Intervista a Giancristiano Desiderio

Per il blog dell’Istituto Liberale ho avuto il piacevole compito di intervistare Giancristiano Desiderio, scrittore e giornalista campano, che ha da poco pubblicato un interessante saggio dal titolo “Croce ed Einaudi. Teoria e pratica del liberalismo”, edito da Rubbettino.

Partendo da quest’opera cercheremo poi di allargare il nostro sguardo su tematiche che il Prof. Desiderio ha dimostrato di avere a cuore e che toccano da vicino la sensibilità dei liberali. Infine, ci soffermeremo su alcuni aspetti filosofici del liberalismo di Benedetto Croce, punto di riferimento del nostro autore, confrontati con quelli di un altro grande pensatore liberale del Novecento.

Prof. Desiderio, il suo libro dà una lettura nuova e per così dire “conciliante” di quello che lei chiama discussione e non polemica tra Croce ed Einaudi. Ci spiega cosa l’ha spinta a soffermarsi su un tema già così ampiamente dibattuto in passato?

Sì, è vero: quando si parla di Croce ed Einaudi si nomina sempre la loro polemica e si sottolinea il momento del disaccordo piuttosto che la loro intesa. E’ probabile che ciò dipenda dalla storia politica del liberalismo italiano.

Infatti, se si leggono direttamente le fonti, ossia gli scritti dei due grandi uomini di pensiero e di azione, si potrà constatare che il filosofo e l’economista discussero con l’evidente intenzione di intendersi a partire da un problema comune: la difesa della libertà dalla mentalità autoritaria e totalitaria dei tempi che vivevano e contro la quale lottavano.

In realtà, io non do una lettura accademica del rapporto tra Croce ed Einaudi e privilegio il problema della loro discussione. Si può notare, inoltre, che mentre l’amicizia tra Croce e Gentile porterà a incomprensioni e inimicizia, la collaborazione tra Croce ed Einaudi ci consegna una vera cultura della libertà di cui il nostro Paese oggi ha un disperato bisogno.

Il sito che pubblicherà questa intervista ha un’impostazione liberista, per la quale le libertà economiche rappresentano un presupposto fondamentale per la libertà “tout court”. Ci può chiarire il ruolo del liberismo nella concezione di Benedetto Croce? Perché ritiene scorretto riscontrare in questa visione un’apertura allo statalismo?

Il problema di Croce era questo: pensare la libertà con la libertà stessa per non farla dipendere né da un’economia, né da uno Stato, né da una chiesa, né da un partito. La sua “religione della libertà” è proprio questo: la libertà come fondamento della storia umana.

La critica che muove al liberismo è la critica che muove a chi pensa lo stesso liberismo non come scienza economica o azione utile ma come sistema morale. Ciò che Croce vuole evitare, e Einaudi esprime il suo accordo, è una sorta di marxismo capovolto.

Croce, del resto, è il pensatore dell’Utile e non potrebbe mai pensare ad una soppressione del pensiero economico che, invece, si limita a concepire nella sua distinzione. La “religione della libertà” è l’inverso dello statalismo e funziona come una messa in fuorigioco o di decostruzione della mentalità totalitaria.

Lei ricostruisce nel suo libro il rapporto di reciproca stima e fratellanza tra Croce ed Einaudi, quasi a sottolineare i notevoli punti di convergenza rispetto a quelli di divisione. Entrambi inoltre si impegnarono attivamente per la ricostituzione del Partito Liberale. Guardando alla realtà di oggi, non pensa che l’Italia abbia dimenticato la lezione e l’esempio di questi due grandi uomini?

Einaudi e Croce collaborarono tanto sul piano della conoscenza e dello schiarimento dei concetti di liberismo e liberalismo quanto sul piano dell’azione e della rifondazione politica del partito liberale. Che la cultura italiana abbia dimenticato la loro lezione è indubbio: in Italia prevale una mentalità statalista sia nella vita economica che in quella culturale e morale.

Sia per Croce che per Einaudi la cultura era indipendente ed autonoma rispetto alla sfera dello Stato. Einaudi arrivò a non votare l’articolo 33 della Costituzione che prevede l’esame di Stato e Croce è il maggior rappresentante della cultura libera ossia non organizzata in istituzioni. In fondo, si tratta di due eretici a tutti gli effetti soprattutto perché furono non solo antifascisti ma anche anticomunisti.

Personalmente consiglio a tutti la lettura della sua opera, specialmente a giovani liberali (e non liberali naturalmente) che vogliono approfondire le motivazioni etiche del liberalismo, le quali prevalgono in entrambi i protagonisti del Suo libro.

Per chi volesse approfondire segnaliamo inoltre l’ultimissima fatica del nostro autore “Vita intellettuale e affettiva di Benedetto Croce II.  Parega e Paralipomena”, edito da Aras, secondo volume della biografia di Benedetto Croce.

