Per la stesura di questo articolo ringraziamo Domenico Campeglia, che ha fornito il suo utilissimo pamphlet, presto pubblicato dall’Istituto Liberale, sulla storia ed i risultati della riforma del sistema pensionistico cileno.
La campagna dell’Istituto Liberale sul tema delle pensioni ha portato alla luce i molti problemi del sistema pensionistico del nostro Paese. Abbiamo visto come esso sia il meno sostenibile al mondo, in che modo le riforme attuate nel corso della storia abbiano portato più danni che benefici e soprattutto di come stiamo ancora pagando i tanti errori commessi nel passato (come ad esempio le Baby Pensioni che pesano ancora sui conti dello Stato per oltre 7,5 Mld di € ogni anno).
LA RIFORMA PENSIONISTICA PIÑERA
Ma quale potrebbe essere una soluzione per il futuro? Per rispondere a questa domanda, possiamo prendere in considerazione un caso molto interessante: quello del Cile e della riforma di José Piñera. Nel maggio del 1981 la riforma Piñera sostituì il modello a ripartizione esistente allora in Cile (lo stesso presente in Italia) con quello a capitalizzazione, operando al tempo stesso una forte privatizzazione e liberalizzazione del sistema dei fondi pensione, per consentire ai lavoratori di trovare un piano “ad hoc” per le loro esigenze.
Secondo le parole dello stesso Piñera, “quella riforma ha dato un contributo decisivo allo sviluppo impetuoso di quel Paese latinoamericano. Da quando la previdenza è stata liberalizzata, i tassi di rendimento reali dei conti di risparmio pensionistico sono stati mediamente oltre il 10 per cento, ben al di sopra del tasso d’inflazione”.
LE INEFFICIENZE DEL SISTEMA ITALIANO
Ben diverso è il nostro attuale sistema, dove sappiamo che i contributi INPS versati ogni mese non vengono messi da parte per poi restituirceli in futuro dopo essere stati messi a rendimento, ma sono utilizzati immediatamente per pagare le pensioni attuali; di fatto, rendendo il nostro sistema pensionistico una sorta di schema Ponzi sostenuto dallo Stato e i contributi una sorta di “tassa” aggiuntiva sui lavoratori.
Il modello italiano venne immaginato nell’aspettativa che nel corso del tempo l’aumento demografico e la crescita economica avrebbero garantito la possibilità di pagare le pensioni di ognuno, giunto il momento di ritirarsi dal mondo del lavoro. Peccato che con una popolazione in decrescita demografica e un’economia che arranca in ogni settore da decenni, questo sistema sia una vera e propria bomba ad orologeria.
I RISULTATI DEL SISTEMA CILENO
Tornando al caso cileno, lo stesso Piñera affermò che: “Sul piano etico, un sistema collettivistico toglie agli individui la libertà di organizzare la propria vita: e va quindi rigettato. Per giunta, il tasso di rendimento di un sistema a capitalizzazione è destinato a essere ben superiore di un sistema previdenziale redistributivo e statalizzato”.
La bontà di questo sistema è dimostrata empiricamente: stando infatti ai dati pubblicati da Mercer, il Cile attualmente è il paese con il sistema pensionistico migliore d’America, alla pari con il Canada, ed eccelle in termini di adeguatezza e sostenibilità.
Non è, in ogni caso, un sistema totalmente privatizzato: per le fasce più povere della popolazione esiste una pensione minima garantita dallo Stato e finanziata con la fiscalità generale, che copre tutti i lavoratori che abbiano contribuito almeno per 20 anni ad un fondo individuale; per coloro che non lo hanno fatto è possibile richiedere una pensione di assistenza minima (più bassa della precedente). In altre parole, nessuno viene lasciato solo.
