L’assistenzialismo: come affrontarlo? – Rubrica “Welfare secondo un Liberista”

Nel primo articolo della rubrica “Welfare secondo un Liberista” ci siamo lasciati con un quesito.

Le politiche sociali possono svilupparsi tramite la coesione volontaria dei cittadini, l’autogestione del welfare, l’autogoverno del proprio vicinato o delle proprie cause sociali?

Non esiste risposta migliore se non quella di raccontare, passo dopo passo, come si approccia un liberista rispetto al tema del Welfare. In questo articolo, spiegherò come il liberista vede il tema dell’assistenzialismo.

Si dicono tante grandi bugie sul nostro conto. Un socialista è perfettamente convinto che per un liberista, il povero può morire di fame. Ci disegnano come dei perfetti ricchi borghesi.

Peccato però che non ci sia bisogno di fare troppi esempi su quanti liberali liberisti possiedano un reddito normale, in media con tutto il resto della popolazione. Potrei raccontare la mia vita, il mio percorso di vita.

Ebbene, io provengo da una famiglia, dal punto di vista economico, con qualche debolezza. Quando iniziai il mio percorso universitario, emigrando a Torino, avevo la consapevolezza di non avere alle spalle una famiglia forte. Sicuramente presente, ma non abbastanza da garantirmi una tranquillità economica.

Sono diventato liberista, sicuramente grazie agli studi, ma anche approcciandomi alla vita. Finito gli studi, inizi a lavorare. In quel momento capisci che hai di fronte dei grossi handicap. Essere assunto da un’azienda è molto difficile: in una grossa azienda devi fare i conti con la realtà: da una parte ci sono gli assunti “storici”, gli assunti figli dello Statuto dei Lavoratori, assunti con tanto di contratto indeterminato e protezione in-toto dei Sindacati.

Licenziare non è semplice, ma intanto la crisi è forte. Siamo alla fine del 2015 e l’inizio del 2016. Sembra che ci siano dei risvegli economici, ma è tutta apparenza. Con la crisi sul groppone, con un costo esorbitante del personale, le aziende ricorrono ad altri sistemi: contratti interinali, contratti a collaborazione, i voucher. Trovi di tutto, insomma. Ah si, poi ci sono gli immancabili stage.

Mentre inizio a cercare lavoro, vengo a scoprire di aver perso un treno: nel 2015, esattamente nel primo semestre, arrivano gli sgravi fiscali sui contratti a tempo indeterminato attuati dal Governo; una gran sfortuna, io stavo studiando, ero all’università in quel periodo, ora che ho concluso gli studi, mi rimangono le bricioline. I residui, insomma: grazie governo.

Nel frattempo, anche un mio amico stava cercando lavoro. Mi dice però che si sente molto sconsolato. Lui aveva più di 30 anni e perdeva tanti di quei “privilegi” utili per l’assunzione.

Per farla breve, sono esattamente quattro anni che lavoro. Ho cambiato tante aziende, sicuramente, ma ho sempre lavorato. Nonostante tutto, vuoi per la mia cultura politica, vuoi perché sono ambizioso, ho acquisito una mia filosofia di vita. Penso che alla mia età, giovane, l’unica cosa che posso fare è maturare, crescere, fare gavetta.

Questo non vuol dire vivere senza diritti, ma che alla nostra età abbiamo da dimostrare, non da chiedere. Poi, la vita è una scala sociale. Se sai salire sei stato bravo, altrimenti sei stato scadente.

Per un liberista la frase di Bill Gates, “Se sei nato povero non è colpa tua, ma se muori povero è colpa tua”, è una frase che rientra molto nelle mie dinamiche di pensiero.

Guardiamo la realtà italiana: ho appena fatto un piccolo racconto di come vive un giovane che entra nel mondo del lavoro. Entriamo in un contesto con una marea di “protezioni sociali“. Il difetto principale dell’assistenzialismo è che protegge il passato o il presente, ma non il futuro.

Protegge chi chiede in quel momento una copertura, ma penalizza tutto il resto. Il Governo del 2015 decise per gli sgravi fiscali per i contratti a tempo indeterminato, fu una decisione elettorale, probabilmente, ma che maturò tantissime assunzioni; in quel momento molti giovani non erano disponibili per entrare nel mercato del lavoro ed una volta pronti, i “rubinetti” erano ormai chiusi.

Anche perché l’assistenzialismo non potrà mai garantire una protezione universale, perché il meccanismo lo impedisce. Esattamente, parliamo di un meccanismo che prevede che chi produce reddito “protegga” chi non produce reddito. Ebbene, quando una categoria tende ad essere assistita dallo Stato, i detentori di reddito, esclusi dall’assistenzialismo, devono sobbarcarsi il peso.

Chi sono gli esclusi di oggi? Direi una donna casalinga che ha deciso da poco di immettersi nel lavoro; noi giovani che finiamo la scuola o l’università; chi si ritrova disoccupato a 50 anni.

Ecco, prima ho detto che l’assistenzialismo protegge il presente, ma non il futuro. Ebbene, l’esempio lampante sono il cambio di rotta genitori-figli. Storicamente, dall’ottocento fino a qualche anno fa, i figli tendevano ad essere sempre più ricchi dei genitori. Ebbene, quest’anno e prossimamente, per la prima volta, i genitori saranno più ricchi dei figli. Questo non era mai accaduto.

Ma esiste una categoria di esclusi non annunciata. I detentori di reddito. Cosa succede se chi ha un reddito si ritrova con le stesse difficoltà di chi non possiede un reddito?

Allo stesso attuale, diciamo che si ha ben poco su cui poter sperare. Anche analizzando il mio presente, direi che mi ritrovo in questa situazione: lavoro, ho uno stipendio, ma sono accompagnato da una spaventosa fragilità economica; basterebbe un soffio di vento per passare un mese complicato, eppure, per lo Stato, io non godo di alcun aiuto assistenziale. Al massimo, gli assegni famigliari se hai un figlio. Ma io non ho figli. Altra esclusione.

Alla prossima…

Fascismo ed antifascismo sono la stessa cosa?

Spesso, parlando di politica, si dice che “fascisti ed antifascisti sono la stessa cosa”. Fra chi abbraccia questo pensiero come fosse verità rivelata e chi lo rifugge vi è un dibattito interessante, ma che alla prova dei fatti dimostra come entrambi gli schieramenti abbiano torto.

In teoria sembra un ossimoro…

Ovviamente, verrebbe da dire, se si chiama “antifascismo” è ovvio che sia opposto al fascismo. Ma questo ragionamento aveva valore durante il regime, quando il fascismo era il male al governo e bisognava, uniti, sconfiggerlo.

Oggi le cose sono più complesse. Il fascismo è diviso in varie correnti e vi sono anche numerosi movimenti borderline, non chiaramente attribuibili ad esso.

Da ciò deriva una certa difficoltà a definire obiettivamente cosa sia il fascismo: ci sono fascismi che hanno accettato di buon grado la democrazia, fascismi dichiaratamente antirazzisti e pro-Islam e addirittura fascismi autonomisti!

