oppongono ad esso. Dopo tutto, la Costituzione deve essere interpretata, ed è interpretata da una Corte Suprema, cioè da un ramo dello stesso governo il cui interesse è quello di espandere il potere dello Stato, e per lo stesso motivo il suo stesso potere.

Hans Hermann Hoppe

Confronto con il Liberalismo Classico

Alla luce delle definizioni riportate in questa pagina, sembra che il minarchismo difenda gli ideali del Liberalismo Classico. La denominazione Minarchismo fu usata dagli autori anglosassoni degli anni ’70 (ma in misura molto minore del termine libertarismo ) per distinguersi dall’uso molto social-democratico del termine liberalismo e dai liberals, i quali non hanno nulla a che vedere coi liberali.

Autori minarchici

John Locke, Wilhelm Von Humboldt, Thomas Jefferson, Frédéric Bastiat, Auberon Herbert, John Prince Smith, Herbert Spencer, James M. Buchanan, Richard Epstein, Ludwig von Mises, Charles Murray, Robert Nozick, Ayn Rand, Leonard Read, Thomas Szasz.

Note:

[1]: John Hasnan, Alcune riflessioni sullo Stato Minimo.

Cos’è una libera città privata?

Immaginate che un’azienda privata vi offra i servizi di base di uno Stato, ovvero la protezione della vita, della libertà e della proprietà in un territorio definito. Per questi servizi pagate un certo importo all’anno. I vostri rispettivi diritti e doveri sono stabiliti in un accordo scritto tra voi e il fornitore. Per tutto il resto, fate quello che volete. In questo modo, siete una parte contraente su un piano di parità con una posizione legale garantita, invece di essere soggetti alla volontà del governo o della maggioranza che cambia sempre. Ne diventate parte solo se vi piace l’offerta.
Analizziamo il mercato della governance: gli stati esistono, almeno in parte, perché c’è una domanda per loro. Uno Stato che funziona offre un quadro stabile di legge e ordine, che permette la coesistenza e l’interazione di un gran numero di persone. Questo è talmente attraente che la maggior parte delle persone è disposta ad accettare in cambio limitazioni significative della propria libertà personale. Probabilmente anche la maggior parte dei nordcoreani preferirebbe rimanere nel proprio Paese, piuttosto che vivere liberi ma soli come Robinson Crusoe su un’isola remota. Gli esseri umani sono animali sociali.

Tuttavia, se si potessero offrire i servizi di uno Stato ed evitare i suoi svantaggi, si potrebbe creare un prodotto migliore. Ma dopo decenni di attività politica, sono giunto alla conclusione che la vera libertà, nel senso di volontarietà e autodeterminazione, non può essere raggiunta armeggiando con gli Stati esistenti attraverso il processo democratico. Semplicemente non c’è abbastanza domanda per questi valori. Tuttavia, qualcuno potrebbe offrire questo come prodotto di nicchia per le parti interessate. Potrebbe essere possibile per le aziende private fornire tutti i servizi necessari che il governo normalmente monopolizza. Io ho avviato una società di questo tipo: Free Private Cities Ltd (freeprivatecities.com).

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IL MERCATO DELLA CONVIVENZA
Tutto ciò che sappiamo dal libero mercato potrebbe essere applicato a quello che io chiamo il “mercato della convivenza”: lo scambio volontario (compreso il diritto di rifiutare qualsiasi offerta), la concorrenza tra i prodotti e la conseguente diversità della gamma di prodotti. Un “fornitore di servizi statali” o “fornitore di servizi governativi” potrebbe offrire un modello specifico di convivenza all’interno di un territorio definito e solo coloro che amano l’offerta vi si stabiliscono. Tali offerte devono essere attraenti, altrimenti non ci saranno clienti.
E questa è esattamente l’idea di una Città Privata Libera: un’impresa privata volontaria, a scopo di lucro, che offre protezione per la vita, la libertà e la proprietà in un determinato territorio – migliore, più economica e più libera dei modelli statali esistenti. La residenza dipenderebbe da un rapporto contrattuale predefinito tra i residenti e il gestore. Monaco è oggi molto vicina ad una Città Libera Privata: Sovrana, competitiva e volontaria.

Una Città Libera Privata come la propongo io si basa sui seguenti principi:
1) Ogni residente ha il diritto di vivere una vita indipendente senza l’interferenza di altri.
2) L’interazione tra i residenti avviene su base volontaria, non basata sulla coercizione. La partecipazione e la permanenza nella Città Libera Privata è strettamente volontaria.
3) I rispettivi diritti degli altri devono essere rispettati, anche se non si ama il loro stile di vita o il loro atteggiamento.
4) Esiste una completa libertà di parola con una sola eccezione: Se si promuove l’espropriazione o la violenza contro gli altri, bisogna andarsene. La critica pura e semplice di altre persone, ideologie, religioni, ecc. deve essere accettata: “Sentirsi oltraggiati” non giustifica alcuna limitazione della libertà di parola.
5) Il gestore della Città Libera Privata garantisce un quadro normativo stabile e un’infrastruttura di base, che comprende l’istituzione di una polizia, i vigili del fuoco, il soccorso d’emergenza e, inoltre, l’istituzione di un quadro giuridico e di tribunali indipendenti, in modo che la proprietà della proprietà sia registrata in modo vincolante e i residenti possano far valere le loro legittime rivendicazioni in un processo regolamentato, se non sono in grado di accordarsi sull’arbitrato.
6) Il quadro di riferimento è stabilito tra i residenti e il gestore in un contratto che detiene tutti i rispettivi diritti e obblighi. Ciò include il corrispettivo per ogni abitante per i servizi del gestore. Ogni residente ha diritto all’esecuzione del suo contratto e può chiedere il risarcimento dei danni per inadempimento. Questo contratto è fondamentalmente la propria “costituzione” personale, che è superiore a tutte le costituzioni esistenti, poiché non può essere modificato unilateralmente in seguito, né dal gestore né dalla maggioranza dei voti.
7) Tutti i residenti adulti sono responsabili delle conseguenze delle loro azioni, non la “società” o il gestore. Anche in questo caso, non esiste un “diritto umano” a vivere a spese degli altri.
8) I conflitti di interesse tra residenti o tra residenti e l’operatore sono negoziati da tribunali indipendenti o da tribunali arbitrali. Le loro decisioni devono essere rispettate. Vale a dire, i conflitti con l’operatore, ad esempio per quanto riguarda l’interpretazione del contratto, vanno all’arbitrato, non ai tribunali dell’operatore.
9) Non vi è alcun diritto legale ad aderire alla Città Libera Privata. L’operatore può rifiutare i candidati a sua discrezione. Le persone che dichiarano apertamente opinioni non compatibili con una società libera, ad esempio socialisti, fascisti o islamisti, o noti criminali, non saranno ammessi.
10) Ogni residente può rescindere il contratto in qualsiasi momento e lasciare di nuovo la città, ma l’operatore può – dopo un periodo di prova – cancellarlo solo per giusta causa, come per violazione delle regole di base.

Le città private gratuite non sono intese come un rifugio per i ricchi. Se gestite correttamente, si svilupperebbero sulla falsariga di Hong Kong, offrendo opportunità sia ai ricchi che ai poveri. I nuovi residenti che sono disposti a lavorare ma senza mezzi potrebbero negoziare un rinvio dei loro obblighi di pagamento, e i datori di lavoro che cercano una forza lavoro potrebbero assumere i loro obblighi contrattuali di pagamento. L’incentivo per il gestore di una Città Libera Privata sarebbe il profitto: offrire un prodotto attraente al giusto prezzo.

Questo includerebbe alcuni beni pubblici, come già detto, nonché alcune infrastrutture, un ambiente pulito e una serie di regole sociali, ma il servizio principale dell’operatore è quello di garantire che l’ordine libero non venga disturbato e che la vita e la proprietà dei residenti siano sicure. In pratica, l’operatore può garantire questo solo se è in grado di controllare chi sta arrivando (prevenzione) e ha il diritto di buttare fuori i disturbatori (reazione). Per tutto ciò che va oltre questo quadro, ci sono imprenditori privati, assicurazioni e gruppi della società civile.
Naturalmente, tutte le attività terminano quando i diritti degli altri vengono violati. Oltre a questo, il correttivo corretto è la concorrenza e la domanda.