Un sistema del genere può certamente spaventare, perché se un fondo fallisce perde tutti i soldi dei lavoratori, lasciandoli senza risorse. Ma anche in casi del genere esistono un paio di rimedi a coprire i casi peggiori. Il primo è la stipulazione di un’assicurazione da parte del lavoratore, che gli consenta di venire rimborsato qualora il fondo a cui ha affidato i propri risparmi dovesse fallire; il secondo rimedio consiste più semplicemente nel scegliere la vecchia regola di diversificare l’investimento, decidendo di suddividere i contributi pensionistici versati su più di un fondo.
Il modello a capitalizzazione cileno permette inoltre ai lavoratori il cosiddetto “Opt out”, ovvero la possibilità di abbandonare in qualsiasi momento il fondo scelto inizialmente, senza alcuna coercizione (ovvero il contrario di quanto avviene in italia, dove i lavoratori sono tutti obbligati a versare i loro contributi nelle casse dell’INPS, senza possibilità di tirarsi indietro o di affidarsi a un fondo pensionistico diverso).
Cambiare l’attuale sistema pensionistico è possibile, ed esiste già un’alternativa più giusta, sostenibile e libera: si tratta solo di convincere più persone possibili a richiederla.
In Italia pensiamo che alla fine della nostra vita lavorativa lo Stato benevolo ci restituirà parte delle tasse che abbiamo versato (i contributi) sotto forma di pensioni… grave errore! In realtà lo Stato, che è tutto fuorché benevolo, rischia di non restituire agli italiani un bel niente, a causa del crollo demografico e della natura stessa del nostro sistema pensionistico, contributivo a ripartizione.
Siamo quindi spacciati? A noi giovani toccherà lavorare fino alla tomba? Beh una via di salvezza c’è – ma ovviamente la soluzione verrà dal mercato, non dallo Stato. Si tratta di cambiare il sistema pensionistico verso un modello a capitalizzazione: ossia un sistema dove i contributi che noi lavoratori versiamo finiscono in fondi pensione privati, che li investono e generano dei rendimenti. Questi rendimenti si sommeranno ai contributi versati, permettendo all’individuo di accrescere la propria ricchezza nel corso degli anni.
Un’obiezione classica ai sistemi pensionistici privati è che investire in un fondo rende il futuro pensionato soggetto al rischio di non percepire la pensione, o di percepirla in una percentuale minore, qualora il fondo fallisca o effettui investimenti errati.
Quello che quasi tutti dimenticano di spiegare è che anche la pensione erogata dallo Stato sottintende un rischio. Prendiamo il caso dell’Italia. Il nostro Paese ha conti pubblici distrutti da anni di mala gestione finanziaria ed è in profonda crisi demografica (sempre più anziani e sempre meno giovani): quante volte sono stati cambiati i requisiti per andare in pensione negli ultimi decenni? E quante volte perfino gli importi sono stati modificati? Come possiamo fidarci che un giorno restituirà ai lavoratori, soprattutto ai più giovani, quanto versato?
Il sistema a capitalizzazione permette di scegliere…
La differenza tra i due rischi corsi dal contribuente è che il singolo individuo ha molto più controllo sul successo di un investimento privato rispetto a quello che ha sugli andamenti demografici e finanziari di uno Stato. Inoltre, diversificare il proprio portafoglio, scegliendo più fondi pensione o più investimenti, è una strategia che può permettere una diminuzione sostanziale del rischio. Introdurre un sistema del genere genererebbe una responsabilizzazione dei cittadini, che dovrebbero scegliere oculatamente come investire i propri soldi e, per farlo, si impegnerebbero a migliorare la propria alfabetizzazione economica.
Stiamo parlando di dare alle persone la libertà di scegliere. Scegliere quanto, dove e come investire. Scegliere quando uscire dal mondo del lavoro. Si tratta di essere liberi di fare ciò che si ritiene più opportuno per la propria vita. Non credo che, potendo scegliere, gli italiani investirebbero in Alitalia; eppure questo è ciò che fa puntualmente il governo con le tasse dei cittadini. Perché non dovremmo essere noi a scegliere per noi stessi?