Ovviamente sussistono alcuni elementi comuni quali la tendenza a volere un’economia socializzata, una proprietà privata che rispetti la funzione sociale e un certo nazionalismo.

…ma alla prova pratica è diverso

Piccolo problema: l’economia socializzata e la proprietà privata dalla funzione sociale mica la vogliono solo i fascisti, ma anche gran parte della sinistra. Quello del rossobrunismo, ossia superare le differenze tra rossi e neri per lottare assieme contro capitalismo e simili, non è di certo un fenomeno nuovo: Togliatti nel 1936 lodò la Rivoluzione Fascista e parlò di Mussolini come un traditore di tali ideali, Bombacci, un gran comunista che creò la propria edizione della Pravda dedicata a Mussolini, venne fucilato addirittura assieme a lui.

In sostanza definire un fascismo a cui opporsi è spesso difficile. Il modo migliore di farlo è sostenere un’ideologia che si opponga ai fondamenti del fascismo. Se si ritiene il fascismo fondamentalmente antidemocratico – quindi un metodo – è sufficiente sostenere qualsiasi ideologia democratica, mentre se si ritiene possibile un fascismo esistente in democrazia la cosa diviene più complessa.

Confusione tra antifascismo e antifa

Fin qui abbiamo, al massimo, mostrato come sia difficile essere antifascisti oggi, ma qualcosa deve aver originato l’equivoco di cui parliamo nel titolo. Questo qualcosa, naturalmente, è il movimento Antifa.

Trattasi di un movimento spontaneo composto principalmente da estremisti di sinistra, e questo movimento spesso adotta metodi e idee fasciste. Violenza – spesso associata a quella dei black bloc -, antisemitismo, rifiuto del capitalismo e della globalizzazione, minacce, distruzione di proprietà e anche peggio.

Non è certo strano che una persona normale e non troppo informata, quando sente per la decima volta in TV che gli Antifa hanno fatto squadrismo per distruggere qualche negozio random per diffondere le loro idee, pensi “sì ma certo, fascisti e antifascisti sono la stessa cosa”.

Ma, come abbiamo mostrato nel capitolo precedente, l’antifascismo non è un’ideologia a sé bensì l’adesione ad un’ideologia incompatibile col fascismo.

Per concludere

Naturalmente l’opposizione al fascismo non è rappresentata solo da qualche esagitato che si sarebbe trovato molto bene con le squadracce sansepolcriste. Affermare come l’antifascismo sia equivalente al fascismo, senza specificazione alcuna, è quantomeno ingenuo, se non addirittura in malafede.

Viene tuttavia da chiedersi, a più di settant’anni dalla fine del ventennio, se sia così importante la semplice etichetta di antifascismo. Onestamente credo che ormai sia più importante fare opposizione con la proprie idee ai residuati del fascismo piuttosto che opporsi ad un regime ormai morto e sepolto.

Perché sono tutti buoni a dire di voler togliere qualche fascio littorio in giro, ma quanti sarebbero disposti a rimuovere – o quantomeno a modificare radicalmente – i decreti fascisti ancora in vigore? Giusto per citarne alcune:

  • Il TULPS, sviluppato per far funzionare l’apparato di polizia fascista e in larga parte ancora in vigore
  • I vari reati di vilipendio
  • La regolamentazione della professione giornalistica
  • Vari altri decreti, leggi, enti e simili che servono solo a limitare la libertà economica e personale.

Il capitalismo salverà la Chiesa Cattolica (ma non ditelo a voce alta)

Quando penso alla figura del parroco mi viene in mente il curato di campagna che cerca di svincolarsi da loschi figuri che vogliono impedire matrimoni, oppure quelle figure sociali che, dall’alto del loro mandato episcopale, si mettono a gestire tornei di calcetto in oratorio. Tutto bellissimo se non fosse che il parroco moderno fa tutto fuorché questo. La Chiesa Cattolica di oggi vede i parroci che controllano situazioni impegnative, al pari di veri e propri manager d’impresa: asili nido, scuole per l’infanzia, eventi. A livello giuridico sono datori di lavoro: hanno dipendenti e sono penalmente responsabili in caso di problemi legati alla sicurezza delle attività che avvengono negli spazi parrocchiali. Una bella “rogna” che avrebbe portato Don Abbondio a fare, probabilmente, tutt’altro.

Il punto è che, per la Chiesa Cattolica, il prete è rimasto proprio quello di Manzoni nel suo celebre romanzo: senza formazione economica ma solo teologica. Capiamoci, questo non vuole essere in alcun modo un attacco alla Chiesa di Roma, ma un tentativo di far comprendere come l’origine di buona parte dei problemi della vita di una comunità parrocchiale derivi dalla mancanza di una visione imprenditoriale.

Questo articolo ha una sua attualità in quanto, nel padovano, un sacerdote si è dovuto dimettere in seguito a sexy rumors nei suoi confronti. E fin qui niente di sconcertante, i sacerdoti sono uomini e possono (anche se non dovrebbero, per “contratto”) avere queste debolezze; ciò che ha fatto specie è la sua intervista ai giornali locali. Egli sosteneva che dal momento del suo insediamento nel 2017 fossero “scomparsi” dagli uffici tutti i registri che riguardavano 10 anni di gestione economica nonché, l’anno successivo, anche la chiavetta che permetteva i pagamenti digitali, a cui è seguita regolare denuncia contro ignoti. E ancora ha affermato che “c’era un gruppo di persone (parrocchiani laici, ndr) che comandava tutto e decideva ogni spesa, dalle sagre ai contributi per le associazioni, fino alle ristrutturazioni. Bisognava stare alle loro condizioni”. Conclude sostenendo che la sua gestione – più accentrata e volta al controllo diretto delle spese – avesse dato fastidio a qualcuno dando una giustificazione per la diffamazione.

Vera o no che sia la storia, rimane interessante però la metodica con cui le parrocchie ormai vengono gestite: i Consigli Pastorali e i sacerdoti che li presiedono (i CdA per intendersi) sono costituiti da persone non formate in materia amministrativa. Spesso si trovano in posizioni di comando anche personaggi “folkloristici” facenti parte della comunità. Una condizione che pone la Chiesa Cattolica ben lontana da uno standard adeguato di professionalità e necessario per le funzioni che queste organizzazioni svolgono.

Come risolvere questo problema? Il capitalismo e le logiche di mercato – oggigiorno così avversate anche dalla Chiesa di Roma – possono venire in aiuto. Per quale motivo in Vaticano (o nei vari ordini in cui sono divise le varie parrocchie) non si sceglie di pagare dei manager veri, preparati e in grado di fare business plan seri e strutturati, tali che possano assumere dei responsabili HR in grado di capire i limiti delle persone che lavorano in parrocchia? Il modus operandi potrebbe essere quello della Chiesa irlandese, in cui le varie realtà locali funzionano come piccole aziende.

Così facendo, i sacerdoti potrebbero tornare a concentrarsi appieno sui fedeli e sulla teologia, materia per la quale sono dei (certificati) professionisti, lasciando ai manager d’impresa la possibilità di favorire accesso a persone meritevoli nell’organigramma parrocchiale: una parrocchia più funzionale e trasparente è l’immagine di una Chiesa Cattolica inclusiva al passo coi tempi, e lo accetteremmo di buon grado anche senza dover urlare che è merito del liberalismo…c’è ancora tempo per ammetterlo.