Ma veniamo ora a un’ altra opera che lei ha pubblicato qualche anno fa e che proprio in questi giorni di emergenza coronavirus appare di stringente attualità: “L’individualismo statalista. La vera religione degli italiani”. Ci può spiegare in breve la Sua tesi e se eventualmente crede che questo atteggiamento sia riscontrabile anche nella maniera in cui l’Italia ha affrontato il COVID-19?

La tesi è semplice: nella cultura italiana il cattolicesimo e il comunismo hanno toccato l’anima più profonda degli Italiani perché hanno offerto l’idea che lo Stato possa essere una sorta di istituzione salvifica che chiede l’anima per salvare il corpo. Ma si tratta di uno scambio illecito perché Parigi non vale e non può valere una messa.

Se si è disposti a fare questo scambio ci si priva degli anticorpi necessari – la cultura, il pensiero, il giudizio, la conoscenza, la storia, la scienza – per limitare il potere e si coltiva l’idea perversa di usarlo indebitamente per i propri fini.

Si tratta di miopia perché non solo non si ottengono vantaggi propri ma si corrompe anche lo stesso potere statale che così risulterà assente nel momento della necessità. Non è forse accaduto proprio questo nell’esperienza tragica dell’epidemia del Covid-19?

Un altro tema che da sempre La appassiona è quello della scuola e dell’istruzione. Ci spiega il suo punto di vista sul sistema educativo italiano?  Quale deve essere a Suo parere la principale preoccupazione di un liberale nell’affrontare il tema della scuola?

Se si vuole capire qualcosa della crisi irreversibile della scuola italiana è necessario rivolgersi alla cultura liberale. Luigi Einaudi sapeva molto bene che la riforma più importante da fare era l’abolizione del valore legale dei titoli di studio per ridare nuovamente valore proprio allo studio, alla scuola, all’università.

Il valore legale del diploma e della laurea sono un autentico veleno che è stato immesso nel sistema dell’istruzione. Quando nel 1969 si uscì dal sistema della scuola di Gentile rimase in piedi proprio il valore legale del diploma che indirizzò, come una sorta di bussola nascosta, la scuola di massa.

Oggi è necessario ripensare la storia della scuola italiana. Se lo si facesse si vedrebbe che non c’è altro da fare che passare dal modello della “scuola di Stato” al modello della “scuola libera”. La differenza è chiara: mentre il primo modello, con il valore legale dei titoli di studio ossia con il monopolio, vieta il secondo modello, il secondo modello ossia la scuola libera non elimina il primo ossia la scuola di Stato.

La riforma da fare, dunque, è nei fatti stessi, è un’esigenza della stessa storia della scuola italiana. Inoltre è anche, come si dice, a costo zero! Basterebbe sostituire gli esami di licenza con gli esami di ammissione e lasciare gli esami di Stato solo come esami extra-scolastici per le abilitazioni. Perché non lo si fa? Per due motivi: per ideologia e per ignoranza.

Per concludere vorrei affrontare un tema più specificatamente filosofico: diversi studiosi hanno riscontrato nell’idea crociana di “accadimento” una sostanziale affinità con l’idea hayekiana di “ordine spontaneo”. Lei concorda? E sempre restando su Hayek, l’austriaco individua nell’abuso della conoscenza, ovvero nella “presunzione fatale” di possedere un sapere superiore e totale sulla realtà, la causa delle maggiori tendenze illiberali e totalitarie. Lei ritiene che anche in questo si riscontra un’importante affinità con i presupposti gnoseologici del pensiero di Benedetto Croce?

Le affinità tra Croce ed Hayek sono molte e sono giustificate soprattutto dalla cultura storica. L’accadimento non è il frutto di un progetto o di una conoscenza elaborata da una mente o da un professore o da un computer ma è il risultato delle libere azioni degli uomini che nessuna conoscenza può predeterminare.

Le forme di totalitarismo sono sempre il frutto di un abuso della conoscenza con cui si tenta di giustificare il potere. La filosofia di Croce è per sua intima natura anti-totalitaria perché la sola forma di conoscenza umana è semplicemente il giudizio storico.

Perché alla fine dei conti il potere va limitato? Perché nessuna conoscenza può giustificare un potere senza limiti. Ma è proprio quanto cercano di fare le ideologie che ritengono di possedere una conoscenza straordinaria con la quale, come diceva Marx, risolvere l’enigma della storia. Con questa presunzione fatale negano la libertà per garantire sicurezza. Ma è un inganno perché se si nega la libertà non si avrà mai sicurezza. La classica trappola per topi.

Intervista a Carlo Lottieri

Per il blog dell’Istituto Liberale abbiamo il piacere d’intervistare Carlo Lottieri, professore universitario, autore di diversi saggi legati alle tematiche liberali, libertarie e federaliste, cofondatore dell’Istituto Bruno Leoni.

