No, Churchill non fu il cattivo della Seconda guerra mondiale

Traduzione dell’articolo “No, Churchill Was Not the Villain“, Andrew Roberts, The Washington Free Beacon, 6 settembre 2024


Lo storico Darryl Cooper, in un’intervista al programma di Tucker Carlson, ha sostenuto che Winston Churchillè stato il principale cattivo della Seconda Guerra Mondiale”, il che sarebbe interessante, addirittura scioccante, se la sua tesi non si basasse su un’ignoranza e un disprezzo per i fatti storici così sconcertanti da poter essere completamente ignorati.

Il primo punto della tesi di Cooper è che Churchill “è stato il principale responsabile del fatto che quella guerra sia diventata ciò che è diventata, qualcosa di più grande di un’invasione della Polonia”. Eppure, nel momento in cui Adolf Hitler invase il Belgio, l’Olanda e il Lussemburgo all’alba del 10 maggio 1940, Winston Churchill non era nemmeno primo ministro. A meno che il signor Cooper non voglia sostenere che dalla sua posizione di Primo Lord dell’Ammiragliato – il capo della marina britannica – Churchill sia stato in qualche modo in grado di costringere Hitler a scatenare la guerra lampo in Occidente, la sua prima argomentazione crolla al suolo.

Hitler aveva pianificato il suo attacco a sorpresa attraverso le Ardenne – la manovra del “colpo di falce” – con alti generali come Erich von Manstein, Erwin Rommel e Gerd von Rundstedt molti mesi prima che l’attacco avesse luogo. Sono loro, e non Churchill, i responsabili “del fatto che quella guerra sia diventata ciò che è diventata”. Inoltre, hanno anche la piena responsabilità dell’invasione immotivata della vicina Polonia, su cui Cooper e Carlson hanno taciuto.

Nell’aprile del 1939, quando Churchill non era nemmeno nel gabinetto, il governo britannico si impegnò a difendere la Polonia. Hitler, quindi, non aveva alcun motivo di sorprendersi quando la Gran Bretagna entrò in guerra con la Germania dopo l’attacco di quest’ultima alla Polonia.

L’errore successivo di Cooper è stato quello di attribuire la colpa dell’Operazione Barbarossa alla percezione di Hitler di una minaccia da parte di Stalin, o di un piano sovietico per catturare i giacimenti petroliferi rumeni, ignorando completamente la vera ragione, che era la pretesa nazista del Lebensraum – “spazio vitale” in Europa orientale, specialmente in Bielorussia e Ucraina. Ci si chiede se Cooper abbia mai letto il Mein Kampf, in cui le intenzioni finali di Hitler erano chiare. In un’altra parte dell’intervista afferma in modo stravagante che Hitler “non pensava più alla Russia come a un movimento comunista internazionale”, il che contraddice tutte le prove delle dichiarazioni pubbliche e private di Hitler prima di scatenare il Barbarossa.

Cooper ha poi affermato che i milioni di prigionieri di guerra sovietici che morirono in prigionia tedesca lo fecero perché la leadership nazista “non aveva piani per i prigionieri di guerra”, ignorando il fatto ovvio, ben supportato dalle fonti, che in realtà la morte di milioni di prigionieri di guerra sovietici era il deliberato piano nazista su cosa fare con loro.

Cooper continua a criticare Churchill per non aver accettato le proposte di pace di Hitler durante lo stallo dall’ottobre 1939 al maggio 1940, affermando che Hitler “non voleva combattere contro la Francia o la Gran Bretagna”. Tuttavia, a quel punto aveva già invaso la Polonia e non aveva alcuna intenzione di liberarla, per cui il casus belli originario rimaneva.

La guerra era finita e i tedeschi avevano vinto nell’autunno del 1940”, afferma Cooper. Non è così. I tedeschi avevano effettivamente costretto i britannici a lasciare il continente a Dunkerque nel giugno 1940, ma la gloria eterna e incancellabile di Churchill sta nel fatto che egli mantenne la Gran Bretagna in guerra fino a quando il male nazista non fu estirpato. La guerra in mare continuava, così come quella sul litorale nordafricano. La Grecia entrò nel conflitto nell’aprile 1941, attirando le forze tedesche a sud due mesi prima dell’Operazione Barbarossa. La battaglia fu persa dalla Gran Bretagna, è vero, ma la guerra era tutt’altro che vinta da Hitler.

Le lamentele di Cooper sul fatto che Churchill rifiutò le offerte di pace di Hitler non tiene conto del fatto che se la Gran Bretagna avesse accettato una pace ignobile nel 1940, Hitler sarebbe stato in grado di concentrare tutte le sue forze a est nell’invasione della Russia nel giugno 1941. Invece, fu costretto a mantenere il 30% della Luftwaffe e considerevoli forze terrestri nella parte occidentale dell’Europa. Fu forse il più grande calcolo strategico di Churchill, quello di un eroe piuttosto che “il principale cattivo della Seconda Guerra Mondiale”.

Quando Cooper incolpa Churchill di aver “demonizzato [Neville] Chamberlain” nel 1940, presumibilmente ignora il fatto che Churchill chiese a Chamberlain di entrare a far parte del suo Gabinetto di Guerra, dove lavorò a stretto contatto e cordialmente con lui, e poi tenne uno dei suoi più grandi discorsi come elogio a Chamberlain nel novembre 1940.

Churchill voleva una guerra”, ha affermato Cooper. “Voleva combattere la Germania”. Non è così. Dal momento in cui Hitler salì al potere in Germania, Churchill avvertì della minaccia che i nazisti rappresentavano per la pace mondiale e di quanto l’Occidente fosse debole militarmente, ma la sua soluzione fu il riarmo, non la guerra. Aveva combattuto in trincea nella Grande Guerra e aveva perso troppi amici per volere un’altra guerra, ma era disposto a subirla se le uniche alternative erano il disonore e la vergogna.

Cooper ha poi sostenuto, sempre senza alcuna prova, che Churchill voleva la guerra perché “gli interessi a lungo termine dell’Impero britannico erano minacciati dall’ascesa di una potenza come la Germania”. Ancora una volta, non è così. Tutti gli alti responsabili politici britannici riconobbero che le minacce all’Impero provenivano dal Giappone in Estremo Oriente, dall’Italia fascista nell’Africa nord-orientale e dalla Russia nel Vicino Oriente. La Germania non aveva confini contigui con l’Impero britannico. Un’occhiata a una carta geografica avrebbe mostrato a Cooper questo fatto.

Ce l’ho tanto con Churchill [perché] ha tenuto in piedi la guerra quando non aveva modo di combatterla”, ha detto Cooper. “Aveva solo bombardieri”. Non è così. La flotta britannica all’epoca era la più potente del mondo e nella Prima Guerra Mondiale aveva bloccato la Germania in modo estremamente efficace. L’Impero stava inoltre fornendo un numero enorme di uomini per la causa della libertà, tanto che l’India aveva fornito la più grande forza di volontari nella storia dell’umanità. I caccia della Royal Air Force avevano vinto la Battaglia d’Inghilterra nel settembre 1940, nove mesi prima di Barbarossa.

Cooper accusa poi Churchill di aver scatenato un bombardamento terroristico sulla Germania, che definisce “il più grande attacco terroristico della storia mondiale”. A parte il fatto che l’offensiva combinata dei bombardieri non fu un attacco terroristico ma una legittima offensiva militare, e come dimostrano i documenti del Dipartimento di Intelligence della RAF sul bombardamento della Foresta Nera e molto altro, fu intrapresa solo dopo che Hitler e Göring avevano già bombardato Varsavia, Rotterdam e Londra. “Perché l’avrebbe fatto?”, ha chiesto incredulo Tucker Carlson. “Per ridurre la produzione bellica tedesca” sarebbe l’ovvia risposta.

Cooper ha detto correttamente che Churchill e la Gran Bretagna hanno fatto il possibile per coinvolgere gli Stati Uniti nella guerra, ma non ha sottolineato che tutti questi tentativi sono falliti e che è stata la dichiarazione di guerra di Hitler agli Stati Uniti l’11 dicembre 1941, quattro giorni dopo Pearl Harbor, a far entrare gli Stati Uniti in guerra.

Cooper ha fatto quello che Carlson ha definito “il sorriso più ironico che abbia mai visto” rispondendo alla domanda ingenua di Carlson: “Qual era il motivo di [Churchill]?” nel voler combattere la Seconda Guerra Mondiale. Il vero motivo era che Churchill sapeva di dover estirpare il nazismo, ma secondo Cooper era perché “Churchill ha una storia lunga e complicata” che aveva bisogno di “redenzione” perché “Churchill era stato umiliato dalla sua performance nella Prima guerra mondiale”.

Questa psicologia da quattro soldi non sta in piedi. Churchill nella Prima Guerra Mondiale è stato l’uomo che ha preparato la Royal Navy per la guerra, che ha trasportato l’intera Forza di Spedizione Britannica in Francia senza perdere un uomo nell’agosto del 1914, che ha difeso Anversa durante un periodo cruciale nell’ottobre dello stesso anno, che ha intrapreso 30 raid di trincea nella terra di nessuno come tenente colonnello e che è stato il ministro delle munizioni che ha fornito all’esercito britannico gran parte dell’armamento necessario per vincere nel 1918. L’idea che il disastro di Gallipoli, di cui Churchill fu in ultima analisi anche se non l’unico responsabile, gli abbia fatto sentire il bisogno di una “redenzione” un quarto di secolo dopo è una sciocchezza.

Cooper descrive poi Churchill come “uno psicopatico”, il che sicuramente dice di più sul suo stato mentale che su quello di Churchill. Prosegue con l’accusa che Churchill “era un ubriacone”, cosa che non era, anche se certamente beveva molto. Churchill era in grado di reggere l’alcol e durante la Seconda Guerra Mondiale si è ubriacato una sola volta, un risultato sorprendente se si considera la pressione a cui era sottoposto.

Era molto infantile sotto molti aspetti”, afferma Cooper dell’uomo che ha scritto 37 libri, ha formato due governi, ha avvertito dell’imminente guerra fredda nel suo discorso sulla cortina di ferro, e che tutt’oggi è simbolo di leadership. Quando Cooper vincerà il Premio Nobel per la Letteratura, come Churchill, sarò più propenso ad ascoltare le sue farneticazioni.

Cooper ha poi sferrato un attacco al sionismo di Churchill, affermando che “era in bancarotta e aveva bisogno di soldi e [veniva] salvato dai sionisti. … Non aveva bisogno di essere corrotto, ma era stato messo al suo posto dai finanzieri [e] dal complesso dei media che volevano assicurarsi che fosse lui a rappresentare la Gran Bretagna in quel conflitto”. Per favore.