CONCORRENZA E USCITA
La minaccia della concorrenza porterà una protezione sufficiente ai residenti? Considerate questo: il Principato di Monaco è una monarchia costituzionale. Esso concede zero diritti di partecipazione politica ai residenti senza cittadinanza monegasca – circa l’80% della popolazione, me compreso. Ciononostante, ci sono molti più candidati alla residenza di quanto possa richiedere il piccolo mercato immobiliare di questo piccolo luogo (due chilometri quadrati). Perché è così? Tre motivi: a Monaco non ci sono imposte dirette per i privati, è estremamente sicuro e il governo vi lascia in pace.

Se il Principato di Monaco cambiasse questa situazione, le persone si sposterebbero in altre giurisdizioni. Così, nonostante la posizione formale di grande potere del principe, la concorrenza con le altre giurisdizioni – non la separazione dei poteri, non una costituzione e non il voto – garantisce la libertà dei residenti.
Simile nelle libere città private: se il fornitore del governo si attiene ai suoi pochi fondamentali ambiti, non c’è bisogno di partecipazione politica. L’idea è di avere la massima autodeterminazione possibile, non di garantire la massima partecipazione. Di conseguenza, non c’è bisogno neanche dei parlamenti. Piuttosto, tali organi rappresentativi sono un pericolo costante per la libertà, poiché gruppi d’interesse speciali li dirottano e li trasformano inevitabilmente in negozi self-service per la classe politica.

La concorrenza si è dimostrata l’unico metodo efficace nella storia dell’umanità per limitare il potere. In una libera città privata, il contratto e l’arbitrato sono strumenti efficaci a favore dei residenti. Ma in ultima analisi, sono la concorrenza e la possibilità di una rapida uscita che garantiscono che l’operatore rimanga un fornitore di servizi e non diventi un dittatore.
Una Città Libera Privata non è un’idea utopica e costruttivista. Si tratta piuttosto di modelli di business i cui elementi sono già noti e che vengono semplicemente trasferiti ad un altro settore, ovvero il mercato della convivenza. In sostanza, l’operatore è un mero fornitore di servizi che stabilisce e mantiene il quadro entro il quale la società può svilupparsi, con esito aperto. L’unico requisito permanente a favore della libertà e dell’autodeterminazione è il contratto con l’operatore.

Solo questo contratto crea obblighi obbligatori: ad esempio, i residenti possono concordare l’istituzione di un consiglio. Ma anche se il 99% dei residenti sostiene l’idea e si sottomette volontariamente alle decisioni del consiglio, questo organismo non ha il diritto di imporre le sue idee al restante 1%.Pensate a idee come il finanziamento di una piscina pubblica, un sistema di sicurezza sociale o la fissazione di un salario minimo. E questo è il punto cruciale, che ha fallito regolarmente nei sistemi passati e presenti: la garanzia permanente della libertà individuale.

COME INIZIARE
Per avviare questo progetto è necessario garantire l’autonomia dalle sovranità esistenti. Non deve necessariamente comportare una completa indipendenza territoriale, ma deve includere il diritto di regolare gli affari interni della città. La creazione di una Città Libera Privata richiede quindi prima un accordo con uno Stato esistente. Lo Stato genitore concede all’operatore il diritto di istituire una Città Libera Privata e di stabilire regole proprie all’interno di un territorio definito, idealmente con accesso al mare e precedentemente disabitato.

Gli Stati esistenti possono essere venduti su questo concetto quando possono aspettarsi di trarne benefici. Le quasi-città stato di Hong Kong, Singapore e Monaco hanno un cordone di aree densamente popolate e ricche adiacenti ai loro confini. Queste aree fanno parte degli stati genitori e i loro residenti pagano le tasse alla madrepatria. Ora, se tali strutture si formano intorno a un’area precedentemente sottosviluppata o non popolata, questo è un guadagno per lo stato madre. Negoziare con un governo per rinunciare a una parziale sovranità non è certamente un compito facile, ma è a mio avviso più promettente dei tentativi di “cambiare il sistema dall’interno”. Le città private gratuite sono molto più di una bella idea per poche persone ai margini. Hanno il potenziale per sottoporre gli stati esistenti alla distruzione creativa.

Se le Città Libere Private si svilupperanno in tutto il mondo, metteranno gli stati sotto una notevole pressione per cambiare i loro sistemi verso una maggiore libertà, altrimenti potrebbero perdere cittadini ed entrate. E questo è proprio l’effetto positivo della concorrenza che finora è mancato nel mercato statale. Non tutte le Libere Città Private devono conformarsi alle mie regole ideali. Sono concepibili città specializzate che offrono previdenza sociale o che si occupano di specifiche preoccupazioni religiose, etniche o ideologiche. In questo quadro, anche i socialisti sarebbero liberi di cercare di dimostrare che il loro sistema, fatto a regola d’arte, funziona davvero. Ma questa volta una cosa è diversa: nessuno sarebbe costretto a soffrire di questo (o di qualsiasi altro) esperimento sociale. La sovrastruttura dell’associazione di volontariato permette a molti sistemi diversi di prosperare.

Data la partecipazione volontaria, tutto è possibile. Questa semplice regola ha il potenziale per disarmare e trasformare anche un’ideologia totalitaria in un unico prodotto tra tanti. Credo fermamente che le libere città private o regioni autonome simili siano inevitabili. Le persone di tutti i gruppi sociali ed economici non accetteranno per sempre di essere saccheggiate, maltrattate e trattante con sufficienza dalla classe politica, senza mai avere una scelta significativa. Le Città Libere Private sono un’alternativa pacifica e volontaria che può trasformare le nostre società senza rivoluzione o violenza – o addirittura senza il consenso della maggioranza. La mia ipotesi: vedremo la prima Città Libera Privata nei prossimi dieci anni.
Spero di vedervi lì.

Traduzione a cura di Gianmaria Dinaro

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Costruire le città del futuro

In che modo le nuove tecnologie e i nuovi modelli di gestione trasformeranno radicalmente la gestione cittadina da come noi la conosciamo.
Quando giunge il momento di aggiornare il modo in cui agiscono, i governi sono in ritardo rispetto alle organizzazioni private. Mentre le aziende rinnovano costantemente i loro modelli organizzativi, la maggior parte delle città è ferma a strutture governative secolari. Ma cosa potrebbe succedere se potessimo gestire le città come fossero delle compagnie?

Le nuove strutture legali potrebbero essere viste come social technologies. Pensiamo a Smart City e a piattaforme di E-Governance come al lato hardware. Per esempio, la distribuzione elettrica, l’illuminazione e i servizi di trasporto sono tutti diventati più efficienti grazie all’innovazione. Abbiamo potuto vedere molti progressi nei servizi cittadini, ma non nel modo in cui le città sono gestite e funzionano.

In altre parole, la legge e l’amministrazione sono i sistemi operativi delle città che, tuttavia, non vengono aggiornati da molto tempo. Quello su cui dovremmo focalizzarci, allora, è il lato software. Però, non servirà a molto se abbiamo piattaforme digitali del ventunesimo secolo ma sistemi legali del diciannovesimo. Siamo ancora in ritardo. Il problema è che le nostre strutture giuridiche sono troppo rigide per essere innovate. Se vogliamo che il governo sia più innovativo, dovremmo osservare come le startup innovano. “Sono piccole, sperimentali, e responsive”, dice Max Borders, autore di The Social Singularity. “Se falliscono, forniscono un precedente da cui imparare; se hanno successo, le startup creano ricchezza”.

Borders è parte del movimento Startup Societies, che richiede più sperimentazione nell’ambito della governance. La piccola nazione di Liberland, il modello abitativo galleggiante ideato dal Seastanding Institute, e le charter cities americane fanno tutte parte di questa categoria. Per quale motivo? Perché hanno una cosa in comune: stanno provando a portare competizione nella sfera pubblica trattando la gestione statale come un fenomeno di mercato.
A qualcuno ciò potrebbe sembrare una posizione abbastanza radicale, ma consideriamo che questo sta già accadendo in una certa misura.

Le Associazioni dei padroni di casa (HOAs) e i condomini sono in continua crescita negli Stati Uniti, sia per quanto riguarda i residenti che per l’offerta di servizi proposta. Città innovative come Sandy Springs in Georgia hanno provato che è possibile avere una gestione privata dei servizi cittadini. Inoltre, molte SEZ (Special Economic Zones) hanno anche implementato servizi di sicurezza privati.

Con il numero di SEZ in crescita, la possibilità di esperimenti territorialmente limitati per quanto riguarda la gestione governativa sta aumentando. In giro per il mondo, almeno l’80% percento di tutti i paesi ha una SEZ di qualche tipo. Alcuni paesi hanno addirittura più SEZ, in competizione l’una con l’altra. È solo una questione di tempo prima che una compagnia privata lanci il suo prototipo di città.