A partire dalla sua opera “Credere nello Stato?” lei ha sempre espresso una profonda sfiducia nei confronti dello Stato moderno. Più volte e da più parti è stata decretata la morte di questo istituto storico, che però sembra ostinatamente voler sopravvivere ai tempi e addirittura tenta di riaffermarsi tramite i sovranismi. Che evoluzione prevede da questo punto di vista?

Penso che ci potremmo trovare presto al termine di tale vicenda tragica, che ha segnato in profondità la vita di tante popolazioni. Dopo avere generato guerre e povertà per secoli, lo Stato potrebbe collassare da un momento all’altro, come avvenne ai regimi comunisti dell’Europa centro-orientale, lasciando il posto a istituzioni di altra natura, più compatibili con un ordine sociale basato sulla libertà.

Nel corso degli ultimi secoli la sovranità di matrice monarchica (e post-medievale) ha trionfato soprattutto grazie all’ incontro tra il potere e le masse, tra il dominio nelle mani di pochi e la vasta opera di coinvolgimento “partecipativo” destinata a mobilitare il popolo.

Il recente ritorno in scena del nazionalismo – si pensi alla costante esibizione delle bandiere nazionali e alla ripetuta esaltazione della mitologia collettiva – punta proprio a rafforzare il dominio di alcuni uomini (i governanti) su tutti gli altri (i governati).

La difficoltà cruciale con cui ora gli Stati devono fare i conti, però, sta nel fatto che sono sull’orlo del fallimento. In qualche caso, come in quello italiano, essi sarebbero già stati spazzati via senza il sostegno di quanti temono le possibili conseguenza di questo collasso: basti pensare alle politiche monetarie della BCE.

Al di là della nostra specifica situazione, insomma, gli Stati si sorreggono vicendevolmente e questo conferisce una qualche stabilità all’ordine internazionale, che dopo Westfalia si basa appunto su di loro.

Se quindi è sicuramente ingenuo pensare che lo Stato sia già finito e sconfitto, soprattutto in considerazione del fatto che gli apparati pubblici dispongono ancora di larga parte delle nostre risorse e libertà, è pur vero che i fallimenti a catena causati da spesa pubblica, assistenzialismo, grandi opere, fiscalità da rapina e controllo sociale possono da un momento all’altro preludere al crollo delle istituzioni presenti.

Che giudizio dà lei al processo di unificazione europea ed alle prospettive future dell’Unione? Non crede che l’UE rischi di diventare sempre più simile ad uno Stato sovranazionale retto da una burocrazia tecnocratica autoreferenziale, ancor più distante dalle realtà locali?

L’Unione è stata fatta dagli Stati a loro immagine e somiglianza. Con il processo di unificazione europea, la logica intimamente autoritaria dei poteri sovrani si ritrova quindi proiettata a livello continentale, anche perché molti comprendono come gli Stati siano inadeguati a far fronte alle sfide del presente e immaginano che si possa risolvere tale problema con una sorta di super-Stato continentale.

In realtà, dovremmo capire che – fatta salva l’importanza della libertà degli scambi economici (mai del tutto acquisita) e dei movimenti delle persone – un accresciuto ruolo dei poteri comunitari può solo moltiplicare le tensioni interne alla UE.

Per evidenti ragioni, una scelta politica gradita a un’area può essere in contrasto con le aspirazioni, gli interessi e le preferenze di un’altra. Il risultato è che se l’Europa delle libertà e dei commerci può favorire l’integrazione delle diverse società, l’Europa di Bruxelles e della politica tende a moltiplicare gli odi, i risentimenti, le tensioni.

L’ultima crisi del Covid-19 ha visto una risposta da parte delle pubbliche autorità a colpi di decreti ministeriali e ordinanze locali che hanno fortemente limitato le libertà dei cittadini, spesso scavalcando addirittura i limiti costituzionali. Ci siamo resi conto di come sia semplice aggredire le nostre libertà, di come siamo in balìa del decisore pubblico. Cosa può fare da argine ad una deriva legislativa di questo tipo?

Da varie settimane ripeto che durante l’emergenza del Covid-19 abbiamo perso le nostre libertà solo perché, nei fatti, ci erano già state sottratte prima. In sostanza, Giuseppe Conte ha potuto assumere la decisione di confinarci in casa e bloccare le nostre relazioni personali e lavorative perché, nei fatti, da molto tempo il diritto era già stato trasformato nella semplice decisione di quanti dispongono della facoltà di decidere.

Si può discutere in merito alla mancanza di stile di un politico che non ha nemmeno inteso predisporre un decreto legge (che avrebbe dovuto discutere con i membri del governo, sottoporre all’esame del Presidente e poi portare in aula), ma il cuore della questione è altrove. Se un tempo il diritto era qualcosa di esistente nella realtà e da scoprire, poi è diventato qualcosa da fare e che qualcuno, di tutta evidenza, può costruire a sua discrezione.