È falso. Churchill non è mai andato in bancarotta, anche se ha sempre avuto bisogno di soldi perché le sue spese erano enormi. Alcune delle sue perdite in borsa durante il crollo di Wall Street furono sostenute da Bernard Baruch, ma ciò avvenne quattro anni prima che Hitler salisse al potere. Un altro amico ebreo, Sir Henry Strakosch, gli lasciò in eredità un’ingente somma di denaro, ma difficilmente poteva trattarsi di una tangente, per ovvie ragioni. Churchill non era sionista o antinazista perché era stato corrotto da finanzieri ebrei, ma perché credeva in entrambe le posizioni con ogni fibra del suo essere.

Inoltre, in un momento in cui l’antisemitismo è in aumento in tutto il mondo, è stato profondamente irresponsabile da parte di Cooper e Carlson fare le insinuazioni che hanno fatto in quella parte dell’intervista. Questa tesi – se un tale vomito di vecchie bugie e un apologismo hitleriano alla David Irving può essere definito tale – sarà accolta con favore in alcune zone della “Palestina”, in Turingia e in Sassonia, e nei recessi più oscuri del cyberspazio, ma non in luoghi dove la verità storica è ancora rispettata.

Lungi dall’essere sostenuto dal “complesso dei media”, Churchill fu ridicolizzato e osteggiato dalla maggior parte dei giornali per la maggior parte della sua carriera, e gli editori si avvicinarono al suo ingresso nel governo solo nel luglio 1939, una volta chiarito che tutti i suoi avvertimenti su Hitler e i nazisti si erano dimostrati corretti in ogni particolare.

Quando Carlson ha lodato la “fede nell’accuratezza e nell’onestà” di Cooper, ha rappresentato l’unico momento comico dell’intera intervista, a meno che non si consideri anche la valutazione di Carlson secondo cui Cooper, che confesso di non aver mai sentito prima, è “lo storico più importante degli Stati Uniti”.

È interessante che in tutta l’intervista Darryl Cooper non sia riuscito a sferrare un solo colpo alla reputazione di Winston Churchill che fosse supportato da una qualsiasi prova. In effetti, Churchill commise diversi errori nella sua carriera, come attesta ogni suo biografo responsabile. “Non avrei fatto nulla se non avessi commesso errori”, disse alla moglie Clementine nel 1916.

Tuttavia, nelle tre più grandi minacce alla democrazia e alla civiltà occidentale del XX secolo – dalla Germania guglielmina nella Prima Guerra Mondiale, da Adolf Hitler e dai nazisti nella Seconda Guerra Mondiale e dal comunismo sovietico nella Guerra Fredda – Winston Churchill le ha previste tutte e tre e ha fornito gran parte della resilienza e della saggezza necessarie per sconfiggerle. In questo modo è stata salvata la libertà di parola, una libertà che è stata così squallidamente abusata dall’intellettualmente vacuo ma presuntuoso sberleffo dei signori Cooper e Carlson.


ANDREW ROBERTS, nato a Londra nel 1963, è storico e giornalista. Autore di documentari e pubblicazioni di successo, ha vinto molti premi, tra cui il Wolfson History Prize e il British Army Military Book of the Year. Esperto internazionale di storia della Seconda guerra mondiale, è autore di una recente biografia monumentale di Winston Churchill, “Churchill: Walking with Destiny“.

La battaglia non è destra contro sinistra. È statalismo contro individualismo

(Traduzione dell’articolo The Battle Isn’t Right vs. Left. It’s Statism vs. Individualism di Daniel J. Mitchell su FEE.org)

Ho già scritto di come comunismo e nazismo abbiano molto in comune. Entrambi subordinano l’individuo allo stato, entrambi conferiscono allo stato la facoltà di intervenire nell’economia, ed entrambi hanno massacrato milioni di persone.

La battaglia non è destra contro sinistra. È statalismo contro individualismo .

Diamo un’occhiata ad alcuni scritti su questo tema.

Iniziamo con un articolo di Bradley Birzer, pubblicato da Intellectual Takeout. Teme che il totalitarismo a sinistra stia tornando in auge.

Nel 1936 avevi tre scelte: nazionalsocialismo, socialismo internazionale, o dignità. Nel 2018 ci troviamo in circostanze simili. Perché sta accadendo di nuovo? In primo luogo, noi studiosi non siamo riusciti a convincere il pubblico di quanto dannose fossero e restino tutte le forme di comunismo. Quasi tutti gli storici sottovalutano il fatto più importante del Novecento: che i governi hanno assassinato più di 200 milioni di innocenti, il più grande massacro nella storia del mondo. Il terrore regnava tanto nei campi di concentramento quanto nei gulag.

In secondo luogo, un’intera generazione è cresciuta senza conoscere cose come i gulag sovietici o persino il muro di Berlino. La maggior parte dei giovani difensori del comunismo accetta la più antica linea di propaganda della sinistra: che il vero comunismo non è mai stato applicato.

Il fascismo e il comunismo sono due facce della stessa medaglia.

Che i nazionalsocialisti abbracciassero il socialismo è comprovato. Nazionalizzarono l’industria, molto vitale in Germania, anche se con l’intimidazione piuttosto che con la legge. Nei suoi diari personali, Joseph Goebbels scrisse alla fine del 1925: «Sarebbe meglio per noi porre fine alla nostra esistenza sotto il bolscevismo piuttosto che sopportare la schiavitù sotto il capitalismo». Solo pochi mesi dopo, aggiunse «penso che sia terribile che noi e i comunisti ci stiamo picchiando a vicenda».

Qualunque siano le ragioni per la rivalità tra i due partiti, affermava Goebbels, le due forze dovrebbero allearsi e vincere. I fascisti italiani avevano legami ancora più stretti con i marxisti, con Mussolini che aveva iniziato la sua carriera come pubblicista e scrittore marxista. Alcuni fascisti italiani avevano un passato nel Comintern.

Richard Mason fa osservazioni simili in un pezzo che ha scritto per la Foundation for Economic Education.

È superfluo scrivere un articolo per parlare dei milioni di morti che si sono verificati per mano dei regimi comunisti; come l’Olocausto, i gulag dell’Unione Sovietica e i campi di sterminio della Cambogia sono ampiamente noti. Eppure i giornalisti nel Regno Unito sostengono apertamente e con orgoglio il comunismo. Vengono erette statue a Karl Marx. Ai fascisti non è permesso uscirsene con «quello non era vero fascismo». Lo stesso non vale per il comunismo. Poiché Karl Marx non ha mai attuato il comunismo in prima persona, i leader degli Stati comunisti hanno sempre quella carta per cavarsi fuori dai guai.

Tutte le carestie, le tragedie o le crisi che un regime comunista si trova ad affrontare vengono sempre imputate a un’errata applicazione dell’infallibile tabella di marcia di Marx. Puoi anche separare l’ideologia comunista dalla sua applicazione, ma fino a che punto puoi ignorare gli orribili precedenti che il comunismo ha creato? La storia del comunismo è sporca di sangue quanto quella del nazismo; anzi, molto di più. È tempo di trattarla di conseguenza.

Sheldon Richman va più a fondo:

Il fascismo è un socialismo con una facciata capitalista. La parola deriva da fasces, il simbolo romano del collettivismo e del potere: un fascio di verghe legato con un’ascia sporgente. Laddove il socialismo cercava il controllo totalitario dei processi economici di una società attraverso la gestione diretta dei mezzi di produzione da parte dello Stato, il fascismo cercava quel controllo indirettamente, attraverso l’autorità su proprietari solo formalmente privati. Laddove il socialismo ha abolito del tutto i rapporti di mercato, il fascismo ha lasciato l’apparenza dei rapporti di mercato, pianificando tutte le attività economiche. Laddove il socialismo aveva abolito il denaro e i prezzi, il fascismo controllava il sistema monetario e stabiliva politicamente tutti i prezzi e i salari.

Spiega l’enorme differenza tra fascismo e capitalismo:

L’iniziativa economica privata fu abolita. I ministeri, e non più i consumatori, decidevano cosa produrre e a quali condizioni. Il fascismo va distinto dall’interventismo, o economia mista. L’interventismo cerca di guidare il processo di mercato, non di eliminarlo, come fece il fascismo. Nel fascismo, lo Stato, attraverso le corporazioni, controllava tutti gli aspetti della produzione, del commercio, della finanza e dell’agricoltura.

I consigli di pianificazione stabilivano cosa produrre, le quantità, i prezzi, i salari, le condizioni di lavoro e le dimensioni delle imprese. Occorreva una licenza per tutto; nessuna attività economica poteva essere intrapresa senza il permesso del governo. I redditi “in eccesso” dovevano essere consegnati allo Stato sotto forma di tasse o “prestiti”. Poiché la politica del governo mirava all’autarchia, o all’autosufficienza nazionale, il protezionismo era necessario: le importazioni erano vietate o strettamente controllate. 

Non si tratta di teorie nuove. Ecco cosa scrisse Ludwig von Mises su questo argomento negli anni ’40 del secolo scorso.

I marxisti sono ricorsi al polilogismo perché non potevano confutare con metodi logici le teorie sviluppate dall’economia “borghese”, o le conclusioni tratte da queste teorie che dimostravano l’impraticabilità del socialismo. Non potendo dimostrare razionalmente la fondatezza delle proprie idee o la non fondatezza delle idee dei loro avversari, hanno messo in discussione la logica. I nazionalisti tedeschi hanno dovuto affrontare esattamente lo stesso problema dei marxisti.

Anche loro non potevano né dimostrare la correttezza delle proprie affermazioni né confutare le teorie dell’economia e della prasseologia. Così si rifugiarono sotto il tetto del polilogismo, preparato per loro dai marxisti. Naturalmente, hanno la loro versione di polilogismo. Né il polilogismo marxista né quello nazista andarono oltre la dichiarazione che la struttura logica della mente è diversa nelle varie classi o razze. Il polilogismo non è una filosofia o una teoria epistemologica. È l’atteggiamento di fanatici dalla mentalità ristretta.

E questi fanatici sono mossi dall’odio. I nazisti odiano le persone di razza e religione diversa, mentre i marxisti odiano le persone di reddito e classe diversa.

Il Daily Caller riporta la storia di una studentessa che si è arrabbiata molto dopo aver appreso che il Partito Nazionalsocialista dei Lavoratori era… sì, socialista.

La social justice warrior e laureata in storia Shelby Shoup è stata arrestata per aver lanciato latte al cioccolato a un compagno di studi e candidato repubblicano gridando «i nazisti non erano socialisti». È stata accusata di aggressione.

Dato che stiamo facendo umorismo, colgo l’occasione per condividere questo pezzo satirico dei mitici autori di Babylon Bee.

Giovedì, in una conferenza stampa, il leader del partito nazista americano Emmett Scoggins ha dichiarato davanti ai giornalisti che il suo partito non sta cercando di instaurare un nazismo completo, ma un sistema molto migliore chiamato “nazismo democratico”. Scoggins è stato interrogato sull’uso della parola “democratico” e su come il nazismo democratico fosse diverso dal semplice nazismo. «La differenza principale è che aggiungiamo la parola ‘democratico’ perché alla gente piace molto di più rispetto al semplice ‘nazismo’», ha risposto Scoggins. La conferenza si è conclusa con un lungo discorso di Scoggins su come il “vero” nazismo non sia mai stato applicato.

