Adam Smith vs Adam Smith. Il messaggio perduto

“Tutti concordano nell’affermare che la grandezza dello stato si giudichino in base alla quantità d’argento che possiede”, così diceva Jean-Baptista Colbert, ministro della Finanza della Francia nel 1665.
Quindi per lui il denaro era ricchezza. Più soldi aveva lo Stato, più forte era lo Stato. Egli adottò la politica del Mercantilismo, cioè proteggere le aziende francesi, quindi istituì tasse sulle importazioni, sussidi alle esportazioni e burocrazia sulle imprese.

Nonostante ciò, la Francia non riusciva ad essere più ricca dell’Inghilterra.
Nel settecento, i pensatori francesi provarono a dare una risposta sul perché tutto ciò fosse possibile. In particolare i Fisiocrati, uno su tutti Francois Quesnay, ritenevano che l’economia fosse governata da leggi naturali, perciò la ricchezza non deve essere solo accumulata, ma deve anche circolare. Quindi riteneva che leggi, norme, tariffe, sussidi e provvedimenti simili tendevano solo ad ostacolare questa naturale circolazione.
La soluzione era semplice: LAISSEZ-FAIRE (Lasciare Fare).

Un piccolo slogan che diventerà presto il simbolo del Libero Mercato. Uno dei più grandi, influenzato dai Fisiocrati, fu lo scozzese Adam Smith che nel 1776 scrisse La Ricchezza Delle Nazioni.
Lui sviluppò al meglio l’idea di libero mercato attraverso la metafora della Mano Invisibile dove, attraverso un’accurata Divisione del Lavoro, ciascuno fa il proprio lavoro e guadagna per ciò che fa. Come disse lo stesso Smith: “Non è certo dalla benevolenza del macellaio, del birraio o del fornaio che ci aspettiamo il nostro pranzo, ma dal fatto che essi hanno cura del proprio interesse.”

Smith, inoltre, spiegò i meccanismi del libero mercato:
1. Anche nel caso il fornaio pensasse solo a se stesso, non può mettere un prezzo troppo alto
2. Perché gli altri fornai, pensando al loro interesse, potrebbero abbassare il prezzo per rubargli i clienti
3. Se fosse l’unico fornaio della città non potrebbe strafare perché altri aprirebbero un altro forno per il proprio interesse

Quindi, per Smith, è la competizione a mantenere tutti onesti, dove il mercato stesso capisce i bisogni della gente e il modo per soddisfarli.

Il libero mercato organizza ogni cosa molto meglio del miglior organizzatore. Immaginate qualcuno che pianifica i rifornimenti a Roma?

Ma ci sono anche tante altre cose non dette sullo stesso Smith. Per esempio, non era un dogmatico, cioè era consepevole che:
1. I mercati non sono perfetti
2. Non si occupavano dei servizi pubblici, come la pulizia stradale
3. I mercati non rispettano le leggi

Ed è proprio per questo che vedeva nello Stato un ruolo di arbitro, in grado di:
1. Occuparsi dei tassi d’interesse
2. Proteggere i salari dei lavoratori
3. Tenere sotto controllo l’onestà delle banche
4. Proteggere i Brevetti
5. Controllare le malattie e garantire un livello standard d’istruzione

Due punti, poco citati, del pensiero Smithiano erano
1. Lo stipendio del lavoratore
2. Le corporazioni

Per Smith, prezzi e stipendio avevano un rapporto particolare. Se uno saliva, l’altro scendeva (il suo potere d’acquisto) e viceversa.
Ma la sua risposta era: “Nessuna società può essere felice se la Maggior Parte di essa è povera”.

Questo passo è memorabile, in quanto ci permette di arrivare al vero messaggio (perduto) di Adam Smith. I capitalisti facevano il loro interesse, pagavano bassi stipendi, sfruttavano la propria forza nei confronti della politica da spingere la legge a stabilire sussidi e tariffe, limitando la concorrenza.

Il vero messaggio perduto di Adam Smith è “OCCHIO AI CAPITALISTI”, in quanto tendono a voler diventare i Padroni dell’Umanità con i Monopoli Istituzionalizzati dagli Stati, dove chi lavora non lavorerà mai sodo come se fosse sua o in una situazione di libero mercato, o le grandi Corporazioni che tendono a distruggere o inglobare chi vuole inserire in un determinato mercato.

Autarchia: una pericolosa utopia

Il dibattito fra libero mercato e protezionismo non è certo un’invenzione dei nostri tempi. Già nell’Ottocento Cavour,convinto sostenitore del libero scambio,con le sue politiche economiche rese il Regno di Sardegna il più florido fra gli Stati italiani pre-unitari. Al contrario uno dei suoi successori,Francesco Crispi,nel pieno della grande depressione del 1873-1896 si imbarcò in una guerra commerciale contro la Francia,il nostro principale partner economico di allora,che risultò disastrosa per il Paese. Allora come oggi,dunque,una grave crisi economica spinse molti governi ad abbandonare il libero scambio per adottare politiche protezionistiche, che prolungarono ulteriormente la crisi. Il protezionismo, malgrado i danni che esso determina, non è nulla se confrontato all’antitesi stessa del libero mercato, l’autarchia.

Per “autarchia” si  intende l’assoluta autosufficienza del mercato nazionale,in grado di rispondere al fabbisogno interno di qualsiasi merce indipendentemente dagli scambi con i mercati esteri. Ciò era lo scopo ultimo della politica economica dei regimi totalitari europei del secolo scorso, ed è oggi il principio ispiratore delle proposte economiche di molti movimenti populisti,no global e della nuova sinistra.

Viene da chiedersi se l’autarchia possa essere considerata non solo un modello teorico,ma anche una concreta politica economica. A parere di chi scrive la risposta è sì,ma non nel XXI secolo. In passato infatti non sono mancati esempi reali di autarchia: cos’era infatti una corte feudale dell’Alto Medioevo,se non un microcosmo autarchico, in cui produttore e consumatore coincidevano nella medesima persona,il contadino?

Come per molte altre realtà storiche,dalla schiavitù al colera,a rendere obsoleta l’autarchia è stato lo sviluppo tecnico-scientifico. Mentre la civiltà feudale necessitava di risorse presenti ovunque nel mondo,quali terre fertili da coltivare e legname come combustibile,la nostra è una civiltà basata sulla tecnologia moderna,la quale tuttavia richiede materie prime che si trovano solo in aree specifiche del globo,come il petrolio (essenziale per carburanti,materiali sintetici e agricoltura) e le “terre rare”,come il neodimio,essenziali per i nostri dispositivi high-tech,dagli smartphone alle automobili elettriche. Ne consegue che nessuno Stato moderno possa sopravvivere senza scambi commerciali con altri Stati,in quanto non esiste paese al mondo dotato di tutte le risorse necessarie alla tecnologia moderna. Per ovviare a questo problema esistono tre possibili soluzioni: l’abbassamento delle condizioni di vita degli esseri umani,la guerra o il libero mercato.

La prima è la via intrapresa dal regime che governa la Corea del Nord,la cui ideologia prende il nome di “Juche”,generalmente tradotta come “autarchia” per l’appunto. La seconda è la scelta spesso adottata dagli Stati Uniti,che dalla seconda guerra mondiale in poi hanno sostenuto dittature e combattuto guerre al fine di assicurarsi il controllo di mercati esteri con le loro risorse. La terza,il libero mercato,rappresenta un modo per rimediare agli squilibri esistenti fra le nazioni senza ricorrere alla forza militare e senza rinunciare alle conquiste della tecnologia moderna,rendendo quindi possibile la ridistribuzione della ricchezza mondiale, non quella da attuare con la forza,figlia dell’ideologia marxista,bensì quella fra produttore e consumatore figlia della libertà economica,presupposto indispensabile per ogni altra libertà personale.

Ne consegue che l’autarchia è doppiamente pericolosa,in quanto ha come risultato un mercato interno bisognoso di espansione (spesso causa di guerre) e l’impoverimento delle nazioni. Soprattutto,l’autarchia è una grave restrizione alla libertà umana. Sin dalla nascita della civiltà,l’uomo ha condotto scambi economici con i suoi simili,prima con il baratto e poi con la moneta. Questi scambi, che oltre alle merci veicolano la diffusione delle idee, devono essere salvaguardati in una società libera,ed è per questo che l’autarchia è la compagna naturale del totalitarismo.

