Il Superbonus è il fallimento dello statalismo

Quello che è accaduto con il Superbonus rappresenta alla perfezione la morte economica dell’Italia e il fallimento dello statalismo.

Andiamo con ordine.

L’edilizia è una industria morente tenuta in stato vegetativo da una serie di bonus edilizi istituiti negli ultimi quindici anni. Questi bonus sono diventati via via più generosi: il bonus ristrutturazione al 36% e poi al 50%, l’ecobonus al 65%, il sismabonus al 75% e poi all’85%, il bonus facciata al 90% e infine il tristemente famoso Superbonus 110%.

Ciascuno di questi bonus è nato con un duplice obiettivo politico: far ripartire l’edilizia unendo una componente di “utilità sociale” che giustifica il contributo pubblico. E così l’ecobonus è motivato dall’efficienza energetica, il sismabonus dalla sicurezza sismica, il bonus facciate di Franceschini invece da una questione di pura estetica, per la quale abbiamo pagato il 90% dei lavori di abbellimento delle facciate con tinteggiature e cornicette.

Questi obiettivi politici sono sistematicamente stati mancati: in 15 anni gli investimenti con bonus edilizi sono stati irrisori, l’industria delle costruzioni è rimasta in un limbo tra la vita e la morte, e il contributo dato alla riqualificazione energetica, sismica ed energetica del patrimonio edilizio è vicino allo zero. È proprio per questo motivo che il Movimento 5 Stelle ha escogitato il Superbonus 110% nel suo Decreto Rilancio all’indomani della prima ondata pandemica.

Il provvedimento è stato dirompente: i cittadini, appreso che lo Stato avrebbe coperto l’intero importo dei lavori, non hanno esitato a cercare tecnici e imprese in grado di districarsi nel complesso impianto normativo del Superbonus. In due anni, lo Stato italiano si è impegnato economicamente per circa 60 miliardi di euro, una cifra pari a 2-3 finanziarie di medie dimensioni, e questo nonostante il sistema dei crediti di imposta abbia subito pesanti rallentamenti e blocchi ogni due mesi.

Tralasciando le questioni che hanno causato il tracollo del Superbonus, su cui pure ci sarebbe da ridere, proviamo a descrivere i motivi per cui questo provvedimento rappresenta la morte economica del Paese, almeno da un punto di vista liberale.

Ronald Reagan recitava una simpatica massima: “Se un’industria si muove tassala, se continua a muoversi regolamentala, se smette di muoversi sussidiala”.

L’industria delle costruzioni in Italia vive di sussidi statali da 15 anni, e l’unica soluzione che la politica è stata in grado di trovare consiste nell’aumentare la quota di incentivi in carico allo Stato. Nessuna parte politica, a destra e a sinistra, è in grado di esprimere un pensiero volto alla liberalizzazione del settore delle costruzioni, pesantemente condizionato da un apparato normativo mastodontico.

Le norme urbanistiche che oggi regolano la produzione edilizia sono state concepite negli anni ‘60, un periodo di boom demografico, economico ed urbano, ed erano volte a disciplinare il mercato, calmierando la speculazione edilizia. Oggi che viviamo in un periodo di stagnazione economica, quelle stesse norme stanno deprimendo ulteriormente la produzione edilizia.

La mentalità statalista però è così pervasiva che nessuna parte politica è disposta a proporre una deregulation strutturale. Finora hanno giocato sulle percentuali di agevolazione fiscale: togli il 65% e metti il 110%, togli il 110% e metti il 90%. È questo l’apice del pensiero liberale che possiamo aspettarci dalla politica italiana, centrodestra incluso? Si spera di no.

Dal punto di vista dei conti pubblici, effettivamente, lo scenario è inquietante: 60 miliardi di euro spesi per intervenire sul 3% delle abitazioni. E se si prova a misurare l’impatto sulla transizione ecologica ci si rende conto di quanto questo provvedimento sia diventato una macchina brucia-soldi: ipotizzando di aver dimezzato le emissioni CO2 di ogni edificio che ha beneficiato del 110%, e considerato che l’edilizia residenziale conta per il 10% delle emissioni totali dell’Italia, viene fuori che abbiamo complessivamente ridotto le emissioni nazionali circa dello 0,15%. Considerato che l’Italia è responsabile per meno dell’1% delle emissioni a livello globale, si lascia ai lettori il compito di calcolare di quanti gradi abbiamo abbassato le temperature globali spendendo 60 miliardi.