Concludo il mio articolo usando un triangolo per catalogare le varie ideologie.

Qualche osservazione in proposito:

  • Potremmo aggiungere una linea proprio sopra l’autoritarismo, il collettivismo e il socialismo, e dire che le ideologie al di sopra della linea sono democratiche, quelle al di sotto sono dittatoriali.
  • Data la differenza tra la definizione tecnica di socialismo (proprietà del governo, pianificazione centralizzata, controllo dei prezzi) e la definizione di uso comune (molta ridistribuzione), forse dovrei usare “stato sociale” piuttosto che “socialismo democratico”. Ma il risultato è comunque pessimo, comunque lo si chiami.

Mi piace pensare che non ci siano persone civili disposte a tollerare l’ideologia nazista. Ma temo che non si possa dire lo stesso del comunismo. Il capo della Commissione europea ha recentemente tenuto un discorso in Germania per il 200° compleanno di Marx. Aziende come Mercedes-Benz glorificano gli assassini razzisti nella loro pubblicità (parte del culto della morte del Che ), e persino le orchestre usano simboli comunisti.

Quante altre vittime dovranno esserci prima che le persone si rendano conto che il comunismo, come il nazismo, è il male assoluto?

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Lettura consigliata: Il libero mercato e i suoi nemici, L. von Mises

No, Fidel Castro non ha migliorato sanità e istruzione a Cuba

In un’intervista di 60 minuti sulla CBS, il senatore Bernie Sanders ha recentemente elogiato i successi di Cuba comunista.

Un’intervistatrice gli ha chiesto dei suoi commenti del 1985 in cui affermava che i cubani sostenevano il dittatore comunista Fidel Castro perché «aveva educato i loro figli, aveva dato loro assistenza sanitaria, aveva completamente trasformato la società». In risposta, Sanders ha difeso quei commenti affermando che «quando Fidel Castro è entrato in carica, sai cosa ha fatto? Ha avviato un massiccio programma di alfabetizzazione».

Ma Castro non ha dato l’alfabetizzazione ai cubani. Cuba aveva uno dei più alti tassi di alfabetizzazione in America Latina già nel 1950, quasi un decennio prima che Castro assumesse il potere, secondo i dati delle Nazioni Unite (statistiche dell’UNESCO). Nel 2016, il fact-checker del Washington Post Glenn Kessler ha smentito la affermazione di un politico secondo cui il regno di Castro avesse significativamente migliorato l’assistenza sanitaria e l’istruzione a Cuba.

Nel frattempo, i paesi latino-americani che erano largamente analfabeti nel 1950, come il Perù, il Brasile, El Salvador e la Repubblica Dominicana, sono largamente alfabetizzati oggi, chiudendo gran parte del divario con Cuba. El Salvador aveva un tasso di alfabetizzazione inferiore al 40 percento nel 1950, ma oggi ha un tasso del 88 percento. Il Brasile e il Perù avevano un tasso di alfabetizzazione inferiore al 50 percento nel 1950, ma oggi il Perù ha un tasso del 94,5 percento e il Brasile un tasso del 92,6 percento. Il tasso della Repubblica Dominicana è passato da poco più del 40 percento al 91,8 percento. Mentre Cuba ha fatto significativi progressi nella riduzione dell’analfabetismo nei primi anni del potere di Castro, il suo sistema educativo è rimasto stagnante da allora, anche se gran parte dell’America Latina è migliorata.

Contrariamente alla affermazione di Sanders secondo cui Castro «ha dato» assistenza sanitaria ai cubani, questi già avevano accesso all’assistenza sanitaria prima che lui prendesse il potere. I medici fornivano spesso assistenza sanitaria gratuita a chi non poteva permettersela. Come ha osservato Glenn Kessler del Washington Post:

Per quanto riguarda l’assistenza sanitaria e l’istruzione, Cuba era già tra i primi della lista prima della rivoluzione. Il basso tasso di mortalità infantile di Cuba è spesso elogiato, ma già nel 1953-1958 era al primo posto nella regione, secondo i dati raccolti da Carmelo Mesa-Lago, esperto di Cuba e professore emerito all’Università di Pittsburgh.

Cuba guidava praticamente tutti i paesi dell’America Latina per quanto riguarda l’aspettativa di vita nel 1959, prima che i comunisti di Castro prendessero il potere. Ma nel 2012, subito dopo che Castro si è dimesso come leader del Partito Comunista, i cileni e i costaricani vivevano leggermente più a lungo dei cubani. Nel 1960, gli cileni avevano una aspettativa di vita di sette anni inferiore a quella dei cubani, e i costaricani vivevano in media più di due anni meno dei cubani. Nel 1960, i messicani vivevano sette anni meno dei cubani; nel 2012, il divario si era ridotto a soli due anni.

(Oggi, l’aspettativa di vita è praticamente la stessa a Cuba come nel più prospero Cile e Costa Rica – se si accettano le statistiche ufficiali ottimistiche diffuse dal governo comunista di Cuba, cosa che molti non fanno. A Cuba è stato accusata credibilmente di nascondere le morti infantili e di esagerare le aspettative di vita dei suoi cittadini. Se queste accuse sono vere, i cubani muoiono prima dei cileni o dei costaricani).

Cuba ha fatto meno progressi in termini di assistenza sanitaria e aspettativa di vita rispetto alla maggior parte dell’America Latina negli ultimi anni, a causa del suo decrepito sistema sanitario. «Gli ospedali della capitale dell’isola stanno letteralmente crollando». A volte, i pazienti «devono portare tutto con loro, perché l’ospedale non fornisce nulla. Cuscini, lenzuola, medicina: tutto».

Come ha osservato Glenn Kessler del Washington Post:

I giornalisti hanno anche documentato che gli ospedali cubani sono poco attrezzati. Una serie del 2004 sull’assistenza sanitaria a Cuba pubblicata dal National Post del Canada ha affermato che le farmacie hanno pochissimo in scorta e gli antibiotici sono disponibili solo sul mercato nero. «Uno dei miti che i canadesi hanno su Cuba è che le sue persone possano essere povere e vivere sotto un governo repressivo, ma hanno accesso a strutture sanitarie e scolastiche di qualità», ha affermato il Post. «È un ritratto incoraggiato dal governo, ma la realtà è radicalmente diversa».

Sotto il comunismo, Cuba è anche indietro su misure generali di sviluppo umano. Come ha osservato l’economista progressista Brad DeLong:

Cuba nel 1957 era un paese sviluppato. Cuba nel 1957 aveva una mortalità infantile inferiore a quella della Francia, del Belgio, della Germania Ovest, di Israele, del Giappone, dell’Austria, dell’Italia, della Spagna e del Portogallo. Cuba nel 1957 aveva medici e infermieri: come molti medici e infermieri per abitante come i Paesi Bassi, e di più di Gran Bretagna o Finlandia. Cuba nel 1957 aveva come molti veicoli per abitante come l’Uruguay, l’Italia o il Portogallo. Cuba nel 1957 aveva 45 TV per 1000 abitanti, il quinto più alto al mondo… Oggi? Oggi le Nazioni Unite collocano l’IDU di Cuba [Indicatori di Sviluppo Umano] nella stessa categoria del Messico. (E Carmelo Mesa-Lago pensa che i calcoli delle Nazioni Unite siano gravemente difettosi: che i pari IDU di Cuba oggi sono posti come la Cina, la Tunisia, l’Iran e il Sud Africa.) Quindi non capisco i sinistri che parlano dei successi della Rivoluzione Cubana: «per avere una migliore assistenza sanitaria, alloggi, istruzione».

Come nota Michael Giere, Cuba era prospera prima che i comunisti di Castro prendessero il potere:

Un rapporto dell’ONU (UNESCO) del 1957 ha notato che l’economia cubana includeva una proporzione maggiore di lavoratori sindacalizzati rispetto agli Stati Uniti. Il rapporto afferma anche che i salari medi per una giornata lavorativa erano più alti a Cuba rispetto a «Belgio, Danimarca, Francia e Germania». La PBS ha spiegato in un riassunto del 2004 che

«L’Avana (prima di Castro) era una città brillante e dinamica. Cuba era al quinto posto nell’emisfero in termini di reddito pro capite, al terzo posto per l’aspettativa di vita, al secondo posto per la proprietà pro capite di automobili e telefoni, al primo posto per il numero di televisori per abitante. Il tasso di alfabetizzazione, il 76%, era il quarto più alto in America Latina. Cuba era al undicesimo posto nel mondo per il numero di medici per abitante. Molte cliniche e ospedali privati offrivano servizi ai poveri. La distribuzione del reddito a Cuba era confrontabile con quella di altre società latinoamericane. Una classe media prospera prometteva prosperità e mobilità sociale».

Ma dopo che Castro ha preso il potere, la prosperità è finita:

La distruzione di Castro di Cuba non può essere esagerata. Ha saccheggiato, assassinato e distrutto la nazione dalle fondamenta. Un solo fatto spiega tutto; una volta i cubani godevano di uno dei più alti consumi di proteine in America, eppure nel 1962 Castro dovette introdurre le tessere di razionamento (carne, 60 grammi al giorno), poiché il consumo di cibo per persona è crollato a livelli mai visti dall’800.

La fame si diffuse a tal punto che nel 1992 un medico svedese in visita a Cuba, Hans Rosling, dovette avvertire il dittatore della diffusa carenza di proteine tra i cubani. Circa 40.000 cubani avevano accusato «offuscamenti della vista e forte intorpidimento delle gambe». Rosling indagò su invito dell’ambasciata cubana in Svezia e con l’approvazione dello stesso Castro. Rosling si recò nel cuore dell’epidemia, nella provincia occidentale di Pinar del Río. Si scoprì che le persone colpite dal disturbo soffrivano tutte di carenza di proteine. Il governo stava razionando la carne e gli adulti avevano sacrificato la loro parte per nutrire bambini, donne incinte e anziani. Il dottor Rosling ne parlò a Fidel Castro.

Durante questo periodo di fame diffusa, Bernie Sanders diffondeva il mito che la fame a Cuba fosse inesistente. Nel 1989, pubblicò un articolo di giornale in cui affermava che la Cuba di Fidel Castro «non soffre fame, istruisce tutti i suoi figli e fornisce assistenza sanitaria gratuita e di alta qualità».

(Traduzione di Claudio Colonna dell’articolo “No, Fidel Castro Didn’t Improve Health Care or Education in Cuba” di Hans Bader pubblicato su FEE.org)

Lettura consigliata: Smascherare il Marxismo, L. von Mises

 

Il Superbonus è il fallimento dello statalismo

Quello che è accaduto con il Superbonus rappresenta alla perfezione la morte economica dell’Italia e il fallimento dello statalismo.

Andiamo con ordine.

