Cosa è e cosa NON è il Liberalismo

Da quando sono entrato ne “L’Individualista Feroce”, ho letto con estremo interesse i numerosi commenti scritti sotto i nostri post. Tralasciando i commenti caustici e odiosi di certi utenti, che avevano il solo scopo di denigrare non solo le nostre idee, ma anche noi stessi, non ho potuto fare a meno di notare una certa confusione, per non dire ignoranza, su cosa sia effettivamente il liberalismo. Sia chiaro, il termine ignoranza è inteso nel senso letterale del termine, il semplice non-sapere, dunque scevro da qualsiasi accezione dispregiativa.

Tale ignoranza non deve sorprendere, poiché sono anni che dal dibattito pubblico italiano sono scomparsi rappresentanti del liberalismo classico. Parlando per esperienza personale, quando ti definisci liberale la gente tende a fraintendere il tuo pensiero, semplicemente perché non sa cosa significhi effettivamente.

Ebbene questo articolo ha l’ambizione (forse la presunzione) di voler dare una definizione chiara di questa idea che è il liberalismo, ricordando sempre che esso non è un dogma, ma una serie di principi guida.

Prima di tutto ritengo opportuno fare una distinzione semantica di concetti fra loro correlati, ma differenti, che troppo spesso vengono usati come sinonimi.

  • Liberalismo: Atteggiamento etico-politico dell’età moderna e contemporanea, tendente a concretarsi in dottrine e prassi opposte all’assolutismo, fondate essenzialmente sul principio che il potere dello Stato debba essere limitato per favorire la libertà d’azione del singolo individuo. Dal rischio assolutistico e totalitaristico di uno Stato, deriva l’opposizione liberale allo Statalismo. Uno dei principali teorici del Liberalismo fu Ludwig Von Mises.
  • Liberismo: Il liberismo è una teoria economica che sostiene e promuove la libera iniziativa e il libero mercato come unica forza motrice del sistema economico, con l’intervento dello Stato limitato al più alla realizzazione di infrastrutture di base (ponti, strade, ferrovie, autostrade, gallerie, edifici pubblici etc.) a sostegno della società e del mercato stesso. La sottolineatura è stata inserita per evidenziare un concetto poco noto ai detrattori del liberismo. Noi consideriamo lo Stato un attore fondamentale per il coordinamento dell’attività economica di un Paese. Lo Stato fa da supporto all’economia, non ne è il motore.
    Per la verità, il termine Liberismo fu coniato da Benedetto Croce per indicare la teoria economica afferente al Liberalismo, ma per questo fu criticato da diversi esponenti del liberalismo classico fra cui Von Hayek, Einaudi e Antonio Martino, i quali sostenevano che i concetti sopra esposti fossero parte integrante e non scindibile del concetto di Liberalismo.
  • Libertarismo: Libertarismo, dal francese libertaire, è un termine che indica un ideale e una filosofia-politica che considera la libertà come valore fondamentale, anteponendo la difesa della stessa ad ogni autorità o legge. Il libertarismo mira, cioè, ad una forte limitazione o ad una eliminazione del potere dello Stato e di tutti quegli enti che limitano o avversano la giustizia sociale e la libertà individuale e politica.
  • Capitalismo: è un concetto molto vago sul quale nessuno è mai riuscito a dare una definizione che fosse in grado di mettere d’accordo tutti. Impropriamente usato come sinonimo di liberismo, il termine capitalismo nasce con un’accezione dispregiativa per indicare un’economia in cui è prevista la proprietà privata dei mezzi di produzione da parte di individui o società e che compra e vende beni capitali e fattori di produzione, senza alcun tipo di controllo statale.
  • Neoliberismo: si indica un orientamento di politica economica favorevole ad un mercato privo di regolamentazione e di autorità pubblica ovvero in balia delle sole forze di mercato. Si differenzia dal liberalismo classico per la quasi totale esclusione dello Stato, in qualità di attore economico.
  • Liberal: Termine anglo-sassone, adottato negli USA negli anni ’50-’60 da coloro che rivendicavano e promuovevano posizioni socialiste. Come ovvio, i Liberal americani e i Liberali Classici sono su posizioni completamente opposte, nonostante i nomi simili. I Socialisti americani adottarono il termine molto più morbido di liberal, a causa della repressione su chiunque si dichiarasse apertamente socialista o ancor peggio comunista in quel periodo, e in special modo durante la campagna “terroristica” del Senatore McCarthy.

Noi de “L’Individualista Feroce” ci definiamo Liberali classici (e dunque anche Liberisti, secondo l’accezione di Einaudi e Hayek). Crediamo nel libero mercato, nella concorrenza leale, nella difesa e protezione dei diritti dei consumatori e affidiamo all’autorità pubblica, e alla legge che da essa scaturisce, il compito di difendere le libertà individuali, anche quelle economiche. In termini più semplici, il pensiero liberale si può riassumere in: “La mia libertà finisce dove comincia quella degli altri. La libertà degli altri finisce dove comincia la mia”.