L’aspetto più oscuro della faccenda è però la fotografia del Paese restituita dal Superbonus: l’Italia appare un Paese fatto di case vecchie ed obsolete, i cui proprietari non hanno neanche una frazione delle risorse necessarie per gli adeguamenti strutturali ed energetici, e l’unico modo per far ripartire il settore dell’edilizia è che lo Stato debba coprire l’intero importo dei lavori. Roba che neanche in Unione Sovietica.

Insomma, il problema non è il 110%, il 90%, l’efficienza energetica. Il problema è il declino economico di una delle più grandi potenze industriali al mondo, dovuto al pantano burocratico e tributario a cui ogni attività produttiva è soggetta, e a una classe dirigente completamente assuefatta alle politiche stataliste. Quel che un tecnico di cultura liberale deve chiedere è che il governo tolga di mezzo tutto questo apparato enorme di sussidi, e abbia il coraggio di liberalizzare il settore delle costruzioni. Ciò consentirebbe agli investitori privati di rischiare i propri capitali per realizzare un vero rinnovo del parco residenziale italiano. Purtroppo, gli ordini professionali si uniscono alle richieste di sussidi e tutele da parte dello Stato.

Le nostre città sono cristallizzate da più di mezzo secolo in edifici antiquati che avrebbero bisogno non di un cappotto termico, ma di essere rasi al suolo e ricostruiti. I costruttori dovrebbero essere incentivati non tramite i sussidi, ma tramite dei bonus volumetrici (nuova cubatura) che servano a finanziare le operazioni immobiliari, immettendo così anche una grande quantità di nuovi appartamenti in zone dove c’è particolare richiesta, il che servirebbe a riequilibrare la curva di domanda e offerta, abbassando i prezzi esorbitanti che vediamo da un po’ di anni.

Il valore aggiunto di una operazione immobiliare è la cubatura aggiuntiva che è possibile realizzare: se le norme impediscono di creare una significativa quantità di nuovo volume, è normale che viene meno l’incentivo economico di mercato, e per questo lo Stato ha dovuto introdurre una serie di incentivi economici statali.

In sintesi, l’unica soluzione è lo sviluppo economico a trazione privata. L’Italia è diventata grande quando avevamo il coraggio di investire in modo spregiudicato: da un po’ di tempo abbiamo perduto questo coraggio, e ormai ci limitiamo a politiche di breve respiro volte a spostare da qui a lì un punto percentuale di spesa pubblica. È tempo di costruire l’Italia di domani, partendo da idee coraggiose e abbandonando una volta per tutte lo statalismo.

Gli ambientalisti vogliono regolamentare la tua vita

L’economia pianificata sta vivendo un’altra rinascita. I sostenitori della difesa dell’ambiente e gli anticapitalisti chiedono che il capitalismo venga abolito e sostituito con un’economia pianificata.

Altrimenti, sostengono, l’umanità non ha alcuna possibilità di sopravvivere.

In Germania, un libro intitolato “Das Ende des Kapitalismus” (La fine del capitalismo) è un bestseller e la sua autrice, Ulrike Herrmann, è diventata ospite regolare di tutti i talk show. L’autrice promuove apertamente un’economia pianificata, anche se in Germania è già fallita una volta, come ovunque sia stata tentata.

A differenza del socialismo classico, in un’economia pianificata le aziende non vengono nazionalizzate, ma possono rimanere in mani private. Ma è lo Stato a stabilire con precisione cosa e quanto produrre.

Non ci sarebbero più voli e veicoli privati. Lo Stato determinerebbe quasi tutti gli aspetti della vita quotidiana: ad esempio, non ci sarebbero più case unifamiliari e a nessuno sarebbe permesso di possedere una seconda casa. Le nuove costruzioni sarebbero vietate perché dannose per l’ambiente. La terra esistente verrebbe invece distribuita “equamente”, con lo Stato che deciderebbe quanto spazio è appropriato per ogni individuo. Il consumo di carne sarebbe consentito solo in via eccezionale, perché la produzione di carne è dannosa per il clima.