L’edilizia è una industria morente tenuta in stato vegetativo da una serie di bonus edilizi istituiti negli ultimi quindici anni. Questi bonus sono diventati via via più generosi: il bonus ristrutturazione al 36% e poi al 50%, l’ecobonus al 65%, il sismabonus al 75% e poi all’85%, il bonus facciata al 90% e infine il tristemente famoso Superbonus 110%.

Ciascuno di questi bonus è nato con un duplice obiettivo politico: far ripartire l’edilizia unendo una componente di “utilità sociale” che giustifica il contributo pubblico. E così l’ecobonus è motivato dall’efficienza energetica, il sismabonus dalla sicurezza sismica, il bonus facciate di Franceschini invece da una questione di pura estetica, per la quale abbiamo pagato il 90% dei lavori di abbellimento delle facciate con tinteggiature e cornicette.

Questi obiettivi politici sono sistematicamente stati mancati: in 15 anni gli investimenti con bonus edilizi sono stati irrisori, l’industria delle costruzioni è rimasta in un limbo tra la vita e la morte, e il contributo dato alla riqualificazione energetica, sismica ed energetica del patrimonio edilizio è vicino allo zero. È proprio per questo motivo che il Movimento 5 Stelle ha escogitato il Superbonus 110% nel suo Decreto Rilancio all’indomani della prima ondata pandemica.

Il provvedimento è stato dirompente: i cittadini, appreso che lo Stato avrebbe coperto l’intero importo dei lavori, non hanno esitato a cercare tecnici e imprese in grado di districarsi nel complesso impianto normativo del Superbonus. In due anni, lo Stato italiano si è impegnato economicamente per circa 60 miliardi di euro, una cifra pari a 2-3 finanziarie di medie dimensioni, e questo nonostante il sistema dei crediti di imposta abbia subito pesanti rallentamenti e blocchi ogni due mesi.

Tralasciando le questioni che hanno causato il tracollo del Superbonus, su cui pure ci sarebbe da ridere, proviamo a descrivere i motivi per cui questo provvedimento rappresenta la morte economica del Paese, almeno da un punto di vista liberale.

Ronald Reagan recitava una simpatica massima: “Se un’industria si muove tassala, se continua a muoversi regolamentala, se smette di muoversi sussidiala”.

L’industria delle costruzioni in Italia vive di sussidi statali da 15 anni, e l’unica soluzione che la politica è stata in grado di trovare consiste nell’aumentare la quota di incentivi in carico allo Stato. Nessuna parte politica, a destra e a sinistra, è in grado di esprimere un pensiero volto alla liberalizzazione del settore delle costruzioni, pesantemente condizionato da un apparato normativo mastodontico.

Le norme urbanistiche che oggi regolano la produzione edilizia sono state concepite negli anni ‘60, un periodo di boom demografico, economico ed urbano, ed erano volte a disciplinare il mercato, calmierando la speculazione edilizia. Oggi che viviamo in un periodo di stagnazione economica, quelle stesse norme stanno deprimendo ulteriormente la produzione edilizia.

La mentalità statalista però è così pervasiva che nessuna parte politica è disposta a proporre una deregulation strutturale. Finora hanno giocato sulle percentuali di agevolazione fiscale: togli il 65% e metti il 110%, togli il 110% e metti il 90%. È questo l’apice del pensiero liberale che possiamo aspettarci dalla politica italiana, centrodestra incluso? Si spera di no.

Dal punto di vista dei conti pubblici, effettivamente, lo scenario è inquietante: 60 miliardi di euro spesi per intervenire sul 3% delle abitazioni. E se si prova a misurare l’impatto sulla transizione ecologica ci si rende conto di quanto questo provvedimento sia diventato una macchina brucia-soldi: ipotizzando di aver dimezzato le emissioni CO2 di ogni edificio che ha beneficiato del 110%, e considerato che l’edilizia residenziale conta per il 10% delle emissioni totali dell’Italia, viene fuori che abbiamo complessivamente ridotto le emissioni nazionali circa dello 0,15%. Considerato che l’Italia è responsabile per meno dell’1% delle emissioni a livello globale, si lascia ai lettori il compito di calcolare di quanti gradi abbiamo abbassato le temperature globali spendendo 60 miliardi.

L’aspetto più oscuro della faccenda è però la fotografia del Paese restituita dal Superbonus: l’Italia appare un Paese fatto di case vecchie ed obsolete, i cui proprietari non hanno neanche una frazione delle risorse necessarie per gli adeguamenti strutturali ed energetici, e l’unico modo per far ripartire il settore dell’edilizia è che lo Stato debba coprire l’intero importo dei lavori. Roba che neanche in Unione Sovietica.

Insomma, il problema non è il 110%, il 90%, l’efficienza energetica. Il problema è il declino economico di una delle più grandi potenze industriali al mondo, dovuto al pantano burocratico e tributario a cui ogni attività produttiva è soggetta, e a una classe dirigente completamente assuefatta alle politiche stataliste. Quel che un tecnico di cultura liberale deve chiedere è che il governo tolga di mezzo tutto questo apparato enorme di sussidi, e abbia il coraggio di liberalizzare il settore delle costruzioni. Ciò consentirebbe agli investitori privati di rischiare i propri capitali per realizzare un vero rinnovo del parco residenziale italiano. Purtroppo, gli ordini professionali si uniscono alle richieste di sussidi e tutele da parte dello Stato.

Le nostre città sono cristallizzate da più di mezzo secolo in edifici antiquati che avrebbero bisogno non di un cappotto termico, ma di essere rasi al suolo e ricostruiti. I costruttori dovrebbero essere incentivati non tramite i sussidi, ma tramite dei bonus volumetrici (nuova cubatura) che servano a finanziare le operazioni immobiliari, immettendo così anche una grande quantità di nuovi appartamenti in zone dove c’è particolare richiesta, il che servirebbe a riequilibrare la curva di domanda e offerta, abbassando i prezzi esorbitanti che vediamo da un po’ di anni.

Il valore aggiunto di una operazione immobiliare è la cubatura aggiuntiva che è possibile realizzare: se le norme impediscono di creare una significativa quantità di nuovo volume, è normale che viene meno l’incentivo economico di mercato, e per questo lo Stato ha dovuto introdurre una serie di incentivi economici statali.

In sintesi, l’unica soluzione è lo sviluppo economico a trazione privata. L’Italia è diventata grande quando avevamo il coraggio di investire in modo spregiudicato: da un po’ di tempo abbiamo perduto questo coraggio, e ormai ci limitiamo a politiche di breve respiro volte a spostare da qui a lì un punto percentuale di spesa pubblica. È tempo di costruire l’Italia di domani, partendo da idee coraggiose e abbandonando una volta per tutte lo statalismo.

Gli ambientalisti vogliono regolamentare la tua vita

L’economia pianificata sta vivendo un’altra rinascita. I sostenitori della difesa dell’ambiente e gli anticapitalisti chiedono che il capitalismo venga abolito e sostituito con un’economia pianificata.

Altrimenti, sostengono, l’umanità non ha alcuna possibilità di sopravvivere.

In Germania, un libro intitolato “Das Ende des Kapitalismus” (La fine del capitalismo) è un bestseller e la sua autrice, Ulrike Herrmann, è diventata ospite regolare di tutti i talk show. L’autrice promuove apertamente un’economia pianificata, anche se in Germania è già fallita una volta, come ovunque sia stata tentata.

A differenza del socialismo classico, in un’economia pianificata le aziende non vengono nazionalizzate, ma possono rimanere in mani private. Ma è lo Stato a stabilire con precisione cosa e quanto produrre.

Non ci sarebbero più voli e veicoli privati. Lo Stato determinerebbe quasi tutti gli aspetti della vita quotidiana: ad esempio, non ci sarebbero più case unifamiliari e a nessuno sarebbe permesso di possedere una seconda casa. Le nuove costruzioni sarebbero vietate perché dannose per l’ambiente. La terra esistente verrebbe invece distribuita “equamente”, con lo Stato che deciderebbe quanto spazio è appropriato per ogni individuo. Il consumo di carne sarebbe consentito solo in via eccezionale, perché la produzione di carne è dannosa per il clima.

In generale, le persone non dovrebbero mangiare molto: 2.500 calorie al giorno sono sufficienti, dice Herrmann, che propone un’assunzione giornaliera di 500 grammi di frutta e verdura, 232 grammi di cereali integrali o riso, 13 grammi di uova e 7 grammi di carne di maiale.

«A prima vista, questo menu può sembrare un po’ scarno, ma i tedeschi sarebbero molto più sani se cambiassero le loro abitudini alimentari», rassicura la critica del capitalismo. E poiché le persone sarebbero uguali, sarebbero anche felici: «Il razionamento sembra sgradevole. Ma forse la vita sarebbe addirittura più piacevole di oggi, perché la giustizia rende le persone felici».

Queste idee non sono affatto nuove. La popolare critica canadese del capitalismo e della globalizzazione, Naomi Klein, ammette che inizialmente non aveva un interesse particolare per il cambiamento climatico. Poi, nel 2014, ha scritto un corposo tomo di 500 pagine intitolato “This Changes Everything: Capitalism vs. the Climate“.

Perché è diventata improvvisamente così interessata all’ambientalismo?

Prima di scrivere questo libro, l’interesse principale della Klein era la lotta contro il libero scambio e la globalizzazione. Lo dice apertamente: «Sono stata spinta a un impegno più profondo in parte perché ho capito che poteva essere un catalizzatore per forme di giustizia sociale ed economica in cui già credevo». Chiede un’economia attentamente pianificata e linee guida governative su «quanto spesso guidiamo, quanto spesso voliamo, se il nostro cibo deve essere trasportato in aereo per arrivare a noi, se i beni che compriamo sono costruiti per durare… quanto sono grandi le nostre case». L’autrice ha anche suggerito che il 20% più abbiente della popolazione dovrebbe accettare i tagli maggiori per creare una società più equa.

Queste citazioni – a cui si potrebbero aggiungere molte altre affermazioni simili nel libro della Klein – confermano che l’obiettivo principale degli anticapitalisti come Herrmann e Klein non è migliorare l’ambiente o trovare soluzioni per il cambiamento climatico.

Il loro vero obiettivo è eliminare il capitalismo e instaurare un’economia pianificata e gestita dallo Stato. In realtà, questo comporterebbe l’abolizione della proprietà privata, anche se tecnicamente i diritti di proprietà continuerebbero ad esistere. Perché tutto ciò che rimarrebbe è il titolo legale formale di proprietà. L'”imprenditore” continuerebbe a possedere la sua fabbrica, ma cosa e quanto produce sarebbe deciso unicamente dallo Stato. Diventerebbe un manager dipendente dello Stato.

L’errore più grande che i sostenitori dell’economia pianificata hanno sempre commesso è stato quello di credere nell’illusione che un ordine economico potesse essere pianificato sulla carta; che un’autorità potesse sedersi a una scrivania e proporre l’ordine economico ideale. Tutto ciò che sarebbe rimasto da fare sarebbe stato convincere un numero sufficiente di politici a implementare l’ordine economico nel mondo reale. E’ brutto da dire, ma anche i Khmer Rossi in Cambogia la pensavano così.