Ora vorrei spiegare cosa non è il liberalismo, passando per una serie di esempi o luoghi comuni che puntualmente vengono attribuiti a esso:

  • “Voi Liberali volete distruggere il Welfare e lasciare la gente ad arrancare nel Far West”: No, non siamo contrari al Welfare, nel modo più assoluto. Noi siamo critici verso un sistema di Welfare pubblico che, a parole, dice di essere per tutti, ma che in realtà, molto spesso, offre un servizio infimo e costoso, tanto che molte persone sono costrette a usufruire del welfare privato, per avere quel servizio per il quale già pagano il sistema pubblico. Noi liberali vorremmo semplicemente poter intavolare una discussione su un riassetto del sistema, anche considerando la possibilità di demandare al privato l’erogazione di alcuni servizi, smettendo di considerare l’argomento un tabù. L’obiettivo di questa discussione sarebbe trovare il sistema più efficace ed efficiente possibile per il consumatore finale. P.S. Onestamente non ho ancora capito questa storia del Far West, che più volte viene ripresa.
  • “La politica neoliberista ha mandato in rovina il paese”:  Non è vero, ciò che ha rovinato questo paese sono state le politiche dissennate del “tassa e spendi” degli anni ’70 e ’80, e continuate poi successivamente senza discontinuità, basate su un’errata interpretazione, o meglio portando come giustificazione, le teorie economiche keynasiane. È vero che Keynes sostenesse l’intervento dello Stato nei momenti più critici per l’economia (crisi del ’29, dopoguerra ecc.), ma è anche vero che persino lui invitava ad un progressivo abbandono dell’intervento statale, nel momento in cui si fosse innescata la ripresa economica. In Italia invece, nonostante il boom economico già in atto, si è continuato a spendere esponenzialmente senza alcun riguardo per la tenuta dei conti pubblici e senza alcuna parsimonia da “buon padre di famiglia”. Soprattutto non era spesa per investimenti pubblici che nel lungo periodo avrebbero portato grande utilità al paese, ma era solo spesa ingente di breve periodo, con poco o nullo impatto sullo sviluppo economico. L’aumento di debito pubblico in fase di espansione economica ha fatto sì che, quando si è arrivati alla recessione del 2009-2010, i margini di spesa che si potevano sfruttare fossero strettissimi, proprio nel momento in cui ne avremmo avuto più bisogno. La Germania nel 2003 aveva una situazione di conti pubblici molto peggiore a quella che noi abbiamo attualmente, ma con una politica economica rigorosa (effettivamente “lacrime e sangue”) è riuscita a sistemarla, diventando la potenza economica che è adesso. La medicina fu amara, ma il paziente ne aveva bisogno. Affrontando adesso il discorso Austerity, vorrei fare alcune precisazioni: le politiche cosiddette di austerità, hanno il solo scopo di ridurre il deficit e rendere il debito pubblico sostenibile nel tempo. Questo si può fare in due modi, distinguendo così fra quelle che io chiamo Austerity buona e Austerity cattiva: il primo modo prevede la riduzione, riformulazione ed efficientamento della spesa pubblica, che nel lungo periodo può e deve portare alla riduzione delle tasse. Il secondo modo, invece, prevede l’aumento delle tasse e il successivo aumento della spesa pubblica. Entrambi i metodi passano in primis per una politica fiscale restrittiva e poi per una politica fiscale espansiva, successivamente. La differenza è che nel secondo caso i margini di manovra sono molto più stretti, poiché non si possono aumentare troppo le tasse, a meno di non causare sconquassi a livello economico e sociale, e dunque non si può neanche aumentare troppo la spesa, specialmente quando è già molto alta come quella italiana. Inutile ricordare cosa scelse di fare il “mitico” Governo Monti, che non solo scelse il metodo meno efficace, ma riuscì a farlo anche male. Riassumendo, le politiche “tassa e spendi”, portate ancora avanti dal governo attuale, hanno sconquassato i conti pubblici senza avere una proporzionata crescita di PIL, e successivamente, poiché ridimensionare la spesa pubblica in questo paese è un tabù assoluto (basti vedere che fine hanno fatto i commissari alla Spending Review e le loro relazioni), si è optato per delle politiche fiscali folli, in continuità con il passato. I risultati sono sotto gli occhi di tutti.
  • “La Riforma Fornero è una politica liberista che ha creato un sacco di danni”: Dato che so già che arriverà un commento di questo tenore, faccio che rispondere subito. Si stima che circa 2/3 della spesa pubblica italiana sia destinata al sistema pensionistico. Questo è di fatto un problema di non semplice soluzione. La Riforma Fornero fu un tentativo di rimodulare il sistema previdenziale che, come tutti sanno, è uno dei grandi problemi di questo paese. Sebbene tale riforma potesse essere lodevole nell’intento, gli effetti sul lungo periodo sono stati disastrosi e soprattutto fu incapace di scalfire minimamente il problema del sistema previdenziale. Fu una riforma raffazzonata, pasticciata e fatta di fretta. La riforma del sistema previdenziale è un passaggio obbligato per il risanamento dei conti pubblici e per il rilancio dell’economia, ma non riteniamo che questo sia il metodo. Mi permetto anche di aggiungere che, oltre che prendersela con la Fornero, bisognerebbe anche prendersela anche con coloro che hanno creato il problema in primis, e cioè coloro che per anni hanno sostenuto un sistema previdenziale retributivo.