In generale, le persone non dovrebbero mangiare molto: 2.500 calorie al giorno sono sufficienti, dice Herrmann, che propone un’assunzione giornaliera di 500 grammi di frutta e verdura, 232 grammi di cereali integrali o riso, 13 grammi di uova e 7 grammi di carne di maiale.

«A prima vista, questo menu può sembrare un po’ scarno, ma i tedeschi sarebbero molto più sani se cambiassero le loro abitudini alimentari», rassicura la critica del capitalismo. E poiché le persone sarebbero uguali, sarebbero anche felici: «Il razionamento sembra sgradevole. Ma forse la vita sarebbe addirittura più piacevole di oggi, perché la giustizia rende le persone felici».

Queste idee non sono affatto nuove. La popolare critica canadese del capitalismo e della globalizzazione, Naomi Klein, ammette che inizialmente non aveva un interesse particolare per il cambiamento climatico. Poi, nel 2014, ha scritto un corposo tomo di 500 pagine intitolato “This Changes Everything: Capitalism vs. the Climate“.

Perché è diventata improvvisamente così interessata all’ambientalismo?

Prima di scrivere questo libro, l’interesse principale della Klein era la lotta contro il libero scambio e la globalizzazione. Lo dice apertamente: «Sono stata spinta a un impegno più profondo in parte perché ho capito che poteva essere un catalizzatore per forme di giustizia sociale ed economica in cui già credevo». Chiede un’economia attentamente pianificata e linee guida governative su «quanto spesso guidiamo, quanto spesso voliamo, se il nostro cibo deve essere trasportato in aereo per arrivare a noi, se i beni che compriamo sono costruiti per durare… quanto sono grandi le nostre case». L’autrice ha anche suggerito che il 20% più abbiente della popolazione dovrebbe accettare i tagli maggiori per creare una società più equa.

Queste citazioni – a cui si potrebbero aggiungere molte altre affermazioni simili nel libro della Klein – confermano che l’obiettivo principale degli anticapitalisti come Herrmann e Klein non è migliorare l’ambiente o trovare soluzioni per il cambiamento climatico.

Il loro vero obiettivo è eliminare il capitalismo e instaurare un’economia pianificata e gestita dallo Stato. In realtà, questo comporterebbe l’abolizione della proprietà privata, anche se tecnicamente i diritti di proprietà continuerebbero ad esistere. Perché tutto ciò che rimarrebbe è il titolo legale formale di proprietà. L'”imprenditore” continuerebbe a possedere la sua fabbrica, ma cosa e quanto produce sarebbe deciso unicamente dallo Stato. Diventerebbe un manager dipendente dello Stato.

L’errore più grande che i sostenitori dell’economia pianificata hanno sempre commesso è stato quello di credere nell’illusione che un ordine economico potesse essere pianificato sulla carta; che un’autorità potesse sedersi a una scrivania e proporre l’ordine economico ideale. Tutto ciò che sarebbe rimasto da fare sarebbe stato convincere un numero sufficiente di politici a implementare l’ordine economico nel mondo reale. E’ brutto da dire, ma anche i Khmer Rossi in Cambogia la pensavano così.

L’esperimento socialista più radicale della storia, che ebbe luogo in Cambogia a metà e alla fine degli anni ’70, fu originariamente concepito nelle università di Parigi. Questo esperimento, che il leader dei Khmer Rossi Pol Pot (chiamato anche “Fratello 1”) chiamò “Super Grande Balzo in Avanti”, in onore del Grande Balzo in Avanti di Mao, è particolarmente rivelatore perché offre una dimostrazione estrema della convinzione che una società possa essere costruita artificialmente su un tavolo da disegno.

Oggi si sostiene spesso che Pol Pot e i suoi compagni volessero attuare una forma pura di “comunismo primitivo” e il loro governo viene dipinto come una manifestazione di irrazionalità sfrenata. In realtà, ciò non potrebbe essere più lontano dalla verità. Le menti e i leader dei Khmer Rossi erano intellettuali provenienti da famiglie oneste, che avevano studiato a Parigi ed erano membri del Partito Comunista Francese. Due delle menti, Khieu Samphan e Hu Nim, avevano scritto tesi di laurea marxiste e maoiste a Parigi. In effetti, l’élite intellettuale che aveva studiato a Parigi occupava quasi tutti i posti di comando del governo dopo la presa del potere.