L’esperimento socialista più radicale della storia, che ebbe luogo in Cambogia a metà e alla fine degli anni ’70, fu originariamente concepito nelle università di Parigi. Questo esperimento, che il leader dei Khmer Rossi Pol Pot (chiamato anche “Fratello 1”) chiamò “Super Grande Balzo in Avanti”, in onore del Grande Balzo in Avanti di Mao, è particolarmente rivelatore perché offre una dimostrazione estrema della convinzione che una società possa essere costruita artificialmente su un tavolo da disegno.

Oggi si sostiene spesso che Pol Pot e i suoi compagni volessero attuare una forma pura di “comunismo primitivo” e il loro governo viene dipinto come una manifestazione di irrazionalità sfrenata. In realtà, ciò non potrebbe essere più lontano dalla verità. Le menti e i leader dei Khmer Rossi erano intellettuali provenienti da famiglie oneste, che avevano studiato a Parigi ed erano membri del Partito Comunista Francese. Due delle menti, Khieu Samphan e Hu Nim, avevano scritto tesi di laurea marxiste e maoiste a Parigi. In effetti, l’élite intellettuale che aveva studiato a Parigi occupava quasi tutti i posti di comando del governo dopo la presa del potere.

Avevano elaborato un dettagliato Piano quadriennale che elencava con precisione tutti i prodotti di cui il Paese avrebbe avuto bisogno (aghi, forbici, accendini, tazze, pettini, ecc.). Il livello di specificità era molto insolito, anche per un’economia pianificata. Ad esempio, si legge: «Mangiare e bere sono collettivizzati. Anche il dessert è organizzato collettivamente. In generale, aumentare benessere del popolo nel nostro Paese significa farlo collettivamente. Nel 1977 ci saranno due dessert a settimana. Nel 1978 ci sarà un dolce ogni due giorni. Poi, nel 1979, un dolce al giorno, e così via. Così le persone vivono collettivamente e hanno a sufficienza da mangiare; sono soddisfatte e felici di vivere in questo sistema».

Il partito, scrive il sociologo Daniel Bultmann nella sua analisi, «ha pianificato la vita della popolazione come su un tavolo da disegno, incastrandola in spazi e bisogni prestabiliti». Ovunque, giganteschi sistemi di irrigazione e campi dovevano essere costruiti secondo un modello uniforme e rettilineo. Tutte le regioni furono sottoposte agli stessi obiettivi, poiché il Partito riteneva che condizioni standardizzate in campi esattamente della stessa dimensione avrebbero avuto anche rese standardizzate. Con il nuovo sistema di irrigazione e le risaie a scacchiera, la natura doveva essere imbrigliata nella realtà utopica di un ordine completamente collettivista che eliminava le disuguaglianze fin dal primo giorno.

Tuttavia, la disposizione dei canali di irrigazione in quadrati uguali con al centro campi altrettanto quadrati portò a frequenti inondazioni, perché il sistema ignorava totalmente i flussi d’acqua naturali, e l’80% dei sistemi di irrigazione non funzionò, proprio come i piccoli altiforni da cortile non funzionarono nel Grande balzo in avanti di Mao.

Nel corso della storia, il capitalismo si è evoluto, così come si sono evolute le lingue. Le lingue non sono state inventate, costruite e concepite, ma sono il risultato di processi spontanei e incontrollati. Sebbene l’Esperanto, giustamente chiamato “lingua pianificata”, sia stato inventato nel lontano 1887, non è riuscito ad affermarsi come la lingua straniera più parlata al mondo, come si aspettavano i suoi inventori.

Il socialismo ha molto in comune con una lingua pianificata, un sistema ideato da intellettuali. I suoi aderenti cercano di conquistare il potere politico per poter poi attuare il sistema scelto. Nessuno di questi sistemi ha mai funzionato da nessuna parte, ma questo apparentemente non impedisce agli intellettuali di credere di aver trovato la pietra filosofale e di aver finalmente ideato il sistema economico perfetto nella loro torre d’avorio. È inutile discutere in dettaglio idee come quelle di Herrmann o di Klein, perché l’intero approccio costruttivista – cioè l’idea che un autore possa “sognare” un sistema economico nella sua testa o sulla carta – è sbagliato.

 

(Traduzione dell’articolo Today’s Anti-Capitalists Want to Regulate What You Can Eat, How Often You Drive, and the Size of Your Home, Rainer Zitelmann, FEE.org)

 

Lettura consigliata: Il libero mercato e i suoi nemici, L. von Mises

 

 

La lezione dei fiorenti mercati neri a Cuba

Il mercato nero è sempre stato considerato una rete di scambio per beni e servizi considerati (generalmente) moralmente sbagliati. Cose come le droghe pesanti, la prostituzione illegale, le armi, sono le prime cose che vengono in mente quando si parla di mercato nero. Eppure, il mercato nero può funzionare per migliorare il benessere generale di una nazione.

Per dimostrarlo non vi è miglior esempio di Cuba.

Cuba è nota per la sua difesa dell’ideologia comunista e per aver attuato diverse politiche comuniste. Nel 2019, il governo cubano ha avviato una politica di controllo totale dei prezzi sui prodotti che i commercianti vendono sul mercato. E sebbene negli ultimi tempi il regime cubano sia stato più gentile nell’aprire settori specifici dell’economia (quelli che non incidono sul potere dei politici), la realtà è che nulla è cambiato in modo radicale.

Come molti sapranno, in un’economia in cui i prezzi sono controllati, c’è scarsità.

Come disse Henry Hazlitt:

La fissazione dei prezzi e dei salari è sempre dannosa. Non c’è un modo giusto di farlo. Non esiste un modo giusto di fare una cosa sbagliata. Non esisterà mai un modo giusto di fare qualcosa che non dovrebbe mai essere fatto. E’ impossibile definire un prezzo equo o un profitto equo o un salario equo al di fuori del mercato, al di fuori delle regole della domanda e dell’offerta.

E’ il caso di Cuba, dove di recente ci sono state proteste per la scarsità di cibo e medicinali; questo in un Paese il cui principale argomento di propaganda è la difesa dei lavoratori dai capitalisti e la tutela del benessere del popolo. Tuttavia, i politici che governano l’isola – in primis la famiglia Castro – non hanno le conoscenze economiche di base per sapere che se si pone un tetto ai prezzi di un prodotto, si può provocarne la scarsità.

Ma ciò che è ancora più dannoso è che, stabilendo dei prezzi fissi, l’economia che una volta funzionava e che poteva allocare le risorse in modo efficiente, smette di funzionare.

Ai cubani piace chiamare questo fenomeno “blocco interno” come risposta satirica a chi sostiene che la causa principale della distruzione economica di Cuba sia l’embargo. Sebbene l’embargo possa causare alcune difficoltà nelle operazioni di diverse microimprese sull’isola, non è la ragione principale per cui a Cuba c’è una diffusissima povertà. Il fatto che Cuba abbia chiuso l’anno scorso (2021, ndr) al 175° posto nell’indice di libertà economica dovrebbe essere sufficiente a fugare ogni dubbio.

Poiché le condizioni sull’isola sono peggiorate dopo il “trionfo” della rivoluzione cubana, i cubani hanno trovato una soluzione alla carenza di forniture e servizi: i mercati neri.

Questi mercati forniscono principalmente beni strumentali e di consumo venduti da burocrati corrotti – e qui si deduce che le carenze siano create di proposito – oppure importati sull’isola tramite voli commerciali. (Queste importazioni non sono considerate di contrabbando dalla legge, poiché sono il bagaglio dei clienti che arrivano all’aeroporto. Tuttavia, il loro scopo è quello di essere vendute in mercati non regolamentati).

Qualcuno potrebbe chiedersi quanto questi mercati siano accessibili ai consumatori o quanto siano visibili alle autorità. La verità è che ci sono guide che mostrano a stranieri e turisti dell’isola come accedere ai mercati neri.

Il commercio illegale è talmente diffuso a Cuba che l’unico modo che il governo ha avuto per contrastarlo è stato quello di iniziare a distribuire licenze ai commercianti. Ma anche se il governo ha regolamentato alcuni settori, la maggior parte del mercato nero a Cuba è ancora illegale.

I mercati neri sono cresciuti negli ultimi quattro anni grazie all’accesso a Internet su dispositivi mobili. L’introduzione di Internet nell’isola è stata ritardata da normative volte a monitorare e controllare rigorosamente ciò che i cubani caricano sui loro social media. Tuttavia, gli sforzi dello Stato per controllare l’uso di Internet sono pressoché inutili perché la maggior parte dei cubani utilizza applicazioni basate sulla crittografia del testo come Telegram, Signal o WhatsApp per acquistare online.

Prima della diffusione di Internet, gli scambi avvenivano localmente, a seconda della conoscenza dell’esistenza di acquirenti e venditori. Tuttavia, i mercati si sono evoluti notevolmente e alcune persone ora si recano in altre province per acquistare i prodotti. In circostanze normali, i venditori potrebbero spedire i prodotti, ma a Cuba è impossibile: il servizio postale è talmente corrotto che se qualcuno spedisce un articolo, questo viene rubato.

Nel portare oggetti da vendere sull’isola, i cubani non badano a limiti. La scarsità è così diffusa che manca persino l’ibuprofene. Dopo l’epidemia di Covid-19, la necessità di farmaci è aumentata al punto che i cubani che vivono fuori dall’isola trasportano farmaci e li vendono illegalmente. Nelle transazioni viene usato anche il Bitcoin a causa della svalutazione del peso. Steve Hanke ha dichiarato che lo scorso luglio l’inflazione cubana è stata dell’85% annuo.

Tuttavia, alcuni libertari come Martha Bueno hanno espresso preoccupazione per le piattaforme che i cubani utilizzano per queste transazioni. Queste piattaforme possono cambiare i Bitcoin dei cubani in una valuta digitale della banca centrale cubana (CBDC) chiamata MLC (“Moneda Libremente Convertible“). Questa moneta non ha alcun valore ed è stata creata dal governo cubano per raccogliere le valute straniere che le persone fuori dall’isola inviano ai loro parenti a Cuba. Per questo motivo, Bueno ha suggerito di utilizzare valute come Monero, meno tracciabili; in questo modo, nessuno può risalire a quando è stata effettuata la transazione o dove è avvenuta.

Cuba non sta passando a un’economia di mercato, ma i mercati neri sorti come risposta a normative dannose stanno avendo un’impatto positivo sulle vite dei cubani.

La crescita di questi mercati dimostra che l’interventismo statale nell’economia non è una soluzione, ma la causa della povertà.

Nel bene e nel male, anche gli stati totalitari hanno bisogno dei mercati per coordinare la produzione e l’allocazione delle risorse.