Il governo negli affari (3); M.N Rothbard, (For a new Liberty, analisi 2^ parte)

In questa sezione, Rothbard vuole mettere in evidenza l’ingombrante ed asfissiante presenza dello Stato nel settore dei servizi e del mercato, cercando di mostrare le inefficienze dello stesso nell’erogare i servizi e nel voler “raddrizzare” il mercato.

Inizialmente, egli fa notare come lo Stato nel corso del tempo si sia a tal punto identificato con i servizi che eroga che attaccare e criticare lo Stato nel suo operato appare come una critica al servizio stesso. Ad esempio, se si afferma che lo Stato non si dovrebbe occupare di fornire servizi giudiziari, spesso la gente considera ciò una negazione dell’importanza, in questo caso, dei servizi giudiziari. Inoltre, molti potrebbero domandarsi: chi fornirà questi servizi? La risposta di un libertario è ovvia: saranno delle imprese private calate in un contesto di libero mercato a fornire al consumatore tutto ciò di cui ha bisogno.

Rothbard deve però mettere le mani avanti: è impossibile delineare a priori un progetto costruttivo di un qualsiasi settore. Ma, come afferma: «l’essenza e la gloria del libero mercato consistono proprio nel fatto che le ditte e le imprese individuali che competono sul mercato offrono una gamma in costante trasformazione di beni e servizi efficienti». Le aziende hanno grande interesse nel fornire nel miglior modo possibile i servizi e i prodotti di cui gli individui hanno bisogno , altrimenti si troverebbero in breve tempo senza clienti e in bancarotta.
Infatti, nel libero mercato il cittadino è re, è “corteggiato” dalle varie imprese che devono fare del loro meglio, di necessità, per cercare di estendere la loro clientela. Ciò incentiva le imprese a cercare di essere efficienti e a diversificare e trasformare continuamente la loro offerta.

Questa situazione è l’opposto di quella in cui si trova il cittadino nei confronti dello Stato: il cittadino è quasi una “noia”, uno che sta “consumando” le già scarse risorse dello Stato. Lo Stato non è incentivato a diversificare e trasformare la sua offerta e, seppure volesse, non potrebbe farlo in tempi abbastanza rapidi da intercettare nel miglior modo la domanda di servizi. Inoltre, cosa molto importante, in ogni azione dello Stato vi è un fatale divario tra la fornitura di un servizio e il pagamento per riceverlo. A differenza delle imprese private, le quali ottengono i loro fondi attraverso le vendite, lo Stato si finanzia con le tasse forzosamente estorte ai cittadini.

Molti ritengono che lo Stato possa funzionare meglio se fosse amministrato come una azienda. Per Rothbard non c’è nulla di più falso. In primo luogo, come detto sopra, lo Stato si finanzia in maniera totalmente diversa dalle imprese private; in secondo luogo fornisce servizi in regime di monopolio legale, eliminando la concorrenza attraverso la legge; in terzo luogo, grazie ai prezzi che fornisce il libero mercato, le aziende hanno la possibilità di calcolare in maniere efficiente i loro costi per non subire perdite e distribuire servizi e beni in maniere intelligente, cosa di cui lo Stato non può usufruire in maniera genuina rendendo la pianificazione centrale molto faticosa, laboriosa ed estremamente fallibile. Inoltre, poiché in molti casi il servizio statale è erogato in regime di monopolio o semi-monopolio, quindi in una situazione in cui non vi è concorrenza, e poiché lo Stato non può andare in bancarotta o subire perdite, esso deve semplicemente tagliare i servizi o aumentare i prezzi. Nulla di più lontano da come funzionano le imprese.

La soluzione, è solo una: abolizione del settore pubblico. But who will build the roads?

 

La libertà personale secondo M.N. Rothbard (For a New Liberty, analisi 2^ parte)

In questa seconda parte dell’articolo su M.N. Rothbard, e nelle seguenti, tratteremo della seconda parte di “For a New Liberty”. Cominciamo dalla visione sulla libertà personale.

Libertà Personale:

In questa sezione del manifesto libertario, Rothbard prende tutti quei diritti, dalla libertà di parola al possesso delle armi, che possono essere collocate sotto il nome di libertà personali. Innanzitutto, il pensatore newyorkese prende in esame le “libertà civili” (diritto di parola, stampa, espressione) facendo notare il carattere assoluto che deve essere loro conferito. Ogni libertario deve sostenere strenuamente la libertà di parola e tutti i suoi derivati.

Inoltre, cosa molto importante, Rothbard fa notare come queste libertà siano inestricabilmente legate con i diritti di proprietà: esse derivano dalla proprietà privata (ad esempio: possibilità di stampare), ma allo stesso tempo devono rispettare la proprietà (egli cita come esempio della violazione della proprietà altrui con la parola la situazione in cui qualcuno urli “al fuoco!”, all’interno di un cinema, senza che vi sia realmente un incendio creando una perdita al proprietario del cinema).

Un caso molto particolare è quello del ricattatore o del diffamatore in a cui Rothbard giunge ad una conclusione molto particolare. Secondo lui, un blackmailer non può essere considerato un invasore di diritti altrui: egli esercita il suo diritto alla parola o calunniando o minacciando il rilascio di informazioni intime e non interferisce coi diritti di nessuno. Infatti, non si può dire che una persona abbia un “diritto di proprietà” sulla propria reputazione, essa è una funzione soggettiva dei sentimenti degli altri. Calunniare e ricattare è immorale, ma, per Rothbard, moralità e legalità sono due categorie diverse.

Altro punto su cui le libertà civili si intersecano con i diritti di proprietà sono le manifestazioni in luoghi pubblici. Secondo Rothbard, il problema di quali manifestazioni sono da autorizzare e quali da bandire è un problema che lo Stato non potrà mai risolvere senza danneggiare qualcuno e avvantaggiare qualcun altro. Infatti, essendo le strade pubbliche, tutti possono fare richiesta per manifestare, anche gruppi “estremisti” di qualsiasi tipo, poiché essendo contribuenti ne avrebbero diritto. Ma, se le strade fossero private sarebbero i proprietari a decidere chi potrebbe usufruirne e chi no, evitando conflitti tra contribuenti.

La posizione libertaria in merito alla legislazione sessuale e la pornografia è molto chiara e semplice. Infatti, poiché si tratta di interrelazioni tra adulti consenzienti e la donna o l’uomo possiedono il loro corpo, lo Stato non può proibire degli atti solo perché immorali, i cosiddetti “crimini senza vittime”, né mettere fuori legge tali comportamenti solo perché potrebbero essere dannosi e pericolosi. Agli occhi di un libertario la prostituzione è una vendita volontaria di lavoro. Inoltre, così facendo, lo Stato legifera su una delle sfere più private dell’uomo, impedendogli di comportarsi come vuole nel rispetto dei diritti altrui. Essere favorevoli alla prostituzione non significa volerla diffondere né essere favorevoli alla prostituzione in sé. Significa solo riconoscere che è una attività lecita e che come tale non può essere impedita per questioni morali.

Un altro caso particolare è quello dell’aborto. Rothbard lo risolve in maniera molto cruda ma coerente con la sua impostazione di base. Infatti, il problema cruciale è se l’aborto deve essere considerato un omicidio. Prescindendo da tutte le considerazioni mediche su quando inizi la vita e da quelle religiose, Rothbard mostra che se consideriamo un feto come avente tutti i diritti di un qualsiasi essere umano, tra cui il diritto di non essere ucciso, allora dobbiamo trovare una risposta alla seguente domanda: quale essere umano ha il diritto di rimanere, non invitato come parassita indesiderato all’interno del corpo di un altro essere umano? Per Rothbard ogni donna può decidere in quale momento quando disfarsi di quello che è un “parassita” indesiderato dal suo corpo.