Avevano elaborato un dettagliato Piano quadriennale che elencava con precisione tutti i prodotti di cui il Paese avrebbe avuto bisogno (aghi, forbici, accendini, tazze, pettini, ecc.). Il livello di specificità era molto insolito, anche per un’economia pianificata. Ad esempio, si legge: «Mangiare e bere sono collettivizzati. Anche il dessert è organizzato collettivamente. In generale, aumentare benessere del popolo nel nostro Paese significa farlo collettivamente. Nel 1977 ci saranno due dessert a settimana. Nel 1978 ci sarà un dolce ogni due giorni. Poi, nel 1979, un dolce al giorno, e così via. Così le persone vivono collettivamente e hanno a sufficienza da mangiare; sono soddisfatte e felici di vivere in questo sistema».

Il partito, scrive il sociologo Daniel Bultmann nella sua analisi, «ha pianificato la vita della popolazione come su un tavolo da disegno, incastrandola in spazi e bisogni prestabiliti». Ovunque, giganteschi sistemi di irrigazione e campi dovevano essere costruiti secondo un modello uniforme e rettilineo. Tutte le regioni furono sottoposte agli stessi obiettivi, poiché il Partito riteneva che condizioni standardizzate in campi esattamente della stessa dimensione avrebbero avuto anche rese standardizzate. Con il nuovo sistema di irrigazione e le risaie a scacchiera, la natura doveva essere imbrigliata nella realtà utopica di un ordine completamente collettivista che eliminava le disuguaglianze fin dal primo giorno.

Tuttavia, la disposizione dei canali di irrigazione in quadrati uguali con al centro campi altrettanto quadrati portò a frequenti inondazioni, perché il sistema ignorava totalmente i flussi d’acqua naturali, e l’80% dei sistemi di irrigazione non funzionò, proprio come i piccoli altiforni da cortile non funzionarono nel Grande balzo in avanti di Mao.

Nel corso della storia, il capitalismo si è evoluto, così come si sono evolute le lingue. Le lingue non sono state inventate, costruite e concepite, ma sono il risultato di processi spontanei e incontrollati. Sebbene l’Esperanto, giustamente chiamato “lingua pianificata”, sia stato inventato nel lontano 1887, non è riuscito ad affermarsi come la lingua straniera più parlata al mondo, come si aspettavano i suoi inventori.

Il socialismo ha molto in comune con una lingua pianificata, un sistema ideato da intellettuali. I suoi aderenti cercano di conquistare il potere politico per poter poi attuare il sistema scelto. Nessuno di questi sistemi ha mai funzionato da nessuna parte, ma questo apparentemente non impedisce agli intellettuali di credere di aver trovato la pietra filosofale e di aver finalmente ideato il sistema economico perfetto nella loro torre d’avorio. È inutile discutere in dettaglio idee come quelle di Herrmann o di Klein, perché l’intero approccio costruttivista – cioè l’idea che un autore possa “sognare” un sistema economico nella sua testa o sulla carta – è sbagliato.

 

(Traduzione dell’articolo Today’s Anti-Capitalists Want to Regulate What You Can Eat, How Often You Drive, and the Size of Your Home, Rainer Zitelmann, FEE.org)

 

Lettura consigliata: Il libero mercato e i suoi nemici, L. von Mises

 

 

La lezione dei fiorenti mercati neri a Cuba

Il mercato nero è sempre stato considerato una rete di scambio per beni e servizi considerati (generalmente) moralmente sbagliati. Cose come le droghe pesanti, la prostituzione illegale, le armi, sono le prime cose che vengono in mente quando si parla di mercato nero. Eppure, il mercato nero può funzionare per migliorare il benessere generale di una nazione.

Per dimostrarlo non vi è miglior esempio di Cuba.

Cuba è nota per la sua difesa dell’ideologia comunista e per aver attuato diverse politiche comuniste. Nel 2019, il governo cubano ha avviato una politica di controllo totale dei prezzi sui prodotti che i commercianti vendono sul mercato. E sebbene negli ultimi tempi il regime cubano sia stato più gentile nell’aprire settori specifici dell’economia (quelli che non incidono sul potere dei politici), la realtà è che nulla è cambiato in modo radicale.

Come molti sapranno, in un’economia in cui i prezzi sono controllati, c’è scarsità.