Si può essere euroscettici senza essere sovranisti?

Quando pensiamo agli euroscettici, solitamente ci vengono in mente loschi figuri che propongono di uscire dall’Unione per poter tornare ad una valuta sovrana da stampare come i soldi del Monopoli o che parlano di quanto sia cattiva l’Europa a imporci cose brutte come il pareggio di bilancio, il divieto degli aiuti di Stato e la concorrenza.

Qualcuno va delirando e addirittura cita Margaret Thatcher, la stessa Margaret Thatcher che era contraria all’euro per l’Italia perché, parole sue, ha “un’economia inefficiente”.

Verrebbe da dire che un liberale non può che essere europeista, ma non è vero. In questo articolo vedremo come essere euroscettici e sostenere idee liberali non sia affatto in contrasto e ipotizzeremo come e perché un governo liberale possa uscire dall’Unione.

Personalmente, sia chiaro, non ho pregiudizi sull’integrazione europea e difficilmente farei campagna attiva per l’uscita, specie valutando quale sarebbe l’alternativa in Italia. Tuttavia sono fortemente sfiduciato dal progetto europeo formato da Stati. Alla fine l’UE è un club di Stati: loro decidono, loro comandano e danno un contentino democratico col Parlamento europeo.

Se poi certi Stati – *coff* Spagna *coff* – sono disposti ad uccidere pur di non perdere la sovranità, state sicuri che non accetteranno supinamente un progetto che un giorno può svegliarsi e dire “Sai Madrid, domani la Catalogna vota per l’indipendenza e se non lo permetti ti commissariamo”.

L’unica Europa federata che a mio parere potrebbe funzionare veramente come vorrebbero gli europeisti duri e puri è quella dei 1000 Liechtenstein, per citare Hoppe.

Perché uscire?

Torniamo a noi. Per quale motivo un governo liberale potrebbe voler uscire dall’Unione? Le possibili ragioni sono varie.

La prima è commerciare più liberamente. Se è vero che l’Unione europea ha raggiunto grandi obiettivi nel libero commercio, soprattutto quello interno, è anche vero che spesso, grazie all’influenza degli stati centralisti dell’Europa occidentale, tale progresso resta bloccato quando il libero commercio può “danneggiare” l’economia di uno di questi Stati, si pensi a tutte le scuse che la Francia ha inventato per provare a bloccare l’accordo col Mercosur, avverso agli agricoltori francesi.

Grosso modo gli Stati dell’Associazione Europea del Libero Scambio, oggi Svizzera, Liechtenstein, Norvegia e Islanda, commerciano come l’UE oltre che con essa. Ma nulla vieta a questi Paesi di avere più trattati di libero commercio rispetto all’Unione europea. Tant’è che, per esempio, l’equivalente EFTA del CETA è entrato in vigore nel 2009, mentre il CETA nel 2017, e tra l’altro in via provvisoria.

Un’altra possibile motivazione è quella di voler liberalizzare l’agricoltura, come fatto ad esempio in Nuova Zelanda. Nell’Unione europea l’agricoltura è fortemente regolata e uno Stato non può semplicemente dire “da oggi liberalizzo”. I Paesi EFTA invece possono fare quello che vogliono, l’agricoltura è esplicitamente esclusa dai trattati.

Se si vuole una nazione con un modello liberale sulle armi, tra l’altro, uscire dall’Unione è praticamente obbligatorio. Bruxelles odia le armi, c’è poco da fare, e se con gli Stati esterni può fare pressioni come minacciare ripercussioni su Schengen, com’è successo per esempio con la Svizzera, con gli Stati membri può agire molto più incisivamente.

Se un governo liberale volesse un “secondo emendamento” starebbe in pratica dicendo “vogliamo uscire dall’Unione europea”, c’è poco da dire.

Ma si potrebbe voler uscire dall’Unione anche per un mero fatto politico: commerciare e scambiare merci, persone e servizi liberamente con uno Stato non vuol dire per forza volerci stare assieme politicamente. Uno Stato può apprezzare i prodotti ungheresi o i servizi spagnoli e voler fare bonifici a commissioni nazionali verso la Polonia ma non voler aver nulla a che fare con le politiche di dubbia qualità democratica dei due Stati in questione.

Per qualcuno perdere un po’ di rappresentanza potrebbe essere un prezzo accettabile per non essere invischiato nei vari problemi dell’UE.

Come uscire?

Come dovrebbe un governo liberale uscire dall’Unione europea? Oggi abbiamo un solo caso di procedura di uscita dall’Unione, quello inglese, che è stato abbastanza confusionario.

La procedura della Brexit è sicuramente un caso da non imitare. A mio parere la miglior maniera di fare una secessione è quella prevista dalla Costituzione del Liechtenstein: si vota sull’argomento e poi sul trattato.

La legge italiana rende tuttavia difficile votare un referendum del genere perché richiederebbe una legge costituzionale. Farne due potrebbe essere difficoltoso, se quindi un governo avesse un mandato popolare chiaro dovrebbe fare una cosa: andare a Bruxelles e trattare fin da subito.

Le cose da ottenere sarebbero principalmente il poter rimanere nello Spazio Economico Europeo, avere la strada aperta per entrare nell’EFTA, mantenere Schengen e poter rimanere nei progetti europei interessanti e concordati. Se ci sono dei debiti è bene pagarli subito per partire da una posizione migliore.

Una volta concluso il trattato i cittadini voteranno per quel trattato in un referendum. Non voteranno un generico “restare” contro “uscire”, voteranno uno specifico trattato. Se questo trattato vince non è colpa del populismo, di Trump, di Bolsonaro o di chicchessia, semplicemente i cittadini hanno ritenuto quel trattato e le relative implicazioni più vantaggiose dell’appartenenza all’UE.

Poche cose cambierebbero nell’immediato: Gli Stati dell’EFTA – eccetto la Svizzera che non è nello Spazio Economico Europeo – sono praticamente come Stati dell’UE. Ma un governo liberale potrebbe iniziare a cercare nuovi trattati di libero scambio, ridurre l’interventismo in agricoltura, modificare la politica sulle armi o altro che onestamente non mi viene nemmeno in mente.

Se ti fosse venuta voglia, beh, pensaci bene

Magari con questo articolo ti ho convinto che uscire dall’Unione europea è una cosa positiva. Ti invito ad approfondire l’argomento anche consultando altre fonti perché da un articolo divulgativo come questo non è saggio trarre insegnamenti tali da mutare le proprie visioni politiche.

Se sei veramente convinto, beh, valuta bene come schierarti. La posizione liberale euroscettica è profondamente minoritaria.

Tipicamente gli italiani euroscettici lo sono perché credono che il libero scambio, la concorrenza e la libertà economica abbiano danneggiato l’Italia. Sostenere un partito euroscettico italiano, oggi, vuol dire negare ogni singola parola scritta in questo articolo.