Alcuni già si stanno avventurando in questo campo…
Come, per esempio, Titus Gebel, CEO di Free Private Cities. Gebel sta tentando di realizzare l’idea di città gestite come se fossero business. Per farlo, ha cercato di stabilire una speciale zona autonoma gestita da una compagnia, che secondo lui porterà lo spirito imprenditoriale nella gestione pubblica.

“Questo è un modello completamente nuovo del vivere insieme. Queste città avranno un incentivo economico ad essere innovative. Invece di essere soffocate da regolazioni obsolete, gli innovatori potranno agire in un quadro legale adattato ai loro bisogni. In questo modo si crea ricchezza” dice Gebel.

Gebel ha avuto la possibilità di lavorare con alcune delle ultime tecnologie per l’e- governance, incluse quelle che stanno venendo sviluppate per i progetti di zone autonome in America centrale. Questi modelli usano blockchain come un metodo per provare transazioni immobiliari, andate molto oltre la tradizionale proprietà.

“I proprietari possono commerciare direttamente tra loro gli spazi aerei e le quote di emissione, senza il bisogno di un intermediario statale”, fa notare. “Nella sfera pubblica, stanno avvenendo dei cambiamenti strutturali” , aggiunge Gebel. “Tecnologie rivoluzionarie, come blockchain, stanno ingrandendo la sfera della decentralizzazione, della trasparenza e dell’auto-determinazione. Questo influisce sul modo in cui concepiamo le città.”

La decentralizzazione sicuramente sembra il nuovo imperativo. Gebel e altri stanno già seguendo progetti con questo approccio, come l’ Ulex Open Source Legal System, che è essenzialmente un cloud per la Common Law. Un altro esempio è Bitnation, che emette passaporti per i cittadini del mondo e permette giurisdizioni non territoriali. Anche la gestione sta venendo influenzata dalle nuove forme organizzative come Holacracy.

Gebel è ottimista per quanto riguarda l’uso di registri distribuiti per una maggior partecipazione privata alla governance:“La possibilità di stabilire contratti quando ci si occupa della gestione di una città semplifica la vita e la rende meno burocratica. Per esempio, le tecnologie dei registri distribuiti rendono inutili notai, pubblici addetti e fanno risparmiare tempo nei passaggi di proprietà; più si può decidere da soli, meno si ha bisogno di rappresentanti statali, che, come si sa, nel tempo tendono a fare i loro interessi

Ma Gebel è scettico nel vedere questi sistemi come unico fattore di sviluppo in questo settore. Pensa che ciò comporterà un cambiamento epocale nel passaggio da strutture legali imposte dall’Ancien Régime, a quelle audaci e adattive tipiche di un settore gestionale competitivo.
Tutto ciò funzionerà? Solo il tempo ce lo potrà dire. Ma il futuro del settore governance sta cambiando sotto i nostri occhi – e i sindaci potrebbero non gradirlo.

 

Traduzione a cura di Gabriele Pierguidi

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Mitteleuropa e totalitarismo in Kafka, Kundera e Havel

Il libro di Stefano Bruno Galli “Václav Havel, Una rivoluzione esistenziale” è anzitutto il tentativo para-filosofico di capire il mondo intellettuale del Novecento ceco; un insieme di piccole storie della cultura letteraria boema e morava. Certo, la spina dorsale del libro è articolata a ridosso della vita di Václav Havel, dissidente e politico ceco, ma le punte di eccellenza della cultura e della letteratura ceca vengono altresì considerate nell’opera. Nonostante titolo e copertina del libro siano dedicati allo statista praghese, la proiezione di ricerca di Galli è più culturale che politica: è quasi una rincorsa alla ricerca di un “io” (la propria individualità) in un determinato luogo (la Mitteleuropa), attraverso lo sguardo degli scrittori – eternamente “minoranza” – Franz Kafka («intrigante esploratore del paradiso della mente») e Milan Kundera (leader dell’Unione degli scrittori cechi negli anni Sessanta, quelli pre-Primavera di Praga).

I tre intellettuali cechi sono collegati tra di loro da quello che Michael Žantovský nella prefazione del volumetto definisce come un «bisogno esistenziale dell’individuo di vivere una vita autentica e impregnata dalla consapevolezza della propria corresponsabilità verso la comunità e i destini degli altri esseri umani.» Quella che Havel definisce come “autocoscienza civile”, da opporre – e questa volta le parole solo di Kafka dal Processo – alla «repressione poliziesca, oppressione burocratica, corruzione dei funzionari di Stato, assenza di giustizia sociale, concentrazione e anonimato del potere.» Per vivere in una società veramente libera – non oppressa dall’Impero asburgico kafkiano o da quello comunista haveliano – è dunque necessaria la responsabilizzazione del singolo individuo. La sua presa di coscienza e di responsabilità lo rende libero.

In momenti diversi, i tre autori si sono sempre espressi in merito all’appartenenza cecoslovacca al blocco dell’Ovest. Affezionati ad una libertà antica che tutti e tre si videro rubare, percepivano il loro Paese e la loro cultura come profondamente occidentali. «Per il suo sistema politico, l’Europa centrale è all’Est; per la sua storia culturale, è a Occidente», avverte Kundera. In questo senso, la Cecoslovacchia è una Mitteleuropa; una terza Europa, di mezzo, di confine tra Est ed Ovest: dall’Impero Austro-Ungarico, in cui viveva Kafka, al mondo della Guerra Fredda di Kundera e Havel. Terra di confine, terra di emigrazione; mobile, simbolo di una coscienza sociale, ancor prima che un’entità culturale nel suo insieme.

«La Mitteleuropa non è uno stato, è una cultura o un destino», scrive Galli. «I suoi confini sono immaginari e devono essere ridisegnati al formarsi di ogni situazione storica» (e così è accaduto: basti pensare agli eventi del 1918, del 1938 e del 1989, tre anni simbolo per la Cecoslovacchia). La Mitteleuropa è indipendenza, è «il rifiuto di una politica autoritaria e totalitaria», continua l’autore, dal momento che è un insieme di culture diverse non separabili da loro. «La Mitteleuropa è una cultura e un destino; una sorta di cittadinanza storica». La Mitteleuropa è un sogno, un’utopia, un Eldorado, uno spazio storico-culturale.

Infestata dal virus totalitario, per diversi decenni la Mitteleuropa si è come spenta ed è stata dimenticata nel panorama storico e geopolitico mondiale. Il Partito Comunista Cecoslovacco fu in grado, con il 38% dei consensi nel 1946 – e il golpe del 25 febbraio di due anni dopo, quando di lì a poco avrebbe ottenuto quasi il 90% – di monopolizzare l’orizzonte culturale del Paese. Con la nazionalizzazione di fonderie, miniere, banche e assicurazioni – nonché l’esproprio proletario – il regime si assicurò illegalmente il controllo assoluto dello Stato. L’industria culturale era preziosa in Cecoslovacchia, data anche l’assenza della televisione in molte case; essa, in qualche modo, doveva prevenire – e possibilmente evitare – la degenerazione nel totalitarismo. Quello che statalizza tutto, falsifica il passato e la realtà oggettiva, che emargina, punisce, reprime e, dove può, elimina.

I tre intellettuali cechi – tutti e tre, a loro modo, autentici dissidenti e ribelli – hanno saputo illuminare migliaia e migliaia di concittadini con il loro esempio individuale; per questo erano ritenuti pericolosi dai regimi: sia Kafka, che Kundera che Havel sono stati messi ai margini della società. Di fatti, l’intellettuale è come se fosse un dissidente ante-litteram; uomo potente e fragile allo stesso tempo, che dispone solo della parola scritta come arma di consenso per esporre le proprie idee. Secondo Havel, il dissidente – così come la figura dell’intellettuale – combatte il potere «borioso» e «anonimamente burocratico», sviluppando un’azione culturale che i cittadini elaborano. «Uno spettro s’aggira per l’Europa orientale: in Occidente lo chiamano “dissenso”», ha scritto Havel ne Il potere dei senza potere.

Negli anni Settanta «la normalizzazione aveva determinato la completa emarginazione degli intellettuali, relegati a un’esistenza clandestina», scrive Galli, dando vita ad una “polis parallela” alla nomenclatura ufficiale, alla struttura del partito e le sue appendici sociali. L’ideologia che i regimi, totalitari e post-totalitari, intendono conferire alla struttura sociale serve ad impadronirsi dell’uomo, «generando una fitta rete di menzogne e di ipocrisie, di mistificazioni e di nascondimenti della realtà». Il sistema totalitario priva i cittadini – resi sudditi, dunque schiavi – della loro libertà originaria: rivoluziona la loro esistenza. La rivoluzione esistenziale è emancipazione, ma è anche, seguendo le parole di Havel, «una mobilitazione generale della coscienza umana, dello spirito umano, della responsabilità umana, della ragione umana.»