Lo statalista di turno potrebbe obiettare che in questo sistema verrebbero penalizzate le categorie a basso e bassissimo reddito. Ma è un’obiezione facilmente smontabile: per queste categorie potrebbe rimanere una pensione minima erogata dallo Stato, similmente a quanto accade ora, finanziata con le tasse dei cittadini.
…mentre il sistema a ripartizione finisce per creare inequità e distorsioni
José Pinera, economista cileno responsabile di una riforma pensionistica fondamentale per il suo Paese (e che approfondiremo in uno dei nostri prossimi articoli), definiva il sistema “pay as you go”, come quello italiano odierno, “un sistema innegabilmente regressivo, che blocca i lavoratori più poveri nella fascia inferiore dello schema piramidale, aumentando i privilegi per i lavoratori più politicamente potenti e più ricchi che si trovano più in alto”. Questo perché i lavoratori più poveri, nonostante entrino nel mondo del lavoro in età più giovane, ricevono comunque un semplice assegno minimo e non possono ambire a riceverne uno più sostanzioso. E per quanto riguarda i privilegi per i lavoratori politicamente potenti, in Italia abbiamo l’esempio perfetto: le baby pensioni, costruite per favorire i dipendenti pubblici a scapito di tutti gli altri (vedi immagine sottostante).
Come si può considerare equo un sistema del genere?
Affermare che in un sistema pensionistico a capitalizzazione non possa esistere una rete di protezione dei più poveri è una menzogna buona solo per mantenere il consenso delle fasce di popolazione meno abbienti.
La nostra vita, il nostro lavoro e, in ultima istanza, la nostra pensione devono dipendere in massima parte dalla responsabilità individuale; dobbiamo rifiutare il paternalismo di chi crede di sapere cosa è meglio per noi, salvo poi buttare puntualmente i nostri soldi (vedi Alitalia e simili). Impegnarsi per far rendere al meglio il frutto del nostro sudore è una battaglia di civiltà, ancor prima che di libertà.
In questo nuovo articolo della nostra campagna sulle pensioni faremo un viaggio nello statalismo assistenziale più spinto; ossia racconteremo la storia del sistema pensionistico italiano. È una storia che deve essere raccontata: per sconfiggere il tuo nemico, devi conoscerlo.
Nel nostro primo articolo avevamo invece rapportato la spesa pubblica italiana con quella di alcuni Paesi europei, lo potete ritrovare qui.
Il primo antenato dell’odierno INPS (Istituto Nazionale di Previdenza Sociale) fu istituito addirittura nel 1898 e subì numerose modifiche fino al 1943 quando, durante il regime fascista, prese le denominazione attuale.
Inizialmente il sistema italiano era a capitalizzazione: i lavoratori versavano in fondi pensionistici quote del loro stipendio, che venivano accantonate e investite in modo da garantire a ciascuno una pensione in linea con quanto versato nell’arco di tutta la vita lavorativa.
Nel 1969 l’ordinamento a capitalizzazione fu definitivamente abbandonato a favore di uno a ripartizione: un sistema in cui i contribuenti pagano le pensioni erogate a chi ha già smesso di lavorare – con la speranza che un giorno i futuri lavoratori pagheranno la loro.
La riforma del 1969 (legge Brodolini) istituì la pensione sociale per i cittadini con più di 65 anni di età con reddito considerato minimo, e quella di anzianità per i cittadini con 35 anni di contribuzione che non avevano raggiunto l’età pensionabile. Inoltre, era previsto che il calcolo della pensione fosse realizzato in base alla retribuzione degli ultimi 5 anni di lavoro, di conseguenza l’assegno percepito era mediamente più cospicuo rispetto ai contributi realmente versati. Infine, venne prevista la perequazione automatica delle pensioni, cioè la rivalutazione delle pensioni sulla base dell’indice dei prezzi al consumo.
Il sistema pensionistico concepito nel 1969 era molto più soggetto a generare squilibri di bilancio, coperti sistematicamente dallo Stato, rispetto a quello a capitalizzazione e segnalava la nuova ratio con cui la classe politica italiana intendeva gestire le pensioni: statalismo assistenziale spinto e feticismo per il debito pubblico.