 

(Traduzione dell’articolo Cuba’s Bustling Black Markets Hold an Important Economic Lesson, Carlos Martinez, FEE.org)

 

Il Marxismo funziona solo come forza distruttrice

Le teorie di Karl Marx non sono mai state valide, ma hanno cambiato il mondo fomentando il malcontento verso lo status quo e promettendo un’utopia non ben definita che sarebbe sorta spontaneamente dalle ceneri del vecchio ordine.

Tra le sue argomentazioni vi sono:

 1. Il valore è dato dal lavoro socialmente utile.

2. Le società capitaliste sono divise in due classi: i borghesi e i proletari.

3. Lo scambio volontario è un gioco a somma zero: una delle due parti guadagna a spese dell’altra.

4. I capitalisti si appropriano del plusvalore dei beni prodotti dagli operai.

5. Gli operai nelle società capitaliste si impoveriranno sempre di più finché sarà necessaria una rivoluzione.

6. Gli operai in disaccordo con Marx soffrono di “falsa coscienza”.

Ma ognuna di queste affermazioni è falsa.

1. Il valore non è dato dal lavoro, ma dalla domanda. Il lavoro ha valore solo se produce beni e servizi che la gente desidera.

Una torta fatta di fango può richiedere la stessa quantità di lavoro di una torta di mele, ma nessuno vuole una torta di fango, quindi non ha valore. Inoltre, il valore cambia al variare di alcune condizioni. Ad esempio, anche se il loro “contenuto di lavoro” non è cambiato, le fruste dei cocchieri avevano molto più valore prima dell’invenzione dell’automobile.

Marx cercò di spiegare queste variazioni di valore con il concetto di lavoro “socialmente utile”, ma non fu mai in grado di definirlo o quantificarlo al punto da consentire ai pianificatori centrali di comprendere il valore di mercato di un bene o un servizio.

2. La società capitalista non è divisa in due classi. I proprietari di imprese e i dipendenti provengono da ogni ceto sociale.

3. Lo scambio volontario non è un gioco a somma zero. Tutte le parti coinvolte in uno scambio ne traggono vantaggio, altrimenti non accetterebbero lo scambio. Ciascuno ne trae vantaggio perché ognuno attribuisce un valore diverso ai beni scambiati. Il valore è soggettivo e non si basa su parametri oggettivi come “la quantità di lavoro socialmente utile”.

4. Il plusvalore di un bene (in pratica, il prezzo di vendita di un bene meno il costo per la sua produzione) serve a pagare:

– L’inventore.
– L’imprenditore (che è spesso, ma non necessariamente, l’inventore stesso) che intercetta la domanda del mercato per quel bene e decide di produrlo.
– Il possessore di un capitale che finanzia l’impresa.
– Finanziatori che trovano altri investitori disposti a rischiare le loro risorse per avviare l’impresa.
– Dirigenti e quadri che coordinano il lavoro degli operai.
– I pubblicitari che pubblicizzano il prodotto affinché venga conosciuto dai consumatori.
– Gli operai stessi.

Marx ignorava gran parte di questi fattori produttivi e il valore aggiunto che i consumatori ottengono acquistando il prodotto. Se non ottenessero alcun vantaggio dall’acquisto, non l’acquisterebbero mai.

Pretendendo che gli operai della fabbrica (insieme a tutti gli impiegati che Marx considerava parte del proletariato piuttosto che della classe dirigente oppressiva) ricevessero tutto il valore del prodotto, Marx chiedeva che nessun altro responsabile dell’esistenza del prodotto fosse pagato e che i consumatori non guadagnassero acquistandolo.

In effetti, il suo “mondo perfetto” era quello in cui nessuno avrebbe avuto un incentivo a inventare, produrre o acquistare qualcosa.

5. I lavoratori nelle economie di mercato non si stanno immiserendo. Al contrario, stanno molto meglio rispetto ai lavoratori di economie meno libere. Secondo i nostri standard, gli operai ai tempi di Marx lavoravano in condizioni terribili per salari miseri. Tuttavia, il lavoro in fabbrica e la retribuzione erano spesso molto migliori rispetto alle alternative disponibili all’epoca.

Il libero mercato ha reso le persone così produttive che hanno bisogno di lavorare meno ore per sfamare se stessi e le proprie famiglie. Invece di lavorare sei o sette giorni alla settimana per 12 ore, nei Paesi in cui vige il libero mercato le persone lavorano in genere cinque giorni a settimana per 7 o 8 ore al giorno. Inoltre, i bambini non hanno più bisogno di lavorare per sopravvivere.

Il libero mercato ha anche aiutato la parità di genere. In un mondo in cui la forza bruta è il fattore più importante per la sopravvivenza, le donne sono cittadini di seconda classe. Ma in una società di libero mercato, dove il cervello conta più dei muscoli, le donne sono più che in grado di competere con gli uomini.

Marx sosteneva che il socialismo avrebbe messo i mezzi di produzione nelle mani dei lavoratori, ma è stato il capitalismo a mantenere la promessa. Oggi i “mezzi di produzione” si traducono sempre più spesso in conoscenze e competenze di un lavoratore, nel suo computer e nel suo cellulare e, forse, in una stampante 3D.

Marx immaginava un’utopia socialista in cui «poter pescare le mattina, cacciare il pomeriggio, allevare il bestiame la sera e fare teoria critica la notte, a piacimento, senza mai diventare un pescatore, un cacciatore, un allevatore o un pensatore». Ancora una volta, è stato il capitalismo a trasformare il sogno di Marx in realtà, aumentando a tal punto la produttività che le persone non devono più trascorrere tutte le loro ore di veglia alla ricerca di cibo.

6. I lavoratori che non sono d’accordo con Marx non soffrono di “falsa coscienza” né sono stupidi. Comprendono i propri interessi molto meglio dei pianificatori centrali o dei teorici.

 

Conclusione

Marx non ha mai compreso, o si è rifiutato di comprendere, gli incentivi creati da una società basata sul principio «Ognuno secondo le sue capacità, a ognuno secondo i suoi bisogni». L’attuazione di questo principio crea società in cui le persone hanno capacità minime e bisogni massimi.

Marx non ha mai definito cosa sarebbe un “sistema marxista” o come funzionerebbe. Si rifiutò di descrivere la sua utopia socialista in termini più dettagliati perché riteneva che dovesse emergere spontaneamente e che sarebbe stato sciocco cercare di prevedere la forma finale in cui si sarebbe evoluta.

Allo stesso tempo, però, riteneva che per realizzare il socialismo fosse necessaria una rivoluzione. Ma la rivoluzione implica una brusca rottura dello status quo. Piuttosto che permettere a un nuovo ordine socio-economico di emergere naturalmente, quindi, Marx voleva installare con la forza il suo nuovo ordine sulle ceneri del vecchio, un nuovo ordine che si rifiutava di definire perché doveva emergere naturalmente.

Di conseguenza, il “marxismo” era una specie di secchio vuoto in cui i rivoluzionari potevano versare ciò che volevano.

In pratica, i marxisti si sono dimostrati molto più bravi a distruggere società e culture che a crearne di nuove di successo. Il marxismo funziona solo nella misura in cui rimane una forza distruttrice.

 

(Traduzione dell’articolo Marxism Remains Relevant Only as a Destructive Force, Richard W. Fulmer, FEE.org)

 

Lettura consigliata: Smascherare il Marxismo, L. von Mises

I nazisti erano socialisti? La risposta nelle parole di Joseph Goebbels

Invecchiando ci si rende conto che alcune cose non cambieranno mai.

Gli appassionati di sport discuteranno sempre  del fuorigioco e di chi sia il miglior pugile di tutti i tempi (Muhammad Ali). Gli appassionati di cinema non saranno mai d’accordo su quale film del Padrino sia il migliore (il primo). E le trombe annunceranno la seconda venuta di Cristo prima che liberali e socialisti si saranno accordati sulla questione: i nazisti erano socialisti?

Quest’ultima questione mi ha sempre lasciato perplesso, lo confesso, e non solo perché la risposta è proprio nel nome: “nazionalsocialismo”. Se si leggono i discorsi e le conversazioni private dei gerarchi nazisti risulta evidente che amavano il socialismo e disprezzavano l’individualismo e il capitalismo.

Nel suo nuovo libro “Hitler’s National Socialism“, lo storico Rainer Zitelmann offre una visione a tutto tondo sulle idee che hanno plasmato uomini come Hitler e Goebbels. Sebbene sia chiaro che essi considerassero il loro socialismo come distinto dal marxismo (e su questo punto ci soffermeremo più avanti), non c’è dubbio che vedessero nel socialismo l’ideologia del futuro e disprezzassero il capitalismo e la borghesia.

Consideriamo, ad esempio, le seguenti citazioni di Joseph Goebbels, il Ministro della Propaganda del partito nazionalsocialista:

  1. “Il socialismo è l’ideologia del futuro.” – Lettera a Ernst Graf zu Reventlow, riportata in “Goebbels: A Biography
  2. “La borghesia deve cedere alla classe operaia […] Tutto ciò che sta per cadere deve essere spinto a terra. Siamo tutti soldati della rivoluzione. Vogliamo la vittoria dei lavoratori sullo sporco profitto. Questo è il socialismo.” – Citato in “Doctor Goebbels: His Life and Death
  3. “Siamo socialisti perché vediamo nel socialismo, cioè nella dipendenza di tutti i compagni gli uni dagli altri, l’unica possibilità per la conservazione della nostra genetica razziale e quindi per la riconquista della nostra libertà politica e per il ringiovanimento dello Stato tedesco”. – Citato in “Perché siamo socialisti?“, Der Angriff, 16 Luglio 1928.
  4. “Non siamo un’istituzione caritatevole, ma un partito di socialisti rivoluzionari”. Editoriale del Der Angriff, 27 maggio 1929
  5. “Il capitalismo assume forme insopportabili nel momento in cui gli interessi personali che serve sono contrari all’interesse della collettività. Esso si fonda sulle cose e non sulle persone. Il denaro è l’asse attorno al quale ruota tutto. Per il socialismo è il contrario. La visione del mondo socialista inizia con la gente e poi passa alle cose. Le cose sono asservite al popolo; il socialista mette il popolo al di sopra di tutto, e le cose sono solo mezzi per un fine”. – “Capitalismo“, Der Angriff, 15 luglio 1929
  6. “Nel 1918 il socialista tedesco aveva un solo compito: tenere le armi e difendere il socialismo tedesco” – “Capitalismo“, Der Angriff, 15 luglio 1929
  7. “Essere socialista significa lasciare che l’io serva il prossimo, sacrificare l’io per il tutto. Nel suo senso più profondo, il socialismo è altruismo.” – Note del diario, 1926
  8. “Le linee del socialismo tedesco sono nitide e il nostro cammino è chiaro. Siamo contro la borghesia politica e per un autentico nazionalismo! Siamo contro il marxismo, ma per il vero socialismo!” – “Those Damn Nazis: Why Are We Socialists?“, 1932
  9. “Siamo socialisti perché vediamo la questione sociale come una questione di necessità e di giustizia per l’esistenza stessa di uno Stato per il nostro popolo, non come una questione di pietà a buon mercato o di insulso sentimentalismo. Il lavoratore ha diritto a un tenore di vita che corrisponda a ciò che produce”. – “Those Damn Nazis: Why Are We Socialists?“, 1932
  10. “L’Inghilterra è una democrazia capitalista. La Germania è uno Stato popolar-socialista” – “Englands Schuld” (il discorso non è datato, ma probabilmente è stato pronunciato nel 1939).
  11. “Poiché siamo socialisti abbiamo sentito le più profonde benedizioni della nazione, e poiché siamo nazionalisti vogliamo promuovere la giustizia socialista in una nuova Germania” – “Die verfluchten Hakenkreuzler. Etwas zum Nachdenken“, 1932
  12. “Il peccato del pensiero liberale è stato quello di trascurare i punti di forza del socialismo nella costruzione della nazione, permettendo così alle sue energie di andare in direzioni antinazionali”. – “Die verfluchten Hakenkreuzler. Etwas zum Nachdenken“, 1932
  13. “Essere socialisti significa sottomettere l’io al tu; il socialismo è sacrificare l’individuo al tutto. Il socialismo è nel suo senso più profondo servizio”. – Citato in “Fuga dalla libertà“, Erich Fromm
  14. “Siamo un partito operaio perché vediamo nella prossima battaglia tra finanza e lavoro l’inizio e la fine della struttura del ventesimo secolo. Siamo dalla parte del lavoro e contro la finanza […] Il valore del lavoro sotto il socialismo sarà determinato dal suo valore per lo Stato, per l’intera comunità” – “Those Damn Nazis: Why Are We Socialists?“, 1932