  • “Voi liberali vi curate solo degli interessi delle multinazionali”:  Questo è uno dei punti preferiti dei detrattori del liberalismo. Questa frase è palesemente falsa. I liberali si curano degli interessi di TUTTE le imprese, piccole o grandi che siano, poiché riteniamo che siano il vero motore della prosperità economica e sociale di un paese, e allo stesso tempo difendiamo a spada tratta i diritti dei consumatori. Su quest’ultimo punto non transigiamo. Fra queste imprese, difendiamo anche gli interessi delle multinazionali o big corporation, nazionali e non, e riteniamo stupido scagliarsi contro queste aziende, e ora intendo spiegare perché. Qualche dato giusto per orientarsi (fonte ISTAT, periodo di riferimento 2014): In Italia sono attive circa 13569 imprese a controllo estero, contro le 22388 controllate italiane all’estero. Le multinazionali estere contribuiscono per il 27,4% dell’export italiano, un fatturato di circa 524 mld €, valore aggiunto per 97 mld e un contributo all’ R&D del 23,9% e danno lavoro a circa 1,2 mln di persone. A discapito della vulgata comune, in media, i dipendenti delle multinazionali sono trattati molto meglio e hanno stipendi e condizioni di lavoro migliori rispetto ai loro omologhi di imprese nazionali. Per quanto riguarda, invece, quelle multinazionali che si trasferiscono all’estero, in paesi dove la considerazione per i diritti dei lavoratori, civili e umani è scarsa, riteniamo che sfruttare queste condizioni da parte di queste imprese sia un errore, se non un atto criminale. Ogni qual dove si violino i diritti delle persone, tale violazione va perseguita giudiziariamente se possibile, o attraverso azioni di protesta. La violazione dei più elementari diritti umani e civili non può essere tollerata in alcun caso.
  • “Le multinazionali si trasferiscono all’estero per pagare meno tasse”. Verissimo, dato che in Italia abbiamo un Total Tax Rate di circa il 62%, non si capisce perché dovrebbero volontariamente restare in Italia, quando possono legalmente trasferirsi altrove e pagare di meno. Se invece di sbraitare ci rendessimo conto di questo e decidessimo di ridurre e semplificare le tasse sulle imprese, non solo avremmo un effetto benefico per le imprese nazionali e per l’economia tutta, ma diventeremmo anche un paese attrattivo per queste multinazionali che a quel punto si trasferirebbero molto volentieri in Italia.
  • “I liberisti sfruttano e schiavizzano i dipendenti”: Ho in parte già risposto poco sopra, ma intendo approfondire. A tal proposito mi viene in mente un pezzo di cronaca letto tempo fa: la vicenda girava intorno un grande negozio di elettronica di consumo e riguardava una dipendente che, durante il turno di lavoro, chiese al titolare di potersi assentare per poter andare in bagno. Il titolare rispose di no, nonostante le ripetute richieste della dipendente, la quale alla fine non riuscì più a trattenersi e finì per farsela addosso, con sua grande vergogna, davanti ai clienti. Sotto la notizia lessi parecchi commenti dello stesso tenore: “maledetti neo liberisti, capitalisti, sfruttatori dei lavoratori ecc.”. La vicenda è vergognosa e sfortunatamente ricalca numerose situazioni lavorative, ma dare la colpa ai liberali e alle nostre idee è sbagliato. Il titolare, e chiunque si comporti così verso i propri dipendenti, non è un liberale, è semplicemente un coglione. Andando più nello specifico, questo comportamento non attiene al liberalismo poiché il violare i diritti dell’individuo è assolutamente contrario alle nostre idee. Noi aborriamo comportamenti di questo tipo, che sia il titolare del piccolo negozio, l’imprenditore, l’amministratore delegato ecc. ad adottarli. Non solo, un comportamento del genere è classificabile come mobbing e DEVE essere denunciato. Noi siamo a favore delle imprese, degli imprenditori E dei dipendenti, i quali devono essere trattati in modo giusto, equo e rispettoso.
  • “Voi liberisti state dalla parte delle Banche” Altro punto che piace molto ai nostri detrattori. Non è vero, noi riteniamo importantissimo il ruolo delle banche e di tutti gli intermediari finanziari all’interno del quadro legislativo, ma lo interpretiamo come supporto all’economia. Bisogna fare finanza per l’economia e non finanza per la finanza. La finanza deve essere l’olio lubrificante e non il motore dell’economia. Noi liberali rifiutiamo il concetto di “Too Big to Fail”, anche se riconosciamo che a volte, per il bene del paese, costi meno salvare la banca, ma allo stesso tempo pretendiamo che i manager che hanno portato al dissesto della banca vengano processati penalmente, e che vengano tolti loro tutti i requisiti di onorabilità necessari per sedere nuovamente in consigli di amministrazione di banche o imprese. Le banche sono a tutti gli effetti imprese non dissimili dalle altre e, se gestite malamente/criminalmente, fatti salvi i depositi e i conti correnti, bisogna avere il coraggio di far chiudere loro i battenti.