Il passo successivo arrivò nel 1973, che verrà ricordato come un anno maledetto per la storia del bilancio pubblico italiano. Fu l’anno in cui il governo Rumor IV inaugurò la sciagurata stagione delle baby pensioni e i politici italiani scoprirono un altro modo per essere generosi con i soldi prelevati dalle tasche altrui. Venne quindi deciso che le donne sposate con figli potessero andare in pensione con 14 anni, 6 mesi e 1 giorno di contributi, gli statali con 20 e i dipendenti locali con 25. Curiosamente la riforma arrivò giusto due giorni prima di Natale, come un bel pacchetto da scartare per tutti gli italiani; peccato fosse un pacco bomba, scoppiato in faccia a chi si impegnava per lavorare onestamente e alle nuove generazioni. Basti pensare che nel 2018 la spesa per questa voce era ancora di 7,5 miliardi € l’anno, divisa tra 400mila privilegiati.
Dagli anni ‘90 ai giorni nostri
All’inizio degli anni ‘90 era ormai chiaro che il nostro sistema pensionistico non era più sostenibile. La riforma Amato del ‘92 fu il primo tentativo per risolvere il problema, innalzando l’età pensionabile così come la contribuzione minima per la pensione di anzianità. La riforma Dini del 1995 segnò invece il passaggio (parziale) [1] a un sistema a ripartizione di tipo contributivo, dove le pensioni sono calcolate sulla base delle somme versate nel corso della vita lavorativa (ma i contributi dei lavoratori continuano a pagare le pensioni attuali e non vanno ad alimentare un fondo).
Le due riforme non furono sufficienti a raddrizzare la situazione e si dovette intervenire ancora. Nel 1997 la prima riforma Prodi innalzò ancora i requisiti di contributi maturati per avere accesso alla pensione, eliminò le baby pensioni e ridusse le differenze di trattamento tra dipendenti pubblici e privati. Nel 2004 la riforma Maroni aprì il sistema pensionistico alla previdenza complementare e integrativa (dunque a fondi privati che potevano fornire una ulteriore pensione ai lavoratori che vi accedevano), nell’ottica di tutelare le generazioni più giovani, e introdusse lo “scalone” (un aumento dell’età anagrafica per uscire dal mondo del lavoro).
La riforma Maroni sarebbe dovuta entrare in vigore a partire dal 1 Gennaio 2008, ma non ci riuscì mai. Nel 2007 il governo di centrosinistra fece una controriforma, sotto la pressione dei sindacati, e diluì le restrizioni ai pensionamenti che sarebbero dovute derivare dalla riforma Maroni. Essa viene ricordata ironicamente come quella degli “scalini”.
Le riforme degli anni ‘90 e primi Duemila non furono sufficienti a risolvere l’impatto del sistema pensionistico sulle casse pubbliche, già disastrate di per sé. Quando l’Italia fu investita da una delle più gravi crisi economiche della sua storia nel 2011, il governo tecnico Monti intervenne con misure radicali.
Il decreto Salva Italia venne immaginato per mettere in sicurezza la finanza pubblica e, ovviamente, non poteva mancare la parte dedicata alle pensioni, la famigerata riforma Fornero. Le idee di fondo erano l’equità intergenerazionale ed intragenerazionale, la maggiore flessibilità nell’accesso ai trattamenti pensionistici e l’adeguamento dei requisiti di accesso alla speranza di vita. Venne definitivamente abbandonato il sistema retributivo, rimasto in vigore per alcune categorie nonostante la riforma Dini, ed applicato il sistema contributivo per tutti i lavoratori. Data la bassa età reale di pensionamento (circa 61 anni per gli uomini, contro i 65 teorici), sono stati innalzati ulteriormente i requisiti d’accesso, 66 anni per gli uomini (dipendenti ed autonomi) e per le lavoratrici del pubblico impiego; a 62 anni per le lavoratrici dipendenti del settore privato; a 63 anni e 6 mesi per le autonome e la parasubordinate.