Per quanto riguarda le droghe Rothbard è molto chiaro: il proibizionismo non ha funzionato nella pratica e nella teoria non è ammissibile. Infatti, lo Stato non può negare a nessuno di assumere quali sostanze preferisce solo perché fanno male o possono portare a compiere atti criminosi nei confronti di altri individui. Oltretutto si sta negando la libertà di un individuo di fare ciò che vuole del proprio corpo. Lo Stato proibisce l’utilizzo delle droghe “per il nostro bene” e per il bene degli altri; ma, se il ragionamento è questo, allora dovremmo poter ammettere anche l’incarceramento preventivo di tutte le persone potenzialmente aggressive e violente e dovremmo altresì proibire tutte le sostanze e i comportamenti rischiosi (ad esempio sostanze come il burro e il gelato) poiché potrebbero far male. La costatazione finale di Rothbard è che alla fin fine, se il ragionamento è questo, sarebbe meglio «mettere la gente in gabbie, in modo che possa ricevere la giusta quantità di luce solare, una dieta corretta, scarpe comode, e così via».

Infine, il classico argomento libertario è quello sulle armi e Rothbard non si esime dal dire la sua. Innanzitutto, poiché ogni persona possiede il suo corpo e le sue proprietà allora ha anche il diritto di difenderla come meglio crede. Però, lo Stato ha eroso continuamente questa prerogativa, non solo negando l’utilizzo di armi da fuoco come armi da difesa, ma anche impedendo di avere con sé coltelli o altri oggetti da difesa. Secondo il pensatore newyorkese, ciò impedisce alle potenziali vittime di disporre di un loro diritto e di essere alla mercé dei potenziali aggressori. Inoltre, poiché nessun oggetto fisico è di per sé aggressivo e qualsiasi oggetto può essere usato per aggredire qualcuno «non è più logico proibire l’acquisto di pistole di quanto lo è proibire il possesso di coltelli, mazze, spilloni e pietre».

(continua nella parte 3 che uscirà nei prossimi giorni)

Conoscere Adam Smith: La Ricchezza delle Nazioni (Libro Primo-1^ parte)

In questo articolo parleremo della prima parte del Libro Primo dell’Opera La Ricchezza delle Nazioni (1776) scritto da Adam Smith (1723-1790), filosofo ed economista scozzese, padre dell’economia politica ed il fondatore della prima vera “scuola economica”, quella classica.

Il titolo è “Cause che migliorano la capacità produttiva del lavoro e ordine secondo il quale il suo prodotto si distribuisce naturalmente tra le diverse classi sociali“.

Capitolo I – La Divisione del Lavoro

La divisione del lavoro è la grande causa della sua maggiore produttività. Essi è facilmente comprensibile se consideriamo un esempio particolare, come quello della fabbricazione degli spilli.
Come stesso racconta Adam Smith:

“Un operaio non addestrato in questa attività, né abituato all’uso delle sue macchine, potrebbe forse a malapena, impegnandosi al massimo, fare uno spillo al giorno, e certamente non potrebbe farne venti. Ma nel modo in cui ora viene svolta, non soltanto questa attività è un lavoro specializzato, ma è divisa in molti rami, la maggior parte dei quali parimenti specializzati. Un uomo svolge il filo metallico, un altro lo drizza, un terzo lo taglia, un quarto lo appuntisce, un quinto lo arrota nella parte destinata alla capocchia; […] La fabbricazione di uno spillo è così divisa in circa diciotto distinte operazioni, che in talune fabbriche sono eseguite da mani distinte, sebbene in altre lo stesso uomo ne esegua talvolta due o tre.”

L’effetto è analogo in tutte le attività anche nelle divisione delle occupazioni. La divisione del lavoro provoca un grande incremento della quantità. Perché? Per tre circostanze: la maggior destrezza dell’operaio che incrementa necessariamente la quantità di lavoro che esso può eseguire;  il risparmio del tempo che comunemente viene perso nel passare da una specie di lavoro all’altra; l’impiego di macchine inventate da operai, da costruttori di macchine e filosofi.
Da qui deriva l’opulenza generale di una società ben governata, presso la quale anche l’abito del lavorante a giornata è il prodotto di un gran numero di operai.

Capitolo II – Il principio che determina la divisione del lavoro

La divisione del lavoro deriva dalla propensione della natura umana a scambiare. Solo nell’uomo esiste questa propensione, poi ché è incoraggiata dall’egoismo, come testimonia la celebre frase:

“Non è dalla benevolenza del macellaio, del birraio o del fornaio che ci aspettiamo il nostro desinare, ma dalla considerazione del loro interesse personale”

Tutto ciò porta alla divisione del lavoro, determinando così differenze di talento più rilevanti delle differenze naturali, rendendoli utili.

Capitolo III – La divisione del lavoro è limitata all’estensione del mercato

La divisione del lavoro è limitata dalla capacità di scambio. Alcune attività possono essere svolte soltanto nelle città. Il trasporto per via d’acqua espande il mercato, come testimoniano i primi progressi che si sono verificati sulle coste o lungo i fiumi navigabili, come fra gli antichi popoli sulle coste del Mediterraneo.
I progressi si sono verificati in Egitto, Bengala (tra il Bangladesh e India) e Cina; mentre l’Africa, la Tartaria (Russia) e la Siberia come pure la Baviera, l’Austria e l’Ungheria sono arretrate.

Capitolo IV – Origine e uso della moneta

Una volta affermata la divisione del lavoro, ognuno vive di scambio. Le difficoltà del baratto hanno portato alla scelta di una merce come moneta, rispetto al passato in cui venivano adottate come strumento di commercio merci come il bestiame, sale, conchiglie, merluzzo, tabacco, zucchero, cuoio e chiodi. Infine furono preferiti i metalli perché durevoli e divisibili. Ferro, rame, oro e argento, furono dapprima usati in barre non impresse e in  seguito marcati perché portassero impressa la quantità e finezza del metallo; prima fu introdotta la marcatura per certificare la finezza, e in seguito la coniazione per certificare il peso. Inizialmente la denominazione delle moneta ne esprimeva il peso.
Adam smith indagò sulle regole che determinano il valore di scambio. Con valore si può intendere sia l’utilità di qualche particolare oggetto, detto valore d’uso e sia il potere di acquistare altri beni che il possesso di questo oggetto conferisce, detto valore di scambio. Il filosofo scozzese si pose tre quesiti.
In che cosa consiste il prezzo reale delle merci?
Quali sono le diverse parti di questo prezzo?
Perché talvolta il prezzo di mercato differisce da questo prezzo?
Le risposte saranno nei prossimi tre capitoli.

Capitolo V – Prezzo reale e nominale delle merci, ossia loro prezzo in termini di lavoro e di moneta

“Ogni uomo è ricco o povero nella misura in cui è in grado di concedersi i mezzi di sussistenza e di comodo e i piaceri della vita. Ma una volta volta affermatasi la divisione del lavoro, con il proprio lavoro si può ottenere soltanto una parte piccolissima di questi. La parte di gran lunga maggiore deve essere tratta dal lavoro degli altri, e quindi uno è ricco o povero secondo la quantità di lavoro di cui può disporre o che è in grado di acquistare”

Il lavoro è da considerare la misura reale del valore di scambio, in quanto è il primo prezzo pagato per ogni cosa. La ricchezza  è il potere di acquistare lavoro. Ma il valore non è generalmente stimato in base al lavoro in se perché il lavoro è difficile da misurare; le merci sono più frequentemente scambiate con altre merci, specialmente con moneta, che è perciò più frequentemente usata nella stima del valore. Ma il valore dell’oro e dell’argento varia; talvolta costano più e talaltra meno lavoro, nonostante il lavoratori lavori ugualmente e si sacrifica ugualmente.
Ma sebbene uguali quantità di lavoro siano sempre uguali per il lavoratore, il datore di lavoro considera il lavoro di valore variabile. Quindi possiamo dire che il lavoro, come le merci, ha un prezzo reale e un prezzo nominale.