Effetti Di Politica Monetaria : BCE e Draghi

Le risposte delle politiche della Federal Reserve (FED) e della Banca Centrale Europea (BCE) alle recenti catastrofiche crisi finanziarie offrono due racconti di effetti indesiderati. In questo articolo, si suggerisce che la politica di stabilizzazione della BCE potrebbe non riuscire a raggiungere i suoi obiettivi. Infatti, una politica monetaria espansiva potrebbe anche ostacolare gli aggiustamenti strutturali dell’economia europea con effetti che vanno a prolungare la crisi dell’economia reale del vecchio continente.

Quando la crisi è iniziata –

Come la Fed, la BCE ha ridotto i tassi di interesse politico a livelli storicamente bassi quando la crisi finanziaria ha fortemente colpito l’Europa ed in particolare le sue economie periferiche. Queste politiche erano state attuate con l’obiettivo primo di soddisfare le esigenze di finanziamento delle banche in quanto la BCE aveva evidenziato un malfunzionamento a livello regionale del meccanismo di trasmissione della politica monetarie. Per calmare i mercati, l’Euro sistema ha fornito liquidità alle istituzioni finanziarie più in difficoltà tramite il suo programma Emergency Liquidity Assistance (ELA). Dal 2011 al 2012, le politiche di finanziamento di lungo periodo (LTRO) avevano l’obiettivo di provvedere liquidità ai partecipanti del mercato creditizio (Banche Commerciali) le quali, a loro volta, dovevano stimolare il credito a famiglie ed imprese. La BCE ha fornito liquidità senza avere garanzie reali tangibili a queste istituzioni, cosa che andava contro anche il suo statuto, e per questo ha dovuto modificarlo. Né la Fed né la BCE hanno seguito i principi di pensiero liberisti della scuola di Chicago ed hanno attuato una politica espansionistica monetaria senza precedenti in Europa con l’uso di tutti gli strumenti di politica monetaria possibili.

 

– Quando le idee politiche si scontrano con la realtà –

I programmi della BCE dovevano stabilizzare i mercati, stimolare i prestiti bancari ed infine aumentare la crescita economica in maniera omogenea a livello europeo. Il vero risultato e’ che questi programmi non hanno aumentato sufficientemente i prestiti bancari e di conseguenza la crescita in molti paesi non ha avuto i risvolti sperati. Le politiche della BCE dal 2008 hanno rallentato l’aggiustamento strutturale nell’area dell’euro (obiettivo del pagamento primario del debito di ciascun paese membro) e hanno incoraggiato un processo di diminuzione del credito verso quelle aree depresse per cui queste politiche erano state destinate, creando ulteriori squilibri all’interno dell’Area Euro. Le banche fortemente indebitate continuano a porgere un pericolo per la stabilità finanziaria. Gli interventi della BCE nel mercato delle obbligazioni hanno permesso ai governi di prendere in prestito a tassi inferiori rispetto a quelli di mercato, grazie al fatto che le banche destinatarie dei fondi della BCE compravano bond dei propri paesi e di conseguenza vi e` stato un immediato abbassamento dei tassi dei paesi in difficoltà. Tuttavia, contrariamente ai nobili presupposti dei banchieri centrali, i governi non hanno utilizzato il margine di manovra per attuare le riforme necessarie alla crescita come promesso. Come conseguenza delle crisi politiche dei grandi partiti europei, il processo delle riforme strutturali si è rallentato notevolmente.

Acquisti Obbligazionari –

Quando la pressione sui governi dell’area periferica dell’euro è aumentata, la BCE ha iniziato ad acquistare obbligazioni sovrane direttamente sui mercati secondari per ridurre i rendimenti obbligazionari. La BCE ha acquistato, ad esempio, titoli di Stato attraverso un suo programma Security Market Program (SMP) fino al 2012. La paura sui mercati e le varie speculazioni finanziarie hanno depresso i valori di mercato obbligazionari destinatari di questo programma (delineato per i paesi della periferia dell’euro area), creando ulteriore instabilità nel sistema monetario e finanziario. Di conseguenza la BCE ha annunciato il famoso programma di acquisto obbligazionario pubblico illimitato (il famoso Bazuca), il programma Outright Monetary Transactions (OMT), nel luglio 2012. Nel 2015, la BCE ha iniziato il suo “programma di acquisto di asset esteso” (APP) o piu` conosciuto come Quantitative Easing (QE), per aumentare le aspettative dell’inflazione e stimolare l’economia. La BCE continuerà ad acquistare obbligazioni di tutti i tipi (Anche Corporate Bond con Ratings sotto l’Investment Grade) almeno fino alla fine del 2017.

– Alterazioni dei Valori dell’Economia Reale –

Tutte queste politiche monetarie sicuramente hanno alterato in maniera forzosa i valori di mercato sia del costo del denaro che i valori mobiliari ed immobiliari, aprendo possibili scenari di bolle speculative in determinati mercati. Sicuramente la politica monetaria ha efficacemente ridotto i costi di finanziamento governativi, mitigando la crisi del debito dei paesi in difficoltà. Questo e’ stato il grande successo di Draghi del famoso programma “Whatever takes” per salvare l’area dell’euro nel 2012. Ma ciò non esula il sistema finanziario europeo da possibili shock di medio lungo periodo che potrebbero realizzarsi qualora ci fosse un prolungamento esteso del Quantitative Easing, e soprattutto di future crisi fiscali dei paesi ad alto debito, se tali paesi non aumentassero in maniera sostanziale i loro tassi di crescita reale. Se questo scenario accadesse, la BCE sarebbe inerme avendo esaurito tutte le politiche monetarie contro la crisi, con una possibile implosione dell’Euro – tra i scenari più negativi.