Significherebbe stare con l’Italia che sussidia l’agricoltura alla follia, che si chiude su sé stessa per tutelare qualche azienda decadente (dimenticando che le proprie Regioni ricche vivono di export), con il partito unico dell’inflazione, della svalutazione e del debito.

Perché, alla fine, se condividi quello che ho scritto non sei euroscettico, sei semplicemente liberale. Credi in piccoli Stati che commerciano liberamente tra di loro, che di scambiano idee, persone e servizi senza che da ciò derivi necessariamente un’unione politica forte. Un sistema che Thomas Jefferson ben sintetizzava come “Pace, commercio, e onesta amicizia con tutte le nazioni ingarbugliando le alleanze con nessuna”

Ridurre i parlamentari e non la democrazia

Poco tempo fa vi ho parlato dello Stato nel Terzo Millennio in questo articolo. Rileggendo il libro, per migliorare alcuni punti, mi è capitato sotto mano un paragrafo decisamente utile in questi giorni in cui si discute di taglio dei parlamentari, specie quando pochi giorni fa sono state presentate le firme per indire un referendum in materia, di fatto annullando una legislatura di risparmi a causa dei costi della consultazione.

I contrari al taglio fanno notare che ciò vorrebbe dire aumentare il numero di cittadini che eleggono un deputato, un taglio non giustificato dal leggero risparmio portato dalla misura. Da un punto di vista meramente teorico hanno ragione, ma all’atto pratico bisogna considerare due aspetti.

Il primo è che sono già applicate numerose misure per ridurre la rappresentanza democratica e un sistema tendenzialmente proporzionale non aiuta a creare un’identificazione tra deputato e territorio. Queste misure sono le preferenze bloccate o gli sbarramenti che nei sistemi maggioritari escludono le liste più piccole dal riparto dei seggi. In un sistema del genere, alla fine, poco cambia tra avere 630 o 34 deputati: la rappresentanza è solo marginalmente scalfita dall’avere pochi deputati.

Il secondo aspetto da considerare è che, ahinoi, da tempo il Parlamento è essenzialmente un passacarte del Governo, complici anche le alleanze sbilenche dove se non passa una legge si va tutti a casa determinando, di fatto, un ricatto per parlamentari (un bel direttorio servirebbe anche a questo).

Il Parlamento

Il Principe (nel libro Lo Stato del Terzo Millennio, ndr), in gioventù, lavorò nella segreteria di un senatore americano arrivando a conoscere abbastanza bene i meccanismi interni di un Parlamento. E fa notare principalmente due cose:

  • il Parlamento non può essere troppo piccolo, altrimenti i parlamentari non riescono concretamente ad analizzare le leggi e a fare il proprio lavoro. Proprio per questo motivo nel 1988 il Liechtensteien, che si apprestava ad entrare in varie organizzazioni internazionali, aumentò i propri deputati da 15 a 25;
  • un Parlamento troppo grosso è inefficiente: i deputati comunicano male, i dibattiti durano di più e non si elevano qualitativamente. Inoltre la collaborazione tra differenti parlamentari interessati al medesimo argomento diviene più difficile.

Per questa ragione Giovanni Adamo, pur non dandoci una misura di un parlamento giusto, ci dà un consiglio:

Nel dubbio, meglio scegliere il numero più basso.

Tuttavia viene da chiedersi: come si può risolvere il problema della democraticità, sia quella che manca oggi sia quella causata dalla eventuale riduzione? Basta continuare la lettura per avere un’idea: oggi lo Stato centrale fa molto, ma nello Stato centrale abbiamo poco potere decisionale! Il nostro voto conta poco, circa 1/51.000.000 con gli ultimi dati d’affluenza, ed è per un ente che pesa molto nella nostra vita. A queste condizioni è ovvio che nasca il populismo!

Più democrazia può voler dire democrazia diretta

Un giorno prometto che pubblicherò un bell’articolo sul tema, ma basti sapere che la democrazia diretta riduce il potere e il peso dei partiti. Ma senza correttivi, essa rischia di cadere nei due classici problemi della democrazia: quello dell’elevato costo (votare spesso a livello nazionale avrebbe costi molto alti) e quello della dittatura della maggioranza.

Una soluzione a questi problemi è il decentramento: governo di piccole unità locali, affiancate da altre più in alto secondo una logica di sussidiarietà. Questo almeno in principio e per quegli ambiti per i quali è difficile decentrare o privatizzare subito (come i trasporti, quasi sicuramente questi enti sopravviveranno successivamente come confederazioni). Ambiti dove esista democrazia diretta e che si occupino di cose come il welfare o la gestione di servizi pubblici come scuole. Questi rigorosamente in concorrenza.

Su questi enti i cittadini hanno più controllo ed è possibile usare la democrazia diretta in modo più estensivo. In questo modo si riduce la necessità della ben più costosa democrazia diretta nazionale, potendola accorpare ad esempio alle consultazioni nazionali. Sarebbe quindi possibile ridurre il numero dei parlamentari senza intaccare la democrazia, poiché essa sarebbe principalmente in mano alle comunità locali ed ai cittadini. E, inoltre, sarebbe possibile anche eliminare il Senato.

Formalmente, infatti, il Senato dovrebbe rappresentare le regioni. Ma, in pratica, non lo fa, tant’è che per differenziarlo dalla Camera ha un elettorato differente. E se le autonomie fossero responsabili per loro stesse e si fissasse un metodo di finanziamento unico per tutte come, per esempio, la distribuzione pro capite del surplus statale? L’utilità della Camera alta inizierebbe a scemare fino a scomparire.

Bisognerebbe, infine, superare l’idea per cui il Parlamento può modificare la Costituzione di sua sponte senza referendum: ogni modifica costituzionale deve richiedere un referendum confermativo e, per impedire colpi di mano, la maggioranza deve essere raggiunta non solo su base nazionale ma anche delle comunità locali, come accade in Svizzera con la famosa formula “maggioranza di popolo e cantoni“.

In un sistema del genere potremmo accontentarci di una camera di due o trecento persone e la democrazia, infine, ne uscirebbe rafforzata.

La puerilità del dibattito politico economico in Italia

Sfido i lettori a indovinare chi ha pronunciato le frasi di seguito (trovate le risposte in nota):

  1. “Le imprese si reggono sui consumi: perciò sui consumatori dobbiamo fare leva”;
  2. “La manovra ha un piano di investimenti pubblici e di sostegno alle imprese che non ha precedenti rispetto a tutte le altre manovre economiche”;
  3. “È evidente che si può sforare [la regola del 3%]: si tratta di un vincolo anacronistico che risale a 20 anni fa”;
  4. “Dare una mano agli ultimi è anche il miglior modo per rilanciare i consumi”[1]

Viviamo in un Paese dove la polarizzazione politica è sempre più forte e gli elettori si dividono in tifoserie che si guardano con odio reciproco.

Questo rende ancora più sorprendente l’uniformità del dibattito economico italiano. Con pochissime eccezioni, tutti i grandi partiti italiani concordano sulla ricetta da somministrare al Paese: spesa a deficit per rilanciare la domanda interna.

