Sindacati, come hanno impoverito gli italiani

Dopo aver trattato alcuni aspetti estremamente coercitivi e violenti del mondo dei sindacati, in un precedente articolo, in questo affronterò una diversa problematica. Analizzerò gli effetti socio-economici provocati dalla mano del sindacalismo in Italia, effetti provocati dalle loro lotte per il bene (presunto) dei lavoratori.

Ci si chiederà: come mai giungo ad una conclusione così drastica? Obiettivo di questo articolo è spiegare perché i sindacati non possono agire efficacemente verso tutti i lavoratori. La conclusione probabilmente lascerà tutti un po’ perplessi, ma è ben rafforzata da dati di fatto e argomentazioni molto nette e chiare. D’altronde viviamo in un contesto in cui spesso ci si limita ad aspetti superficiali. Non entriamo nel vivo della questione, guardiamo la copertina senza leggere il libro.

Esistono dei lavoratori soddisfatti, indubbiamente, ma davvero possiamo dire che tutti i lavoratori possono considerarsi tali? Preciso che chi scrive è un lavoratore che vuole spiegare perché, da liberale, i sindacati non possano essere realmente dalla parte dei lavoratori. Nel corso del testo, come nell’articolo precedente, inserirò qualche altra citazione di Sergio Ricossa.

[…] (1972, ndr) Il nuovo contratto di lavoro dei metalmeccanici è un volume di oltre duecento pagine a stampa, quasi tutte incomprensibili. C’è l’operaio “comandato in trasferta in località malariche ufficialmente riconosciute” che ha diritto a una indennità speciale; c’è l’impiegato che ha una “ricaduta nella stessa malattia entro il periodo massimo di due mesi dalla ripresa del lavoro”, e ha una anzianità di servizio oltre i tre anni e fino a sei mesi anni compiuti al quale compete la conseervazione del posto per tredici mesi e mezzo, di cui quattro e mezzo a intera retribuzione globale e nove a metà retribuzione; c’è l’apprendista che a partire dal primo gennaio lavora 41 ore settimanali, ma riceve in pagamento una “quota aggiuntiva” di 171 secondi ogni ora lavorata; c’è il rappresentante sindacale autorizzato ad assistere alle operazioni di vendita (lire tremila) del testo del contratto all’operaio che non si avvale della facoltà, “evidenziata in un modulo illustrativo”, di rifiutare l’acquisto. C’è tutto, meno il buon senso.

Analizzando la nostra busta paga di ieri e di oggi, possiamo dire di aver avuto un qualche beneficio favorita dai sindacati? I contratti collettivi, con le varie retribuzioni previste, rappresentavano una vittoria sindacale. Una vittoria assurda se consideriamo che veniva esaltato quel becero slogan del “il Salario è una variabile indipendente”. Come se il salario fosse qualcosa di astratto, qualcosa che esula dal processo economico di un’azienda con lo scopo di non consentire ai datori di lavoro di fissare una retribuzione inferiore a quella prevista e sindacalmente concordata. Un mezzo di tutela ma completamente illiberale, in quanto impedisce a qualsiasi persona di poter accettare un salario inferiore. D’altronde la mia provocazione non sarebbe così strana. Non mettiamoci a fare i conti in tasca a qualcuno. Il datore di lavoro accetta questa situazione coercitiva, legittimata dallo Stato, proprio perché è consapevole che il sindacato ha il potere di non permettere ulteriori assunzioni in azienda. È paragonabile all’imporre un prezzo fuori mercato a qualcosa con il risultato che sarà molto difficile che questa possa essere consumata in una quantità maggiore o uguale rispetto ad una condizione svincolata da imposizioni. Quindi vale sia quando andiamo ad acquistare qualcosa con un prezzo impostato dallo Stato e vale anche nel caso del salario.

Tavola rotonda presso La Stampa: Luigi Macario, sindacalista della CISL, ripete la barzellette della variabile indipendente. “Non solo è vero che noi consideriamo la politica salariale una variabile indipendente, ma ciò è indispensabile se noi vogliamo lottare efficacemente. […] Dopo una lunga chiacchierata sulla mancanza di case popolari, gli scappa di dirmi che lui, vicino a Roma, in barba ai piani regolatori, si è fatta una villa con le agevolazioni statali per le cooperative.

In ogni caso, l’imposizione a tavolino del salario si è rivelata, soprattutto in Italia, un effetto boomerang. Per svariati motivi. In primo piano, imporre un salario, se porta benefici nel breve termine, risulta dannoso nel futuro. Come dimostrato dal fatto che i salari italiani sono pressoché stabili da più di 20 anni. Dato allarmante se consideriamo che il potere d’acquisto dei cittadini è stato notevolmente ridimensionato dall’aumento della tassazione. In secondo piano, creare un contratto così pieno di burocrazia ha costretto le aziende a ricorrere a contratti atipici che hanno danneggiato e danneggiano tutt’ora i nuovi lavoratori, come i giovani.