Infine, la legge di bilancio del 2019, l’unica varata dall’allora governo Lega-M5S, conteneva anche una misura che impattava il sistema pensionistico: Quota 100. Essa prevede la possibilità di uscita anticipata dal mondo del lavoro per tutti coloro che vantano almeno 38 anni di contributi con un’età anagrafica minima di 62 anni. Quota 100 non è però una riforma strutturale; è stata infatti concepita come una deroga per gli anni 2019, 2020 e 2021, da confermare ogni anno.
Quello che manca nella deprimente storia delle pensioni italiane, è evidente, sono libertà e sicurezza. Ancora adesso i lavoratori italiani non versano i propri contributi in un fondo a loro scelta che li farà crescere e fruttare (e gli permetterà di godersi una serena vecchiaia); quei soldi finiscono a pagare le pensioni attuali. Certo, lo Stato promette che un giorno fornirà anche a noi una pensione (pagata da qualcun altro) ma che certezza ne abbiamo? Tutte le riforme degli ultimi 30 anni provano che quando un governo ha bisogno di soldi non si fa scrupoli a rinnegare le promesse fatte in precedenza.
In un mondo liberale nessun cittadino potrebbe essere obbligato a mantenere con le proprie tasse intere categorie favorite dallo Stato (come i dipendenti pubblici), ma dovrebbe invece avere il diritto di scegliere a quale fondo (pubblico o privato) versare i propri soldi, in modo da programmare a suo piacimento l’uscita dal mondo del lavoro. Questo è il mondo che immaginiamo, un mondo di libertà e opportunità.
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Articolo ideato, scritto e curato da:
Francesco Chevallard
Leonardo Accardi
Alessandro Pala
Mattia Maccarone
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Note
[1] In particolare, si passò a un criterio misto in cui l’assegno percepito era in parte legato alla retribuzione ed in parte legato ai contributi versati durante la vita lavorativa, e ad un criterio puramente contributivo per chi doveva ancora iniziare a lavorare.
L’Italia annovera, tra i tanti servizi dello Stato inefficienti, quello pensionistico. Il sistema previdenziale italiano è un sistema vecchio e assistenzialistico; e le risorse spese per finanziarlo sono troppo grandi rispetto alla resa, se comparato a quello di altri Paesi. Come andremo a vedere più avanti in questa campagna, dietro al nostro sistema previdenziale è celata una storia di politiche economiche inutili volte a favorire determinate categorie, allo stesso tempo danneggiando il bilancio statale, incrementando il debito pubblico ed espropriando i risparmi degli italiani.
In questo primo articolo della nostra serie di approfondimenti sul sistema pensionistico metteremo a confronto la struttura previdenziale italiana con quella di altri Paesi in Europa e nel mondo, evidenziando le principali differenze. I Paesi scelti sono Olanda, Svizzera, Svezia e Germania, tutte nazioni sviluppate e appartenenti al mondo occidentale, e con una struttura demografica simile alla nostra (seppure con una popolazione leggermente più giovane).
UNA COMPARAZIONE DEI COSTI (IN %) RISPETTO AL PIL:
Come è facile notare comparando i dati dell’OCSE, c’è una grossa differenza in merito alla percentuale di spesa pensionistica pubblica sul PIL di questi Paesi.
Nel grafico qui sopra si nota subito come nel 2015 lo Stato che spendeva nettamente di più fosse l’Italia, con un rapporto tra Spesa pensionistica pubblica e PIL pari al 16,2%, ildoppio rispetto alla media OCSE. Un Paese ricco e considerato “socialdemocratico” come la Svezia spendeva appena il 7,2%, meno della metà di quanto fosse destinato al sistema pensionistico in Italia.