La libertà riacquista nel 1918 (quando nacque la Cecoslovacchia sotto il segno culturale di Tomáš Masaryk) e nel 1989 (quando rinacque sotto quello di Václav Havel) è una sorta di emancipazione; e non può prescindere dalla responsabilità. Libertà è responsabilità: è dover alzarsi e avere anche il diritto di dissentire; ed essere pronti a pagarne le conseguenze, a schiena dritta (Havel andò in galera due volte e a lungo nella sua vita). Sia il 1918 che il 1989 sono stati momenti di grande libertà per le terre boeme, morave e slovacche; hanno svegliato «le coscienza assopite dei cittadini, che devono assumersi le proprie responsabilità, costruendosi una propria identità culturale specifica, fondata sullo spirito critico e lontana dall’anonimato diffuso», continua Galli. Il che vuol dire anche, nelle parole di Havel, prendere la parte «della verità contro la menzogna, dell’intelligenza contro l’assurdo, della giustizia contro l’ingiustizia.»

Il Gender pay gap tra realtà e complottismo

Ho appena finito di vedere l’ennesimo video su YouTube in merito ad un tema che mi sta molto a cuore, ovvero il Gender Pay Gap.
Questo video, creato da un ragazzo molto competente in economia come Giorgio De Marco di What’s Up Economy non mi ha lasciato particolarmente soddisfatto, per questo motivo vorrei permettermi di dire la mia sul tema del Gender pay gap.
Messo e concesso che al mondo esistono diverse forme di discriminazione e che non è solo un nostro diritto, ma un nostro dovere quello di combatterle, ritengo che queste teorie, nel modo in cui vengono sviluppate ed argomentate, spesso e volentieri rasentino il complottismo.
Inoltre, ci tengo a sottolineare come i dati portati a galla possano essere quantomeno pericolosi se dovessero capitare nelle mani sbagliate, ovvero di coloro che vogliono vedere una sorta di disegno della società, con l’intento di discriminare qualche minoranza.

Pensiamo ai collettivisti di stampo post-marxista, ai quali magari potrebbero fare gola dati di questo genere, utili per invocare uno (sbagliato) intervento dello stato ed una distorsione del mercato del lavoro (Che, come ci insegnano gli austriaci, porta sempre effetti controproducenti), oppure per guadagnarci in visibilità, portando avanti quella che Dave Rubin definirebbe come un’ “olimpiade dell’oppressione”.

Ma partiamo dall’inizio.
Come ho detto precedentemente, sono molto contrario a delle rilevazioni di questo tipo per motivi ideologici, ma le sostengo quando vengono fatte esclusivamente con l’intento di analizzare un fenomeno sociale.

Le sostengo, soprattutto quando i soggetti che vengono considerati come oppressori nei confronti di altre categorie sociali sono i soliti bianchi maschi etero. E questo, sia perché -tra le tante- rientro anche in queste categorie, sia perché sono un grande sostenitore della teoria di Jordan Peterson secondo cui “Per essere in grado di pensare, devi correre il rischio di essere offensivo”.


Ma, soprattutto, perché non sopporto chi, perseverando nell’errore che spesso viene fatto da molte minoranze nel mondo, sventola dati fasulli o manipolati nel tentativo di dimostrare una discriminazione sistematica al giorno d’oggi nel loro paese, di qualsiasi tipo essa sia.
Prendiamo ad esempio, sempre in America, il mito del razzismo dei poliziotti statunitensi, portato avanti da alcuni movimenti di Giovani studenti della sinistra in America, che vorrebbero far passare il messaggio secondo cui nel loro paese vi sia una sorta di razzismo sistematico da parte dei poliziotti nei confronti delle persone di colore.
Questi dati, se così vogliamo chiamarli, si basano spesso su una mala interpretazione delle rilevazioni statistiche e sono spesso stati smentiti da persone come Larry Elder, in una delle ultime interviste da “liberal” condotte negli USA da Dave Rubin .

Quello che voglio dire, è che non sostengo minimamente quelle ricerche portate avanti con l’unico scopo di stuprare la matematica nel solo tentativo di portare alla luce risultati distorti, deludenti, o peggio ancora totalmente fuorvianti, che prendendo la parte per il tutto o invertendo causa ed effetto, vogliono dimostrare che se una discriminazione esiste, allora essa è necessariamente sistematica.
Inoltre, essendo uno studente di Matematica vicino alla fine del mio percorso di studi, ed essendo in particolare un amante della Probabilità e della Statistica, conosco molto bene quali possono essere i limiti nelle rilevazioni dei dati per portare avanti un’indagine.

Volendo in questo articolo riferirmi in particolare alla supposta discriminazione del mercato nei confronti delle donne (che si riflette nel così detto Gender pay gap), mi permetto di cominciare facendo un esempio di come la matematica e la statistica possano rivelarci dati sbagliati in base a come vengono presi in considerazione. Supponiamo che in Italia ci siano 100 lavoratori in Lombardia e 100 in Puglia. Immaginiamo che i 100 lavoratori in Lombardia siano 60 uomini e 40 donne e che i lavoratori in Puglia siano 40 Uomini e 60 donne. Supponiamo che tutti i 100 lavoratori lombardi guadagnino la stessa cifra, ad esempio 5000$ e che anche i lavoratori Pugliesi guadagnino tutti la stessa cifra, supponiamo 1000$.

Se prendessimo in considerazione i due gruppi, quello Lombardo e quello Pugliese, vedremmo che non c’è nessuna discriminazione di genere e che il salario di quei lavoratori è condizionato più da fattori regionali che da altri. Eppure, prendendo la media del salario di tutte le donne Lombarde e Pugliesi (40×5000+60×1000 e dividendolo per 100, ottenendo 2600$) e di tutti gli uomini Lombardi e Pugliesi (60×5000+40×1000, dividendo per 100, ottenendo 3400$) e facendo il loro rapporto, si ottiene che ogni donna guadagna 0.76$ per ogni 1$ di un uomo. Ma come abbiamo visto prima, non c’è alcun tipo di gender pay gap all’inizio, se non una differenza dovuta a diverse condizioni tra lavoratori in due regioni diverse.

Questo solo per fare un esempio, ma andiamo più nel dettaglio.
Consideriamo il caso americano e facciamo un passo indietro: il mito del Gender pay gap è esploso negli USA negli anni della presidenza Obama, durante la quale anche l’allora presidente degli Stati Uniti portava avanti istanze come “le donne negli Stati Uniti guadagnano 0.77 cent per ogni dollaro che un uomo guadagna!”. Questa affermazione, prendeva in considerazione il salario medio guadagnato da TUTTE le donne negli USA, ponendolo al numeratore della frazione e portando al denominatore la media dei salari di TUTTI i lavoratori di sesso maschile.

Nel fare ciò, immagino che anche voi possiate capire come questa rilevazione non significhi nulla, perché non tiene conto infinite altre variabili. Ed è qui che vorrei attirare la vostra attenzione e dove ci terrei a farvi capire quali possono essere le limitazioni in base ai dati presi in considerazione.

La parola chiave è variabili.
Se siete degli individualisti come me, immagino che sappiate già che ogni individuo, pur appartenendo ad una determinata categoria sociale può essere diametralmente opposto ad un suo “simile”, quindi spesso risulta già fuorviante confrontare persone appartenenti alle stesse categorie.

Ma in statistica è difficile, se non impossibile, effettuare una rilevazione individualista della realtà. Risulta quindi difficile non avvicinarsi alla metodologia mainstream, rifiutando la visione Austriaca dell’Economia.
In tal modo, quindi, gli statistici tendono a considerare nelle loro analisi una sorta di “collettivizzazione” delle persone, nel tentativo di rendere più facile una matematizzazione della realtà.
Ma nel fare ciò, però, si rischia di essere fuorvianti. Soprattutto in economia.

Vi faccio un altro esempio, prendendo in considerazione una scienza “pura” quale la climatologia. Essa, al pari della Fisica, dell’astronomia, della Biologia e della Chimica, si basa su una certa interpretazione di dati “oggettivi”, nudi e crudi.
Eppure, già qui le diverse interpretazioni proposte dai diversi scienziati raccontano realtà spesso opposte le une dalle altre.
Come sappiamo, la scienza si basa su due cose: sui dati (che vengono presi, ed in quanto tali, non discutibili in quanto valori assoluti) e sulle loro interpretazioni.