 

– Accesso Al Credito –

I programmi della BCE hanno avuti risultati largamente al di sotto delle aspettative per lo stimolo dei prestiti bancari. Diverse ricerche sui prestiti bancari della BCE ( ECB bank lending surveys) indicano che l’impatto della caduta dei tassi di interesse del QE è stato limitato riguardo al tasso di crescita dei prestiti nel 2016. Anche se la politica dei tassi d’interesse della BCE ha diminuito il tasso di prestito bancario, ha anche compresso la differenza bancaria (tasso di interesse meno tasso di deposito), avendo un impatto negativo sui bilanci di alcune traballanti banche europee. Inoltre i risultati del Quantitave Easing sul fronte stabilità delle banche non sono più rosei. Sebbene l’annuncio di un programma OMT migliorasse i bilanci delle banche in quanto i prezzi delle obbligazioni ritornavano ai valori ante crisi, l’annuncio di queste politiche ha avuto effetti indesiderati. Contrariamente alle intenzioni della BCE, le banche dell’area dell’euro (sottocapitalizzate) non hanno utilizzato il maggior capitale a basso costo per estendere i prestiti alle imprese sane. Le banche hanno iniziato a ricomprendere prestiti per prevenire perdite e limitare le svalutazioni delle proprie azioni, come spiegato in questo articolo del fondo monetario (unintended real effects.)

In parole povere, invece di promuovere prestiti bancari e stimolare la domanda aggregata, come il meccanismo di trasmissione implicherebbe, nell’attuale sistema, la politica monetaria ha rallentato l’accesso al credito o molte volte allocandolo in maniera inefficiente, creando l’effetto opposto. Come in Giappone (a partire dagli anni ’90), la stagnazione potrebbe diventare un ostacolo alla crescita in Europa e complicare l’uscita dalle politiche a basso tasso di interesse.

– Riforme Strutturali –

Molti economisti sostengono, esplicitamente, che la politica monetaria da sola non crea alcuna crescita reale, ma ha solo effetti monetari di breve periodo. In pratica, esortano le riforme nei paesi dell’area dell’euro a promuovere l’imprenditorialità, gli investimenti e la crescita. Mario Draghi è uno di loro. Secondo Draghi, la politica accomodante potrebbe aiutare a stabilizzare i mercati e fornire ai governi un certo raggio d’azione per attuare le riforme individuate come necessarie per un decollo sostenibile delle proprie economie. A seguito di questa logica, Draghi e la BCE devono aver assunto che i governi utilizzino l’”opportunità” aperta dalla politica monetaria per attuare le riforme. Riforme che in paesi come la Francia e Italia tardano ad arrivare. Il vero problema che a seguito di una grande crisi finanziaria, l’Europa ha una grande crisi politica all’interno. Infatti, l’attuale scenario post Brexit e le varie divisioni dovute al malcontento generale delle politiche europea, pongono una significativa sfida a questo pensiero di fondo di tali grandi economisti.

Bisogna dare atto che il Presidente della BCE Mario Draghi ha sempre ripetuto necessario che i governi nazionali si impegnino per ulteriori riforme. Ha sottolineato nei discorsi che la BCE stava facendo il proprio lavoro, ma i governi non stavano facendo il loro. Ma questa situazione di stallo potrebbe diventare un vicolo cieco. Gli acquisti obbligazionari della BCE hanno attenuato la pressione di aggiustamento del debito per i vari governi dell’area dell’euro. Dal 2012, i rendimenti obbligazionari di governo non rispecchiano coerentemente i fondamentali del mercato perché la BCE è pronta ad acquistare obbligazioni e ridurre i rendimenti, se necessario, alterando di fatto il mercato. In tale assenza di pressione del mercato, gli economisti, tra i quali Draghi, sembrano parlare con un muro. Contrariamente alle ipotesi di Draghi, la politica monetaria ha scoraggiato i governi (di fronte ad un elettorato) di attuare riforme di grande portata. La politica di Draghi sembra essere stata controbilanciata.

 

– Draghi rischia la sua fortuna? –

Nonostante le numerose conseguenze non predette, Draghi continua ad applicare le stesse politiche. Alcuni critici, soprattutto nell’asse tedesco olandese, dicono che questa è la prova che il vero obiettivo di Draghi è quello di consentire ai governi ad alto debito di ottenere finanziamenti a costi molto bassi. La mia ipotesi è che se non c’è una agenda ben determinata di uscita da queste politiche monetarie espansive in un breve periodo, Draghi potrebbe rischiare grosso alla prossima crisi finanziaria.

Come la libertà economica ha salvato la Nuova Zelanda

Nel 1975 la Nuova Zelanda aveva un punteggio di libertà economica pari a 5.60. Per mettere la questione in prospettiva oggi la Grecia ha un mero 6.93, mentre la Francia un 7.30 scarso.