I sindacati non solo non aiutano i lavoratori nel suo complesso, ma aiutano solo nel presente e particolari categorie. I sindacati in Italia hanno sfruttato a proprio favore l’ossessione statalista verso le “aziende strategiche”, imponendo regole molto restrittive, spacciate nel nome della libertà dei lavoratori, nei settori metalmeccanici o aziende estremamente strategiche (secondo i governanti). Questo non si riferisce solo alla storia degli ultimi decenni, un esempio è Alitalia. Ci si è mai chiesti il perché, tra i vari motivi, Alitalia sopravviva sempre e comunque? Si provi a licenziare un dipendente Alitalia.

[…] (1970, ndr) Nel ’69 gli scioperi in Italia hanno causato la perdita di trecento miloioni di ore di lavoro. E’ un record, ma un record da poco. Poiché i lavoratori sono venti milioni, è come se in media ciascuno avesse scioperato un paio di giorni. Una epidemia di influenza costa assai di più. Secondo le statistiche, giù nel 1910. in piena bella époque, si scioperava così. E’ solo cresciuto il danno, perché oggi si produce assai di più, ogni ora che si lavora. E tuttavia il danno peggiore deve ancora venire: verrà nel prossimo futuro con l’inflazione, che i cedimenti ai sindacati e alla piazza provocheranno.

Il sindacato favorisce la disoccupazione e la diseguaglianza dei salari. Il mercato, come la ricchezza, si basa sullo spostamento dei capitali. Imporre coercitivamente un determinato salario, comporta che l’azienda dovrà porre un prezzo maggiore ai suoi prodotti e i clienti potrebbero ritrovarsi impoveriti da questa situazione. Quindi, il cliente otterrà qualcosa che poteva ottenere ad un prezzo più basso e il lavoratore possiede un reddito maggiore di quello che avrebbe dovuto avere. Impoverire qualcuno a favore di altri. Mi ricorda qualcosa.

I sindacati non vogliono la libertà dei lavoratori perché, in presenza di completa libertà, i lavoratori non avrebbero mai bisogno dei sindacati. La libertà dei lavoratori passa dal libero mercato, l’unica vera via al progresso, non dalla coercizione dei sindacati.

“Se i sindacalisti rispettassero davvero gli operai, gli farebbero dei contratti di lavoro comprensibili”

 

Chi è il liberalconservatore di oggi?

Oggi il termine “conservatore” è diventato quasi una parolaccia, “liberale” è un insulto, “liberista” non ne parliamo; al contrario “nazionalista” viene percepito come un titolo di encomio. Che fine hanno fatto però i liberalconservatori? Chi è il liberal conservatore?

Oggi il termine sembrerebbe una contraddizione, ma in realtà non lo è. Minoranza di una minoranza (i liberali), i liberalconservatori sono ritenuti ambigui proprio per la loro attitudine positiva verso il laissez-faire in economia e il conservatorismo relativo in alcuni cosiddetti valori, sebbene siano aperti alla cosiddetta “nuova generazione” dei diritti, senza dimenticare la centralità e l’unicità dell’individuo.

Nell’economia e nella società, il mercato è la loro guida. Sono tante le sfumature di liberalismo; le versioni occidentali non-anglosassoni, come evidenziato da Friedrich von Hayek, cercano disperatamente di tenersi alla larga dal liberalism, a cui si ispirano i movimenti del centrosinistra (e dalla ex Terza Via, in voga negli anni Novanta), che con John Locke o Adam Smith hanno poco a che fare.

Innanzitutto, quando si tenta di identificare i liberalconservatori c’è storicamente un’enorme confusione nei termini da utilizzare per definire la categoria. «Moderati, liberali, centristi: non sono sinonimi» ha scritto Angelo Panebianco (Corriere della Sera, 26 giugno 2019). Inoltre: «Un moderato è uno che non sopporta né le urla né le semplificazioni/banalizzazioni» (in questo senso, è avversario supremo dei demagogo-populisti di destra e di sinistra); «un moderato non è necessariamente un liberale: erano moderati (ma non liberali) quegli elettori della Democrazia Cristiana […] che accettavano come normale un livello di intrusione statale nella vita economica tale da suscitare la ripulsa dei (pochi) liberali allora in circolazione.»

In Italia il liberalismo non ha attecchito granché (non stupisce dunque l’assenza o quasi dei liberalconservatori), ma sebbene la cultura liberale sia poco studiata e applicata in diversi campi sociali, questo non vuol dire che non sia presente.

Ai margini della vita politica ed economica del paese, i liberalconservatori vanno distinti categoricamente dalla destra sociale (quella sì ben presente in Italia), che a livello economico ha sempre promosso ricette e formule, semplificando, para-socialiste. La destra (più o meno sociale) non è affatto mancata nell’Italia repubblicana e non è stata neppure tanto una minoranza (sebbene mai maggioranza).