Le citazioni di cui sopra lo dimostrano perfettamente e quasi nessuno propone altre soluzioni. Poi certo, ci sono gradazioni diverse: chi propone più investimenti pubblici, chi sovvenzioni alle imprese, chi minori tasse o sussidi alle fasce più povere, ma la sostanza non cambia.

Tralasciando la propaganda, il ragionamento economico alla base delle proposte è all’incirca il seguente: maggiore spesa pubblica e/o minori tasse significano maggiori consumi; maggiori consumi, grazie al moltiplicatore keynesiano[2], significano maggiore crescita, più che sufficiente a ripagare il deficit accumulato.

Questo ragionamento è prova della profonda ignoranza (o malafede?) dei politici italiani in materia economica. Il moltiplicatore keynesiano non è una bacchetta magica e ha grosse incognite: punto primo, il denaro preso a prestito per finanziare il deficit ha un costo sulle casse dello Stato, in termini di interesse; punto secondo, se il denaro viene prestato allo Stato non può essere prestato ai privati, i cui investimenti dunque si riducono; punto terzo, il moltiplicatore keynesiano si basa sull’aspettativa che il maggior denaro a disposizione dei cittadini sia speso e messo in circolazione nell’economia, ma potrebbe anche essere risparmiato (in effetti è sempre parte speso e parte risparmiato, con proporzioni variabili); punto quarto, chi consuma potrebbe acquistare prodotti importati, diminuendo i benefici per le imprese locali; ed infine, senza investimenti dal lato dell’offerta la produzione non può aumentare né di quantità né di qualità[3].

Insomma, l’effetto positivo, di lungo termine, del moltiplicatore keynesiano non è affatto scontato. A questo aggiungiamo che secondo gli studi più recenti solo raramente, in tempi di recessione profonda, il moltiplicatore è maggiore di 1; più abitualmente non supera lo 0,6[4].

Tradotto, significa che per ogni euro speso, il PIL del Paese cresce di 60 centesimi circa: la strada maestra per accumulare sempre più debito fino ad un inevitabile default.

Ciò che manca nel dibattito politico italiano sono i problemi di fondo dell’economia italiana, riassumibili in un paio di statistiche: siamo all’80° posto per il livello di libertà economica e al 51° per la facilità di fare impresa.

Siamo così in basso[5] perché abbiamo un sistema giudiziario dai tempi lunghissimi e incerti, una tassazione eccessivamente alta, una burocrazia opprimente e una legislazione contorta e difficile da affrontare. Sono tutti problemi ben noti nel nostro Paese e che non si risolveranno certo con altri 2 o 3 punti percentuali di deficit; la domanda allora è un’altra: perché non se ne parla durante il dibattito politico?


[1] 1) Silvio Berlusconi, parlando della futura manovra finanziaria nel Novembre 2008 https://aostasera.it/notizie/news-nazionali/berlusconi-piu-consumi-per-evitare-crisi-finanziaria-estrema/

2) Matteo Salvini, parlando della manovra finanziaria nel Dicembre 2018 https://www.ilmessaggero.it/politica/salvini_diretta_facebook_basta_insulti_minacce-4150917.html

3) Matteo Renzi, Gennaio 2014, proponendo un’alleanza al Movimento 5 Stelle https://www.ilfattoquotidiano.it/2014/01/02/renzi-richiama-grillo-caro-beppe-insieme-faremmo-grandi-cose/829856/

4) Alessandro Di Battista, parlando della manovra finanziaria nell’Ottobre 2018 https://www.fanpage.it/politica/di-battista-manovra-di-sinistra-pronto-ad-andarla-a-spiegare-nelle-piazze-italiane/.

[2] Il “moltiplicatore” è un concetto elaborato dal celebre economista inglese John Maynard Keynes, in base al quale un incremento della domanda aggregata porterebbe a un incremento più che proporzionale del reddito nazionale (PIL).

[3] Per approfondimenti, ad esempio http://vonmises.it/2018/06/01/il-moltiplicatore-keynesiano-e-unillusione/; https://www.adamsmith.org/blog/tax-spending/for-every-multiplier-there-is-a-de-multiplier; https://www.cato.org/publications/commentary/faithbased-economics.

[4] Ad esempio si vedano https://www.ecb.europa.eu/pub/pdf/scpwps/ecbwp1267.pdf?5ed52b5ab649fecb6236f72c090252f3; https://www.imf.org/external/pubs/ft/tnm/2014/tnm1404.pdf; https://www.imf.org/external/pubs/ft/wp/2013/wp1301.pdf;

[5] Per capire meglio la sconfortante situazione, nel confronto con i soli Paesi OCSE (l’organizzazione che raggruppa gli Stati più sviluppati al mondo) siamo rispettivamente 36° e 32° su 37 (fonti: https://www.doingbusiness.org/en/rankings; https://www.heritage.org/index/ranking)

Quegli ebrei che sopravvissero grazie al contante

Il 13 maggio 1939, da Amburgo salpava la MS St. Louis, transatlantico al comando del capitano Gustav Schröder, tedesco anti-nazista. A bordo c’erano 930 ebrei che, perseguitati in Germania e consapevoli della ghettizzazione in corso, avevano radunato tutto ciò che avevano e comprato biglietti e visti turistici per entrare a Cuba, dove intendevano stanziarsi.

Giunti a Cuba, solo pochissimi di loro vennero accettati poiché le leggi sull’immigrazione erano cambiate e i visti non erano più validi. Inutili furono anche gli appelli a Stati Uniti e Canada: la St. Louis dovette riattraversare l’Atlantico e fare rotta verso Anversa, dove approdò il 17 giugno, dopo oltre un mese in mare.

Gli esuli ebrei, rifiutati nel Nuovo Continente, trovarono rifugio in Gran Bretagna, Belgio, Francia e Olanda. Chi conosce un po’ di storia potrà intuire la loro sorte. 84 morirono in Belgio, 84 in Olanda, 86 in Francia, e 1 soltanto in Gran Bretagna a causa dei bombardamenti.

Qualche anno più tardi, in Germania l’apparato repressivo funzionava a pieno regime. A tonnellate, i corpi degli ebrei eliminati venivano smaltiti in forni crematori, bruciati in grosse fosse comuni, o seppelliti in luoghi remoti lontani dalle città. L’ex soldato polacco Chaim Engel fu uno degli sfortunati internati del campo di sterminio di Sobibor, circa 11 chilometri a sud-est di Wlodawa.

Chaim Engel era nei sonderkommando, le unità di internati adibiti a compiti come gestire i cadaveri, spogliare i nuovi arrivati, depredarne e catalogarne gli averi, eseguire lavori di manutenzione al campo, e così via. In un magazzino di stoccaggio dei vestiti conobbe Selma, colei che sarà la sua futura sposa. Insieme, presero parte al piano di evasione organizzato da alcuni prigionieri dell’Armata Rossa, il 14 ottobre 1943.

Uccisero delle guardie SS con pugnali e asce trovati tra i bagagli sottratti ai prigionieri, indossarono le divise dei tedeschi, e radunarono tutti i prigionieri per l’appello. Il piano era condurli fuori dal campo fingendo di portarli al lavoro, così da ingannare le vere guardie del campo. Purtroppo, i prigionieri (non consapevoli del piano) credettero di essere stati radunati per essere sterminati, e scoppiò il caos.