Queste citazioni rappresentano solo un’infarinatura della concezione di Goebbels del socialismo. Si può notare che per molti versi i nazisti parlavano in modo molto simile a Karl Marx.

Frasi come “siamo un partito operaio“, “l’operaio ha diritto a un tenore di vita corrispondente a ciò che produce“, “il denaro è l’opposto del socialismo” e “siamo contro la borghesia politica” potrebbero essere facilmente estrapolate dai discorsi e dagli scritti dello stesso Marx, ma è chiaro che Goebbels disprezzava Marx e vedeva il suo modello di “nazionalsocialismo” come distinto dal marxismo.

Cosa distingue dunque il nazionalsocialismo dal marxismo? Le differenze principali sono due.

La prima è che Hitler e Goebbels fusero il loro socialismo con il nazionalismo e il razzismo tedeschi, rifiutando lo spirito internazionale del marxismo – lavoratori di tutto il mondo unitevi! – per uno più pratico che enfatizzava il movimento popolare tedesco.

Questa fu un’abile mossa da parte dei nazisti. Come ha sottolineato il premio Nobel per l’economia F. A. Hayek, essa rese il socialismo più appetibile a molti tedeschi che non erano in grado di vedere il nazismo per quello che era veramente:

“La tragedia suprema è che ancora non ci si rende conto che in Germania sono state in gran parte le persone di buona volontà che, con le loro politiche socialiste, hanno preparato la strada alle forze che rappresentano tutto ciò che detestano”, scrisse Hayek in “La via della schiavitù” (1944). “Pochi riconoscono che l’ascesa del fascismo […] non fu una reazione contro le tendenze socialiste del periodo precedente, ma un risultato necessario di quelle tendenze”.

La seconda differenza è che i nazionalsocialisti erano meno propensi a controllare direttamente i mezzi di produzione.

Nel suo libro del 1940 “German Economy“, Gustav Stolper, economista e giornalista austro-tedesco, spiegò che sebbene il nazionalsocialismo fosse anti-capitalista fin dall’inizio, era anche in diretta competizione con il marxismo dopo la Prima Guerra Mondiale. Per questo motivo, i nazionalsocialisti decisero di “corteggiare le masse” da tre diverse angolazioni.

“La prima era il principio morale, la seconda il sistema finanziario, la terza la questione della proprietà. Il principio morale era la comunità prima dell’interesse personale. La promessa finanziaria era rompere la schiavitù dagli interessi. Il programma industriale era la nazionalizzazione di tutte le grandi imprese. Accettando il principio ‘la comunità prima dell’interesse personale’, il nazionalsocialismo enfatizzava semplicemente il suo antagonismo allo spirito di una società competitiva, rappresentato presumibilmente dal capitalismo democratico […]. Ma per i nazisti questo principio significava anche la completa subordinazione dell’individuo alle esigenze dello Stato. E in questo senso il nazionalsocialismo è indiscutibilmente un sistema socialista”.

Stolper, fuggito dalla Germania agli Stati Uniti dopo l’ascesa al potere di Hitler, notò che i nazisti non avviarono mai una nazionalizzazione diffusa dell’industria, ma spiegò che questo non comportò alcuna differenza con il socialismo.

“La nazionalizzazione dell’intero apparato produttivo tedesco, sia agricolo che industriale, fu ottenuta con metodi diversi dall’espropriazione, in misura molto maggiore e su una scala incommensurabilmente più ampia di quanto gli autori del programma del partito nel 1920 probabilmente avessero mai immaginato. Infatti, non solo i grandi trust furono gradualmente ma rapidamente sottoposti al controllo statale, ma anche ogni tipo di attività economica, lasciando solo il titolo di proprietà privata”.

Nel suo libro del 1939 “The Vampire Economy: Doing Business Under Fascism“, Guenter Reimann giunse a una conclusione simile.

Lo storico dell’economia Richard Ebeling osserva che:

“Sebbene la maggior parte dei mezzi di produzione non fosse stata nazionalizzata, era stata comunque politicizzata e collettivizzata sotto un’intricata rete di obiettivi di pianificazione nazista, di regolamenti sui prezzi e sui salari, di regole e quote di produzione e di severi limiti e restrizioni all’azione e alle decisioni di coloro che erano rimasti, nominalmente, i proprietari delle imprese private in tutto il Paese. Ogni imprenditore tedesco sapeva che la sua condotta era prestabilita dallo Stato e collocata all’interno dei più ampi obiettivi di pianificazione del regime nazionalsocialista”.

La documentazione storica è chiara: il fascismo europeo era semplicemente una sfumatura diversa del socialismo, il che aiuta a spiegare, come ha notato Hayek, perché così tanti fascisti erano “ex” socialisti, “da Mussolini in avanti“.

Come Marx, i nazisti detestavano il capitalismo e consideravano la volontà e i diritti individuali subordinati agli interessi dello Stato. Non dovrebbe sorprendere che queste diverse sfumature di socialismo abbiano ottenuto risultati simili: povertà e miseria.

I socialisti continueranno a sostenere che il nazismo non era il “vero” socialismo, ma le parole del famigerato ministro della propaganda nazista suggeriscono il contrario.

(Traduzione dell’articolo Joseph Goebbels’ Own Words Show He Loved Socialism and Saw It as ‘the Future’, J. Miltimore, FEE.org)

Come nasce uno stato di polizia: lo Schutzhaft nella Germania nazista

PROLOGO

Nel maggio del 1933, nell’ufficio del responsabile prussiano alla detenzione preventiva Hans Mittelbach si presentò una donna brandendo della biancheria intrisa di sangue che suo marito, Erich Mühsam, le aveva spedito dal campo di concentramento di Sonnenburg. Mittelbach era ben consapevole delle condizioni di Mühsam.

Questi era stato arrestato nella notte del 28 febbraio 1933, qualche ora dopo l’incendio del Reichstag. Quella notte, come tanti altri comunisti, socialisti e liberali, era stato sorpreso nel sonno dalla polizia o dai gruppi paramilitari associati al NSDAP e condotto in vari luoghi di detenzione, legale o extralegale, fino al famigerato campo di concentramento di Sonnenburg. Mühsam era un noto anarchico e al suo arrivo a Sonnenburg le SA gli diedero il benvenuto a bastonate.

Le violenze proseguirono anche nei giorni successivi e furono gravi al punto che Mittelbach, nell’aprile del 1933, si recò in visita al campo per chiedere agli ufficiali di evitare maltrattamenti ai prigionieri. La richiesta fu vana.

Dopo le denunce della moglie di Mühsam, Mittelbach si recò di persona a prendere il prigioniero per condurlo nel carcere di stato a Berlino dove il trattamento sarebbe stato sicuramente migliore poiché gestito da uomini della polizia. Purtroppo per Mühsam, la carriera del suo salvatore finì di lì a poco, si crede proprio a causa della sua “indulgenza”.

Mühsam fu spostato al campo di Oranienburg, dove le SS lo strangolarono con una corda da bucato e gettarono il corpo nelle latrine fingendo un suicidio. Era il 9 luglio 1934. La cosa sorprendente di questa storia è che tutto ciò che accadde era perfettamente legale e persino costituzionale. Vediamo come.

«LE EMERGENZE SONO SEMPRE STATE IL PRETESTO CON CUI SONO STATE EROSE LE LIBERTÀ INDIVIDUALI»

L’incendio del Palazzo del Reichstag, l’edificio che ospitava la camera bassa del parlamento tedesco, avvenne la sera del 27 febbraio 1933, a un mese dall’insediamento del governo presieduto da Adolf Hitler. L’attentato, per il quale fu accusato un comunista, fu il pretesto per ricorrere alla decretazione d’emergenza prevista dalla costituzione di Weimar all’articolo 48, comma 2:

Il presidente [del Reich] può prendere le misure necessarie al ristabilimento dell’ordine e della sicurezza pubblica, quando essi siano turbati o minacciati in modo rilevante, e, se necessario, intervenire con la forza armata. A tale scopo può sospendere in tutto o in parte la efficacia dei diritti fondamentali stabiliti dagli articoli 114, 115, 117, 118, 123, 124 e 153.

I diritti fondamentali menzionati sono l’inviolabilità della libertà personale e del domicilio, la segretezza delle comunicazioni, la libertà di stampa, di riunione, di associazione, e il diritto alla proprietà privata.

Dopo l’incendio, il governo di Hitler si rivolse immediatamente al presidente del Reich Hindenburg, un vecchio generale in pensione, per chiedergli di approvare quello che passò alla storia come “decreto dell’incendio del Reichstag”, con il quale si disponeva che tutti i diritti fondamentali erano sospesi fino a nuove disposizioni.

Il decreto divenne una sorta di carta costituzionale del Terzo Reich, «giustificando ogni sorta di abuso di potere, compresa la negazione della libertà personale senza supervisione dell’autorità giudiziaria né appello»[1].

SCHUTZHAFT

«Dalla prospettiva del campo non si capiva secondo quale sistema (se poi ce n’era uno) fossero eseguiti gli arresti, ancor meno, in base a che cosa si stabiliva la durata della custodia preventiva e la scelta dei rilasci. […] Questa incertezza […] ha giocato un grosso ruolo e ha reso particolarmente difficile la nostra esistenza. […] Solo il fatto che la custodia preventiva era inflitta senza limitazione di tempo fino a un nuovo riesame dell’arresto fa capire che [essere] oggi in Germania detenuto politico in custodia preventiva è molto, molto peggio che essere qualunque criminale condannato ad una precisa limitazione di libertà, perché questo sa la durata del suo arresto»[2].