40 anni fa l’economia neozelandese era fortemente statalista, al livello di quello dell’Etiopia, ma le politiche economiche poi sono cambiate radicalmente, introducendo delle riforme pro libero mercato.  Oggi è tra le 5 economie con più libertà al mondo, a seguito di Hong Kong e Singapore.

 

Negli anni 50 il loro GDP per capita era il terzo al mondo, ma nel 1984 è sceso al ventisettesimo posto, scendendo allo stesso livello di Portogallo e Turchia. Come se non bastasse la disoccupazione ha raggiunto l’11.6% e per 23 anni consecutivi hanno fatto deficit, che, spesso, raggiungeva il 40% del proprio GDP.

Il loro debito, calcolandolo in valore relativo, ha raggiunto il 65% e la loro affidabilità creditizia ha continuato ad essere declassata. La spesa pubblica aveva raggiunto il 44% e il flusso di capitali  continuava ad espatriare in altri paesi più economicamente convenienti. Inoltre i controlli e il management dello stato erano molto rigidi in tutti gli ambiti dell’attività economica.

Gli scambi coi paesi esteri erano divenuti così restrittivi tanto che per abbonarsi a riviste come l’Economist ci voleva il permesso del ministro delle finanze. Era proibito comprare azioni in paesi esteri senza rinunciare alla propria cittadinanza. C’erano controlli dei prezzi su tutti i beni e servizi, sui negozi e su tutti i servizi forniti dalle imprese. C’erano persino leggi sul salario minimo e alcune imponevano un blocco sugli stipendi, tanto che i datori di lavoro non riuscivano ad aumentare la paga ai propri dipendenti, né  tantomeno potevano ricevere bonus, qualora avessero voluto.

Le restrizioni alle importazioni erano severe tanto che era lo stato a decidere quali merci potessero essere importate e quali fossero vietate. E come ciliegina sulla torta molte imprese continuavano ad essere sussidiate per essere mantenute in vita, mentre molti giovani cominciavano a lasciare il paese.

 

Tagli draconiani alla spesa pubblica

Il dipartimento dei trasporti aveva 5.600 dipendenti e una volta completate le riforme ce n’erano solo più 53, le guardie forestali erano 17 mila e sono state ridotte a 17.

Il ministero del lavoro aveva 28 mila dipendenti e ne hanno lasciato solo UNO, il ministro stesso. Una volta licenziati questi dipendenti erano riusciti ad avere un salario 3 volte superiore rispetto a quello che guadagnavano prima, inoltre la loro produttività era aumentata del 60%  rispetto a ciò che facevano di solito.

Sono state svendute telecomunicazioni, compagnie aeree, servizi nel campo dei sistemi informatici, uffici stampa, compagnie assicurative, banche, titoli, mutui, ferrovie, servizi bus, hotel, compagnie di trasporto, servizi consultivi per l’agricoltura. Una volta svenduti la produttività è aumentata e i prezzi sono scesi, di conseguenza l’accumulo di capitali è aumentato esponenzialmente. Inoltre lo stato ha deciso che alcune agenzie dovessero comunque rimanere statali.

Hanno ridotto il sistema di controllo del traffico aereo lasciando una sola agenzia che, però non poteva chiedere alcun finanziamento dallo stato. Così il miliardo all’anno sperperato per le 35 agenzie si è trasformato in profitto, così lo stato si è ritrovato con più entrate. hanno tolto tutti i i sussidi all’agricoltura e si pensava che sarebbe nata una corporazione agricola che potesse fare cartello dei prezzi, invece sono nate tante aziende agricole familiari.

Hanno abbassato la tassazione per gli stipendi più alti dal 66% al 33% e per quelli più bassi dal 33% al 19% che è divenuta flaxt per tutti quelli con i redditi minimi. E’ stata imposta una tassa sui consumi del 10% e allo stesso tempo hanno abolito tutte le tasse sull’accumulo di capitale, sulle proprietà. Il pacchetto di riforme è stato presentato al pubblico come un gioco a somma zero dove si era previsto che lo stato avrebbe avuto le stesse entrate di prima,  ma così non è stato.

Le entrate sono aumentate del 20%, quindi al di sopra delle aspettative. Questo è stato possibile grazie alla Curva di Laffer, secondo cui lo stato non può tassare oltre un certo limite, altrimenti le entrate diminuiscono. Quando si ha più lavoro e stipendi più alti lo stato riesce a prendere una fetta in più della torta.

Dando un’occhiata alla tabella si può notare come nei 5 anni, dal 1991 al 1997, periodo in cui c’è stato un blocco nell’aumento della spesa, diminuita negli anni a seguire, aumentando così l’output fino al decennio scorso, quando è scoppiata la crisi.

 

Da come si può notare questo grafico dimostra come la spesa sia sempre stata tagliata in relazione all’andamento produttivo dell’economia.

 

Oggi la Nuova Zelanda detiene il terzo podio al mondo per libertà economica, il secondo sistema di tassazione migliore al mondo per competitività e al sesto posto per soddisfazione di vita.

 

Il miracolo economico della Rep.Ceca: dal socialismo all’Europa

In vista delle elezioni parlamentari del paese, esaminiamo il cambio di rotta dell’economia ceca dopo essersi liberata dalla camicia di forza dello statalismo sovietico. Come ha fatto la nazione ceca a generare uno sviluppo economico così sostenuto nel lungo periodo e a diventare uno dei centri più dinamici del mercato unico?