Tra mitragliatrici e mine, Chaim e Selma riuscirono miracolosamente a lasciare il campo insieme a pochi altri prigionieri. Fuggirono nei boschi e giunsero a un vicino villaggio. Chaim e Selma erano stati previdenti: durante il loro lavoro coi bagagli avevano raccolto un po’ per volta degli oggetti di valore, oro, dollari americani e qualunque cosa potesse essere scambiata.

Riuscirono quindi a pagare lautamente una famiglia del villaggio affinché li nascondesse. I tedeschi arrivarono, catturarono alcuni prigionieri rifugiatisi nel villaggio, e li fucilarono. Chaim e Selma invece, ben nascosti, la fecero franca. La loro vita finirà in tarda età, negli Stati Uniti.

Cos’hanno in comune queste due storie, oltre all’evidente brutalità del regime nazista?

Agli ebrei di queste due storie, non uniche nel loro genere, fu tolto ogni diritto dal regime nazista, persino lo status di esseri umani. Ma neanche il regime nazista poté privarli della ricchezza che avevano accumulato e della possibilità di usarla per comprare beni e servizi. Nonostante la distruzione delle attività commerciali di ebrei, nonostante i prelievi dai conti correnti, nonostante le deportazioni nei ghetti, gli ebrei riuscirono sempre a portare con sé contante e metalli preziosi coi quali scavalcare ogni divieto legale.

La zona grigia tra legalità e illegalità fu la loro salvezza. Lo “stato di natura” in cui un umano scambia qualcosa con un altro umano, senza intermediari. Se il regime nazista avesse potuto bloccare i conti correnti e abolire completamente il contante, gli ebrei sarebbero stati privati anche di quei pochi mezzi per comprare un biglietto e fuggire via, per comprare del pane in nero, per pagarsi un rifugio, dei vestiti, corrompere una guardia, e così via.

Gli ebrei della St. Louis furono sfortunati, ma come loro, migliaia e migliaia di ebrei si allontanarono dalla Germania prima che fosse troppo tardi. Un blocco dei conti correnti li avrebbe irrimediabilmente imprigionati nel loro Paese, dove sarebbero stati condotti al macello come bestie inermi. Chaim Engel ebbe moltissima fortuna rispetto agli altri internati di Sobibor, ma se poté sopravvivere fuori dal lager fu solo grazie al denaro e all’oro che aveva rubato ai suoi sfortunati correligionari massacrati.

Il contatto diretto e fisico con il denaro, un mercato basato sullo scambio manuale, tangibile, naturale, furono elementi essenziali per Chaim Engel. Nei ghetti ripuliti dai rastrellamenti sopravvissero a lungo numerosi ebrei nascosti tra le macerie. Anche costoro comprarono ciò di cui avevano bisogno grazie ai risparmi che il regime nazista non aveva potuto raggiungere. Ma se per pagare del cibo fosse stato richiesto loro di mostrare una carta di credito associata a un conto corrente, sarebbero morti di fame.

La prospettiva di smaterializzare la ricchezza e delegarne per legge l’intera gestione al sistema bancario è il sogno di ogni regime totalitario come quello nazista. Resta quasi impossibile raggiungere il denaro nascosto nelle abitazioni private, che sono milioni, ma è facilissimo agire coattivamente su poche banche e, in pochi secondi, bloccare l’accesso ai conti correnti ai cittadini sgraditi. In un batter d’occhio lo Stato può impoverire completamente un cittadino.

Ciò non significa che i metodi di pagamento elettronici vadano demonizzati o vietati. Questi restano un’ottima invenzione, ma è l’abolizione del contante ad essere una deriva molto pericolosa, perché colpirebbe principalmente i poveri, gli ultimi, gli sgraditi. Permetterebbe allo Stato di decidere chi vive e chi muore.

Nessuno crede davvero di potersi ritrovare sotto una spietata dittatura, eppure accade ancora nel mondo. Preservare la libertà è un nostro compito, nessun altro lo farà per noi. Il contante non salvò tutti gli ebrei dalla persecuzione, questo è chiaro, ma permise a molti di fuggire o di sopravvivere nell’illegalità. Questo non va mai dimenticato.

 

Fonti:
https://www.ushmm.org/educators/teaching-materials/national-history-day/research-topics/the-st.-louis
https://www.jewishvirtuallibrary.org/the-tragedy-of-s-s-st-louis
https://www.britannica.com/topic/MS-St-Louis-German-ship
https://www.sobiborinterviews.nl/en/component/content/article/65
https://encyclopedia.ushmm.org/content/it/id-card/chaim-engel

La classifica dei più facoltosi leader socialisti, in ordine di popolarità

Dalla sinistra abbiamo sempre ascoltato la retorica della lotta di classe, tra i poveri “proletari” e i ricchi “borghesi”, colpevoli questi ultimi di tutti i mali dell’umanità.

Ma in fin dei conti, a quale classe sociale appartengono realmente i grandi leader di sinistra? E soprattutto, è proprio vero che disprezzino così tanto le ricchezze e il lusso del capitalismo, che tanto denigrano nella loro retorica?

In questo articolo, analizzeremo da vicino il patrimonio e lo stile di vita di alcune delle grandi figure storiche del socialismo passato e presente, e vedremo così, come spesso il discorso politico non sia accompagnato dai fatti concreti.

Partiamo da alcuni leader della sinistra storica.

Fidel Castro

Il “caudillo” ed eroe della rivoluzione Cubana, secondo la rivista Forbes, avrebbe accumulato un patrimonio netto stimato di 900 milioni di dollari.

Nella foto in basso, vediamo una delle sue più grandi passioni, i suoi adorati Rolex, passione condivisa con il suo compagno di battaglie, Ernesto “Che” Guevara. Fidel ne portava sempre due al polso, uno per controllare l’ora del Havana e l’altro per quella di Mosca.

Nel frattempo a Cuba, grazie alla “rivoluzione” socialista, il salario medio si aggira oggi intorno ai 30 dollari mensili e la povertà intorno al 90% della popolazione.

Joseph Stalin

L’autodenominato “uomo d’acciaio” e dittatore dell’URSS, viene considerato come uno degli uomini più ricchi non solo della sua epoca, bensì dell’intera storia dell’umanità. Secondo Money, Joseph Stalin sarebbe stato il quinto uomo più ricco di tutti i tempi, superando grandi figure storiche del capitalismo come Bill Gate e John D. Rockfeller.

Un fatto interessante su Stalin era la sua passione per le auto “Packard” americane, delle quali possedeva numerosi esemplari.

Hugo Chavez Frias

Anche il Venezuelano Hugo Chavez, predecessore di Maduro e creatore del “socialismo del XXI secolo”, non se la passava per niente male.