“Il suo prezzo reale si riferisce alla quantità di mezzi di sussistenza e di comodo che vengono cedute per esso; il prezzo nominale si riferisce alla quantità di moneta. Il lavoratore è ricco o povero, bene o mal remunerato, in proporzione al prezzo reale non al prezzo nominale del suo lavoro”

La distinzione fra reale e nominale è talvolta utile nella pratica, poiché la quantità di metallo nei conii tende a diminuire, e lo stesso discorso vale per il valore dell’oro e dell’argento.
Dal 1586 le rendite inglesi stipulate in moneta si sono ridotte a un quarto, le rendite in Scozia e in Francia la perdita è spesso maggiore. Le rendite in grano sono più stabili di quelle in moneta, ma sono soggette a variazioni annuali molto maggiori. Per cui il lavoro è l’unica misura universale.
Ma nelle situazioni o transazioni ordinarie la moneta è sufficiente, essendo una misura assolutamente esatta nello stesso tempo e luogo, è da considerare la sola cosa nelle transazioni fra luoghi distanti. Non c’è quindi da meravigliarsi se al prezzo nominale è stata data data maggiore attenzione. Sono stati coniati parecchi metalli, ma solo uno viene usato come base e questo è generalmente quello usato per primo in commercio, come i romani usarono il rame, e le nazioni europee moderne l’argento. Originariamente il metallo base era l’unica moneta legale, più tardi il rapporto fra il valore dei due metalli viene dichiarato per legge ed entrambi sono moneta legale e la distinzione fra di essi diventa irrilevante, tranne quando il rapporto stabilito viene cambiato.
Rimanendo un rapporto fisso, il valore del metallo più prezioso regola il valore di tutto il sistema monetario, come in Gran Bretagna, dove la riforma della moneta di oro ha aumentato il valore della moneta di argento. In Inghilterra l’argento è valutato al di sotto del suo valore. L’argento dovrebbe essere valutato di più e non dovrebbe essere moneta legale per più di una ghinea. Se fosse valutato adeguatamente, il prezzo dell’argento in lingotti si ridurrebbe al di sotto di quello di zecca senza bisogno di una riforma monetaria. Un diritto di coniazione impedirebbe la fusione e scoraggerebbe la esportazione.  Le fluttuazioni del prezzo di mercato dell’oro e dell’argento sono dovute a normali cause commerciali, ma una costante differenza dal prezzo di zecca è dovuta allo stato della moneta. Il prezzo delle merci si adegua al contenuto effettivo della moneta.

Capitolo VI – Le parti componenti del prezzo delle merci

La quantità di lavoro è originariamente l’unica norma del valore. Tenendo conto di fatiche particolari, se un tipo di lavoro è più pesante di un altro, si tiene naturalmente conto di questa superiore fatica; e il prodotto di un’ora di lavoro dell’uno può frequentemente scambiarsi per quello di due ore di lavoro dell’altro. O se un tipo di lavoro richiede un grado non comune di destrezza e ingegno, la considerazione che gli uomini hanno di queste capacità darà naturalmente al loro prodotto un valore superiore a quello che sarebbe dovuto al tempo impiegato in esso.
L’intero prodotto del lavoro appartiene al lavoratore, ma quando si parla di capitale, si deve dare qualcosa per i profitti dell’imprenditore e il valore del prodotto si compone di salari e profitti. Quindi, i profitti non sono soltanto salari per il lavoro di ispezione e direzione, poiché il lavoratore divide il prodotto col suo datore e il lavoro non basta più a determinare il valore.
Nel caso in cui la terra diventa completamente proprietà privata, la rendita costituisce una terza componente del prezzo della maggior parte delle merci. Il valore di tutte e tre le parti è misurata dalla quantità di lavoro.
In una società progredita tutte queste tre parti sono generalmente presenti, per esempio nel prezzo del grano, della farina di frumento o di altri cereali. Nelle merci che richiedono molta lavorazione, la rendita è in minor proporzione e il prezzo di alcune merci è costituito soltanto da due una delle tre parti componenti.
Ma il prezzo di tutte le merci è costituito per lo meno da una componente e il prezzo di tutto il prodotto annuale si risolve in salari, profitti e rendita, che sono le sole specie originarie di reddito. Quando queste tre differenti specie di reddito appartengono a persone differenti, è facile distinguerle; ma quando esse appartengono alla stessa persona sono talvolta confuse l’una con l’altra, almeno nel linguaggio corrente. Per esempio, la rendita di un coltivatore diretto viene chiamato “profitto”, il salario di un comune agricoltore viene chiamato “profitto” , il salario di un manifatturiere indipendente viene chiamato “profitto”, mentre la rendita e il profitto di un orticoltore che coltiva la sua terra sono considerati guadagni del lavoro.
Una gran parte del prodotto annuale va agli inattivi e la proporzione fra questa parte e il totale regola l’aumento o la diminuzione del prodotto.

Capitolo VII – Prezzo naturale e prezzo di mercato delle merci

In ogni società o luogo vi è un saggio ordinario dei salari, del profitto e della rendita. Questi saggi ordinari possono essere chiamati Saggi Naturali dei salari, del profitto e della rendita nel tempo e luogo. Quando il prezzo di una merce è sufficiente a pagare la rendita della terra, i salari del lavoro e i profitti del capitale, la merce viene venduta al suo prezzo naturale, ossia per ciò che costa realmente. Ma poiché nessuno continuerà a vendere senza profitto, il prezzo effettivo al quale comunemente si vende una merce è detto prezzo di mercato che è regolato dalla quantità portata al mercato e dalla domanda effettiva.
Quando la quantità portata sul mercato è inferiore alla domanda effettiva, il prezzo di mercato supera il prezzo naturale; quando supera la domanda effettiva il prezzo di mercato scende al di sotto del prezzo naturale. La quantità di ogni merce immessa nel mercato si adegua naturalmente alla domanda effettiva; quando essa supera questa domanda, alcune delle parti che compongono il prezzo sono inferiori al loro saggio naturale, quando è inferiore, alcune parti che compongono il prezzo superano il loro saggio naturale.

Il prezzo naturale è il prezzo medio intorno al quale gravitano i prezzi di tutte le merci. Il prezzo naturale è il prezzo medio intorno al quale gravitano i prezzi correnti. In questo modo tutta l’attività annualmente svolta per portare una merce sul mercato si adegua naturalmente alla domanda effettiva. Essa tende naturalmente sempre a portarvi quella esatta quantità che può essere sufficiente a soddisfare, e non più che a soddisfare quella domanda, ma la quantità prodotta da un dato ammontare talvolta fluttua.
Le fluttuazioni incidono più sui salari e sul profitto che sulla rendita, influenzandoli in proporzioni diverse secondo l’offerta di merci e di lavoro. Ma il prezzo di mercato può mantenersi per lungo tempo al di sopra del prezzo naturale perché non sono sufficientemente noti gli elevati profitti, o in conseguenza di servizi di fabbricazione, o in conseguenza della scarsità di particolari tipi di suolo.
Un monopolio ha lo stesso effetto di un segreto commerciale. Infatti il prezzo di monopolio è il massimo che si possa ottenere. Il prezzo naturale, o prezzo di libera concorrenza, è invece il più basso che possa darsi per un certo tempo. I privilegi delle corporazioni, fra i tanti, rientra anche il fatto che sia una sorta di monopolio allargato. Invece, raramente il prezzo di mercato si mantiene a lungo al di sotto del prezzo naturale. Questo almeno in situazione di perfetta libertà, poiché le corporazioni tendono a ridurre per un certo tempo i salari di molto al di sotto del saggio naturale. Il prezzo naturale varia al variare del saggio naturale dei salari, dei profitti e della rendita.

La Cina è ancora comunista?

La Cina è ancora comunista? La risposta a questa domanda è complessa ed è possibile scinderla in due parti distinte, che rispondono alla dimensione sociale e alla dimensione economica. La “Repubblica” Popolare Cinese è tutt’ora guidata da una dittatura comunista a partito unico, nella quale il dissenso viene represso anche violentemente.

Società

La situazione dei diritti umani in Cina continua a subire numerose critiche da parte della maggior parte delle associazioni internazionali che si occupano di diritti umani, le quali riportano numerose testimonianze di abusi ben documentati in violazione delle norme internazionali. Il sistema legale è stato spesso criticato come arbitrario, corrotto e incapace di fornire la salvaguardia delle libertà e dei diritti fondamentali.