Se fossimo entro un ordine giuridico, infatti, ci sarebbe stato detto quello che non dovevamo fare perché lesivo dei diritti altrui. Aveva senso, ad esempio, impedirci di avvicinarsi agli altri (specie in spazi chiusi). Invece ci è stato detto quello che dovevamo fare: ci è stato imposto di restare nella nostra abitazione e spesso ci è stato imposto di non lavorare, sulla base di un’arbitraria distinzione tra attività essenziali e non essenziali che rinvia alla pretesa dei politici di conoscere – perché di questo si tratta – quale sia l’essenza dell’uomo.

Grazie all’emergenza del virus abbiamo visto meglio quello che già era avvenuto: il fatto che abbiamo soltanto le libertà che, dall’alto, ci vengono concesse dai governanti.

Di recente, insieme ad altre personalità, lei ha lanciato il progetto denominato Nuova Costituente. Ci può spiegare di cosa si tratta e quali sono i vostri obiettivi?

L’obiettivo è quello di realizzare il più ampio consenso possibile intorno all’idea di lasciarsi alle spalle la Costituzione attuale e dare vita un’assemblea dei territori, che elabori una nuova carta. Questo testo dovrebbe essere poi approvato non solo dagli italiani nel loro insieme (ciò che non avvenne nel 1948…), ma da ognuna delle comunità regionali e diventerebbe la costituzione solo dei territori che maggioritariamente l’approvano.

L’intento primo consiste nel minare la logica della sovranità. Si tratta di passare dall’imposizione autoritaria al libero contratto, dalla costrizione all’adesione. Le parole chiave del manifesto sono tre: libertà, democrazia e federalismo.

Se l’obiettivo è quello di allargare gli spazi di libertà, la strategia è quella della massima concorrenza tra territori e perché questo sia possibile si è deciso di usare la democrazia – che storicamente ha spesso agito contro le libertà dei singoli – per pretendere che tutto sia messo ai voti. Votare sui confini, nella nostra prospettiva, significa aprire la strada a un futuro di libertà crescenti.

Il federalismo e l’indipendentismo sono sempre stati temi a lei cari.  Crede che il liberalismo sia necessariamente legato a un decentramento politico e alla promozione delle autonomie locali?

La teoria liberale punta a tutelare le libertà dei singoli e sul piano degli strumenti confida molto sulla libertà di scelta e sulla concorrenza. Nel libero mercato, quando ho bisogno di acquistare un’autovettura sono assai più tutelato se non esistono ostacoli dinanzi a chi vuole produrre e commerciare questi beni.

È chiaro, di conseguenza, che soltanto entro un ordine di entità politiche indipendenti e di limitate dimensioni le imprese, gli individui e i capitali possono poter optare tra una realtà e l’altra. In un universo con tantissime giurisdizioni in competizione tra loro, ogni realtà deve dare il meglio di sé, per farsi attrattiva.

Se è sufficiente spostarsi di pochi chilometri per trovare una tassazione più modesta e servizi di qualità migliore, ne discende che i governanti sono costretti a tenere in alta considerazione le esigenze dei cittadini. Non fosse altro che per non perdere la “base imponibile”.

In fondo, mentre il costituzionalismo storico ha mostrato tutti i suoi limiti (oggi le costituzioni per lo più non proteggono i diritti, ma li conculcano), la moltiplicazione delle giurisdizioni crea un quadro istituzionale che fa emergere buone regole e comportamenti rispettosi.

Lei stesso ha definito la sua una “concezione elvetica di libertà”, riferendosi naturalmente alla Svizzera e al suo ordinamento interno. Che lezioni potrebbe trarre l’Italia da questa esperienza storica ancora oggi così viva?

Nonostante la Svizzera moderna sia nata all’indomani della costituzione del 1848, che fu fatta dopo la repressione militare di un tentativo di secessione, essa mantiene al proprio interno molti tratti dello spirito originariamente federale e pattizio. In particolare, in Svizzera vi è una forte localizzazione dei poteri e delle competenze, con il risultato che entro quel contesto il parassitismo è molto più difficile e la qualità dei servizi pubblici è molto alta.

In fondo, le comunità elvetiche hanno mantenuto una serie di tratti che erano comuni a larga parte d’Europa, dato che in passato l’organizzazione sociale era molto più localizzata e soltanto a partire dal trionfo degli Stati nazionali si è proceduto a cancellare questo vivo sentimento dell’autogoverno.

Per giunta, la realtà svizzera ci mostra come la comunità sia stata spesso originata dalla condivisione: da proprietà collettive attorno alle quali nascevano assemblee chiamate a gestire tali commons. Se si votava, insomma, non era per decidere dei diritti e dei beni altrui, ma per amministrare ciò che era comune. Questo ci aiuta pure a comprendere come tutta una serie di competenze che oggi attribuiamo allo Stato potrebbe essere assai meglio affidate a realtà private, ad associazioni, a forme di solidarietà mutualistica.