Come disse Henry Hazlitt:

La fissazione dei prezzi e dei salari è sempre dannosa. Non c’è un modo giusto di farlo. Non esiste un modo giusto di fare una cosa sbagliata. Non esisterà mai un modo giusto di fare qualcosa che non dovrebbe mai essere fatto. E’ impossibile definire un prezzo equo o un profitto equo o un salario equo al di fuori del mercato, al di fuori delle regole della domanda e dell’offerta.

E’ il caso di Cuba, dove di recente ci sono state proteste per la scarsità di cibo e medicinali; questo in un Paese il cui principale argomento di propaganda è la difesa dei lavoratori dai capitalisti e la tutela del benessere del popolo. Tuttavia, i politici che governano l’isola – in primis la famiglia Castro – non hanno le conoscenze economiche di base per sapere che se si pone un tetto ai prezzi di un prodotto, si può provocarne la scarsità.

Ma ciò che è ancora più dannoso è che, stabilendo dei prezzi fissi, l’economia che una volta funzionava e che poteva allocare le risorse in modo efficiente, smette di funzionare.

Ai cubani piace chiamare questo fenomeno “blocco interno” come risposta satirica a chi sostiene che la causa principale della distruzione economica di Cuba sia l’embargo. Sebbene l’embargo possa causare alcune difficoltà nelle operazioni di diverse microimprese sull’isola, non è la ragione principale per cui a Cuba c’è una diffusissima povertà. Il fatto che Cuba abbia chiuso l’anno scorso (2021, ndr) al 175° posto nell’indice di libertà economica dovrebbe essere sufficiente a fugare ogni dubbio.

Poiché le condizioni sull’isola sono peggiorate dopo il “trionfo” della rivoluzione cubana, i cubani hanno trovato una soluzione alla carenza di forniture e servizi: i mercati neri.

Questi mercati forniscono principalmente beni strumentali e di consumo venduti da burocrati corrotti – e qui si deduce che le carenze siano create di proposito – oppure importati sull’isola tramite voli commerciali. (Queste importazioni non sono considerate di contrabbando dalla legge, poiché sono il bagaglio dei clienti che arrivano all’aeroporto. Tuttavia, il loro scopo è quello di essere vendute in mercati non regolamentati).

Qualcuno potrebbe chiedersi quanto questi mercati siano accessibili ai consumatori o quanto siano visibili alle autorità. La verità è che ci sono guide che mostrano a stranieri e turisti dell’isola come accedere ai mercati neri.

Il commercio illegale è talmente diffuso a Cuba che l’unico modo che il governo ha avuto per contrastarlo è stato quello di iniziare a distribuire licenze ai commercianti. Ma anche se il governo ha regolamentato alcuni settori, la maggior parte del mercato nero a Cuba è ancora illegale.

I mercati neri sono cresciuti negli ultimi quattro anni grazie all’accesso a Internet su dispositivi mobili. L’introduzione di Internet nell’isola è stata ritardata da normative volte a monitorare e controllare rigorosamente ciò che i cubani caricano sui loro social media. Tuttavia, gli sforzi dello Stato per controllare l’uso di Internet sono pressoché inutili perché la maggior parte dei cubani utilizza applicazioni basate sulla crittografia del testo come Telegram, Signal o WhatsApp per acquistare online.

Prima della diffusione di Internet, gli scambi avvenivano localmente, a seconda della conoscenza dell’esistenza di acquirenti e venditori. Tuttavia, i mercati si sono evoluti notevolmente e alcune persone ora si recano in altre province per acquistare i prodotti. In circostanze normali, i venditori potrebbero spedire i prodotti, ma a Cuba è impossibile: il servizio postale è talmente corrotto che se qualcuno spedisce un articolo, questo viene rubato.

Nel portare oggetti da vendere sull’isola, i cubani non badano a limiti. La scarsità è così diffusa che manca persino l’ibuprofene. Dopo l’epidemia di Covid-19, la necessità di farmaci è aumentata al punto che i cubani che vivono fuori dall’isola trasportano farmaci e li vendono illegalmente. Nelle transazioni viene usato anche il Bitcoin a causa della svalutazione del peso. Steve Hanke ha dichiarato che lo scorso luglio l’inflazione cubana è stata dell’85% annuo.