La Cina è il Paese al mondo in cui si eseguono più condanne a morte, sebbene le autorità si rifiutino di rendere pubblica alcuna statistica ufficiale. Riguardo le condanne eseguite nel 2007, Amnesty International  ha raccolto notizie su 470 esecuzioni, ma ne stima un totale di almeno 6000 nell’arco dell’anno. Nessuno tocchi Caino stima una cifra simile di almeno 5000 esecuzioni nello stesso periodo, con un’incidenza dell’85,4% sul totale mondiale. Entrambe le associazioni riconoscono però che c’è stata una diminuzione nel numero delle esecuzioni, dopo che è stata reintrodotta la norma per cui tutte le condanne a morte devono essere confermate dalla Corte suprema del popolo: ciò consente di attutire la piaga delle condanne a morte comminate dopo processi sommari e iniqui. Alcune stime, tuttavia, sono ben più pessimistiche: un esponente politico cinese, Chen Zhonglin, delegato della municipalità di Chongqing, giurista e preside della facoltà di legge dell’Università Sudorientale Cinese, in un’intervista al China Youth Daily ha parlato di 10.000 esecuzioni l’anno. In quell’occasione Chen dichiarava la sua intenzione di lavorare per migliorare la situazione dei diritti umani in Cina.

Secondo quanto rivelato dal viceministro della salute Huang Jiefu nel corso del 2005, è dai condannati a morte che proviene la maggioranza degli organi espiantati in Cina, spesso senza che il donatore abbia dato il suo consenso, sebbene la legge lo esiga. L’espianto non consensuale pare che venga praticato sistematicamente ai condannati appartenenti al movimento spirituale del Falun Gong, perseguitato dal regime di Pechino ufficialmente dal 20 Luglio 1999, quando l’allora leader del PCC mobilitò le forze di Stato per sradicare il Falun Gong e i suoi praticanti. Questo fenomeno, che ha determinato di fatto un traffico illegale di organi umani, ha generato il sospetto che le condanne vengano eseguite quando c’è richiesta di organi compatibili con il condannato.

Nel 2006 l’avvocato per i diritti umani David Matas e l’ex segretario di Stato canadese David Kilgour, hanno condotto in un’indagine indipendente dimostrando che il personale militare e sanitario nelle carceri e negli ospedali cinesi rimuove forzatamente gli organi dei praticanti del Falun Gong ancora in vita per scopo di lucro. Secondo il loro rapporto, denominato “Bloody Harvest”, tra il 2000 e il 2005 quasi 41.500 praticanti sono morti per questo motivo, ma il numero reale potrebbe essere molto più alto. Il governo cinese si è frequentemente macchiato di violazioni dei diritti umani nei confronti di minoranze etniche e religiose e dissidenti politici: l’esempio più celebre, per l’opera di sensibilizzazione mondiale in cui si è prodigato il Dalai Lama, è l’occupazione armata del suolo tibetano, oltre che il sopracitato esempio della pratica di qigong del Falun Gong.

Il governo cinese assicura di dispensare la pena capitale solo in caso di gravi reati (omicidio, strage, terrorismo…), escludendo reati politici o di qualsiasi altro genere, e ha pubblicato sul web una copia del proprio codice penale che conferma questa versione. Tuttavia Amnesty International afferma che in Cina sono 68 i crimini punibili con la pena di morte, inclusi reati non violenti come l’evasione fiscale, l’appropriazione indebita, l’incasso di tangenti e alcuni reati connessi al traffico di droga.

In Cina vengono applicate gravi limitazioni alla libertà di informazione, alla libertà religiosa, quella di parola e persino alla libertà di movimento dei cittadini. L’evento più conosciuto in occidente delle azioni di forza perpetrate dalla Cina nei confronti dei dissidenti politici è rappresentato dalla repressione della Protesta di piazza Tiananmen il 4 giugno 1989, in cui perse la vita un numero imprecisato di manifestanti e soldati (200 secondo il governo cinese, tra 2 e 7 mila secondo alcuni dissidenti).

In Cina non esistono sindacati indipendenti, ma solo quello governativo ed è severamente vietato lo sciopero. Lo stato, almeno sulla carta, assicura i diritti dei lavoratori, ma la quantità annua di morti sul lavoro ha destato molte preoccupazioni e parecchie critiche e denunce non solo da organizzazioni umanitarie, ma anche dall’interno degli stessi organi di governo cinesi.

Un’altra accusa di lesione dei diritti umani rivolta al governo cinese è la pianificazione familiare obbligatoria, voluta dallo stesso Mao Zedong e tutt’ora impiegata. La legge che la regola, in vigore dal 1979, è la “Legge eugenetica e protezione della salute”, altrimenti detta ‘’Legge del figlio minore” che si è successivamente evoluta nella cosiddetta “Legge del Figlio Unico“, introdotta nel 2002 e abrogata dalla Corte Suprema cinese nel 2013. Secondo le fonti governative, grazie all’introduzione di questa pratica le nascite evitate nella Repubblica Popolare Cinese sono state 300 milioni. La legge prevedeva che una coppia potesse avere un figlio nelle zone urbane, e due in quelle rurali. I trasgressori potevano portare a termine un’eventuale gravidanza dietro pagamento di un’ingente multa, oppure erano obbligati a rinunciare al figlio.

Le accuse verso questo progetto sono molto pesanti: la lesione della libertà dei genitori; l’uso massiccio e obbligatorio dell’aborto, per di più in modi particolarmente dolorosi; le dure repressioni contro i cittadini che, specialmente in zone rurali o povere, opponevano resistenza al progetto; la violenza verso le donne, visti i casi certificati di sterilizzazioni forzate, operate in molti casi ai danni delle colpevoli; discriminazione verso le donne; in moltissime famiglie (dato anche il divieto di diagnosticare il sesso del nascituro), specialmente nelle zone rurali, le neonate sarebbero uccise, oppure non registrate all’anagrafe (costringendole alla totale assenza di diritti politici e alla rinuncia di istruzione e di qualunque assistenza sanitaria); discriminazioni sociali, perché il sistema fa in modo che i più facoltosi possano “pagarsi” il diritto al secondo (o al terzo) figlio pagando la sanzione corrispondente (in genere di 50.000 yuan, circa 7.700 dollari, 6.400 euro).

Da questi semplici esempi è possibile vedere che il tanto osannato paradiso socialista Cinese esiste solo nella mente dei suoi ignoranti sostenitori.

Economia

Dal punto di vista economico, invece, la situazione è ben diversa. Da circa 40 anni, il PCC ha progressivamente abbandonato il Comunismo Maoista, il quale si rivelò fallimentare e lesivo della società (gli storici stimano che “il Grande Balzo in Avanti”, cioè le riforme economiche volute da Mao per un’industrializzazione forzata della Cina fra il 1958 e il 1961, abbia causato una gravissima carestia nel 1960 che provocò fra i 14 e i 43 milioni di morti, a seconda delle fonti).

Nel 1976, a seguito della morte di Mao Zedong, Deng Xiaoping assurse a leader de facto del PCC. Deng era consapevole che la politica economica attuata dal suo predecessore non avrebbe portato alla crescita, e perciò una volta ottenuto il potere si prodigò per riformare l’economia cinese. Archiviata definitivamente la lotta di classe come elemento fondamentale della società, insieme alla Rivoluzione Culturale voluta da Mao, Deng pose, come obiettivo del governo cinese, lo sviluppo economico del paese.

Nel 1978 Deng presentò al congresso del PCC la riforma delle “Quattro Modernizzazioni”, una riforma destinata cioè a modernizzare quattro settori: agricoltura, scienza e tecnologia, industria e difesa nazionale. Alla base della riforma c’era il cambiamento degli obiettivi strategici dei piani di sviluppo: l’industria pesante, che fino ad allora era stato il settore trainante dell’economia, cedette il posto ad agricoltura ed industria leggera. In particolare il settore agricolo fu profondamente riformato in quanto non più in grado di soddisfare le necessità della popolazione: il problema principale stava nelle tecniche agricole arcaiche utilizzate, rimase immutate per secoli, che il piano economico di Mao non aveva neanche lontanamente pensato di modernizzare.