Secondo la CJIA (Criminal Justice International Associates), la fortuna della famiglia Chavez si attesterebbe intorno alla fantasmagorica cifra di 1 Miliardo di dollari. La stessa CJIA stima anche che i Chavez e i suoi alleati, tra cui l’attuale presidente Maduro, si siano appropriati di oltre 1000 Miliardi di dollari dal 1999 dalle casse dello stato Venezuelano. Una cifra realmente mostruosa, soprattutto se consideriamo che oggi il salario minimo in Venezuela si attesta intorno ai 2 dollari al mese e che il 67% dei Venezuelani ha perso in media 11 kg nel solo 2018.

Mao Zedong

Sul dittatore Cinese non ci sono dati certi sulla propria ricchezza stimata. Tuttavia sembra che sua nipote, Kong Dongmei, stia passando un periodo più che felice. Essa figura nel posto numero 242 nel ranking Forbes delle 500 persone più ricche del mondo, con un patrimonio netto stimato di 815 Milioni di dollari.

Per quanto riguarda lo stile di vita di Mao, un fatto veramente singolare è quello legato al suo harem di minorenni intorno al quale era solito ruotare ogni notte, e di cui possiamo apprezzare una foto di seguito.

Tutto questo, mentre la popolazione Cinese, viveva praticamente in condizioni medievali, sotto un regime nel quale morirono tra le 20 e le 45 milioni di persone.

Kim Jong Un

Il leader Nord Coreano è forse uno dei più stravaganti e più ricchi tra i leader socialisti, cosa che la dice lunga sul suo stile di vita, soprattutto se lo compariamo con gli esempi appena visti.

La ONU stima che la sua fortuna si attesti tra i 7 e i 10 miliardi di dollari.

Un dato interessante sul suo stile di vita è legato al suo forsennato consumo di alcol. Alcune fonti riportano che Kim spenda ogni anno intorno ai 30 milioni di dollari in bevande alcoliche.

Bernie Sanders

Parliamo ora di attualità e di qualche esponente della sinistra più attuale.

Iniziamo con uno dei leader dell’ala più radicale dei “democrats” statunitensi e forse una delle facce più famose dell’attuale movimento socialista moderno. Secondo la rivista Forbes, Sanders avrebbe accumulato nel 2017 un patrimonio netto intorno ai 2.5 Milioni di dollari. Queste cifre hanno ormai un paio d’anni e possiamo quindi assumere, data la ribalta mediatica che Bernie ha avuto nell’ultimo periodo, che il suo patrimonio oggi sia probabilmente maggiore.

Queste cifre possono risultare magari meno scandalose di quelle dei colleghi precedentemente analizzati. Restano comunque numeri notevoli, considerando anche il fatto che, gran parte della fortuna degli ultimi anni di Sanders, è stata ottenuta grazie anche a proposte di legge come la “wealth tax”, la quale potrà probabilmente essere applicata a lui stesso.

Elizabeth Warren

L’altra leader dei “Democrats” e una delle possibili candidate alla presidenza Americana.

Secondo Fox Business, la Warren avrebbe un patrimonio netto di ben 12 milioni di Dollari, formato tra le altre cose da moltissimi investimenti immobiliari. Niente male se consideriamo che Elizabeth Warren, così come il suo collega Bernie Sanders, ha fatto gran parte della sua fortuna attraverso una retorica e proposte fortemente redistributive e contro le classi più ricche.

Jeremy Corbyn

Finiamo con il leader del partito laburista inglese e reduce dalla sconfitta eclatante alle elezioni di pochi giorni fa.

Le stime della rivista Spear’s Magazine, attestano il patrimonio netto di Corbyn intorno ai 3 Milioni di Sterline. Come vediamo quindi anche Jeremy, così come i suoi colleghi americani, non se la passa affatto male.

Fonti:

https://www.forbes.com/sites/keithflamer/2016/11/26/10-surprises-about-castros-extravagant-life/

http://money.com/money/3977798/the-10-richest-people-of-all-time-2/

https://www.telegraph.co.uk/news/worldnews/southamerica/venezuela/9993238/Venezuela-the-wealth-of-Chavez-family-exposed.html

https://www.abc.es/internacional/abci-dieta-maduro-67-ciento-venezolanos-perdido-11-kilos-ultimo-201802220350_noticia.html

https://t.co/gVfDlvVswe?amp=1

https://www.forbes.com/sites/chasewithorn/2019/04/12/how-bernie-sanders-the-socialist-senator-amassed-a-25-million-fortune/

https://www.foxbusiness.com/politics/elizabeth-warren-net-worth

https://www.spearswms.com/jeremy-corbyn-net-worth/

La “War on Drugs” nuoce gravemente alla salute

Qualche settimana fa Matteo Salvini, sul caso Cucchi, dichiarava:

Questo testimonia che la droga fa male sempre e comunque

Ecco, non ci vuole un genio a capire che una frase del genere ha una logica sostanzialmente inesistente.
Sarebbe come fermare uno che ha violato la legge Mancino, sparargli e citare l’esempio come pericolo dell’odio.
Ma evidentemente frasi del genere fanno breccia nei cuori di certe classi conservatrici che temono che qualche parente “usi la morte” e credono che qualcuno debba intervenire.

Ma, in secondo luogo, ci mostra come avere politici senza alcun tipo di formazione economica sia un male, sempre e comunque.

Piaccia o no, la lotta alla droga è una posizione irrazionale perché parte dall’idea che la legge possa fermare il consumo e la vendita di sostanze stupefacenti.
Ma se c’è domanda e c’è offerta la legge è inutile, tant’è che tutte le tragedie di droga avvengono oggi, con la droga vietata e repressa.

Le leggi di mercato derivano da comportamenti umani innati ed esattamente come le leggi della fisica, che consentono sia di portare la luce in tutte le case sia di uccidere un condannato sulla sedia elettrica, sono impersonali: non smettono di valere se il bene è brutto.

Si deve agire dunque all’interno di queste regole se si vuole portare a casa qualche risultato. I sistemi che non l’hanno capito, che purtroppo per noi costituiscono la maggioranza, solitamente causano più danni della droga come sostanza di per sé.

Non ci vuole un genio a capire il perché. Se ti droghi, e la droga la compri in droghificio, ti metti in una situazione di pericolo (droghe) con alcune precauzioni (personale addestrato del droghificio), se la comperi al boschetto di Rogoredo le situazioni di pericolo aumentano esponenzialmente. Questo non solo per la droga in sé, ma anche per le scelte fatte in quel contesto specifico.

Ecco, in vari paesi, ad esempio in Svizzera, non c’è nulla di male a sostenere la legalizzazione della droga, tant’è che Ignazio Cassis, l’equivalente elvetico del ministro degli esteri, è di quest’opinione.

Ma in Italia no. È considerata una bestemmia e se osi solo proporlo vieni bollato come amico dei drogati nonché sostenitore della morte e attaccato da politici, chiese, comunità di recupero e chi più ne ha più ne metta.

Il punto è il seguente, sarà (anche) perché la nostra classe politica è convinta che basti una legge dello Stato a risolvere ogni problema?

La scienza ai tempi dell’URSS: Stalin e la genetica

Tra gli argomenti preferiti degli apologeti dell’URSS spiccano le conquiste della scienza sovietica. Naturalmente, molte di esse sono innegabili, basti pensare allo Sputnik ed all’impresa di Yuri Gagarin. Tuttavia, esiste un capitolo molto meno famoso della scienza sovietica, un capitolo di arroganza e follia: la storia di Trofim Lysenko e del Lysenkoismo.