Una cifra oltretutto cresciuta moltissimo negli ultimi decenni, con un +100% circa rispetto al 1980, come si nota dal grafico sottostante. Un incremento casuale? O legato al naturale invecchiamento della popolazione? Non esattamente. Guardando al nostro pool di comparazione, vediamo che il trend di incremento dal 1980 è molto contenuto; Svezia e Svizzera hanno aumentato di meno del 20% la propria spesa, mentre Germania e Olanda spendono addirittura meno adesso rispetto ad allora. Dati in linea, tra l’altro, anche con la media OCSE, per cui risulta un incremento della spesa media dal 5,67% del 1980 che passa all’8,02% nel 2015 (risultando in un +40% circa, rispetto al +100% per l’Italia, nel medesimo periodo).
La particolarità che contraddistingue questi paesi è l’adozione di sistemi pensionistici discretamente simili tra di loro, basati su una maggiore libertà di scelta da parte dei cittadini e con un sistema di fondi pensionistici privati molto sviluppato.
UNA COMPARAZIONE VISTA DAGLI ESPERTI:
Per un’analisi più approfondita sul tema della spesa per le pensioni ci vengono incontro i dati del Melbourne Mercer Global Pension Index. L’indice è elaborato da un gruppo di ricerca australiano e ha come obiettivo quello di evidenziare fattori come la sostenibilità (prendendo in considerazione la crescita economica, la copertura pensionistica, la demografia, il debito nazionale e altro ancora), l’adeguatezza (benefici, risparmi, copertura fiscale, assets di crescita) e l’integrità (costi di operazione, protezione, comunicazione, regolamentazione). Una volta presi in analisi questi fattori viene stilata una “classifica” dei migliori sistemi pensionistici, assegnando ai vari stati una valutazione da A (massimo) ad E (minimo) in base all’index value che essi raggiungono.
Rispetto agli Stati da noi presi in considerazione, il sistema migliore risulta essere quello Olandese, che raggiunge il punteggio di 81 e la valutazione “A”. Seguono i sistemi Svedese, Svizzero e Tedesco, con punteggi rispettivi di 72,3, 66,7 e 66,1, e una fascia di valutazione “B”. Nella fascia di valutazione “C+” troviamo il Regno Unito, con un punteggio di 64,4. L’Italia si trova molto più in basso e con un punteggio di 52,2 prende una C.
Secondo Mercer il sistema previdenziale italiano è scadente soprattutto nell’ambito della sostenibilità, registrando il valore più basso in assoluto nell’indice, 19; la ragione è che si tratta di un sistema quasi unicamente pubblico e dove non c’è corrispondenza fra quanto versato da ogni cittadino e la sua pensione. I lavoratori italiani non versano i loro contributi in un fondo (pubblico o privato) che restituirà in seguito i loro soldi, ma pagano le pensioni attualmente elargite dall’INPS. Di conseguenza, quando finiranno di lavorare dovranno sperare che il bilancio pubblico sia in condizioni tali da permettersi di versare loro delle pensioni adeguate; il che, dato l’andamento dell’economia italiana e la scarsa crescita demografica nel nostro Paese, è sempre meno probabile.
CONCLUSIONI
Il Mercer Index ci aiuta a capire quali Paesi hanno un sistema previdenziale più o meno efficiente e ci mostra come i Paesi più virtuosi sono quelli che si basano non solo sul settore pubblico, ma anche su quello privato. La presenza di un settore privato è fondamentale per aumentare le possibilità di scelta del cittadino e rendere più equo un sistema previdenziale.
I sistemi pubblici obbligano i cittadini a lavorare fino a una data prestabilita dalle autorità e decidono dall’alto quale sarà la cifra ricevuta da ogni pensionato, spesso con criteri arbitrari – questa analoga attitudine ha favorito l’esistenza di accordi previdenziali particolarmente sfavorevoli od in certi casi più favorevoli di quanto il sistema stesso potesse permettersi, quali le baby pensioni italiane di cui parleremo in un prossimo articolo di questa serie.
Un sistema privato permette ai lavoratori di decidere in autonomia quanto versare per la propria pensione futura e quale sarà il momento più adatto per smettere di lavorare, garantendo loro più libertà di scelta ed un maggiore benessere.