Ma il vero fulcro della riforma che consentì il boom economico negli anni ’80 e ’90, fu la ristrutturazione dell’apparato statale. In particolare, Deng capì l’importanza di creare un sistema economico nel quale l’industria fosse libera dall’ingerenza dell’amministrazione statale. Per consentire un più stabile collegamento tra imprese locali, statali e collettive e per abbattere le barriere amministrative che ostacolavano la fluidità del processo produttivo, si ricorse alla suddivisione e specializzazione del lavoro. Particolare attenzione fu posta nella preparazione del personale tecnico specializzato e molti studenti cinesi furono mandati all’estero per apprendere le più moderne tecniche produttive. L’attenzione fu focalizzata sulle richieste del mercato, che avrebbe guidato le scelte produttive ed impegnato gli imprenditori a incrementare la competitività e la produzione.

Importanti e decisive furono le iniziative intese a incoraggiare gli investimenti esteri. A questo fine furono istituite le “Zone ad economia speciale“, nel sud-est del Paese, nelle province del Guangdong e del Fujian, Zhuhai, Shenzhen, Shantou e Xiamen, seguite poi, nel 1988, dall’intera isola di Hainan elevata a provincia. In queste zone vennero previsti dei trattamenti preferenziali riservati agli stranieri che avevano intenzione di investire in Cina.

L’apertura verso l’estero e l’introduzione del libero mercato rappresentarono così il cardine del disegno politico voluto da Deng Xiaoping. La dottrina “un Paese, due sistemi”, consentì di giungere tra il 1984 e il 1987 agli accordi fra Pechino e Londra e fra Pechino e Lisbona per il ritorno di Hong Kong e Macao alla madrepatria rispettivamente nel 1997 e nel 1999.I due territori avrebbero avuto lo status di “zone economiche speciali” e un alto grado di autonomia e poteri legislativi e giudiziari indipendenti.

Le riforme messe in atto hanno portato a quella che lo stesso Deng Xiaoping definì “economia socialista di mercato” o “socialismo con caratteristiche cinesi”, una nuova struttura economica che combinava il socialismo, che reggeva la struttura amministrativa ed istituzionale, ad un sistema economico che prevedeva il libero mercato e il libero scambio.

Il concetto di Economia Socialista di Mercato fu portata avanti dai successori di Deng, e la Cina è entrata nel nuovo millennio come attore di primo piano nella politica internazionale. Addirittura nel 1997, il quindicesimo congresso del partito riconobbe l’importanza per l’economia cinese dell’impresa privata, fino ad allora considerata una forza secondaria rispetto alle aziende di stato. Infatti, sebbene le più grandi aziende cinesi siano ancora quelle controllate dallo stato, l’economia è stata trainata dalla crescita del settore privato. Per fare un esempio tra i tanti, secondo un recente rapporto di McKinsey la Cina ha dato vita a un terzo del numero globale di start up tecnologiche “unicorno” (aziende private valutate più di un miliardo di dollari).

Lo stesso Xi Jinping, attuale presidente della Repubblica Popolare Cinese, nel suo discorso in occasione del XIX Congresso del Partito Comunista Cinese, ha parlato esplicitamente di continuazione del processo di liberalizzazione dei cambi e dei tassi d’interesse, assicurando che “la porta della Cina è stata aperta e non sarà chiusa, ma si aprirà di più”.

Tuttavia, ombre si allungano sulla Cina: come in qualsiasi altro Paese caratterizzato da un potere centrale dittatoriale, anche lì è possibile vedere la mano dello Stato smorzare e reprimere le libertà dei cittadini, sia in ambito sociale che in ambito economico:

  • l’indipendenza futura del settore privato è fragile. Negli ultimi mesi il governo cinese ha effettuato un giro di vite su quegli imprenditori che sembrerebbero avviati a diventare degli oligarchi in stile russo. Ha inoltre cercato di frenare le acquisizioni all’estero, oltre che le attività delle principali aziende tecnologiche cinesi, come Alibaba e Tencent;
  • nel 1987, il tredicesimo congresso di partito aveva presentato un ambizioso programma di riforme politiche che secondo Zhao Ziyang, all’epoca Segretario Generale, erano finalizzate a rendere la dirigenza cinese più pluralistica, trasparente e responsabile (pur evitando la democrazia multipartitica, come imposto da Deng Xiaoping). Oggi assistiamo a un indebolimento della società civile dopo anni di repressione politica e ad un rafforzamento dell’autoritarismo. L’obiettivo delle riforme politiche all’interno del partito sembra esser stato soffocato dalla campagna anticorruzione di Xi, che ha effettuato purghe contro funzionari corrotti ma anche contro i suoi avversari politici;
  • nel 1997, il quindicesimo Congresso del Partito ha celebrato il passaggio della sovranità su Hong Kong dal Regno Unito alla Cina: il territorio sarebbe stato amministrato secondo la politica di “un Paese, due sistemi”. Nel 2012 e 2014 sono esplose delle proteste, confluite poi nel “movimento degli ombrelli” del 2014, che ha portato le lotte di Hong Kong all’attenzione del mondo. Eppure, in quegli anni il modello dei “due sistemi” sembrava solido. Oggi, invece, l’elemento più preoccupante della questione di Hong Kong è quanto sia diventato fragile questo stesso modello. Joshua Wong, giovane leader degli attivisti di Hong Kong nel periodo precedente al diciottesimo Congresso del Partito del 2012, oggi è un prigioniero politico. Carrie Lam, succeduta a C.Y. Leung nel ruolo di chief executive di Hong Kong dal luglio di quest’anno (scelta tramite una procedura pilotata in modo da fare emergere una figura gradita a Pechino) ha invitato a enfatizzare i temi patriottici nelle scuole locali. Xi ha chiarito che è determinato a fare tutto quel che potrà per minimizzare le differenze tra le modalità di governo di Hong Kong e quelle delle altre città.

In conclusione, è possibile affermare che l’attuazione di politiche liberiste, seppur molto annacquate dalla pervasiva presenza dello Stato nella vita pubblica, sia stata la principale causa del successo e della prosperità economica cinese. Consapevole che solo un’economia di mercato avrebbe portato allo sviluppo economico, Deng Xiaoping e i suoi successori hanno tacitamente sacrificato l’ideologia all’economia, mantenendo inalterati solo i meccanismi tipici dei regimi totalitari che consentirono a pochi uomini il controllo assoluto della Cina. Ma la prosperità economica non basta, e la Cina potrà definirsi veramente grande solo quando affronterà la “Quinta Modernizzazione”, tanto voluta da Wei Jingsheng e altri riformisti, e cioè la transizione del sistema politico cinese da un regime dittatoriale a una democrazia multi-partitica, nella quale i cittadini cinesi non siano semplici numeri asserviti alla macchina statale, ma uomini con diritti e libertà inalienabili.

A dispetto di quanto dicano molti nostalgici maoisti, la Cina non ha bisogno di una nuova Rivoluzione Culturale, volta alla dittatura del proletariato, ma piuttosto di una vera Rivoluzione Liberale.

La concorrenza è sleale o più efficiente? È questione di distruzione creativa

James Taggart, Il presidente di una compagnia ferroviaria discute con uno dei suoi dipendenti, Eddie Wilers, il quale gli fa notare che il loro servizio è pessimo da mesi e che stanno perdendo tutti i loro clienti:

«Jim! Non capisci che la nostra linea, la Rio Norte Line, sta andando in rovina, che qualcuno ci biasimi o no?»

«La gente la userebbe, sarebbe costretta a usarla… se non fosse per la Phoenix–Durango.»

Vide il viso di Eddie irrigidirsi. Continuò: «Nessuno si è mai lamentato della Rio Norte Line, finché non è venuta in campo la Phoenix–Durango!»

«La Phoenix–Durango sta facendo un magnifico lavoro.»

«Immagina, una cosa che si chiama Phoenix–Durango che fa concorrenza alla Taggart Transcontinental! Non era che una linea locale adibita al trasporto del latte, dieci anni fa.»

«Ora, però, ha ottenuto la maggior parte dei trasporti dell’Arizona, del Nuovo Messico e del Colorado.»