Ed è proprio in quest’ottica che ad esempio si arriva a creare una discussione ancora oggi presente sul surriscaldamento globale.
Alcuni potrebbero far vedere che l’aumento della CO2 comporta un aumento della temperatura. Altri, potrebbero obiettare il contrario. Altri ancora, potrebbero prendere in considerazione dei dati in un arco di tempo più lungo, facendo notare un andamento “armonico” della temperatura nel corso della storia e via discorrendo, creando teorie che – partendo solo da un particolare differente – portano a conclusioni opposte.
E questo in una scienza “pura”, dove non vengono presi in considerazione troppi dati “soggettivi” e dove l’interpretazione dei primi dati è molto limitata.

Pensate allora all’Economia ed ancor più in particolare alle analisi condotte sul mercato del lavoro, dove i dati da prendere in considerazione di stampo “oggettivo” già sono parecchi, ed alla quale se ne potrebbero aggiungere un’altra infinità di stampo soggettivo.

Tra i primi potremmo considerare il sesso delle persone, la nazione dove lavorano, la regione della stessa, la città in cui lavorano, la ditta per cui lavorano, il loro titolo di studi, la loro specializzazione, il tipo di contratto (se part-time o a tempo pieno ad esempio), le ore di lavoro, le ore di straordinario fatte, lo stipendio stesso, l’età, l’età lavorativa e la relativa esperienza e molte altre.
Prendiamo ad esempio due individui che dovendo andare a lavorare a Bologna, uno da Imola ed uno da Milano, richiedano al loro datore di lavoro dei rimborsi per gli spostamenti. È probabile che quello che partirà da Imola prenderà necessariamente qualcosa in meno rispetto al secondo. E di questi dati, spesso molto nascosti da una parte o dall’altra ce ne sono sempre in agguato.

E tra di essi, magari, perché non prendere in considerazione magari dei dati più “soggettivi”, di stampo sociologico e comportamentale, che possono avere a che fare con il carisma, con il carattere, con l’attitudine della persona sul luogo di lavoro? Questi non sono dati facilmente reperibili perché non quantificabili, ma che sicuramente influiscono sullo stipendio finale dell’individuo.
Ad esempio, in questo ambito possono tornarci utili le parole di Jordan Peterson, il quale, basandosi su delle ricerche fatte da dei suoi colleghi ha rilevato ad esempio che in media i ragazzi e le ragazze hanno differenze comportamentali rilevanti.
I primi, risultano essere infatti più materialisti, più inclini alla violenza e al pericolo, mentre le donne sviluppano caratteri più legati all’emotività ed un attaccamento maggiore nei confronti dei legami interpersonali. Ciò chiaramente non ci dà una spiegazione dettagliata, ma può risultare essere un buon punto di inizio per comprendere quanto possa essere difficile la scelta dei parametri da prendere in considerazione.

Ma non sono certo qui a voler dire che bisogna buttare nella spazzatura qualsiasi ricerca fatta nel tentativo di ricercare la verità.
Quindi, prendiamo in considerazione alcuni dati che ci possono tornare utili per capire meglio questo Gender Pay Gap (sempre in America).

Una ricerca del 2017 condotta da Valentin Bolotnyy e Natalia Emanuel , entrambi economisti di Harvard, hanno rilevato dagli operatori sindacali di autobus e treni che questo gap si annulla totalmente se prendiamo in considerazione le scelte fatte dagli stessi lavoratori.
L’indagine ha preso in considerazione lavori sindacalizzati, in quanto venivano lasciate ai manager poche capacità decisionali in merito ai salari dei lavoratori, che potevano essere accusati di imparzialità, e ha lasciato ai ricercatori la possibilità di soffermarsi esclusivamente sul comportamento dei lavoratori.
La rilevazione statistica, a parità di lavoro e di mansione ha rivelato che:

Le donne usano il Family Medical Leave Act (FMLA) per prendere più tempo libero non retribuito rispetto agli uomini e lavorare meno ore di straordinario con salari 1,5 volte superiori. La radice di queste diverse opzioni è il fatto che le donne apprezzano il tempo e la flessibilità più degli uomini.”

Oppure, che:

“Il divario di reddito può essere spiegato nel nostro ambiente dal fatto che gli uomini prendono il 48% in meno di ore non retribuite e fanno l’83% in più di lavoro straordinario all’anno rispetto alle donne. La ragione di queste differenze non è che uomini e donne affrontano diversi set di opzioni in questo documento. […] Queste differenze di genere sono coerenti con le donne che assumono più mansioni domestiche e di assistenza all’infanzia rispetto agli uomini, limitando la loro disponibilità di lavoro nel processo. […] Quando gli straordinari sono previsti con tre mesi di anticipo, gli uomini si iscrivono per circa il 7% in più rispetto alle donne.”


Allo stesso modo, possiamo prendere in considerazione uno studio di Claudia Goldin, ricercatrice di Harvard, la quale, nelle sue ricerche ha rivelato che questo gender pay gap muta in base al settore che viene preso in considerazione.
Lo studio, ha infatti riportato che nei settori Scientifici e tecnologici, dove probabilmente la qualità di un lavoratore è valutata in maniera più “oggettiva”, dove le specializzazioni e le mansioni sono poche questo gap si accosta quasi allo 0, in alcuni casi si inverte addirittura l’andamento.
A dirla tutta, la stessa Goldin durante la discussione di questa sua tesi all’AEA (American Economic Association) arriva esattamente alla mia conclusione, ovvero che un certo gap esiste, così come esiste senza ombra di dubbio la discriminazione. Ma è fuorviante pensare che questo tipo di discriminazione sia di tipo sistematico e che il mercato sia automaticamente discriminatorio nei confronti delle donne.

In ogni caso, continuando sempre secondo l’analisi della Goldin abbiamo anche una conferma di quanto detto prima. Infatti, sempre all’interno della sua rilevazione statistica si ha che il settore del Business evidenzia un andamento del Gender wage gap ancora maggiore rispetto a quello dei precedenti settori evidenziati. Perché?

Beh, si può tenere in considerazione il fatto che all’interno di questo settore le professioni variano, così come i compensi. Ci saranno donne che saranno CEO, imprenditrici, o che guideranno interi istituti di ricerca, così come ne esisteranno altre che copriranno mansioni meno retribuite, come ad esempio segretarie e quant’altro (dove il tasso di donne è molto superiore a quello di uomini).
Inoltre, in questi settori dove con ogni probabilità entrano in considerazione fattori che hanno a che fare con dei parametri molto soggettivi, si ha un aumento di questo differenziale (esattamente come affermato prima).
Si tratta, infatti, di lavori dotati di poca flessibilità e che automaticamente portano ad avere degli svantaggi sulla carriera lavorativa di chi ne richiede di più (In particolare, secondo l’indagine della Goldin, le donne).

Non solo, possiamo prendere in considerazione un articolo uscito sempre nel 2017 sul The Economist, che evidenzia come questo gap arriva a diminuire costantemente (in paesi come la Gran Bretagna, la Francia e la Germania) considerando solo fattori come il lavoro, il medesimo lavoro a medesimo livello di responsabilità, nella medesima compagnia e a parità di mansioni.

E in tutto ciò, come non prendere in considerazione anche le citazioni della nostra Christina Sommers, la quale, nel suo video promosso da PragerU ha evidenziato che la AAUW (American Association of Univeristy Women) ha rilevato che prendendo in considerazione alcune differenti scelte fatte da uomini e donne all’interno dello stesso settore, il gender pay gap arriva ad assottigliarsi dai famosi 0.23$ precedentemente citati negli USA a 0.066$ per ogni dollaro che un uomo guadagna. Tesi confermata anche da altri studi condotti .

In tutto ciò, possiamo citare che un’altra ricerca molto interessante fatta da tre economisti in merito al Gender Pay gap, i quali hanno rilevato che le donne nate dal 1948 in poi, una volta superata la soglia dei 40 anni, hanno visto il loro gap salariale ridursi costantemente, fino ad avvicinarsi allo zero. Perché questo? Semplice.
Nella fascia d’età che va dai 20 ai 40 anni, le donne è probabile possano avere una gravidanza, la quale è senza ombra di dubbio una penalizzazione dal punto di vista lavorativo e della carriera.
Secondo un video promosso sempre dal The Economist , le donne che tornano a lavoro dopo un periodo di maternità si vedono tagliato il loro salario in media del 4%.