In questo senso, la Svizzera ci aiuta a capire che l’alternativa tra libertà e Stato non ha nulla a che fare con l’opposizione tra egoismo e socialità, e che anzi solo la difesa della proprietà e dell’autonomia dei soggetti sociali può permettere una vita sociale di ampio respiro.

[INTERVISTA] Il liberalismo visto dal Professor Lorenzo Infantino

Per il blog dell’Istituto Liberale ho il grande piacere e l’onore di intervistare Lorenzo Infantino, Professore di Filosofia delle Scienze Sociali presso la LUISS Guido Carli e autore di numerose pubblicazioni tradotte in inglese e spagnolo. La sua più recente fatica, Cercatori di Libertà, è stata pubblicata dall’Editore Rubbettino.

D. Professor Infantino, grazie mille per la Sua disponibilità. Noi tutti le siamo grati per il suo instancabile lavoro di divulgazione del liberalismo di stampo evoluzionistico che dai moralisti scozzesi arriva fino alla Scuola Austriaca di Economia. Ci parli del “legislatore onnisciente” e di come David Hume e Adam Smith abbiano sferrato un attacco mortale sul piano gnoseologico a questo mito.

R. Duncan Forbes ci ha lasciato degli scritti molto acuti sull’Illuminismo scozzese. Nella sua introduzione a una ristampa del noto saggio di Adam Ferguson sulla “storia della società civile”, Forbes ha esattamente scritto che il “più originale e audace coup della scienza sociale dell’Illuminismo scozzese” è costituito dall’abbattimento del mito del Grande Legislatore.

Forbes si è in realtà giovato di un’affermazione di Émile Durkheim, secondo cui nulla ha ritardato la nascita della scienza sociale più dell’idea che attribuisce l’origine delle istituzioni alla volontà di un qualche legislatore, “dotato di un potere quasi illimitato”. Nella sua opera, Durkheim non è stato sempre fedele a ciò che dalla sua affermazione discende. Ma quanto sostenuto da Forbes con riferimento all’Illuminismo scozzese coglie nel segno. E Friedrich A. von Hayek lo ha riconosciuto.

Per citare i due maggiori esponenti della cultura scozzese del Settecento, direi che nel repertorio di David Hume e di Adam Smith si trovano gli strumenti con cui colpire mortalmente il mito del Grande Legislatore. Con la legge che porta il suo nome, Hume ha mostrato che non è logicamente possibile derivare proposizioni prescrittive da proposizioni descrittive. Bisogna perciò separare i fatti dai valori.

Non c’è una scienza del Bene e del Male, perché le regole morali “non sono conclusioni della ragione”, bensì il prodotto inintenzionale dei rapporti di convivenza. Com’è noto la legge di Hume sta alla base della libertà di coscienza. E nessun Leviatano, “Dio mortale” che pretenda di esprimere la volontà del “Dio immortale”, può imporci alcuna credenza.

Da parte sua, Smith si è soffermato su quello che possiamo oggi chiamare teorema della dispersione della conoscenza. Le nostre conoscenze di tempo e di luogo sono infinite; e, di conseguenza, non sono centralizzabili. “Nella propria condizione locale”, ognuno sa più di ogni legislatore, senato o assemblea. È un’idea che è stata letteralmente copiata da Edmund Burke e che, nel corso del Novecento, è stata posta da Hayek al centro della propria riflessione e, fra le altre cose, della critica all’economia pianificata.   

D. Ci può spiegare in che senso quello degli scozzesi è un liberalismo evoluzionistico?

R. Sir Friedrick Pollock ha scritto che Montesquieu, Burke e Savigny devono essere considerati dei “darwiniani prima di Darwin”. Ma tale appellativo spetta senza dubbio anche a Bernard de Mandeville, Hume e Smith. Attraverso il nonno Erasmus, Charles Darwin è stato influenzato da Hume. Egli è stato anche influenzato dalla lettura dei testi smithiani.

In ogni caso, tutti gli autori che ho appena citato hanno compreso, come farà successivamente Alexis de Tocqueville, che gli uomini sono ovunque soggetti alle stesse imperfezioni e alle stesse miserie. Si affermano coloro i quali adottano le norme sociali che meglio consentono la soluzione dei problemi della convivenza. L’esempio più chiaro è quello della divisione del lavoro.

Le popolazioni che hanno diviso il lavoro hanno realizzato l’allargamento dell’ambito della cooperazione sociale e incrementato il volume degli scambi. Hanno in tal modo conseguito un benessere a cui, in caso contrario, non sarebbero potuti pervenire. Quello degli autori che ho richiamato è un evoluzionismo di carattere culturale, in cui sopravvivono le norme e le istituzioni che maggiormente facilitano la cooperazione sociale. Nulla a che fare col darwinismo sociale, tristemente trasferito dalla biologia alle scienze sociali.