Tuttavia, alcuni libertari come Martha Bueno hanno espresso preoccupazione per le piattaforme che i cubani utilizzano per queste transazioni. Queste piattaforme possono cambiare i Bitcoin dei cubani in una valuta digitale della banca centrale cubana (CBDC) chiamata MLC (“Moneda Libremente Convertible“). Questa moneta non ha alcun valore ed è stata creata dal governo cubano per raccogliere le valute straniere che le persone fuori dall’isola inviano ai loro parenti a Cuba. Per questo motivo, Bueno ha suggerito di utilizzare valute come Monero, meno tracciabili; in questo modo, nessuno può risalire a quando è stata effettuata la transazione o dove è avvenuta.

Cuba non sta passando a un’economia di mercato, ma i mercati neri sorti come risposta a normative dannose stanno avendo un’impatto positivo sulle vite dei cubani.

La crescita di questi mercati dimostra che l’interventismo statale nell’economia non è una soluzione, ma la causa della povertà.

Nel bene e nel male, anche gli stati totalitari hanno bisogno dei mercati per coordinare la produzione e l’allocazione delle risorse.

 

(Traduzione dell’articolo Cuba’s Bustling Black Markets Hold an Important Economic Lesson, Carlos Martinez, FEE.org)

 

Il Marxismo funziona solo come forza distruttrice

Le teorie di Karl Marx non sono mai state valide, ma hanno cambiato il mondo fomentando il malcontento verso lo status quo e promettendo un’utopia non ben definita che sarebbe sorta spontaneamente dalle ceneri del vecchio ordine.

Tra le sue argomentazioni vi sono:

 1. Il valore è dato dal lavoro socialmente utile.

2. Le società capitaliste sono divise in due classi: i borghesi e i proletari.

3. Lo scambio volontario è un gioco a somma zero: una delle due parti guadagna a spese dell’altra.

4. I capitalisti si appropriano del plusvalore dei beni prodotti dagli operai.

5. Gli operai nelle società capitaliste si impoveriranno sempre di più finché sarà necessaria una rivoluzione.

6. Gli operai in disaccordo con Marx soffrono di “falsa coscienza”.

Ma ognuna di queste affermazioni è falsa.

1. Il valore non è dato dal lavoro, ma dalla domanda. Il lavoro ha valore solo se produce beni e servizi che la gente desidera.

Una torta fatta di fango può richiedere la stessa quantità di lavoro di una torta di mele, ma nessuno vuole una torta di fango, quindi non ha valore. Inoltre, il valore cambia al variare di alcune condizioni. Ad esempio, anche se il loro “contenuto di lavoro” non è cambiato, le fruste dei cocchieri avevano molto più valore prima dell’invenzione dell’automobile.

Marx cercò di spiegare queste variazioni di valore con il concetto di lavoro “socialmente utile”, ma non fu mai in grado di definirlo o quantificarlo al punto da consentire ai pianificatori centrali di comprendere il valore di mercato di un bene o un servizio.

2. La società capitalista non è divisa in due classi. I proprietari di imprese e i dipendenti provengono da ogni ceto sociale.

3. Lo scambio volontario non è un gioco a somma zero. Tutte le parti coinvolte in uno scambio ne traggono vantaggio, altrimenti non accetterebbero lo scambio. Ciascuno ne trae vantaggio perché ognuno attribuisce un valore diverso ai beni scambiati. Il valore è soggettivo e non si basa su parametri oggettivi come “la quantità di lavoro socialmente utile”.

4. Il plusvalore di un bene (in pratica, il prezzo di vendita di un bene meno il costo per la sua produzione) serve a pagare:

– L’inventore.
– L’imprenditore (che è spesso, ma non necessariamente, l’inventore stesso) che intercetta la domanda del mercato per quel bene e decide di produrlo.
– Il possessore di un capitale che finanzia l’impresa.
– Finanziatori che trovano altri investitori disposti a rischiare le loro risorse per avviare l’impresa.
– Dirigenti e quadri che coordinano il lavoro degli operai.
– I pubblicitari che pubblicizzano il prodotto affinché venga conosciuto dai consumatori.
– Gli operai stessi.

Marx ignorava gran parte di questi fattori produttivi e il valore aggiunto che i consumatori ottengono acquistando il prodotto. Se non ottenessero alcun vantaggio dall’acquisto, non l’acquisterebbero mai.