Dopo questo breve estratto del discorso fra Eddie e James dal romanzo La Rivolta di Atlante di Ayn Rand, mi viene in mente un solo concetto: la Distruzione Creativa di Schumpeter, ovvero l’innovazione che permette di produrre nuovi beni, offrire migliori servizi, aprire nuovi mercati, il tutto magari a costi ancora più convenienti.

Sì, le aziende che non si innovano vengono “distrutte”. E cosa c’è di male? Abbiamo visto tutti la fine della grandiosa Olivetti, l’impero industriale che ha influito sul mercato mondiale con i suoi prodotti, la stessa Olivetti che è passata da 26’000 dipendenti alla fine degli anni ’90 ad oggi con poco più di 500. La domanda e l’offerta si evolvono nel tempo, non è possibile rimanere ancorati al passato se si vuole guardare al futuro, anche con la propria azienda.

Ma allora perché questa distruzione è creativa? Perché la società si sviluppa, avanza tecnologicamente e nuove aziende con prodotti e servizi più adatti o migliori sostituiscono le aziende precedenti.

La situazione che permette tutto ciò è la concorrenza. Perché?
Un albero che è da solo nel campo cresce storto e spande lontano i suoi rami, mentre un albero che è in mezzo al bosco, con l’opposizione degli alberi vicini cresce dritto e cerca l’aria e il sole sopra di sé” (Immanuel Kant, Lezione sulla Pedagogia)

La concorrenza è il fulcro della sopravvivenza e dell’autodeterminazione, è la capacità di migliorare e migliorarsi per non rimanere indietro; è anche possibile fare una’analogia con l’eros platonico, la forza che permette al mondo di andare avanti e di evolversi. Si potrebbe anche dire che l’Individuo ha la tendenza a competere con la propria persona, per superarsi e migliorarsi, ma andrei in un altro, bellissimo ambito.

In sostanza, è sleale che qualcuno dia il meglio di sé, quando le regole sono le stesse per tutti? No, tutt’altro: è sbagliato fermarsi ed aspettarsi che la situazione diventi statica una volta arrivati al vertice. Bill Gates non sarebbe il primo nella lista di Forbes da lustri se non avesse saputo innovarsi, ma James Taggart -come milioni di persone nel nostro paese- era obnubilato da quella mentalità che non consente di vedere oltre il proprio naso, quella mentalità che preferisce preservare l’ordine anziché sovvertirlo per esaudire i propri sogni e al contempo migliorare la società.

5 motivi per cui dovresti supportare il Libero Mercato

Prima di dire “il neoliberismo dei poteri forti ci renderà tutti schiavi”, è il caso di leggere attentamente i motivi per cui bisogna essere favorevoli al libero mercato.

  1. Il commercio stimola la crescita economica e riduce la povertà

    A partire dalla seconda guerra mondiale, si è assistito all’espansione del commercio internazionale, rafforzatasi quasi trent’anni fa con il crollo del comunismo sovietico. Forse saranno di parte, ma gli economisti ritengono che sia i mercati sia il commercio contribuiscano considerevolmente alla crescita economica e, dunque, alla riduzione della povertà. Gli studi a riguardo sono innumerevoli, basta una veloce ricerca su google per vedere come la povertà sia diminuita negli ultimi decenni grazie al mercato internazionale.

    Oltre ad un’enorme quantità di prove empiriche che supportano queste presunzioni teoriche,  vi sono forti prove che l’economia di libero mercato è economicamente superiore alla pianificazione centrale socialista e che il commercio è importante per la crescita.

    Una meta-analisi del 2013, di 60 studi (Link al pdf con la relazione riguardante gli studi) che hanno esaminato la performance economica delle economie socialiste pianificate  dopo aver subito la liberalizzazione economica (riforme pro-mercato), ha rilevato che la letteratura empirica indica che la liberalizzazione ha ridotto la crescita economica nel breve periodo, ma ha avuto forti effetti positivi sulla crescita economica nel lungo periodo. In particolare, “gli effetti positivi delle riforme superano i costi dopo circa un anno e quindi continuano a contribuire alla crescita economica“.

    La liberalizzazione del commercio, ovvero un processo che comporta la riduzione o la rimozione delle barriere erette dallo Stato di fronte al commercio internazionale, si è rivelato particolarmente vantaggioso. Secondo la suddetta meta-analisi, i costi a breve termine della liberalizzazione degli scambi sono inferiori del 20% rispetto ad una media riforma economica  e i benefici a lungo termine sono circa il 40% maggiori.

  2.   Il commercio riduce la disoccupazione

    Uno degli argomenti più comuni contro il libero mercato è che se i consumatori acquistano merci straniere al posto di beni nazionali, la disoccupazione del proprio paese aumenterà.
    C’è da aspettarsi che la concorrenza delle importazioni in un dato settore porti a perdite interne di occupazione, tuttavia, i soldi risparmiati dai consumatori acquistando beni stranieri possono essere spesi o investiti altrove, creando occupazione in altri settori. Non bisogna dimenticare, cosa ancora più importante, che la concorrenza favorisce il progresso, per poter rimanere sul mercato è necessario essere sempre innovativi, puntando su ricerca e sviluppo. Allora il guadagno è duplice: le aziende saranno stimolate a migliorare per non chiudere e al contempo si abbasseranno i costi, verrà migliorata la qualità e si apriranno nuovi ambiti lavorativi.

    Il pre-requisito fondamentale è la concorrenza leale, ovvero il rispetto di alcuni standard sulla tutela dell’ambiente e dei lavoratori. Qualcosa che nei paesi in via di sviluppo, ancora nessuno ha messo in discussione.

  3. Il commercio migliora gli standard lavorativi

    Gli oppositori del libero commercio hanno spesso sostenuto che questi conduca a una “caduta libera” degli  standard lavorativi. Sostengono che le pressioni concorrenziali indotte dal commercio potrebbero incoraggiare i paesi a competere gli uni contro gli altri riducendo gli standard lavorativi e le condizioni di lavoro al fine di ridurre i costi.

    Ma un’altra ricerca li smonta del tutto ( link a: National Bureau of Economic Research ), rivelando che:

    Gli studi empirici esistenti trovano scarso supporto per gli argomenti della “caduta libera”. Se non altro, ci sono prove che una maggiore apertura commerciale aumenta il livello e la conformità con i salari minimi e riduce il lavoro minorile. Allo stesso modo, ci sono poche prove che le riforme del commercio siano associate ad un peggioramento delle condizioni di lavoro.

  4. Il commercio riduce la probabilità di un conflitto armato

    I fautori del libero mercato hanno spesso sostenuto che l’interdipendenza economica sotto forma di commercio limita l’incentivo alla belligeranza interstatale sotto forma di conflitto militare. Il celeberrimo Frederic Bastiat ha  affermato che “se i beni non attraversano i confini, saranno i soldati a farlo“. In effetti, questa ipotesi potrebbe effettivamente essere vera e non soltanto un bellissimo aforisma: pare che lo confermino gli studi della Asian Development Bank, disponibili cliccando su questo testo.
    In altre parole, è ragionevole credere che le intuizioni di Bastiat fossero effettivamente vere. Il commercio internazionale si è espanso nel tempo e di conseguenza sembra che il mondo sia diventato molto più pacifico.

  5. Il commercio aumenta la speranza di vita e riduce la mortalità infantile

    Abbiamo precedentemente visto come l’apertura al commercio aumenti la crescita economica e quindi riduca la povertà, non dovrebbe sorprenderci che i paesi più aperti agli scambi generalmente abbiano migliori risultati in termini di salute. In questo caso, siccome l’affermazione è piuttosto forte, citeremo’ più ricerche scientifiche:
    – Dierz Erzer ( link alla ricerca )
    – Owen e Wu ( link alla ricerca )
    – Stevens ( link alla ricerca )
    L’apertura commerciale ha un effetto positivo a lungo termine sulla salute, misurato dall’aspettativa di vita e dalla mortalità infantile;  l’aumento degli scambi è sia una conseguenza che una causa di miglioramento della salute. Mi spiego meglio: è venuto a crearsi un circolo virtuoso per cui una salute migliorata porta a più scambi, e un aumento del commercio favorisce ulteriormente la salute della popolazione.