Nel mercato, ciascuno di noi paga ciò che sa fare peggio con quello che sa fare meglio. Se qualcuno non riesce efficacemente a svolgere il proprio compito, egli può occupare una diversa posizione, servire gli altri mediante una differente attività, abbracciando regole professionali più confacenti alle sue capacità e al suo impegno.

D. In che maniera e tramite quali figure la tradizione scozzese si ricollega alla Scuola Austriaca e all’individualismo metodologico?

R. L’evoluzionismo culturale e l’individualismo metodologico sono due aspetti della stessa realtà. Se si abbatte il mito del Grande Legislatore, il processo sociale è necessariamente ateleologico. Sappiamo che ci sarà un ordine sociale: perché il diritto, delimitando i confini fra le azioni, lo rende possibile.

E tuttavia non possiamo sapere quale ordine concretamente si realizzerà. Ossia: lo scambio dei mezzi fra gli attori è di carattere intenzionale, ma la cooperazione ai fini altrui è inintenzionale. E lo è anche il risultato finale, giacché esso non è il frutto della programmazione di una qualche mente ordinatrice. Nelle sue Untersuchungen, Menger ha rivelato i suoi debiti nei confronti di Burke e di Savigny. E ha criticato Smith.

Malgrado ciò, Hayek ha affermato che Menger ha fatto “rivivere” l’individualismo metodologico di Adam Smith. Possiamo afferrare le ragioni di tale diversità di vedute. Pur avendo tutti gli strumenti per respingere la teoria del costo di produzione (la teoria del valore-lavoro ne è una versione), Smith ha fatto a essa delle concessioni. Com’è noto, Menger è stato uno degli artefici della cosiddetta “rivoluzione marginalista”.

È così accaduto che, nel giudicare Smith, si è concentrato sulle concessioni smithiane alla teoria del costo di produzione. Ma ciò lo ha tenuto lontano dal filo che tiene assieme i vari scritti di Smith e che è costituito dalla teoria delle conseguenze inintenzionali. Il che è quanto maggiormente rileva. Condivido pertanto la posizione di Hayek.

D. Hayek è forse il principale esponente del Liberalismo nel Novecento, un vero gigante del pensiero, premio Nobel per l’Economia nel 1974. Qual è secondo Lei il suo più originale contributo alla teoria del liberalismo?

R. Non devo fare alcuno sforzo. Lo stesso Hayek ha dichiarato di ritenere “Economics and Knowledge” il suo più originale contributo alla teoria economica. Basando la sua critica agli schemi dell’equilibrio economico generale sulla divisione (dispersione) della conoscenza, Hayek ha gettato una potente luce sul significato della concorrenza come processo di esplorazione dell’ignoto e di correzione degli errori. E ciò gli ha consentito di farci comprendere che, senza libertà individuale di scelta, non è possibile la crescita della nostra razionalità.  

D. Lei ha avuto modo di definire l’ordine spontaneo hayekiano come un “ordine senza piano”. Michael Oakeshott, riferendosi alla celeberrima “the road to serfdom” di Hayek, ha mosso la seguente critica: A plan to resist all planning may be better than its opposite, but it belongs to the same style of politics”. Si sente di difendere Hayek da questa critica?

R. Hayek non ha bisogno di essere difeso da me. Il contributo che egli ha dato alla comprensione della dinamica dei processi sociali lo pone molto al di sopra di ogni piccola disputa. Se teniamo conto di quanto Hayek ha in particolare scritto contro l’abuso della ragione, sulla formazione dell’io e sull’ordine sensoriale, l’affermazione di Oakeshott mi sembra del tutto fuori luogo.

Hayek non ha mai sostenuto la necessità di opporre alla pianificazione centralizzata un piano diversamente concertato. Egli ha semplicemente opposto la libertà individuale di scelta, capace di mobilitare conoscenze e risorse altamente disperse all’interno della società. 

D. Lei è sempre stato molto critico nei confronti della distinzione Liberismo-Liberalismo di Benedetto Croce.  In che maniera possiamo evitare, però, che il liberalismo sfoci in una forma di morale utilitaristica?

R. Bisogna capire che cosa intendiamo per morale utilitaristica. Fra le cose importanti che Hayek ci ha portati a comprendere, c’è l’esigenza di delimitare i confini fra le varie tradizioni di ricerca. Il liberalismo della tradizione scozzese-austriaca non ha nulla da spartire con l’utilitarismo di Jeremy Bentham e dei suoi seguaci.

La teoria delle conseguenze inintenzionali lo pongono su un piano molto diverso, in cui prevale il “governo della legge” e l’utilità delle regole. Si aggiunga che la polemica di Croce, sia detto con tutto il rispetto per il suo antifascismo, volta le spalle all’incontestabile fatto che, senza libertà economica, non è possibile nemmeno la libertà politica. Sin dal Seicento, ci sono stati pensatori che hanno richiamato la nostra attenzione su tale problema.

