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Articolo 81: perché ignoriamo il principio di responsabilità?

Se c’è una cosa che da sempre stimola il dibattito politico e istituzionale italiano è la Costituzione. Non esiste partito politico che non si sia forgiato almeno una volta della retorica del celebre articolo 1: “la sovranità appartiene al popolo!” dicono. E fanno bene.

Peccato che spesso – oltre a dimenticare “i limiti e le forme” che la carta traccia – ci si dimentichi che la nostra Costituzione getti anche le basi per una buona condotta fiscale da parte dello Stato.

Quanti di noi hanno mai sentito nominare nei dibattiti dei salotti televisivi italiani l’articolo 81? Quanti di noi conoscono effettivamente cosa rappresenti questo articolo?

Ecco.

Secondo tale articolo:

 

lo Stato assicura l’equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio, tenendo conto delle fasi avverse e delle fasi favorevoli del ciclo economico. […] Il contenuto della legge di bilancio, le norme fondamentali e i criteri volti ad assicurare l’equilibrio tra le entrate e le spese dei bilanci e la sostenibilità del debito del complesso delle pubbliche amministrazioni sono stabiliti con legge approvata a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera, nel rispetto dei princìpi definiti con legge costituzionale.”

Per Luigi Einaudi «costituisce il baluardo rigoroso ed efficace voluto dal legislatore allo scopo di impedire che si facciano nuove o maggiori spese alla leggera, senza avere prima provveduto alle relative entrate».  

Ma perché è così importante avere un quadro costituzionale ordinato in materia economica? 

Deve essere chiara una cosa. L’ampio grado di discrezionalità che ha guidato la politica economica italiana si è rivelato un disastro. 

La legittimazione dei disavanzi e delle politiche economiche in deficit spending, seguite all’abbandono di una prospettiva costituzionale in materia economica e fiscale hanno condotto alla crescita incontrollata della spesa pubblica e del debito pubblico. Per corroborare questa osservazione basta ricordare come il debito, dopo il definitivo abbandono del principio costituzionale qui discusso, sia passato nell’arco di soli quattro anni (1989-1993) dal 98% del Pil a quasi il 120%.

Ad oggi, la spesa pubblica vale il 47% del Pil del paese e ha toccato la cifra mostruosa di 900 miliardi di euro. Per quanto riguarda il debito pubblico (132% del PIL), invece, siamo preceduti soltanto da USA, Giappone e Francia (parlando in termini numerici e non in rapporto al Pil, che per i suddetti stati è maggiore di quello italiano, ndr).

La possibilità da parte dello Stato di spendere a credito, nota argutamente Antonio Martino, aggiunge un altro metodo di “finanziamento” delle spese a quelli ortodossi ed ostacola la valutazione del costo effettivo delle decisioni di spesa. 

Le conseguenze drammatiche sono il drastico aumento della spesa pubblica «irrazionale» e delle asimmetrie nella percezione di costi e benefici della suddetta.  Aumenta quindi l’incentivo a spalmare i benefici su un ristretto gruppo di cittadini a scapito dell’intera collettività. 

Così facendo, infatti, si evitano tensioni interne grazie alle pressioni dei pochi grandi beneficiari e alla consistente negligenza di una collettività danneggiata da oneri di dimensioni ridotte. 

Ricordando un celebre pamphlet di Bastiat, poi, la seconda asimmetria è causata dal rapporto tra i benefici visibili (ciò che si vede, direbbe il filosofo) e i costi invisibili (ciò che non si vede, poiché non avvertiti direttamente dalla collettività).

La mancanza di una prospettiva costituzionale in maniera fiscale, inoltre, è anche la causa della preoccupante e costante instabilità politica del nostro Paese. 

Ogni governo dura in media 10 mesi, e alle prospettive di una breve vita si affianca la necessità di produrre un beneficio immediato a scapito della collettività del domani. Il deficit spending, insomma il modus operandi di chi ritiene come Keynes che “nel lungo periodo saremo tutti morti”, si traduce praticamente in una imposta sulla collettività del futuro.

E per cosa? Per rallentare ulteriormente la crescita della spesa privata produttiva.

Il disavanzo pubblico sottrae di fatto fondi all’investimento privato (i cittadini che richiedono un prestito sanno di doverlo ripagare, di conseguenza cercheranno di investire i capitali nella maniera migliore) per indirizzarli al consumo, dissipando la capacità produttiva del paese intero.

Le numerose spese per trasferimenti e per gli investimenti delle aziende passive pubbliche, infatti, non apportano nessun miglioramento alla produttività nazionale. Senza considerare poi il rallentamento degli investimenti causato dalla paura dell’aggiunta in futuro di imposte per ripagare il debito spropositato o i relativi e sempre crescenti interessi (proprio quelli che i cultori dell’avanzo primario italiano ignorano).

È così importante, dunque, che i governi seguano una rigida disciplina fiscale e che non si lascino guidare dalla discrezionalità? Decisamente. 

Solo in questo modo, attraverso una norma costituzionale e un vincolo all’arbitrio nelle decisioni di spesa, ci si può aspettare di creare una finanza e un governo responsabili.

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