Questa è la storia di come, dal 1937 al 1964, le autorità sovietiche hanno tentato di sostituire le leggi della natura della “decadente borghesia occidentale” con quelle dello Stato comunista.

In un mondo migliore, forse, il nome di Trofim Lysenko non sarebbe mai passato alla storia. Nato nel 1898 in una famiglia di contadini, Lysenko si laureò nel 1925 in agronomia. Nel corso dei suoi studi, egli sviluppò una propria teoria pseudoscientifica, il Lysenkoismo per l’appunto.

In poche parole, il Lysenkoismo, riprendendo le teorie di Lamarck e rifiutando le scoperte di Mendel e dei genetisti del primo Novecento, sosteneva l’ereditarietà dei caratteri acquisiti.

Secondo Lysenko, quindi, i tratti imposti agli organismi dai fattori ambientali possono essere ereditati: per esempio, tagliando le code dei topi per diverse generazioni sarebbe possibile produrre un ceppo di topi senza coda.

Lysenko pertanto sosteneva la possibilità di coltivare grano in Siberia, semplicemente esponendolo al freddo e “rieducandolo” così a resistere al gelo, e lasciò diffondere voci sulle potenzialità quasi miracolose della sua teoria (per esempio, quella secondo cui grazie ad essa sarebbe stato possibile far crescere piante tropicali al Circolo Polare Artico)[1].

Con tutta probabilità, il Lysenkoismo sarebbe stato bollato già allora come pseudoscienza, se non fosse stato per tre importanti fattori che giocarono a favore dell’agronomo sovietico.

Innanzitutto, l’Unione Sovietica negli anni Trenta era una nazione tormentata dalle carestie (dovute soprattutto ai pessimi risultati della collettivizzazione dei terreni agricoli imposta dal regime comunista), ed in un contesto simile le mirabolanti promesse di Lysenko suscitarono grande interesse.

In secondo luogo, Lysenko stesso, per il fervore della sua fede comunista e per il suo background (povero contadino diventato geniale scienziato, il sogno sovietico realizzato) era persona grata al PCUS. Infine, aveva un asso nella manica: uno dei suoi più grandi fan era il Compagno Stalin.

Non è molto noto, ma Stalin nutriva un certo interesse per la genetica. Come il suo collega Hitler, egli era convinto della possibilità scientifica di creare un uomo nuovo, una nuova umanità. Se Hitler voleva creare una razza di superuomini ariani, Stalin voleva creare il “nuovo uomo sovietico” (Homo Sovieticus, come verrà parodizzato in seguito).

Il Lysenkoismo, quindi, era perfettamente in linea con le idee di Stalin: così come il grano, esposto al gelo, avrebbe modificato la sua natura originaria per crescere in Siberia, allo stesso modo i popoli dell’URSS, se esposti ai valori del socialismo sovietico per abbastanza tempo, li avrebbero incorporati nel loro stesso essere, tramandandoli di generazione in generazione come l’altezza o il colore dei capelli.

L’appoggio di Stalin, quindi, garantì a Lysenko una carriera brillante[2]: presidente dell’Accademia Lenin delle scienze agrarie nel 1938, direttore dell’Istituto di Genetica dell’Accademia delle Scienze dell’URSS nel 1940, vincitore di tre Premi Stalin da 100000 rubli, di sei Ordini di Lenin e di numerose altre onorificenze. Cosa fece Lysenko con tutto questo potere?

Prima di tutto, si preoccupò di consolidare il suo monopolio sulla scienza sovietica[3]: fra il 31 luglio ed il 7 agosto 1948, si tenne a Mosca un grande dibattito sulla genetica al quale parteciparono i più importanti biologi, genetisti ed agronomi dell’Unione Sovietica, molti dei quali denunciarono apertamente l’infondatezza delle teorie di Lysenko.

Al termine del dibattito, Lysenko rispose loro con una semplice affermazione:

Il Comitato Centrale del Partito ha esaminato la mia relazione e l’ha approvata.

Con questo, Lysenko aveva voluto nascondere fino all’ultimo di avere l’appoggio incondizionato di Stalin, per tendere una trappola ai suoi critici. Per molti di essi era ormai troppo tardi: le loro carriere vennero stroncate, ed i loro posti occupati da fedeli yesman di Lysenko.

Questa purga del mondo scientifico sovietico, con la conseguente perdita di conoscenze e talenti, ritardò in modo significativo lo sviluppo della biologia e di molte altre scienze nell’URSS.

Senza più rivali, Lysenko si adoperò con grande impegno affinché le sue teorie venissero applicate nel modo più rigoroso possibile.

Per esempio, secondo Lysenko[4] i semi di piante diverse dovevano essere piantati gli uni vicini agli altri, affinché potessero aiutarsi a vicenda secondo i principi della lotta di classe. Come risultato le piante, in competizione fra loro per le risorse, finirono per ostacolarsi a vicenda nella crescita.

Sempre secondo Lysenko[5], i semi andavano piantati a grande profondità, in quanto era lì che il terreno era più fertile. I contadini, quindi, furono costretti a lavorare faticosamente per piantare semi all’assurda profondità di due metri, compromettendo così gli strati più superficiali del suolo, i più importanti per l’agricoltura.

Se consideriamo che il Lysenkoismo venne applicato durante il “Grande Balzo in avanti”[6], il piano sviluppato da Mao che risultò nella morte per carestia di decine di milioni di persone in Cina dal 1959 al 1961, le reali dimensioni dei crimini di Lysenko risultano evidenti.

Il monopolio di Lysenko sulla scienza sovietica durò a lungo, ben oltre la morte del suo benefattore Stalin. Solo nel 1965, dopo la caduta di Kruscev, Lysenko venne sollevato dai suoi incarichi, per poi morire ormai dimenticato nel 1976.

Sono molte le lezioni che si potrebbero trarre da questo oscuro capitolo della scienza sovietica, ma probabilmente le più importanti sono due.

La prima, la più immediata, è che la scienza non deve mai, in alcuna circostanza ed in alcuna misura, essere mescolata con l’ideologia, qualsiasi essa sia. Questo perché mentre la scienza cerca di rappresentare nel modo più fedele possibile il mondo, cosi come esso funziona, le ideologie cercano di trasformare il mondo in una versione più fedele possibile di quello che, secondo loro, dovrebbe essere.

La seconda è che, come in ogni altro ambito della vita umana, uno Stato onnipotente non può non avere che ripercussioni negative. Se il parere di un singolo tiranno può azzittire le voci di mille scienziati, allora qualsiasi speranza di progresso è perduta. Solo in un regime di libertà, al riparo dallo Stalin di turno, un vero scienziato può mettere i Lysenko di questo mondo al loro posto, per la scienza e per l’umanità intera.

[1][2][3] https://www.nytimes.com/1976/11/24/archives/symbol-of-stalinist-science.html

[4][5][6] https://www.google.com/amp/s/www.wired.it/amp/41590/play/cultura/2014/08/29/mao-tse-tung/