E Hayek ha sintetizzato nella maniera più efficace quello che possiamo chiamare teorema di François Bernier, il medico francese che, dopo avere visitato alcuni paesi orientali, ha mostrato come la base della libertà individuale di scelta risieda esattamente nella proprietà privata dei mezzi di produzione, perché “chi detiene tutti i mezzi determina tutti i fini”, ideali e materiali (Hayek).    

D. Se il prezzo della libertà è, come Karl R. Popper ha affermato, “l’eterna vigilanza”, quali sono secondo Lei le maggiori minacce alla nostra libertà dalle quali oggigiorno dobbiamo difenderci?

R. Dobbiamo difenderci dalla “democrazia illimitata”, regime politico contro cui già Aristotele ci poneva in guardia. Benjamin Constant ha chiarito molto bene la questione, allorché ha affermato che “l’astratto riconoscimento della sovranità popolare non incrementa di alcunché la libertà di ciascuno di noi.

Se attribuiamo a quella sovranità un’ampiezza che non deve avere, possiamo perdere la libertà nonostante quel principio o anche a causa di esso”. La “democrazia illimitata”, in cui le interferenze e le sistematiche prescrizioni del potere politico hanno il sopravvento sulla cooperazione sociale volontaria, coincide con quella che James M. Buchanan ha chiamato “democrazia in deficit”. Quest’ultima definizione ci dice molto anche con riferimento alle vicende del nostro Paese.

D. Infine una domanda più “personale”: lei è di origine calabrese come anche l’editore Rubbettino, al quale va tutta la nostra gratitudine per il grande lavoro di divulgazione dei testi del liberalismo di ieri e di oggi. Il Sud sembra non riuscire ad affrancarsi dall’idea che la salvezza e lo sviluppo derivino dall’intervento statale. Non ritiene che la mancanza di una diffusa cultura liberale sia tra le cause di questa forma mentis?

R. Come non è nato in Calabria, il liberalismo non è nato nemmeno in Italia. Quale che sia stata la sua origine, le popolazioni che lo hanno abbracciato hanno visto rapidamente cambiare le loro condizioni di vita. Senza attardarci su ciò, possiamo dire che il liberalismo ha cambiato il mondo, perché le sue regole hanno reso possibile la crescita economica e culturale.

Pertanto, gli uomini (l’ho già detto rispondendo a una precedente domanda) sono ovunque soggetti alle stesse imperfezioni e alle stesse miserie. Ma i modelli di vita adottati possono portare benessere e impedire fenomeni degenerativi della convivenza sociale. La nostra classe politica ha pensato che il recupero dei ritardi accumulati da alcune aree del Paese potesse avvenire tramite la logica redistributiva. Il che ha sicuramente allargato la sfera d’intervento dei poteri pubblici, ha alimentato clientele e ha impedito l’affermazione di una diffusa classe imprenditoriale, senza cui lo sviluppo economico e i correlati modelli di comportamento sono impossibili. È stato un naufragio.

Più Europa non è (sempre) uno slogan liberale

In Italia tutti gli appartenenti alla frastagliata galassia liberale sono convintamente filo-Unione Europea e spesso invocano più Europa come soluzione ai problemi che di volta in volta si discutono.

Cosa significa più Europa?

Analizziamo in breve cosa può significare l’invocazione di più Europa. Chi utilizza questo slogan sostiene in generale che debbano aumentare le materie direttamente gestite dall’Unione Europea, che la legislazione europea debba crescere e intervenire in ambiti sempre maggiori, che le istituzioni europee debbano coordinare e talora dirigere in maniera ancora più decisa le politiche degli stati membri.

Ebbene, tutto ciò non è esattamente in linea con alcuni dei principi fondamentali del metodo liberale.

L’Unione Europea è un’istituzione sovranazionale democratica con finalità politiche, quindi un potere pubblico a tutti gli effetti, per di più caratterizzato da un assetto burocratico enorme e costoso e da una limitata possibilità di controllo “dal basso”, viste le dimensioni continentali.

Una critica liberale

Chiedere più Europa è a mio parere un obiettivo discutibile che sovente si scontra con due principi fondamentali del Liberalismo: la limitazione del potere e la negazione del “punto di vista privilegiato”.

Il principio di limitazione del potere

Riguardo al primo punto, dire acriticamente più Europa equivale a dire più potere pubblico, più intervento pubblico dell’Europa sugli Stati (quindi indirettamente sui cittadini) o direttamente sugli individui. Sia ben chiaro, io non nego che questo sia necessario in qualche settore, anzi sono pronto anche a mettere la firma nero su bianco dove sarebbe necessario questo maggiore intervento.  Per esempio io ritengo che su Difesa, Politica Estera e Immigrazione la sovranità dovrebbe essere attribuita all’Unione Europea in maniera sostanziale.