Ora stiamo tutti calmi e ragioniamo. La gravidanza, come precedentemente detto, ti penalizza? Dal punto di vista lavorativo, la risposta è senza dubbio: SI.
Ma guai a cadere nella tentazione di dire “le donne sono oppresse”, in quanto una gravidanza comporta per entrambi i coniugi molti sacrifici. Una madre potrebbe guadagnare di meno e per compensare questa perdita, il padre potrebbe essere più incentivato a richiedere più ore di straordinario (il che potrebbe essere anche una motivazione per cui gli uomini richiedono più spesso delle donne degli straordinari). Siamo sinceri, quante coppie soprattutto in caso in gravidanze complicate, preferirebbero far rimanere a casa le proprie mogli per evitare loro sforzi inutili che possano mettere a repentaglio la loro salute e quella del bambino, sacrificandosi a lavoro, cercando di guadagnare qualcosa in più?

Come dice sempre Jordan Peterson, la vita è ingiusta ed è piena di sofferenze ed è solo la collaborazione tra uomini e donne che può renderci più liberi. Ed è da questa concezione, che nasce anche il patriarcato (di cui magari parleremo un’altra volta, dato il tema parecchio controverso).
Inoltre, questa dinamica può spiegare perché sempre in America ci sia una divisione delle mansioni domestiche divisa iniquamente a sfavore delle donne.

Non si tratta di imposizione, ma di necessità e di scelta il più delle volte, così come è una scelta decidere di diventare genitori e sia essere padre che essere madri comporterà una certa dose di responsabilità.
Ma mettiamo un attimo da parte la questione coniugale e prendiamo ad esempio in considerazione la differenza salariale tra uomini e donne non sposati.
Qui ci torna utile Andrew Syrios, il quale in un articolo pubblicato per il Mises Insitute ci fa sapere che:

“Quando le donne mai sposate vengono paragonate a uomini mai sposati, il divario salariale non solo scompare, ma cambia. Già nel 1971, le donne che non erano mai state sposate sulla trentina hanno guadagnato un po’ più degli uomini. Nel 1982, le donne che non si sono mai sposate insieme hanno guadagnato il 91 percento di quello che hanno guadagnato gli uomini. Oggi, tra uomini e donne che vivono tra i ventuno e i trentacinque anni, non vi è alcun divario salariale. E tra uomini e donne single con un’istruzione universitaria di età compresa tra i quaranta e sessantaquattro anni, gli uomini guadagnano in media $ 40.000 all’anno e le donne guadagnano in media $ 47.000 all’anno”

E non è l’unico a dircelo, possiamo prendere in considerazione anche altri studi effettuati da professionisti che rivelano che questo gap è senza ombra di dubbio dovuto nella stragrande maggioranza dei casi alle diverse scelte fatte da uomini e donne durante la loro vita lavorativa.
Possiamo infatti prendere in considerazione uno studio della CONSAD Research Corp. per il Dipartimento del Lavoro degli Stati Uniti che scoprì che una volta controllate le variabili, c’era “un divario salariale adeguato al genere che oscilla tra il 4,8% e il 7,1%”.

Oppure, uno studio di June e Dave O’Neill per il National Bureau of Economic Research ha rivelato che “il divario di genere è in gran parte dovuto alle scelte fatte da uomini e donne in merito alla quantità di tempo ed energia spesa a una carriera“.
Di studi se ne possono prendere tanti altri, e tutti arriverebbero tranquillamente a confutare che questo divario possa essere determinato da una sorta di discriminazione sistematica da parte del lavoro nei confronti delle donne.

Detto ciò, però, vorrei arrivare a questo punto ad una mia conclusione: Indipendentemente se siamo uomini o donne, abbiamo il dovere di combattere ogni forma di discriminazione all’interno della nostra società. Ma rigettiamo l’idea di essere sistematicamente oppressi, in quanto soprattutto nella nostra società occidentale, nessun diritto è negato.

Se un uomo vuole essere segretario, che lo sia. Se una donna vuole puntare ad essere CEO, che ce la metta tutta per raggiungere i suoi traguardi.
Ma rigettiamo tutti insieme l’idea che di una sistematicità di questa discriminazione da parte del mercato, in quanto anche se esistesse, sarà il mercato stesso a fare la sua selezione naturale.
Superiamo gli stereotipi e prendiamoci la responsabilità delle nostre decisioni e delle nostre azioni, ma soprattutto, non invochiamo un aiuto statale per interventi che possono solo fare del male alla nostra economia. Cerchiamo l’uguaglianza, affinché le nostre scelte non siano dettate da nessun altro se non da noi e lavoriamo tutti insieme cercando di capire che non ci sono categorie più o meno oppresse, ma che tutti noi anche in maniera collettivista portiamo i nostri macigni sulle nostre spalle e solo la collaborazione tra di noi può portarci a ritrovare la felicità di cui abbiamo veramente bisogno.

Andiamo avanti, e a chi ci dirà d’ora in avanti che il sistema ci opprime, ricordiamo che il sistema siamo noi e che se siamo arrivati a lamentarci delle scelte che ogni giorno facciamo per realizzarci, allora il problema non va cercato certamente all’interno della società, bensì dentro noi stessi.

Perché si vive meglio negli Stati piccoli?

Dei dieci Paesi europei economicamente più liberi ben nove sono classificabili come Stati piccoli, per territorio o popolazione. L’unica eccezione è il Regno Unito. Lo stesso per le libertà civili: nove su dieci sono Stati piccoli, l’unica eccezione è il Portogallo. Per il PIL pro capite? Nove sono Stati piccoli, la Germania è l’unica eccezione. Sanità? Tutti e dieci Stati piccoli. Felicità? Ancora nove con l’eccezione dello UK. Inoltre, quasi nessuna di queste classifiche tende a classificare microstati come il Liechtenstein, che sappiamo avere un’economia molto libera.

Per quale ragione gli Stati piccoli primeggiano? Tanti direbbero – ti consiglio di leggere l’articolo linkato! – “perché sono paradisi fiscali che rubano agli stati sociali europei”, ignorando il fatto che spesso gli Stati che primeggiano sono quelli scandinavi: piccoli in popolazione – e a volte la popolazione nel determinare la “grandezza” in senso socioeconomico conta più della superficie – ma con forti Welfare State.

Le ragioni si possono desumere conoscendo il liberalismo. Già nell’Ottocento Alexis de Tocqueville faceva notare:

Nulla è più contrario dei grandi stati al benessere generale e alla libertà individuale […], se non vi fossero che i piccoli Stati e non i grandi, l’umanità sarebbe senza dubbio più libera e felice.

Alexis de Tocqueville

Sicuramente era un bastian contrario della sua epoca: un francese – cittadino del Paese che ha dato i natali allo Stato nazionale – che nell’epoca in cui si anelava l’unità d’Italia e di Germania criticava i grandi Stati. Ma la storia gli ha dato ragione.

Quali sono, in pratica, le motivazioni che rendono i piccoli Stati migliori di quelli grandi? Vediamolo assieme.

Meno autarchia e più libero commercio

I piccoli Stati tendono ad avere meno risorse sul proprio territorio rispetto a quelli grandi per ovvie ragioni. Quindi possono dipendere meno da sé stessi e devono per forza puntare sul commercio internazionale.

I grandi Stati, invece, possono in larga parte usare proprie risorse. Se ciò ad una prima analisi può sembrare una cosa positiva, in realtà non lo è: porta gli Stati a favorire il proprio anche quando è economicamente sconveniente, come nell’esempio dei minatori e della Thatcher.

La ragione è banale: a livello politico è impopolare far estinguere settori solo perché economicamente sconvenienti. Più uno Stato è grande più avrà settori da proteggere e quindi rallenterà la propria economia.

Più uno Stato è piccolo, invece, più questo Stato dipenderà dal libero commercio con Paesi lontani e vicini e dal mantenere buoni rapporti con loro. Questo Paese sarà più legato alle leggi del mercato e sarà in grado di creare più ricchezza in tal modo. Infatti secondo il Global Enabling Trade Report, in Europa, dei dieci Paesi più liberoscambisti otto sono piccoli.

Concorrenza (fiscale) più semplice

Secondo la narrazione mainstream la concorrenza fiscale è un male da limitare ma in realtà è un bene da incentivare. La ragione per cui negli ambienti europeisti di sinistra la si critica è che avvantaggia gli Stati efficienti, che sono praticamente sempre quelli piccoli. Voler risolvere i problemi dei grandi Stati vietando a quelli piccoli di funzionare bene è come avere una perdita in cucina e smettere di mangiare invece che ripararla: non ha alcun senso. Bisognerebbe invece chiedersi “perché il piccolo funziona?” e trarne lezioni anche per i grandi, come suggerisce il buon Giovanni Adamo II del Liechtenstein.