Così il socialdemocratico Gerhart Seger descriveva la condizione di totale incertezza in cui versavano i circa 200.000[3] prigionieri politici in “custodia preventiva” nel 1933.  La custodia preventiva (schutzhaft) era uno strumento preventivo-repressivo di polizia per arrestare chi fosse considerato un pericolo senza ricorrere agli strumenti giudiziari.

La costituzione di Weimar prevedeva che la libertà personale fosse inviolabile, ma il decreto dell’incendio dei Reichstag aveva sospeso quell’articolo della costituzione: nessun cittadino era al sicuro dagli abusi dei vari corpi di polizia o dei gruppi paramilitari del partito nazionalsocialista; nessuno era garantito contro un arresto arbitrario; la libertà aveva smesso di appartenere al singolo cittadino e apparteneva allo Stato.

Era sufficiente che ci fosse un sospetto, una denuncia anonima, e chiunque poteva essere posto in custodia preventiva. Molti degli arresti avvenuti nella notte tra il 27 e il 28 febbraio 1933 colpirono anche persone che non avevano alcun legame con l’attentato al Reichstag. Mühsam fu arrestato soltanto perché era un noto anarchico.

Altri furono arrestati solo perché comunisti o appartenenti ad altri partiti che potevano avere a che fare con l’incendio. «Alla polizia politica fu data la possibilità di agire in modo preventivo contro ogni minaccia allo Stato: in altre parole, agli organi di polizia fu concesso di arrestare e detenere in custodia preventiva, per un tempo di fatto indeterminato, personalità politiche non ancora processate o di assegnarle al confino per un tempo sì determinato, ma facilmente prorogabile»[4].

Le persone sottoposte a questa misura cautelare «non conoscevano i veri motivi in base ai quali era stato deciso il loro destino»[5] né erano messe al corrente di quando (e se) sarebbe mai terminata la loro detenzione. Era loro impedito anche di ricorrere alla giustizia per chiedere un rilascio.

L’intervento di un avvocato fu ammesso «solo per redigere istanze scritte in rappresentanza del colpito, ma non fu permesso ovviamente che gli avvocati o chiunque altro prendessero visione degli atti e delle pratiche della polizia politica. I permessi di visita degli avvocati e a chi incaricato della tutela degli interessi dello Schutzhäfling non erano concessi “se lo scopo politico-poliziesco della custodia preventiva [era] messo a rischio”»[6].

Il ricorso ai tribunali era invece assolutamente inutile, poiché la polizia poteva porre in custodia preventiva anche chi fosse stato assolto, “correggendo” in questo modo ogni decisione “sbagliata” dei tribunali. Nonostante i tribunali fossero quasi del tutto “nazificati”, lo strumento dello schutzhaft era comunque preferibile: offriva una procedura più snella e veloce; era più “silenzioso” rispetto a un processo penale; non aveva bisogno di prove ma poteva colpire virtualmente chiunque con il solo pretesto della prevenzione e della difesa del popolo e dello Stato.

Lo schutzhaft era lo strumento per eccellenza dello stato onnipotente del primo dopoguerra. «La libertà dell’individuo era prevista solo in funzione dello Stato»[7], che aveva il compito di difendere l’unità e la forza vitale del popolo; in altre parole, aveva il compito di epurare chiunque esprimesse opinioni o compisse atti pericolosi per l’unità nazionale.

La scienza giuridica tedesca andò avvicinandosi lentamente alla necessità, «di natura tutta etico-biologica, di difendere la comunità e la sua purezza razziale»[8]. In questa ottica, lo strumento dello schutzhaft non aveva soltanto la funzione di prevenire i reati isolando gli individui pericolosi, ma uno scopo molto più ampio di escludere per sempre dalla società gli individui che non potevano farne parte poiché la loro stessa esistenza biologica poteva minarne le basi.

Slavi, ebrei, zingari, omosessuali, intellettuali dissidenti, disabili, erano tutte persone che potevano anche non aver compiuto alcun reato e violato alcuna legge, ma dovevano essere allontanate dalla comunità perché portatrici di un patrimonio culturale e genetico nocivo.

Non è affatto strano che, fino alla conferenza di Wannsee del 1942, i nazisti non avessero ancora deciso cosa fare con tutti i prigionieri dei campi di concentramento. Alcuni gerarchi, come Hans Frank, appoggiavano addirittura l’idea di deportare tutti gli ebrei sull’isola di Madagascar, purché lasciassero la comunità tedesca.

I luoghi di detenzione degli schutzhäftling erano notoriamente i campi di concentramento, anche se agli inizi del 1933 i nazisti non avevano ancora pianificato la costruzione di un arcipelago di campi. La necessità nacque quando gli arresti divennero così tanti da non poter essere più gestiti dalle carceri di stato, e si dovette ricorrere a stipare i detenuti in altre strutture.

Inizialmente si preferirono strutture preesistenti come ex carceri, ex fabbriche, edifici abbandonati, persino scantinati. Questi luoghi potevano essere gestiti indifferentemente sia da personale carcerario facente capo ai vari ministeri, sia da personale extralegale come le SS o le SA, i due gruppi paramilitari del partito nazionalsocialista.

Il trattamento dei detenuti poteva variare in base al luogo in cui venivano assegnati. Le prigioni statali, almeno nel 1933, erano ritenute i luoghi più sicuri e tollerabili.

«Nonostante le molte difficoltà, la maggioranza dei prigionieri in detenzione preventiva trovava sopportabile la vita all’interno delle prigioni e delle Case di lavoro. Generalmente venivano tenuti separati dal resto della popolazione carceraria, a volte in grandi stanzoni comuni. Le celle singole erano semplici ma non spartane, di solito dotate di letto, tavolo, sedia, scaffale, lavello e un secchio che fungeva da latrina. Il cibo e la sistemazione erano perlopiù adeguati, nonostante il sovraffollamento, e siccome di norma ai prigionieri non veniva chiesto di lavorare, i detenuti trascorrevano il tempo chiacchierando, leggendo, facendo esercizio fisico, lavorando a maglia e giocando a scacchi»[9].

La relativa pace di questi luoghi durò poco, poiché già nel 1934 molte prigioni statali passarono sotto la gestione delle SS, trasformandosi nello stesso inferno che si viveva nei campi. D’altronde, come si è sottolineato, nessuno dei detenuti aveva diritti: anche il magro pasto giornaliero e il secchio da usare come latrina erano su gentile concessione delle autorità

La popolazione locale era consapevole delle violenze che si consumavano nei campi fin dalla loro nascita nel 1933. Non era raro che i prigionieri riuscissero a fuggire e raccontare ciò che avevano subìto, ma l’atteggiamento generale era per lo più di indifferenza o, al massimo, di insofferenza verso la convivenza con gli uomini delle SS e delle SA che raggiungevano le città vicine ai luoghi di detenzione per divertirsi.

Ad esempio, nell’Emsland «I dettagli sugli eccessi delle SS si diffusero fra la popolazione locale e presto raggiunsero il ministero dell’Interno prussiano, che alla fine intervenne. Il 17 ottobre 1933 ordinò che tutti i prigionieri politici di spicco e gli ebrei fossero immediatamente portati fuori dai campi dell’Emsland»[10].

In altri casi, come l’episodio descritto in apertura, i parenti delle vittime apprendevano tramite la corrispondenza degli abusi all’interno dei luoghi di detenzione e protestavano infruttuosamente con le autorità, ma diffondevano anche le storie fra conoscenti e amici. Era raro trovare qualcuno che non avesse udito almeno una storia del genere già nel 1933.

UNA CURIOSA FUGA

Hans Beimler era un attivista del KPD, il Partito Comunista Tedesco, e aveva preso parte a numerosi scontri con i gruppi paramilitari di destra durante i turbolenti anni della repubblica di Weimar.

Era ben noto agli uomini delle SA e delle SS, quindi quando fu condotto nel campo di concentramento di Dachau il 25 aprile 1933, le guardie lo accolsero con bastonate e scudisciate. Poi lo condussero nella sala delle torture, dove per giorni subì violenti pestaggi da parte delle guardie del campo.

Lo scopo era indurre Beimler al suicidio, così da non far ricadere la colpa della sua morte sulle autorità del campo. Ma Beimler era un osso duro, così l’8 maggio 1933 le SS gli insegnarono a fare un cappio con le lenzuola e gli diedero un ultimatum: se non si fosse impiccato da solo, il giorno dopo ci avrebbero pensato loro, e sarebbe stato molto peggio.

Il mattino successivo, le guardie entrarono nella cella di Beimler e trovarono un’amara sorpresa: il prigioniero era scomparso. Non è chiaro come fuggì dal campo, ma riuscì a raggiungere la Cecoslovacchia «da dove mandò una cartolina alle SS di Dachau: “Baciatemi il culo”»[11].

Ma, molto più importante, Beimler scrisse «uno dei primi fra i sempre più numerosi racconti di testimoni oculari riguardo ai campi nazisti come Dachau»[12] che fu pubblicato a puntate su un giornale svizzero e fatto circolare segretamente in Germania.


[1] NIKOLAUS WACHSMANN, KL. Storia dei campi di concentramento nazisti. Mondadori. Milano 2016.

[2] CAMILLA POESIO, In balia dell’arbitrio. Il confino fascista e la Schutzhaft nazista, in Paradigma lager. Vecchi e nuovi conflitti del mondo contemporaneo, a cura di S. Casilio, L. Guerrieri, A. Cegna, Clueb, Bologna 2010, p. 137

[3] NIKOLAUS WACHSMANN, KL. Storia dei campi di concentramento nazisti. Mondadori. Milano 2016, p. 33

[4] CAMILLA POESIO, Il confino di polizia, la «Schutzhaft» e la progressione erosione dello Stato di diritto, in Il diritto del duce. Giustizia e repressione nell’Italia fascista, a cura di Luigi Lacchè, Roma 2015, p. 99

[5] CAMILLA POESIO, In balia dell’arbitrio. Il confino fascista e la Schutzhaft nazista, in Paradigma lager. Vecchi e nuovi conflitti del mondo contemporaneo, a cura di S. Casilio, L. Guerrieri, A. Cegna, Clueb, Bologna 2010, p. 142

[6] CAMILLA POESIO, Il confino di polizia, la «Schutzhaft» e la progressione erosione dello Stato di diritto, in Il diritto del duce. Giustizia e repressione nell’Italia fascista, a cura di Luigi Lacchè, Roma 2015, p. 101

[7] Ibidem, p. 103

[8] Ibidem, p. 104

[9] NIKOLAUS WACHSMANN, KL. Storia dei campi di concentramento nazisti. Mondadori. Milano 2016, p. 37

[10] Ibidem, p. 54

[11] Ibidem, p. 27

[12] Ibidem, p. 27