Ma attenzione a dire più Europa sempre e comunque, perché ogni potere pubblico, anche e a maggior ragione quello europeo, deve essere limitato e controllato, altrimenti, per la legge di gravità del potere, diventa ipertrofico e liberticida.

Cosa succederebbe se creassimo una Unione Europea con grandi poteri in ogni campo e poi alle prossime lezioni europee vincessero forze nazionaliste e illiberali? Avremmo consegnato uno strumento potentissimo nelle loro mani.

Non cadiamo nel rischio di miticizzare l’Unione europea come fanno molti partiti dell’area liberal e socialista. Quando sento frasi del tipo “La nostra stella polare è l’Europa”, mi viene in mente il famoso “sol del avvenir” di Sovietica memoria e questo è solo un esempio della visione dogmatica e teleologica che circonda l’Unione Europea. Insomma, bisogna stare alla larga dall’ideologia secondo la quale ad ogni costo bisogna aumentarne le funzioni e i campi di intervento.

La negazione del “punto di vista privilegiato” sul mondo.

E qui mi ricollego al secondo punto: per tutte le forze Euro-fanatiche l’Unione Europea è diventata il nuovo “punto di vista privilegiato” sul mondo. Un punto di vista elevato, illuminato, infallibile che quindi non si discute ma che al contrario va recepito. Quante volte abbiamo sentito la frase “va recepita la direttiva europea n° 123”. Ormai ci siamo abituati e lo accettiamo acriticamente, come farebbe un funzionario sovietico con una direttiva proveniente “dall’alto”.

Invece un liberale ha il dovere di dubitare, ma soprattutto di rifiutare ogni pretesa di infallibilità e di possedere una conoscenza superiore, privilegiata sulla realtà. Non a caso Bruxelles è popolata da una tecnocrazia autoreferenziale e convinta della propria superiorità intellettuale.

L’UE sta diventando il nuovo “legislatore onnisciente” che tutto conosce, tutto decide e tutto risolve. E invece non è così, un liberale deve rifiutare con forza tale paradigma.

Una Unione “forte ma poco affaccendata”.

Una federazione “leggera” di stati europei serve, serve tantissimo, ce lo richiedono le sfide della modernità e della globalizzazione, ma bisogna evitare di beatificare l’UE ad ogni costo. Io lo dico forte e chiaro, W l’Europa, W l’Euro, abbasso i nazionalismi! Però il super-stato europeo burocratizzato, tecnocratico e illimitato questo no, non lo possiamo proprio accettare! Vogliamo una Europa che sia, come direbbe Roepke, “forte ma poco affaccendata”.

Recensione del libro “Le tasse invisibili” di Nicola Porro

“Le tasse invisibili” è il nuovo libro di Nicola Porro, uscito nelle librerie e su Amazon il 24 Ottobre 2019 edito da “La nave di Teseo”.

Dopo il successo della sua prima fatica ” La disuguaglianza fa bene”, il giornalista di origine pugliese si concentra su un tema più specifico ma di vitale importanza per un liberale, ovvero quello delle tasse e in particolare delle tasse nascoste.

Il ragionamento di Porro parte dalla constatazione che le tasse si siano trasformate nel tempo, o meglio che siano state camuffate o decorate dai politici italiani per renderle più accettabili, tanto da essere ormai ritenute in molti casi delle procedure indiscutibili.

Per Porro abbiamo imboccato un crinale che lentamente ma inesorabilmente ci porta alla tirannia organizzata tramite la leva fiscale, in cui l’individuo è al servizio dello Stato e non viceversa.

Fortissima è anche la denuncia verso i vari balzelli più o meno nascosti che colpiscono i nostri beni e le nostre attività, in un incontrollabile proliferare di imposizioni fiscali che hanno dato vita a un vero e proprio Far West della tassazione.

Imperdibile tutta la parte dedicata all’ipocrisia delle tasse per l’ambiente, le cosiddette tasse “green”: puro ossigeno liberale, fuori dal coro e di stringente attualità ( vedasi “plastic tax”, etc.).

Tutta l’opera è puntellata da interessantissime citazioni tra le quali spiccano quelle del grande liberale A. De Tocqueville e dei principali esponenti della scuola italiana di finanza di inizio Novecento.

Ciò che è maggiormente apprezzabile della scrittura di Porro, oltre al linguaggio semplice , comprensibile e diretto, è la costante attenzione ai motivi etici, oltre che economici, del pensiero liberale.

Ci opponiamo a queste nuove e insopportabili tasse poiché sono inefficienti ed ingiuste dal punto di vista economico, certo , ma prima di tutto perché esse costituiscono una limitazione alla nostra libertà individuale e perché consentono la proliferazione di quel flagello che è la tirannia burocratica.