Dopo la dissoluzione del blocco comunista, iniziata con le rivoluzione nei paesi dell’Europa dell’est a cavallo tra gli anni ottanta e gli anni novanta, e il fallimento de facto del socialismo e della pianificazione centralizzata dell’economia, tutti i paesi che precedentemente facevano parte del patto di Varsavia dovettero risollevare un economia completamente disastrata e sempre più atrofizzata dall’incipiente inflazione, ripristinare i diritti di proprietà, sviluppare un mercato interno e cercare di attrarre capitali esteri.

Storicamente parlando, la Cecoslovacchia fu una delle economia più avanzate, visto la sua lunga tradizione industriale, ad adottare un sistema di pianificazione socialista dell’economia: aveva delle grandissime potenzialità di crescita economica nel secondo dopoguerra, ma in poco tempo, dopo una lieve crescita del PIL nell’età dell’oro grazie all’industrializzazione forzosa, seguì le orme del URSS e, intorno agli anni settanta, le contraddizioni insite nel sistema diventarono palesi.

La scarsa efficienza degli investimenti statali deriva dalle difficoltà insite nella pianificazione dei processi produttivi che prevedeva una fase di organizzazione della produzione, una di politica del prezzo e, infine, un’imposizione del prodotto nel mercato; diversamente da quanto accadeva in un sistema capitalistico. Perciò le risorse venivano allocate senza tener conto dei costi opportunità dei fattori di produzione, con un costante aumento del deficit statale.

Ciò era possibile solo con una politica monetaria espansiva e inflazionistica, poiché oltre a mantenere in vita settori industriali obsoleti e in perdita, si doveva acquietare una popolazione sempre più povera, e soprattutto rifornirla di beni di consumo. Tra il 1950 e il 1970, il PIL dell’Europa orientale era pari al 50% di quello dell’Europa occidentale, e nel 1990 sarebbe sceso al 30% del PIL Europeo.

A distanza di quasi 30 anni dal crollo del blocco socialista, le economie dell’est Europa presentano un quadro dell’economia nazionale ben diverso rispetto all’era sovietica e post sovietica e rappresentano ormai uno dei poli con maggiore attrazione di capitali esteri, in particolare la Polonia e la Rep.Ceca.

La recente storia economica della Rep.Ceca è un classico esempio contemporaneo di come l’apertura con l’esterno, il ripristino dei diritti di proprietà, il libero commercio, il capitalismo e la democrazia rappresentativa abbiano avuto effetti costruttivi sulle economia che prima erano socialiste. Ma non solo. È un esempio di come questi prerequisiti, coadiuvati dal vantaggio dell’arretratezza, siano i principi cardine che stanno alla base della crescita economica.

Possiamo individuare tre ragioni alla base di questo fenomeno:

  • Il trasferimento tecnologico e l’importazione della maggior parte delle tecnologie industriali dal vicino tedesco, paese leader nel settore, si sono tradotti in un miglioramento della qualità nel settore manifatturiero ceco, in particolare nel comparto automobilistico.

  • Il prodotto nazionale lordo è dato dalla somma di tutti i settori e ovviamente fra questi vi sono grandi differenze in termini di produttività: le dimensioni dei settori tradizionali a bassa produttività (commercio al dettaglio, servizi…) sono in genere piccole nei paesi economicamente avanzati e numerosi nei paesi arretrati. Di conseguenza, le economie più povere recupereranno terreno rispetto a quelle più ricche con il semplice spostamento della forza lavoro da settori a bassa produttività, come l’agricoltura, a settori ad alta produttività, come l’industria, rendendo comunque i settori tradizionali più efficienti e dinamici.

  • In questa prima fase, partendo da livelli salari molto bassi, i paesi poveri registreranno maggior quantità di investimenti, poiché presentano un rapporto capitale-lavoro molto basso. Ma soprattutto, registreranno tassi di crescita del PIL annuo di gran lunga superiore a quelli delle economie già industrializzate.

Difatti, dall’entrata nell’Unione Europea nel 2004, la Rep.Ceca, così come gli altri paesi dell’Europa dell’est, ha conosciuto un’espansione economica senza precedenti, passando da un tasso di incremento del PIL intorno al 1,9% nel 2003 al 6,9% del 2006, a fronte di quello tedesco passato dallo -0,3% nel 2003 al 3,7% del 2006. Dopo essersi ripresa dalla recessione del 2008, il paese ceco è tornato ad essere dinamico nel mercato europeo (con un modesto calo durante la breve recessione del 2011-13) registrando nel 2015 un tasso di crescita del PIL del 5,3%, a fronte di quello tedesco intorno al 1,7% nello stesso anno. Anche gli scambi commerciali hanno conosciuto un’espansione notevole dal 2011 al 2016 con un tasso di crescita delle esportazioni del 2,61%, passando da $151 miliardi a $160 miliardi, e una diminuzione delle importazioni, passate da $149 miliardi a 138 miliardi. La Repubblica Ceca è la conferma di come il vantaggio dell’arretratezza, la convergenza tecnologica e culturale e l’apertura commerciale siano le fondamenta su cui edificare una crescita economica e sociale sostenuta nel tempo. 