Se le unità statali sono piccole è più facile accedere a questa concorrenza. Basta spostarsi di pochi chilometri per avere condizioni fiscali più adatte alle proprie esigenze. Con Stati grandi ciò è molto più difficile, quindi hanno un minore incentivo a mettersi al servizio dei contribuenti e delle aziende e a efficientarsi in modo da avere un livello di servizi adeguato alla tassazione.

Ma concorrenza non vuol dire averla solo sulle tasse. Piccole unità territoriali – statali o sottostatali decentrate – possono concorrere anche nel tipo e nella quantità di servizi che forniscono. Si tratta del concetto espresso nel libro “Lo Stato nel Terzo Millennio” del già citato Principe del Liechtenstein e che provo a spiegare meglio qui.

Più decentramento

Una spiegazione sul sistema svizzero fatta dalle autorità svizzere

Sembra assurdo pensare che gli Stati piccoli decentrino di più di quelli grandi, in fin dei conti a trarre beneficio dal decentramento dovrebbe essere il grande, non il piccolo.

Eppure, dati alla mano, spesso sono i Paesi piccoli a decentrare meglio. Pensate al federalismo svizzero o al decentramento comunale del Liechtenstein. Oppure, come non citare il fatto che nei Paesi scandinavi il welfare sia, in larga parte, in mano a entità locali (quando non è in mano a privati come alcune scuole in Svezia)?

Sulla ragione sono giunto ad una teoria: gli Stati grandi hanno molte situazioni socioeconomiche sul proprio territorio e molte di esse hanno problemi. Viene spontanea la creazione di un “nazionalismo sociale” che chiede che “non esistano cittadini di serie A e di serie B” e propone un marcato intervento dello Stato, quasi sempre fallimentare, negli affari locali per “dare a tutti gli stessi servizi”.

Gli Stati piccoli tendono ad essere per loro natura più uniformi e quindi possono mettere l’efficienza prima di questa forma di nazionalismo sociale, dunque decentrando e avendo, alla fine, servizi migliori e una struttura più funzionale.

Democrazia migliore

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Landesgemeinde, un’antica forma di democrazia diretta ancora praticata in parte della Svizzera. Fonte Wikimedia Commons

Nove delle dieci democrazie migliori d’Europa sono piccoli Stati secondo il Democracy Index. Non è chiaramente un fatto a sé: se come abbiamo già mostrato in questi Paesi lo Stato è leggero e decentrato è abbastanza ovvio che la qualità della democrazia sarà maggiore rispetto ai Paesi dove lo Stato deve affrontare mille questioni e vince chi urla di più inventandosi la crisi del momento.

Comunque, in generale, gli Stati piccoli hanno una democrazia migliore anche per le proprie dimensioni: è più semplice che i rappresentanti siano vicini al cittadino – come ad esempio accade in Svizzera – e l’esercizio della democrazia diretta non ha i costi proibitivi che ha nei Paesi grandi.

Molti direbbero che la democrazia diretta è meglio non averla, ma così non è: sono i nostri Stati elefantiaci e mastodontici a non avere una struttura adatta ad essa. Nei due Paesi europei dove c’è la democrazia diretta ha prodotto ottimi risultati e ha responsabilizzato i cittadini nell’uso dei propri soldi.

Unioni migliori

Quando ho osato criticare l’Unione europea è arrivato uno stuolo di nazionalisti che avevano barattato il loro tricolore con una bandiera a dodici stelle a lamentarsi animatamente – in un comportamento che una persona, che per di più non condivideva il contenuto originale, ha saggiamente definito “grillismo europeista” – perché, per loro, dire che ci sono Stati che possono stare bene senza Bruxelles è una brutta bestemmia.

Un giorno scriverò un articolo sulle critiche all’attuale integrazione europea da un punto di vista liberale, ma proviamo un attimo a immaginare un’Europa composta da piccoli Stati.

Per gli Stati piccoli è parecchio difficile avere una forza militare degna di tal nome. Sarebbe quasi spontanea un’unione ai fini militari di questi Stati, come già spiegavo nell’articolo linkato nell’introduzione.

Anche a livello diplomatico gli Stati piccoli, con le dovute eccezioni, tendono a pesare poco. Un’unione sarebbe spontanea anche qui e, tra l’altro, Stati piccoli tendono a favorire la stabilità per poter commerciare liberamente rispetto a interessi partigiani.

Anche un mercato comune di beni, persone, capitali e servizi, con il limitato governo che esso richiede, verrebbe spontaneo: infatti Stati piccoli possono affidarsi molto meno ad una “autarchia interna”, anche per quanto riguarda i lavoratori, come mostrato nei punti precedenti.

Fin qui basta. Non c’è bisogno di accentrare la democrazia – cosa che rende i politici meno responsabili – né di limitarsi la concorrenza come provano a fare gli Stati oggi usando l’UE come un mezzo per dire agli altri dove comperare, arrivando agli assurdi della Francia e dell’Italia che sostengono posizioni diplomatiche diverse in Libia ma guai a loro se commerciano con Paesi diversi.

Essendo il libero scambio per gli Stati piccoli un bene questa Unione cercherebbe trattati vantaggiosi per tutti ma non avrebbe nulla da contestare se uno degli Stati commerciasse liberamente con altri Paesi ancora, finché coerente con la linea diplomatica comune.

Ecco, io preferirei mille volte un’unione come quella descritta rispetto all’UE che, nei fatti, per favorire alcuni Stati membri è molto unita dove potrebbe non esserlo e disunita dove un’unione sarebbe benefica per tutti.

Fonti e documenti utili

Mercato vs. Stato: perché la sanità sudcoreana sta surclassando quella italiana?

Questo articolo è stato pubblicato originariamente su Mises Institute.

Ormai tutti conosciamo la diffusione del COVID-19 in tutto il globo. Restrizioni al movimento sono in ogni dove, le persone vengono testate e si preparano alla possibile quarantena, preoccupandosi per il proprio lavoro e la famiglia. I grandi eventi sono cancellati e interi Paesi messi in quarantena.

In tutto questo si può comunque intravedere un esperimento naturale sul funzionamento delle sanità socializzate in queste situazioni. E pare che stia andando abbastanza male per loro: possiamo vedere l’esempio dell’Italia e della Corea del Sud. Al momento, 12/3/2020, l’Italia ha 15’113 casi mentre la Corea del Sud 7’869 (i dati sono riferiti al giorno in cui l’articolo originale è stato pubblicato su Mises – ndr) e i dati sudcoreani stanno crescendo con calma – circa 100 casi al giorno contro le migliaia dell’Italia. Corea del Sud e Italia hanno popolazioni simili ma la parte della Penisola Coreana sotto la sovranità di Seoul è circa 1/3 della Penisola Italiana.

Nonostante la chiusura quasi totale del Paese l’Italia sta vedendo un aumento vertiginoso di casi mentre la Corea, con un culto che diffonde volutamente la malattia, no, e sta guadagnando il ruolo di guida nella lotta contro COVID-19. Ci sono varie ragioni e non poche sono legate ai differenti sistemi sanitari.

Sanità sudcoreana

Anche se il governo sudcoreano ha un proprio sistema assicurativo in monopolio di Stato ciò non ha impedito lo sviluppo del mercato: ospedali e cliniche chiedono abitualmente ai pazienti più di quanto copra l’assicurazione statale e per questa ragione più di 8 coreani su 10 hanno un’assicurazione supplementare, che pagano circa 120$ al mese.

Il 94% degli ospedali sono privati con un modello a pagamento, senza sussidi diretti del governo. Tanti sono posseduti da università o da enti caritatevoli. Il numero di ospedali è cresciuto nettamente dal 2002, quando erano 1’185, al 2012, quando erano 3’048. Il risultato è che in Corea del Sud ci sono 10 posti letto ogni 1’000 abitanti, più del doppio della media dell’OECD e quasi tre volte di quelli che ha l’Italia, che ne ha 3,4. Questi ospedali, tra l’altro, fanno pagare significativamente meno di quelli americani, che per la cronaca richiedono un “certificato di necessità” del governo in molti Stati.

Sanità italiana

In Italia, invece, il Servizio Sanitario Nazionale copre praticamente tutto ed esistono solo copagamenti simbolici. I tempi d’attesa possono essere anche di qualche mese, specie per le grandi strutture pubbliche, mentre nelle piccole cliniche convenzionate possono essere più brevi.