Pretendendo che gli operai della fabbrica (insieme a tutti gli impiegati che Marx considerava parte del proletariato piuttosto che della classe dirigente oppressiva) ricevessero tutto il valore del prodotto, Marx chiedeva che nessun altro responsabile dell’esistenza del prodotto fosse pagato e che i consumatori non guadagnassero acquistandolo.

In effetti, il suo “mondo perfetto” era quello in cui nessuno avrebbe avuto un incentivo a inventare, produrre o acquistare qualcosa.

5. I lavoratori nelle economie di mercato non si stanno immiserendo. Al contrario, stanno molto meglio rispetto ai lavoratori di economie meno libere. Secondo i nostri standard, gli operai ai tempi di Marx lavoravano in condizioni terribili per salari miseri. Tuttavia, il lavoro in fabbrica e la retribuzione erano spesso molto migliori rispetto alle alternative disponibili all’epoca.

Il libero mercato ha reso le persone così produttive che hanno bisogno di lavorare meno ore per sfamare se stessi e le proprie famiglie. Invece di lavorare sei o sette giorni alla settimana per 12 ore, nei Paesi in cui vige il libero mercato le persone lavorano in genere cinque giorni a settimana per 7 o 8 ore al giorno. Inoltre, i bambini non hanno più bisogno di lavorare per sopravvivere.

Il libero mercato ha anche aiutato la parità di genere. In un mondo in cui la forza bruta è il fattore più importante per la sopravvivenza, le donne sono cittadini di seconda classe. Ma in una società di libero mercato, dove il cervello conta più dei muscoli, le donne sono più che in grado di competere con gli uomini.

Marx sosteneva che il socialismo avrebbe messo i mezzi di produzione nelle mani dei lavoratori, ma è stato il capitalismo a mantenere la promessa. Oggi i “mezzi di produzione” si traducono sempre più spesso in conoscenze e competenze di un lavoratore, nel suo computer e nel suo cellulare e, forse, in una stampante 3D.

Marx immaginava un’utopia socialista in cui «poter pescare le mattina, cacciare il pomeriggio, allevare il bestiame la sera e fare teoria critica la notte, a piacimento, senza mai diventare un pescatore, un cacciatore, un allevatore o un pensatore». Ancora una volta, è stato il capitalismo a trasformare il sogno di Marx in realtà, aumentando a tal punto la produttività che le persone non devono più trascorrere tutte le loro ore di veglia alla ricerca di cibo.

6. I lavoratori che non sono d’accordo con Marx non soffrono di “falsa coscienza” né sono stupidi. Comprendono i propri interessi molto meglio dei pianificatori centrali o dei teorici.

 

Conclusione

Marx non ha mai compreso, o si è rifiutato di comprendere, gli incentivi creati da una società basata sul principio «Ognuno secondo le sue capacità, a ognuno secondo i suoi bisogni». L’attuazione di questo principio crea società in cui le persone hanno capacità minime e bisogni massimi.

Marx non ha mai definito cosa sarebbe un “sistema marxista” o come funzionerebbe. Si rifiutò di descrivere la sua utopia socialista in termini più dettagliati perché riteneva che dovesse emergere spontaneamente e che sarebbe stato sciocco cercare di prevedere la forma finale in cui si sarebbe evoluta.

Allo stesso tempo, però, riteneva che per realizzare il socialismo fosse necessaria una rivoluzione. Ma la rivoluzione implica una brusca rottura dello status quo. Piuttosto che permettere a un nuovo ordine socio-economico di emergere naturalmente, quindi, Marx voleva installare con la forza il suo nuovo ordine sulle ceneri del vecchio, un nuovo ordine che si rifiutava di definire perché doveva emergere naturalmente.

Di conseguenza, il “marxismo” era una specie di secchio vuoto in cui i rivoluzionari potevano versare ciò che volevano.

In pratica, i marxisti si sono dimostrati molto più bravi a distruggere società e culture che a crearne di nuove di successo. Il marxismo funziona solo nella misura in cui rimane una forza distruttrice.

 

(Traduzione dell’articolo Marxism Remains Relevant Only as a Destructive Force, Richard W. Fulmer, FEE.org)

 

Lettura consigliata: Smascherare il Marxismo, L. von Mises