    Conclusioni:

    Vi sono prove piuttosto convincenti del fatto che politiche commerciali più libere conducano a una crescita economica più rapida e a  minori povertà e disoccupazione, contrariamente alle affermazioni avanzate dai protezionisti. Inoltre, l’adozione di politiche di libero mercato nel periodo successivo alla seconda guerra mondiale ha contribuito a ridurre i conflitti militari. I vantaggi del libero scambio sembrano innegabili, e vale la pena tenerli a mente quando i neo-mercantilisti affermano che il miglior modo con cui un paese può diventare ricco è impegnarsi nel protezionismo e nel nazionalismo economico.

La libertà concessa per legge non è libertà

Una donna cinese disse del blocco del governo su Google:  “Il governo dovrebbe dare alle persone il diritto di vedere ciò che vogliono online“. Un classico esempio di mentalità statalista, sia da una parte sia dall’altra: il governo deve dirti in cosa sei libero, quanto sei libero, in che modo devi esercitare la tua libertà?

La signorina considera i diritti delle gentili concessioni da parte del governo, che possono essere date e tolte e, quindi, controllate e regolate.

Consideriamo la situazione economica in Cina. Gli affari vanno a gonfie vele. La prosperità è alle stelle. Il tenore di vita è al massimo storico. Molte persone stanno arricchendosi esponenzialmente (anche se molti di loro sono funzionari del Partito). Qual è la ragione di tutta questa vivacità economica?

Semplice. Sei in un sito liberale, di cosa starò per parlare? Il governo ha ridotto la quantità di controlli precedentemente esercitati sull’attività economica. Meno regolamenti. Meno tasse. Meno burocrazia. Ridotte le restrizioni all’importazione e all’esportazione. Più proprietà privata. E, pensa un po’, con queste piccole accortezze hanno stravolto il mercato globale.

Stai forse insinuando che i cinesi ora sono liberi, nel senso economico del termine?”  No, no, non esageriamo. Ciò che il governo cinese dà, il governo cinese può togliere. La questione è: il governo cinese sta permettendo alle aziende ed ai privati di avere una maggiore “libertà” economica. La parola chiave in tutto ciò è “permettere”. Quando qualcuno sta permettendo a qualcun altro di avere “libertà”, allora la persona non è libera affatto.

Il concetto che manca alla signorina cinese – anzi, ai socialisti in generale – è che i diritti sono fondamentali e innati. Come tali, vengono prima del governo. Pertanto, l’idea che il governo possa legittimamente dare e togliere e controllare e regolamentare i diritti delle persone è ridicola.

Qui però si parla, ma di quali diritti stiamo parlando? Esiste un unico diritto fondamentale, valido per tutte le persone, indipendentemente dall’etnia, dal colore, dal credo, dalla nazionalità, o qualsiasi altra cosa: è il diritto di vivere la propria vita con qualsiasi scelta si voglia, purché la condotta non infici nella libertà altrui o in quella collettiva.

Ahimè, è qui che casca l’asino. Gli statalisti nostrani considerano la libertà economica come un “diritto” che il governo dà alle persone. Dunque, non vedono nulla di sbagliato se sono i funzionari governativi a decidere chi può accedere a professioni e occupazioni, a controllare e regolare l’attività economica, a decidere in quale misura le persone saranno autorizzate a mantenere il proprio reddito ed a determinare come verranno spesi i soldi dei contribuenti.

A volte ci sono politici più gentili che consentono, una volta giunti al potere, ai privati di impegnarsi in attività economiche con meno controllo e tasse più basse. Ma non chiamiamoli liberali. La vera libertà implica vivere la propria vita come si vuole (purché bla bla bla) mentre il governo esercita il potere di fare nient’altro che proteggere l’esercizio di tale libertà.

Meccanismo di Trasmissione della Politica Monetaria (Prospettive Keynesiane e Monetariste)

Il meccanismo di trasmissione della politica monetaria descrive i cambiamenti indotti da politiche delle banche centrali, in particolare l’impatto dei tassi di interesse nominali a breve termine su variabili reali come l’output aggregato e l’occupazione. Infatti, le banche centrali hanno un potere di cambio solo per i tassi a breve e brevissimo termine.

Con questo strumento dei tassi a breve anche conosciuti “Money Market Interest Rates,” le banche centrali cercano di influenzare le aspettative sui tassi a più lungo termine relativi ai vari punti temporali della curva dei tassi. La curva dei tassi d’interesse rappresenta un indice sulla quale vengono calcolati sia le emissioni obbligazionarie che l’erogazioni di prestiti di un determinato paese, quindi ha un impatto molto immediato sull’economia.

A secondo della efficacia del lavoro di una banca centrale, l’intera curva d’interesse si sposterà il più vicino possibile alle aspettative iniziale della banca centrale stessa. Inoltre, va considerato l’obiettivo primario delle banche centrali. Ci sono banche centrali che hanno come obiettivo primario il controllo su prezzi e inflazione (Price Stability), altre banche centrali hanno come obiettivo primario la massimizzazione dell’occupazione e del PIL (Output).  

I canali del meccanismo di trasmissione monetaria influenzano l’economia reale, in linea generale, attraverso i tassi di interesse, i tassi di cambio, i titoli azionari e dei prezzi immobiliari e i prestiti bancari.

Linee di Pensiero sulla politica monetaria 

Keynesiani

L’economia keynesiana si basa su due idee principali: (1) la domanda aggregata è più soggetta che l’offerta aggregata a possibili shock, e di conseguenza la domanda aggregata e’ la causa principale di una recessione; (2) salari e prezzi possono essere rigidi, quindi in una recessione economica, può portare ad effetti come la disoccupazione e in casi peggiori di stagnazione. I Keynesiani ritengono che i prezzi, e in particolare i salari, rispondano lentamente ai cambiamenti nella domanda e nell’offerta.

I Keynesiani non credono nel legame diretto tra l’offerta di moneta e il livello dei prezzi che emerge dalla classica teoria della quantità di moneta. Rifiutano la nozione che l’economia sia sempre vicina al livello naturale di disoccupazione.

Inoltre, i Keynesiani ritengono che la domanda di investimenti sia inelastica, soprattutto quando c’è una recessione. Quindi politiche espansionistiche monetarie potrebbero essere inefficienti. Anche i cambiamenti significativi nei tassi di interesse non modificano molto l’investimento. Ad esempio, gli investimenti fissi in impianti e macchinari non sono molto sensibili agli interessi.

Secondo i Keynesiani la politica monetaria è probabile che sia efficace solo se le persone/mercato hanno fiducia in queste politiche. L’effetto psicologico può essere molto potente. Richiede tuttavia una grande capacità nel manovrarla, e quindi da parte delle banche centrali nel creare aspettative dal mercato per far si che le politiche monetarie creano effetti positivi.

Monetaristi

I monetaristi sostengono che la domanda di denaro è stabile e non è molto sensibile ai cambiamenti del tasso d’interesse. Di conseguenza, le politiche monetarie espansive servono solo a creare un surplus di denaro che le famiglie potranno spendere rapidamente, aumentando così la domanda aggregata. Ma queste politiche monetarie hanno un effetto limitato nel breve periodo ed invece non hanno effetti di crescita di reddito nel lungo.

I monetaristi sono particolarmente contrari all’abuso di tali politiche monetarie, e le vedono come un fattore di destabilizzazione del livello dei prezzi. I monetaristi credono che persistenti inflazioni (o deflazioni) siano solo fenomeni monetari provocati da persistenti politiche monetarie espansionistiche (o restrittive).

Come mezzo per combattere periodi di inflazione o deflazione persistenti, i monetaristi sostengono a favore di una regola fissa dell’offerta di moneta. Credono che la Banche Centrali dovrebbero condurre una politica monetaria tale da mantenere il tasso di crescita dell’offerta di moneta fissa, con un aumento di offerta monetaria che è pari al tasso di crescita reale dell’economia nel tempo. Pertanto, i monetaristi ritengono che la politica monetaria dovrebbe servire a compensare gli aumenti del PIL reale senza causare né l’inflazione né la deflazione.