Vari ospedali offrono delle opzioni di mercato dove il paziente paga a sue spese, ma pochi ne fanno uso. I servizi d’emergenza sono sempre gratis.

Tempi d’attesa e qualità sono decisamente peggiori nel Meridione del Paese, dove spesso gli abitanti vanno al Nord a curarsi. Sono alti i tassi di medici laureati in Italia che vanno a lavorare all’estero, con l’istruzione italiana che vorrebbe rispondere riducendo i posti in medicina nelle università. In Italia vi era carenza di personale sanitario ben prima dell’epidemia di COVID-19. Il numero di ospedali è inoltre in calo: dai 1’321 del 2000 ai 1’063 del 2017. I prezzi del SSN sono stati messi sotto quelli di mercato con l’obiettivo di risparmiare denaro, e i risultati si vedono.

Conclusione

Attualmente il sistema sanitario italiano è sotto enorme pressione a causa dell’epidemia di COVID-19 che sta gestendo, tant’è che in alcuni ospedali si è già scelto di curare prima i giovani e i sani. Molti parlano solo del pericolo dell’epidemia ignorando l’evidenza che racconta una storia diversa: sotto le sanità che si affidano al governo la situazione è peggiore che sotto le sanità che si affidano al libero mercato. La sanità sudcoreana ha una rete di sicurezza, ma è molto simile ad un sistema di puro libero mercato, sicuramente di del sistema attualmente vigente negli Stati Uniti d’America dove gli ospedali sono sottoposti a stretta regolamentazione del governo, spesso imponendo strette restrizioni sulle forniture che non fanno altro che aumentare i costi e diminuirne la disponibilità. Come risultato la Corea del Sud ha fatto ciò che l’Italia non è stata in grado di fare: gestire efficacemente un’epidemia senza chiudere il Paese.

Se gli Stati Uniti vogliono gestire effettivamente un gran numero di casi nelle grandi città dovrebbero seguire l’esempio sudcoreano e liberalizzare il mercato, non costruire un sistema monopolizzato di test sanitario che impedisce alle persone di essere testate. Ciò non risolverebbe subito il problema delle scelte passate, ma aumenterebbe sicuramente la capacità di risposta del sistema sanitario.

Pillola – la visione liberale della libertà

Poiché solo il liberalismo anglosassone convenzionalista ed evoluzionista costituisce una tradizione liberale omogenea e coerente con se stessa, è legittimo ricercare in esso il concetto liberale della libertà. Agire in questo modo significa però circoscrivere la propria ricerca in essa e non nella tradizione costruttivista continentale.

Questo comporta rifiutare la tipica distinzione continentale (ma soprattutto italiana, in cui il celebre Benedetto Croce indicava per “liberalismo” il liberalismo politico e per “liberismo” il liberalismo economico, terminologia che – intenzionalmente o meno – attribuisce chiaramente maggiore importanza alla dimensione politica della concezione liberale) tra liberalismo politico e liberalismo economico intesi da essa come scindibili.

Per la tradizione inglese, invece, i “due liberalismi” sono inseparabili. Ciò perché il ruolo del governo come agente limitato a imporre il rispetto delle norme di condotta generali (fulcro della tradizione inglese) toglie al governo il diritto/potere di internarsi in queste norme e coordinare e dirigere le attività economiche degli individui liberamente associati.

Se, al contrario, il governo avesse questo potere, esso sarebbe dotato di un potere arbitrario e discrezionale, il quale culminerebbe nel controllo economico quindi nella limitazione di tutte quelle altre libertà – di carattere anche non economico – che il liberalismo si propone di garantire come proprio principio. La libertà nella legge implica che gli individui siano anche economicamente liberi, poiché quando si controllano i mezzi economici si controllano, essenzialmente, gran parte dei mezzi attraverso cui gli individui giungono ai propri fini soggettivi.

Accettando quanto detto sopra, può apparire che tra le due correnti liberali sopracitate, sulla materia della libertà individuale, dunque anche del rispetto della libertà personale, sussista una differenza importante. Nell'”epoca d’oro” del liberalismo, libertà individuale significava in sostanza ciò che in storia delle idee viene denominata libertà negativa, ovvero libertà dalla coercizione arbitraria, quindi libertà da i governi illiberali.

Ma per degli uomini che vivono in società la protezione da tale coercizione significava comunque l’imposizione di un vincolo a tutti gli individui, di una limitazione che li privasse, quindi, di applicare coercizione sugli altri. La libertà di ogni individuo in una società avrebbe dunque potuto essere realizzata solo se la libertà di ciascuno non fosse andata oltre ciò che era compatibile con una eguale libertà per tutti gli altri.

La concezione della libertà da parte di un liberale, che dunque si conforma come libertà nella legge, richiede una legge che limiti la libertà di ciascuno allo scopo di garantire la medesima libertà a tutti (uguaglianza formale, isonomia). Dunque la libertà liberale non coincide con la “libertà naturale” o la “libertà spirituale soggettiva”, ma con una libertà eguale per ogni individuo quando è in società con altri individui, limitata dalle norme indispensabili alla garanzia di se stessa.

In questo senso il liberalimo è da distinguersi chiaramente dall’anarchismo e deve riconoscere che, se tutti devono essere liberi, la coercizione non può essere totalmente eliminata, ma solo ridotta al minimo indispensabile affinché un individuo o un gruppo di individui qualsiasi non possano esercitare oppressione a danno di un altro individuo o gruppo di individui.

Si trattava di una libertà entro una sfera limitata da norme conosciute che permetteva agli individui di non subire coercizioni, finché si fosse mantenuta appunto entro tali limiti. Violare queste norme avrebbe poi potuto significare la perdita di tale libertà garantita da coloro i quali si uniformavano ad esse.

Questa libertà, inoltre, poteva essere garantita solo a chi fosse in grado di osservare le norme intese a garantirla. Soltanto l’individuo adulto e sano di mente, interamente responsabile delle proprie azioni, era considerato legittimo fruitore di tale libertà. Per chi non fosse tale, come i minori e gli psicologicamente invalidi, sarebbero state applicate norme speciali di tutela della libertà.

Questa libertà che sarebbe stata valida solo in quanto esercitata da chi consapevole di sé li avrebbe anche resi, moralmente, responsabili della propria sorte. Ciò in virtù del fatto che il governo dovesse garantire la libertà di ogni individuo senza però intervenire nella sua sorte, nelle conseguenze delle sue azioni.

Questo “sistema” di governo era considerato eccelso per due motivi: primo, il governo avrebbe garantito il massimo vantaggio a tutti, secondo, utilitaristicamente, esso avrebbe spinto/incentivato ogni individuo a essere produttivo al massimo delle sue capacità in ogni sua particolare situazione, ovvero a dare il meglio di sé sempre, che avrebbe risultato in un maggiore benessere collettivo rispetto a qualsiasi diretto intervento del governo.

La concezione liberale della libertà è stata, storiograficamente, definita come negativa, e giustamente. Esattamente come la giustizia o la pace, essa si conforma come un bene in quanto assenza di male: la condizione di pace è un tale in quanto assenza di guerra, la condizione di giustizia è tale in quanto assenza di torto, la libertà è tale se considerata come assenza di coercizione arbitraria.

Si riteneva, però, che sarebbero divenuti disponibili maggiormente dei mezzi per raggiungere diversi fini privati: la libertà negativa, infatti, prevede l’assenza della maggior parte dei vincoli governativi alle attività dei privati individui, sebbene alcune funzioni essenziali di comune necessità fossero accettate come eccezione alla regola nel campo della realtà quotidiana (ex. esercito di difesa, misure cautelari per guerra o epidemie).

Ad ogni modo, nessun supposto vantaggio che l’intervento del governo avrebbe apportato nel campo sociale sarebbe stato circoscritto nel paradigma della libertà negativa liberale; questo sarebbe stato legittimo solo quando, appunto, circostanze strettissime l’avessero invocato.

Il declino di questa concezione di libertà, quindi dell’intero liberalismo, si può datare circa a fine Ottocento, quando essa è stata reinterpretata come libertà come disponibilità, dunque libertà positiva. Ciò ha comportato il declino del liberalismo non in quanto una qualche altra forza politica si è appropriata di tale definizione di libertà, che già esisteva ai tempi della teoria della democrazia radicale di Rousseau, ma in quanto essa è diventata, commettendo un enorme errore, la definizione della libertà liberale. Definizione che oggi è totalmente maggioritaria; lo Stato sociale è ormai una prerogativa di ciò che oggi viene definito “Stato liberale moderno”.