Solo nella cosiddetta Seconda Repubblica ce ne sono state addirittura tre: una postfascista, corporativista, antiliberale, nazional-statista (l’ex Movimento Sociale, poi Alleanza Nazionale, oggi Fratelli d’Italia); una leghista, protezionista, localistica, secessionista, anti-nazionalistica prima (Lega Nord 1987-2012) e nazionalista e a tratti xenofoba poi (Lega 2013 oggi); una berlusconiana, confusamente colbertista, a parole liberale, vagamente post-democristiana, antistatalista, affaristica (Forza Italia 1994-2008, Popolo della Libertà 2008-2013, Forza Italia 2013-oggi?).

A sua volta, la destra (di nuovo, più o meno sociale) va distinta dal “conservatorismo”. Secondo Ernesto Galli della Loggia (Corriere della Sera, 1° ottobre 2016), «cultura conservatrice vuol dire identificazione ragionata con il lascito del passato, con gli edifici, il passaggio e i costumi di un luogo, l’attaccamento ai valori ricevuti […]; e poi senso delle istituzioni, considerazione non formale per i ruoli, i saperi, le competenze, rispetto delle regole.»

In tutto questo, c’è poco di liberale, ma un ponte primordiale con tale micro-universo politico lo aveva gettato nel 1972 nel Manifesto dei Conservatori Giuseppe Prezzolini, secondo cui «il Vero Conservatore si guarderà bene dal confondersi con i reazionari, i retrogradi, i tradizionalisti, i nostalgici, perché il Vero Conservatore intende “conservare mantenendo”, e non tornare indietro a fare esperienze fallite». In questo paradossale “progressisimo”, è vicino al liberale. Il conservatore può essere moderno e molto vicino a quest’ultimo (come ha spiegato proprio von Hayek). I due non sono incompatibili.

Una figura controversa nel mondo tradizionalista come Giovannino Guareschi scrisse ad Alcide De Gasperi sintetizzando bene alcuni elementi liberal-conservatori: «Siamo noi, […] noi cittadini liberi […] Noi che siam […] cristiani pur rifiutando sdegnosamente di metterci in testa papaline colorate, noi che sentiamo la necessità di una migliore giustizia sociale ma che mai accetteremo di fare alcunché di demagogico. Noi che per vivere dobbiamo lavorare duramente come l’ultimo dei proletari ma abbiamo l’orgoglio di essere borghesi. Noi che siamo per l’ordine ma che odiamo ogni tipo di dittatura. Noi che siamo per il trionfo dell’individuo ma non ammettiamo il divismo. Noi che abbiamo orrore della guerra ma che non ci siamo mai sottratti […] ai nostri doveri di cittadini […] Noi che sosteniamo il diritto di scioperare ma che non abbiamo scioperato mai […] Noi che vogliamo il trionfo dei nostri diritti ma ci preoccupiamo, prima di ogni altra cosa, di fare il nostro dovere.» (Il Candido, 1948, riportato da Bombardate Roma! di Mimmo Franzinelli).

Interessanti considerazioni su cosa sia un conservatore oggi – e quest’ultimo va conosciuto e studiato per differenziarlo dal liberale – le ha fatte Gian Enrico Rusconi nel suo Dove va la Germania?, in cui ha stabilito chiaramente le differenze tra il mondo conservatore e quello della destra (sociale): «Il conservatore sa che il cambiamento generale non può essere impedito: vuole dare forma a questo cambiamento. Il tradizionalista decide che tutto deve rimanere com’è. Il reazionario vorrebbe far tornare indietro la ruota del cambiamento. Il conservatorismo non conosce verità eterne, al contrario: […] difende oggi quello che ieri ha combattuto». Cosa che non è del tutto estranea all’immoderatezza, all’anticonformismo e all’effervescenza liberale.

A dispetto di quanto afferma chi lo identifica come populista, «il conservatore accetta la pluralità delle culture e la loro coesistenza. Quello di destra invece è un modo di pensare che mette al primo posto la (presunta) omogeneità del proprio gruppo, ed è indifferente verso le altre culture e forme di vita finché non interferiscono con la propria»; parliamo dei nazionalisti-populisti, o altrimenti detti, sovranisti. Profondamente collettivisti e, come tutti i collettivisti (di destra e di sinistra) – seguendo Ayn Randrazzisti.

Non da ultimo, continua Rusconi, «una differenza fondamentale tra conservatori e destra sta nel linguaggio. I conservatori sanno che molte delle loro richieste […] non trovano consenso maggioritario, ma non per questo recriminano parlando di “terrorismo” nei loro confronti o di “stampa bugiarda”, quando le loro opinioni non sono accolte. Un vero conservatore considera l’ordinamento liberale della società un valore in sé e la difesa più grande contro i tentativi autoritari.» Un conservatore è moderato individualista (lo è anche il liberale); un nazionalista è un estremista collettivista. I ponti tra liberali e conservatori ci sono. I liberalconservatori esistono.