Come paradossalmente aveva predetto Karl Marx, i sistemi sociali che creano benessere materiale e progresso sociale si autoconsolidano, mentre quelli che non sono in grado di creare e garantire prosperità falliscono, per poi crollare sotto il peso delle proprie contraddizioni.

Il mito Scandinavo: il successo economico dell’estremo Nord dell’Europa

Per anni i partiti di ispirazione socialista ci hanno portato a modello il sistema economico di Norvegia, Svezia, Finlandia e Danimarca, sbandierati come emblema del successo del socialismo in Europa, in particolare ponendo l’accento sull’eccellenza del welfare state di questi paesi. Posto che l’efficienza di quest’ultimo non sia messo in dubbio, i dati lo confermano, ho ritenuto necessario andare ad indagare quali siano le ragioni che hanno reso questi paesi così economicamente avanzati.

Analizzando la questione superficialmente si potrebbe pensare che l’equazione “Scandinavia=socialdemocrazia” sia corretta, ma approfondendo maggiormente la questione, la verità risulta immediata e lampante: il successo economico dei paesi scandinavi è semplicemente sinonimo di libertà d’impresa, riforme pro-mercato e mentalità capitalista.

Dato che, a differenza di altri, noi non parliamo per slogan o ideologie ma per fatti, riporto alcuni dati emblematici, cercando anche di spiegarli per i non addetti ai lavori:

  • Index of Economic Freedom: è un indice che misura il grado di libertà economica di un paese, estrapolato analizzando dodici categorie di libertà economica fra cui: diritto di proprietà e sua difesa, incidenza fiscale, facilità e libertà di fare impresa e apertura al libero scambio.Nella graduatoria per il 2017, Danimarca, Svezia, Norvegia e Finlandia sono rispettivamente al 18°, 19°, 24° e 25° posto. Gli Stati Uniti sono a 17°, il Regno Unito al 12°. La Germania, che è considerato il Benchmark economico di riferimento per l’Europa, è al 26°, l’Italia al 79° posto. Dal 1996 (primo anno di rilevazione) a oggi, Svezia e Finlandia hanno visto un miglioramento delle condizioni di libertà economica del 13,5 % e del 10,3%. L’Italia solo dell’1,6%. (fonte: http://www.heritage.org/index/ranking ).
  • Total Tax Rate: è l’aliquota fiscale totale sui profitti commerciali, più semplicemente misura il grado di imposizione fiscale sui profitti delle imprese. Per il 2016, in Danimarca si è registrato un TTR del 25%, in Finlandia del 38,1%, in Norvegia del 39,5%, in Svezia del 49,1%. Per fare un paragone, e rendere più comprensibili i dati, negli Stati Uniti si è registrato un TTR del 44%, nel Regno Unito del 30,9%, in Germania del 48,9%, nell’ultimamente tanto vituperata Irlanda del 26%, in Italia del 62%. (fonte: https://data.worldbank.org/indicator/IC.TAX.TOTL.CP.ZS ).
  • Individual Real Tax Rate: è un indicatore che misura in percentuale il livello di tassazione reale applicato ad ogni singola persona (ovvero i contributi per la previdenza sociale + le tasse sul reddito + l’IVA, diviso il salario lordo reale di una singola persona). Per il 2016, in Danimarca è pari al 41,49%, in Finlandia è pari al 47,33%, in Svezia è del 47,13%. In Germania è pari al 52,36%, in Irlanda del 32,61%, nel Regno Unito è pari al 35,29%, in Italia è pari al 50,13%. (NdA. I dati per la Norvegia non sono disponibili poiché lo studio che si è preso come riferimento riguarda solo i 28 paesi appartenenti all’UE). (fonte: http://www.institutmolinari.org/IMG/pdf/tax-burden-eu-2016.pdf ).
  • Ease of Doing Business: classifica redatta dalla Banca Mondiale, analizzando la facilità di un imprenditore medio nell’aprire una propria attività commerciale, a livello globale. Danimarca, Norvegia, Svezia e Finlandia sono rispettivamente al 3°, 6°, 9° e 13° posto. Gli Stati Uniti sono all’8°, il Regno Unito al 7°, la Germania al 17°, l’Italia al 50° posto. (fonte: http://www.doingbusiness.org/rankings ).

 

Questi fantastici risultati in termini economici sono frutto di riforme economiche strutturali di puro stampo liberista, volte alla globalizzazione ed estremamente connesse al commercio internazionale. Grazie a queste riforme, questi paesi hanno avuto le risorse per mettere in piedi quel sistema di welfare tanto agognato.

In altre parole, il cosiddetto mito del socialismo-democratico Scandinavo è in realtà, ironicamente, finanziato da uno dei più grandi progetti capitalisti al mondo.

Dunque la conclusione è chiara e semplice: il successo economico di un paese dipende dal grado di libertà economica vigente in esso, sia in termini fiscali che burocratici. La libertà d’impresa e, di conseguenza, la maggior capacità di creare ricchezza e una bassa imposizione fiscale sono la chiave della prosperità sociale ed economica di un paese.